venerdì 3 luglio 2015

Tendente a più infinito – racconto autoconclusivo

Eccoci di nuovo al racconto del fine settimana. Questo è un frammento autoconclusivo, scovato negli anfratti dei miei archivi. Inizio a chiedermi cosa pubblicherò il venerdì, quando avrò finito di scovare storie dimenticate negli angoli bui...

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        Quattro metri e mezzo sono tanti. Tanti. Un bus in verticale, due piani di casa. 
Quattro metri e mezzo sono una distanza che si protende verso l’infinito, svanisce nella nebbia, si fa evanescente. 
 Giulio fa quasi fatica a vedere l’elastico tirato tra i due sostegni metallici, lassù, a quattro metri e mezzo da terra, il suo orizzonte da superare. Stringe l’impugnatura dell’asta con la mano sudata e non si decide ad iniziare il salto. Gli sfugge il senso come l’aria dai polmoni. Intorno a lui la nebbia si adagia pian piano nel silenzio. Quattro e mezzo. È la cifra che segna anche l’orologio. 
 Dove Giulio posa lo sguardo, incontra solo crepe. Lungo il rosso stinto della pista di atletica che gli corre intorno sono vecchie cicatrici nere. Nel verde stentato del campo da calcio sono ferite di fango, inferte a forza dai tacchetti dei giocatori. Sugli spalti vuoti sono di un grigio sfinito da troppe piogge e troppi inverni. Sul giallo del materasso che lo attende sono sottili e scure come capillari sotto la pelle. Giulio le guarda e non trova la forza di saltare. Neppure l’allenatore è venuto a sostenerlo in questo pomeriggio di nebbia, si fida della sua caparbietà, o della sua stupidità.
 Quattro e mezza. Luigi è in sala giochi a lanciar battute in un contorno di risate di ragazze con l’ombelico in vista, Marco è in palestra a sollevare pesi a ritmo di rock, Davide sta entrando in un altro dungeon, combattendo orchi armato di tastiera. Giulio stringe l’asta osservando le crepe della sua determinazione. L’elastico è sempre là, a quattro metri e mezzo, e Giulio si chiede che senso ci sia a raggiungerlo. Dopo averlo superato, dovrebbe prendere la scala, salire, spostare in alto di cinque centimetri l’elastico, scendere e tornare a saltare. Saltare, fino a superarlo di nuovo. Poi di nuovo la scala, salire, spostare l’orizzonte di altri cinque centimetri e scendere e saltare e continuare, fino alla fine del cielo. 
 Preferirebbe essere a casa a risolvere le equazioni per domani. La matematica gli piace, è un mondo ordinato di numeri e simboli senza variabili occasionali. Ti puoi fidare dei numeri come della buona asta in fibra di carbonio, gli uni e l’altra possono proiettarti in alto senza spezzarsi.
 La matematica dovrebbe essere fatta da uomini sicuri con pochi capelli in testa e gli occhiali sul naso, ordinati e rassicuranti come i loro numeri. Non da ragazze ricce e bionde con occhi verdi da gatto come Eva. Giulio ha perso la sua sicurezza nel saltare il giorno in cui Eva è entrata in classe. 
 L’aveva presa per una di quinta f che, per qualche motivo, vestisse da vecchia. Maglioncino e jeans né stinti né strappati, posati però su un corpo a cui non mancava niente. Piccolo, un corpo comodo, morbido da stringere e leggero da sollevare. Poi ha visto il suo viso. Quando Eva non sorride è una giornata senza sole. Quando il sorriso appare, è il mezzogiorno dei tropici. Ha sorriso, mentre, appoggiando la cartelletta sulla cattedra, si è presentata come la supplente di matematica.
 Per venti giorni, Giulio ha vissuto di matematica, sogni e salti, come se fosse possibile andare a fare solletico al cielo. Eva, come professoressa di matematica, è fisicamente sbagliata, induce a pensieri incerti, che difficilmente si lasciano imbrigliare in equazioni. Però riesce ad addomesticare i concetti e a renderli lisci, facili come un salto di due metri e trenta.
 In venti giorni, Giulio si è innamorato delle funzioni, ha scoperto di essere troppo alto e che seduto al banco sembra fatto solo di gomiti. Ha scoperto di odiare Luigi.
 Luigi passa la sera in quello stesso campo di atletica, ma non cerca di superare il vuoto, è uno di quelli che infligge ferite all’erba verde. Il calcio è una buona scusa. Una scusa accettata per sorridere e giustificarsi per i compiti non fatti. Luigi ha sempre un’impresa domenicale da magnificare e le ragazze lo stanno ad ascoltare. Luigi non è alto, ma i suoi muscoli si vedono. Siede al primo banco e ha sempre una domanda che sembra intelligente, anche quando non ha studiato. Eva ha sempre una risposta sorridente e gliela dà guardandolo negli occhi. Forse anche Eva lo trova bello.
 Giulio, invece, arranca all’ultimo banco, sempre preso nella morsa tra un allenamento e una verifica. Suo padre non gliele fa, le giustificazioni, anche quando torna a casa alle sei dopo aver perso il conto degli elastici saltati. La matematica gli piace, ma i compiti li fa sul pulman, la mattina, o all’intervallo. Sono esercizi disordinati che non lo fanno brillare né nel bene né nel male. Nessun prof ricorda chi prende sette e anche Eva non fa eccezione. In venti giorni Eva non gli ha mai sorriso guardandolo negli occhi. Fino a questa mattina. O, meglio, Giulio è certo che abbia sorriso a lui, ma anche Davide era sicuro di essere l’oggetto del sorriso. Però Giulio sa che Eva guardava lui e che le sue parole erano per lui. O che per lui dovevano avere un senso speciale, anche se non lo ha capito bene. Questa mattina è stata l’ultima di Eva. Domani la matematica tornerà ad essere stempiata e rassicurante. Questa mattina è stata l’ultima volta in cui i numeri hanno avuto i ricci biondi. Eva ha sorriso e li ha salutati e ha detto parole che Giulio non si aspettava. Ha detto che per la prima volta si è sentita vecchia e che prova per loro affetto e tenerezza. Ha raccomandato di essere come certe funzioni, che tendono all’infinito. Non lo raggiungono mai, ma continuano a tendere ad esso. Non dimenticate mai di tendere verso l’infinito.
 Oggi pomeriggio Giulio è tornato al campo di atletica. Lo ha fatto per non a pensare ad Eva, che se ne è andata a portare ricci ed equazioni ad altri visi e non tornerà più. Ma nel vuoto della nebbia sembra nascosto ovunque il suo sorriso, fermo là dove l’occhio non guarda, e nel tentativo di fissarlo Giulio ha trovato solo le crepe e ha ascoltato le loro parole. Gli dicono che non sarà mai un campione, che l’olimpiade che sognava da bambino la disputerà qualcun altro. Che continuerà a sembrare fatto solo di gomiti, rattrappito sul banco. Che non troverà mai una ragazza dal corpo piccolo e comodo, morbido da stringere e leggero da sollevare. Che non c’è alcun senso nel gettare il tempo in uno sport senza fama e senza eroi come il salto con l’asta.

   Adesso però sono le quattro e quarantacinque e Giulio è pronto a saltare. Quattro metri e mezzo, quattro metri e cinquantacinque, quattro metri e sessanta, forse. L’elastico è come Eva, qualcosa che non si può raggiungere.
 Alle quattro e quarantacinque, in mezzo alla nebbia, Giulio ha deciso che le crepe hanno ragione, gli raccontano esattamente la verità. 
 Lui, però, preferisce non starle ad ascoltare e tendere all’infinito.  

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