venerdì 7 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 10

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9


San Pitroburgo – Luglio 2002

– Ma guardatevi! Manca un mese alla vostra prima gara e G. potrebbe battervi entrambi a occhi chiusi! – ruggì Y.
Sia V. che K. si guardarono i pattini con l’identica espressione da cucciolo avvilito. 
Ecco perché era così maledettamente snervante lavorare con gli juniores. Adolescenti. Uno in crisi d’identità e con nostalgia di casa e l’altro in piena sindrome da abbandono. Ancora una volta il tecnico pensò che l’addestramento dei cani sarebbe stata una carriera molto più adatta a lui. Molto più rilassante.
– Y. – lo chiamò D., avvicinandosi. – C’è E. in ufficio. Vuole parlarti in privato.
– Eh, alla buonora.
Non la vedeva in pratica da un mese e mezzo. Era stata via con i suoi, una pausa concordata. Era tornata in pista un paio di volte, poi si era data malata, poi un altro paio di allenamenti e poi ancora malata. Quell’apparire a sprazzi, non dare confidenza a nessuno e poi sparire di nuovo era la causa delle pessime prove di V. Che sorrideva come sempre, si entusiasmava per qualsiasi cazzata come sempre e poi ogni tanto si perdeva in se stesso, sospirando come un cagnolino abbandonato. E non era in grado di concentrarsi su alcunché, figuriamoci il pattinaggio.
– Ti lascio i due disgraziati, vedi di spremerli meglio di come sono riuscito a fare io.
E. lo aspettava seduta davanti alla scrivania. Non era in tuta, jeans e maglietta, nessuna intenzione di allenarsi, quindi. Maledetta adolescenza. 
– Cosa c’è, vuoi prolungare ancora la vacanza? – disse, sedendosi.
– Sono incinta.
Y. rimase del tutto immobile. Forse con la bocca aperta, come nei cartoni animati. Se era uno scherzo, era di pessimo gusto. Se non era uno scherzo ed era stato V… Lo avrebbe ammazzato.
– È successo quando ero via. Un amico di mio fratello venuto per studiare – disse lei, come se gli avesse letto nel pensiero. – L’ho appena scoperto. E sei la prima persona a cui mi è venuto in mente di dirlo.
Aveva ostentato sicurezza, fino a quel momento, ma sull’ultima frase la voce le si era incrinata. Suonava quasi come una richiesta di aiuto. Y. la allenava da che lei aveva dodici anni. negli ultimi anni era probabile che avesse passato più tempo con lui che con i suoi genitori, anche se non si poteva dire che parlassero gran che. Ma era abituata a contare su di lui. Solo che in quel momento Y. non aveva la più pallida idea di cosa fare.
– Vedremo di sistemare la cosa. Mia moglie ha decisamente più esperienza di me in merito a… – scosse il capo. – Devi dirlo ai tuoi, però.
– Sistemare le cose… E se io non volessi? – replicò lei.
Y. la fissò, sicuro di aver frainteso.
– E cosa vorresti fare? La mamma? A sedici anni? Buttando all’aria studio e carriera?
– Non sarei certo la prima. E avrei già diciassette anni, quando…
– Una donna vissuta, proprio. E il resto?
E. si strinse nelle spalle.
– È… Come l’Axel, no? Un salto nel vuoto… Ma io… Forse riuscirei ad amare qualcuno e a essere amata…
Si era stretta le braccia al petto. Altro che donna vissuta. Sembrava una bambina infreddolita, abbandonata sul ciglio di una strada.
Y. aveva una voglia quasi insopprimibile di darle un ceffone.
– Non è un gioco, questo, E. Hai sedici anni. Vai alle feste, bevi e fumi. Stai buttando all’aria una carriera sportiva per cui un sacco di gente ucciderebbe. E adesso pensi che una gravidanza possa essere un sballo più forte? Lo sa il grand’uomo che ti ha messo incinta? I tuoi lo sanno? Sei minorenne, non sei l’unica ad avere voce in capitolo, qui!
Lei sbatté le palpebre. Pur conoscendo il suo carattere non si era aspettata una sfuriata.
Y. scosse il capo.
– Pensaci su. Senti il tuo principe azzurro. Parla con i tuoi. In qualche modo una soluzione si trova.


– Ma quanti problemi che ti fai, Y. – sospirò sua moglie, mentre versava il the nella propria tazza. – La ragazzina va presa e fatta abortire, senza troppe storie. Ne va del tuo buon nome, oltre che della sua carriera. Chi ti affiderebbe più un’atleta, se si sapesse in giro?
– Non è così semplice. E comunque lei non è affidata a me, sta dai suoi, grazia al cielo.
– E pensi che la gente veda la differenza? Ascolta, adesso sarà sconvolta e magari sogna di fuggire con il principe azzurro che ha fatto la frittata che, a proposito, siamo proprio sicuri non sia il ragazzetto che dorme di là?
– Pare non sia lui.
– Bene. Vedi che appena lui si dilegua e i genitori minacciano di cacciarla di casa torna a più miti propositi. Due giorni in clinica, fai trapelare la voce di un infortunio, e non è successo niente. Tu hai di nuovo la tua atleta, lei la sua vita.
– E se lei non la rivolesse più, la sua vita?
– Se lei fa un esaurimento nervoso, beh, meglio adesso che più avanti, vuol dire che non è adatta a questa vita. Ti guardi intorno e ne tiri su un’altra.
– E. non è una ballerina di fila che si possa sostituire con un’audizione.
– Certo, e I. era destinato a diventare il pattinatore migliore che la Russia avesse mai visto e non più tardi di un mese fa «V. però ha doti che I. non ha mai avuto». Il problema è che ti affezioni, mentre gli atleti sono solo il tuo lavoro.
– Ma come cazzo fanno a essere solo lavoro, L! A volte mi chiedo che razza di donna io abbia sposato.
– E io mi chiedo come uno come te abbia potuto vincere un’olimpiade… Senti la famiglia della ragazza, che sarà d’accordo con me, e fatela abortire, volente o nolente. Alla lunga capirà che era la cosa migliore. E tu non farti il sangue amaro, nel corpo di ballo capita almeno una volta ogni cinque anni.
– E si riprendono, dopo?
L. si strinse nelle spalle.
– Alcune sì, altre no. È la vita.
Y. scosse il capo e intercettò con la coda dell’occhio un movimento di capelli chiari oltre la porta socchiusa della cucina.



Victor tornò in camera e aprì la finestra. A Salechard dalla finestra della camera in cui stava vedeva un cielo sconfinato, pieno di stelle di cui non conosceva il nome. In inverno, da bambino, aveva passato ore a immaginare di danzarci dentro, incontrando creature fantastiche. In quel periodo dell’anno, poi, il cielo era di uno strano colore, tra l’arancio e il violetto e solo nelle ore più buie si vedevano le stelle. A San Pietroburgo a metà luglio la notte era già tornata, anche se non lunghissima, e sembrava che le stelle non vi brillassero. Il cielo, poi, era solo un rettangolo stretto tra un palazzo e l’altro.
Era con Igor che E. era finita a letto? O con qualcun altro? Era importante? Era la prova che lei gli aveva chiesto, assumersi il rischio di una vita ribaltata di colpo? O semplicemente lui non ci aveva pensato? V. sapeva quanto fosse facile non pensare, nelle braccia di E. Ma lei, di sicuro, ci aveva pensato. Era un modo per fuggire. Non erano uguali, loro due. Pur provandoci con tutto se stesso, V. non riusciva a capire perché mai lei volesse fuggire proprio dalla vita che lui desiderava così tanto. Su una cosa, però, aveva avuto ragione. Erano soli, lo erano sempre stati, senza essere amati da nessuno. In quegli ultimi tempi lui si era illuso che le cose fossero cambiate. Lo sapeva che quella stanza, gli abiti, tutto ciò che Y. gli aveva messo a disposizione, non gli apparteneva. Le stesse attenzioni dell’allenatore erano subordinate ai suoi risultati. Ma l’affetto di E. si era illuso fosse diverso. 
La notte di luglio, a San Pietroburgo non era una vera notte, ma lo era di più dei giorni senza fine delle estati siberiane. Per la prima volta, V. sentì nostalgia di casa. Là, almeno, non aveva avuto illusioni che potessero spezzarsi. 



Mancava meno di un mese alla gara, la prima della sua carriera internazionale, ammesso di poterne avere una, ed era così difficile concentrarsi. Non funzionava neppure più il vecchio trucco per cui, sul ghiaccio, V. smetteva di pensare. Non serviva più neppure constatare come K. si fosse rimesso in riga e stesse approfittando della sua crisi. Andarsene dal pensionato doveva avergli fatto bene o gli faceva bene vederlo pattinare male. In ogni caso ormai a lui la combinazione che si era proposto riusciva quasi sempre, per non parlare della coreografia, le trottole e tutto il resto. V. si schiantava sul triplo Luzt ancora una volta su tre e solo raramente riusciva a ripartire per un secondo salto, figuriamoci un triplo…
Sospirò, fermandosi a metà pista, con il fiato corto e una bella voglia di mollare tutto. K. e G. stavano andando così bene… 
– Tutto bene? – gli gridò D.
Y. non c’era.
Ufficialmente E. era infortunata e lui la stava accompagnando a una visita medica. La seconda parte era vera, ma l’infortunio la ragazza l’aveva nell’anima e nel cuore. E chissà perché, lei che una famiglia l’aveva, aveva chiesto all’allenatore e non al padre o alla madre di accompagnarla…
– No – rispose. – Ho bisogno di dieci minuti di pausa.
D., al contrario di Y., le pause le concedeva. Non sbraitava tutto il tempo dietro agli errori commessi. Eppure, forse proprio per questo, V. sentiva una gran mancanza del tecnico più anziano.
– Tutto bene? – chiese di nuovo D., dieci minuti dopo.
V. non era tornato in pista, sedeva nella panca dell’atrio, con il cagnolino peluche in braccio, succhiando una caramella alla menta. Alcune cose neppure le caramelle alla menta riuscivano a migliorarle.
Si sforzò di annuire all’allenatore più giovane. Per la prima volta pensò che un po’ si somigliavano. D. era più alto di Y. e portava i capelli lunghi in una coda, come adesso faceva lui. Chissà se alla sua età anche lui sarebbe riuscito ad essere così sicuro di se stesso. 
– Y. mi ha detto che sei preoccupato per E., che sai cosa le sta succedendo – provò il tecnico.
V. annuì di nuovo. Non gli piaceva quel genere di discorso. A Salechard c’era sempre chi cercava di portarlo su quella strada. Persone a cui non gliene fregava niente di lui, stavano facendo un lavoro, al termine del quale gli davano magari un voto, da cui dipendeva a volte anche la sua possibilità di continuare a pattinare. Aveva imparato a sorridere sempre in quelle occasioni e a cercare di dire quello che volevano sentirsi dire. Un’esibizione, come durante le gare. Anche a San Pietroburgo, almeno all’inizio, era sembrata la strategia migliore. 
– Non mi va di parlare – disse, optando per la sincerità.
D. annuì e si sedette al suo fianco.
– Io ho detto a Y. di non portati qui in ogni modo possibile. Sai, tutti quegli stupidi pregiudizi… Adesso, invece, penso che mi spiacerebbe davvero tanto se tu pattinasti male. Chi sa qualcosa di te penserebbe che Y. ha fatto una cazzata e che non sei in grado di reggere la tensione, per gli altri saresti solo il “russo a rimorchio”.
– Il russo a rimorchio?
D. si strinse nelle spalle.
– La Russia ha tante scuole di pattinaggio, mica solo questa. Quindi tanti atleti, sopratutto juniores. È abbastanza normale che nelle gare del Grand Prix juniores ne capitino due, uno forte e uno debole, a rimorchio. Facile da battere. Io sono stato per anni il russo a rimorchio è non è una bella posizione. D’altro canto, se invece pattinassi bene, un sacco di gente ti vedrebbe. A chi sa qualcosa, a chi ti ha mormorato dietro, in questi mesi, la metteresti proprio in quel posto. Qualcuno, ci scommetto, lo faresti davvero felice. Tanti altri penserebbero solo che è bello vederti pattinare.
– Non dovresti tifare per K., dato che abita con te?
– Ah, ma io ho fatto più o meno lo stesso discorso anche a lui, così magari prende quel tanto di sicurezza che gli serve per cercarsi una camera altrove e smetto di chiudermi a chiave in bagno quando faccio la doccia per paura che mi venga a guardare le chiappe.
Questo riuscì a far sorridere V.
– Pensavo al bambino di E., che tutti pensano che è meglio se non nasce – si trovò a dire, senza volerlo davvero. – Anch’io voglio che tutto torni come prima e che lei torni ad allenarsi e a gareggiare… Lei quando pattina è… Una nota nella musica… Non credo ci siano altre persone così… Però… Io non so niente di mia madre. Sicuramente un sacco di gente pensava che era meglio se non fossi nato.
D. sospirò.
– Questa non è una decisione tua e non è un peso tuo – disse. – Ognuno di noi esiste o non esiste per una serie imponderabile di variabili. Puoi credere che sia il caso, o il destino, o Dio. Tu sei qui, adesso, e puoi dimostrare a tutti che la tua esistenza vale qualcosa. Non è una cosa che capiti a tutti. A me quell’occasione è stata sottratta.
– Non è vero, come ci avevi detto, che a quelle olimpiadi non avevi possibilità di andare a medaglia – concluse V.
Non tirava a indovinare. A casa di Y. c’era tutta la documentazione che serviva. D. non era diventato un grande campione da Juniores, ma non tutti gli atleti esplodono subito. Lo stava diventando, però, subito prima dell’infortunio.

– Fa male, sai, rendersi conto che una cosa era possibile, e non l’hai fatta – commentò l’allenatore. – Guardandosi indietro è tutto più facile. Quindi non giudicare male E., qualsiasi cosa decida di fare, o noi adulti, che annaspiamo quanto voi nel mare delle possibilità. E vivi la vita che hai a disposizione ora, perché nessuno ti assicura che tu la possa avere anche domani.

SULLE LAME DELLA STORIA
Eccoci arrivati al decimo capitolo.
Questo, senza dubbio, è stato per me uno dei pezzi più difficili da scrivere. Perché non ho risposte agli interrogativi di V. Credo che alla fine, il mio punto di vista coincida con quello di D. Non conosco gli assoluti, so solo che dobbiamo vivere la vita che abbiamo a disposizione adesso.

Per quanto riguarda il lato sportivo della storia, se vi ho incuriosito con il pattinaggio, questo è il fine settimana della finale del Grand Prix. Gli Juniores gareggiano nello stesso evento e la loro gara è interamente reperibile sull'apposito canale you tube. Hanno sui quattordici anni e fanno delle cose davvero impressionanti.

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