venerdì 23 gennaio 2015

Di mille Oresti il disperato canto – parte 3/3


Qui la Parte Prima


Fedra ha sempre saputo che avrebbe fatto suo qualsiasi uomo avesse desiderato. Quando il suo occhio si è posato su Teseo, signore dei salotti buoni della città, è stato come il compiersi di un destino perfetto. Fedra non si è fatta spaventare dal passato di lui – si dice abbia sedotto un’intraprendete segretaria e poi l’abbia abbandonata dopo essersi fatto passare tutti i segreti industriali del principale di lei – e dalla una precoce vedovanza.
Per anni, dopo il matrimonio, le malelingue hanno teso loro agguati, nella speranza di scoprire una colpa. Ma Fedra, sempre sorridente al fianco del marito, ha finito per diventare prova concreta della possibilità di una felicità terrena.
Adesso, però, che ha l’età della saggezza, Fedra osserva di nascosto il frugoletto rosa che ha tenuto in braccio il giorno del suo matrimonio. Ippolito sarà presto maggiorenne e se sembra che un dio gli abbia elargito il dono della bellezza – credetemi – è proprio perché è così.
Nelle giornate, e sono tante, in cui Teseo è lontano per lavoro, Fedra guarda le proprie mani. Le vene, adesso, sono in rilievo sui tendini, come serpenti attorcigliati intorno a un ramo e la pelle è secca al tatto. Potrebbe posarsi quelle mani su un viso a cui appena spunta la barba?
Fedra scuote la testa e si vergogna, lei che non ha avuto mai un amante, ora si trova impotente di fronte alle proprie fantasie. 
Ci sono sere in cui si dice che non c’è colpa ad avere un sogno, come quando, bambina, immaginava di sposare Tom Cruise. Tom Cruise, però, Fedra non l’ha incontrato mai, mentre Ippolito lo vede ogni giorno. E quello che rende questo sogno crudele non è l’impossibilità a realizzarlo, ma il fatto che la sua realizzazione sia così vicina. 
Ancora un anno, si dice Fedra, poi Ippolito andrà all’università, lontano, e come Tom Cruise, diventerà un pensiero dolce e impraticabile.
Ma gli dei non accettano che i mortali si sottraggano ai loro piani. Uno sguardo di troppo, una cameriera perspicace, una parola detta quasi senza voler far male – Sei così bello, signorino, che anche la signora sembra innamorata di te.
Adesso che lui sa, Fedra è già morta. Uccisa dalle convinzioni nelle quali è cresciuta, da una virtù per troppo tempo rimasta immacolata. Perché è sbagliato agli occhi degli uomini, ma anche a quelli del dio benevolo a cui Fedra è tanto devota – non ai nostri occhi, certo, che così tanto hanno visto – desiderare di amore carnale ciò che dovresti amare di amore materno.
Sdraiata sul letto color albicocca, Fedra conta le gocce dentro il bicchiere. Ha scelto una fine da star capricciosa, vestita soltanto di una vestaglia rosa. Spera che credano che abbia tradito davvero, condiviso il suo corpo con un uomo qualsiasi. 
La troveranno con in mano l’ i-pod e gli auricolari caduti che risuonano ancora delle flebili note di una delle canzone di Orfeo che lei ascoltava per farsi coraggio.

Tutto questo, ve ne accorgete anche voi, è accaduto, accadrà, accade, continua ad accadere, nella vostra città, in qualsiasi città del mondo.
Uscite da casa, dall’ufficio e incrociate Cassandra, Orfeo, Tiresia o Leda. Magari è sul vostro collo che alita il fiato di un dio.
Certo, è proprio della vostra epoca trovare altre spiegazioni. Follia  o sfortuna. Semplici parole a tracciare confini di destini spezzati. 
Non più oro per gli eroi, solo grigi toni sfumati.
Nel vostro mondo pacificato non ci sono epopee, solo eventi squallidi e banali.
Per questo vi raccontavate le storie l’un l’altro, la sera. Non come insegnamento – non c’è nulla di morale, nessun precetto da imparare a memoria, in questi accadimenti – e neppure come monito, poiché è impossibile sfuggire quando un dio ha posto su un uomo lo sguardo. Ma sapevate rendere omaggio, allora, alla grandezza degli uomini e delle donne che vi passavano accanto, impegnati in battaglie che non potevano essere vinte.

Rinnegando gli dei, avete rinnegato voi stessi.

Mi fa tristezza – per voi, non per me – questo vostro mondo normalizzato, nel quale non sapete più vedere la grandezza dell’uomo che vi cammina al fianco.
Chiamatemi Destino, se dovete, chiamatemi Zeus, Giove, Odino, Amon, non chiamatemi affatto. Le vostre preghiere non dette non mi hanno ucciso.
Ma ascoltate di mille Oresti e Cassandre e Lede e Tiresia il disperato canto!
Uomini che tentano di opporsi al volere degli dei, o del destino – dateci il nome che volete – senza neppure sapere contro quali forze si stiano battendo.
Tanto più grandi proprio perché privi di speranza di vittoria.
E se vi chiedete perché mi importi, dall’alto del mio Olimpo come sempre traboccante di nettare e ambrosia, io vi rispondo che posso amarvi, oppure odiarvi, desiderarvi fino alla follia o far di tutto per distruggere la vostra esistenza. Ma non posso trovarvi indifferenti.
Che questo sia benedizione o disgrazia decidetelo voi.

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