"Nell'aggettivazione si vede l'insicurezza dell'autore. Mette un aggettivo, pensa che non basti, ne aggiunge un altro, non lo convince, ne mette un terzo. Di aggettivi dovrebbero essercene il meno possibile. Se proprio ce n'è bisogno, che ce ne sia uno, solo quello che serve."
"Se in un dialogo si possono togliere delle battute senza che la comprensibilità venga compromessa, toglietele."
" Che senso ha nella narrazione può fare, deve fare, sembra fare, sta incominciando a fare...? L'azione c'è o non c'è. Se c'è basta il verbo che indica l'azione. Oppure c'è davvero una sfumatura particolare di significato da dare. Ma può capitare una volta ogni quante pagine? Non certo ogni tre righe!"
Non chiedetemi chi esattamente abbia pronunciato queste frasi, ho un'ottima memoria per i contenuti, pessima per le fonti. Si tratta, però di frasi che ho sentito dire da professionisti della scrittura ad incontri, lezioni o presentazioni, che riporto un po' a braccio e senza attribuzione precisa per evitare terribili gaffe.
Sono tutte frasi, però, che mi risuonavano nella testa ieri, quando leggevo il post di Penna Blu sulla cura del testo. Nei commenti, ho cercato malamente di esporre quello che pensavo e cioè che un buon testo dovrebbe contenere solo le parole strettamente necessarie.
Non si tratta di una formula alchemica, né ha che vedere con i buffi esperimenti fatti per determinare matematicamente le caratteristiche formali dei libri di successo, ma di una cosa di cui sono convinta.
In un buon testo nessuna parola può essere superflua. Se è lì è perché ci deve stare, lei e non un'altra, perché svolge una funzione non sostituibile. Questo non vuol dire scrivere in modo asciutto. Vuol dire piuttosto cercare ciò che veicola con precisione chirurgica quello che abbiamo in mente. Possiamo impiegarci una parola per esprimere un concetto, un'emozione, raccontare un'azione, oppure impiegarci una pagina. L'importante è che il risultato finale sia proprio quello che avevamo in mente.
Ultimamente sto ragionando molto sull'aggettivazione e più ci penso e più mi sento in sintonia con la prima delle frasi che ho riportato. Mi suonano nelle orecchie le parole di una delle mie canzoni preferite, Autogrill, di Guccini "... Bella di una sua bellezza acerba, quasi triste, come fiori ed erba di scarpata ferroviaria".
Non sarebbe stato più facile cercare di cavarsela con un ulteriore aggettivo "... una sua bellezza acerba, quasi triste e malinconica"? Ma io trovo meravigliosa l'immagine dei fiori di scarpata ferroviaria, che nessuno ha voluto lì, cresciuti a dispetto di tutto, senza alcuna cura e che ottengono solo le occhiate veloci dei passeggeri, immersi in tutt'altri pensieri. La trovo perfetta, necessaria, per definire la bellezza della ragazza dell'autogrill, che i viaggiatori guardano distrattamente, giusto il tempo di un caffè, immersi in altri pensieri. Nessun aggettivo avrebbe potuto veicolare tutti questi significati.
Per questo mi trovo a pensare sempre più spesso che gli aggettivi siano pericolosi anche più degli avverbi perché spesso, proprio come i temuti avverbi in -mente, non sono necessari. Sono una scelta facile e veloce (come il lato oscuro della forza?), ma non giusta.
Facendoci caso, mi sono accorta che in molti brani che amo gli aggettivi sono pochi e quei pochi folgoranti, perfetti. Necessari.
Non credo che si debba arrivare a imitare Ungaretti, però, in effetti, pensate alla forza che hanno i suoi rarissimi aggettivi nelle sue poesie. Pensate alla famosissima Natale:
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
Quanto è forte quel "buono"? È un aggettivo banalissimo, di quelli che ci insegnano a non usare mai perché troppo comune che, però, usato bene, acquisisce una forza impressionante.
Un discorso analogo si può fare nei dialoghi e per ogni altro elemento della narrazione. (Per i dialoghi vi rimando al vecchio post Dialogando ).
La qualità dell'essenzialità, per come la vedo io, ha ben poco a vedere con la concisione. Senza far esempi troppo pomposi, quando ho chiuso l'ultimo libro della Saga dei Mistborn, tre tomoni sulle 800 pagine l'uno, ho pensato che non ci fosse neppure una parola di troppo. Ogni apparente divagazione, ogni minuzia nelle descrizioni, perfino quelle che sulle prime avevo preso per ingenuità stilistiche erano perfettamente giustificate dalla storia. L'autore aveva le idee chiarissime su dove portare la vicenda, su cosa raccontare e perché. Ci ha messo circa 2400 pagine? Ebbene, erano quelle che servivano!
Quindi, per rispondere alla domanda di Daniele di Penna Blu, come mi prendo cura dei miei testi? Cerco di capire se ogni parola è necessaria. Mi chiedo per ogni frase se serva davvero e, se sì, cosa voglio dire esattamente. Non è che ci riesca, sia chiaro. Ci provo, un po' a tentoni, spesso con molta goffaggine (ad esempio sui verbi d'azione cedo spesso alla tentazione dei servili e delle parafrasi), ma ci provo. Mi piacciono i libri che chiudo pensando "non cambierei neppure una singola parola" e mi piacerebbe che qualcuno pensasse lo stesso dei miei.
Voi cosa ne pensate? Avete mai trovato dei libri di cui non cambiereste neppure una parola perché tutte erano necessarie? Vorreste che le vostre storie fossero così?
Un discorso analogo si può fare nei dialoghi e per ogni altro elemento della narrazione. (Per i dialoghi vi rimando al vecchio post Dialogando ).
La qualità dell'essenzialità, per come la vedo io, ha ben poco a vedere con la concisione. Senza far esempi troppo pomposi, quando ho chiuso l'ultimo libro della Saga dei Mistborn, tre tomoni sulle 800 pagine l'uno, ho pensato che non ci fosse neppure una parola di troppo. Ogni apparente divagazione, ogni minuzia nelle descrizioni, perfino quelle che sulle prime avevo preso per ingenuità stilistiche erano perfettamente giustificate dalla storia. L'autore aveva le idee chiarissime su dove portare la vicenda, su cosa raccontare e perché. Ci ha messo circa 2400 pagine? Ebbene, erano quelle che servivano!
Quindi, per rispondere alla domanda di Daniele di Penna Blu, come mi prendo cura dei miei testi? Cerco di capire se ogni parola è necessaria. Mi chiedo per ogni frase se serva davvero e, se sì, cosa voglio dire esattamente. Non è che ci riesca, sia chiaro. Ci provo, un po' a tentoni, spesso con molta goffaggine (ad esempio sui verbi d'azione cedo spesso alla tentazione dei servili e delle parafrasi), ma ci provo. Mi piacciono i libri che chiudo pensando "non cambierei neppure una singola parola" e mi piacerebbe che qualcuno pensasse lo stesso dei miei.
Voi cosa ne pensate? Avete mai trovato dei libri di cui non cambiereste neppure una parola perché tutte erano necessarie? Vorreste che le vostre storie fossero così?
Dante, non cambierei nulla. Di Ungaretti, non cambierei nulla. Del tuo post, non cambierei nulla.
RispondiEliminaVorrei vedere chi ha il coraggio di cambiare qualcosa a Dante o a Ungaretti (ripensandoci no, non voglio sapere... Immagino che ci sia gente in giro che si sente di dare lezioni pure a loro...)
EliminaHo letto libri in cui avrei cambiato, tolto, sostituito vocaboli, ma con la presunzione di essere una scrittrice "alla pari"; gli Ungaretti e i Dante restano intoccabili.
EliminaHai scritto un bel post che mi trova d'accordo su ogni cosa: sono soddisfatta di ciò che scrivo quando le parole, tutte, sono al posto giusto e mi piace anche il consiglio di ridurre al minimo l'uso dell'aggettivo, l'esempio della canzone di Guccini è bellissimo.
Faccio tesoro di ogni buon suggerimento di scrittura, nell'ultimo periodo!
I miei più che altro sono ragionamenti su problemi contingenti... E a volte mi sembra che le parole necessarie mi sfuggano dalle mani peggio dell'acqua nel colino...
EliminaCarver diceva "Le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste". Cerco di ricordarmelo ogni volta che scrivo, e soprattutto revisiono...
RispondiEliminaAnch'io cerco di ricordarmelo... Ma quant'è difficile!
EliminaLa frase di Carver, in effetti, potrei appendermela sopra la postazione di lavoro (o sopra la cattedra in classe...)
Grazie della citazione :)
RispondiEliminaAnche per me quella similitidine coi fiori della scarpata sta bene. Se hai mai letto McCarthy, avrai visto quante ne usa: io non ne toglierei nessuna. Forse qualche volta esagera, nel senso che ne mette 3 consecutive, ma capita raramente.
Sono d'accordo che la troppa aggettivazione sia segno della scarsa esperienza dello scrittore.
Mi sono resa conto che nei commenti non riuscivo a spiegarmi e da qui è nato il post. Dai sempre ottimi spunti!
EliminaI tuoi esempi sono perfetti, capisco perfettamente quel che vuoi dire. In un certo senso mi sembra più facile seguire il consiglio quando si scrive una poesia o una canzone, piuttosto che in un racconto lungo o un romanzo.
RispondiEliminaSono una fan sfegatata delle frasi tipo: "iniziò a girarsi per cominciare a intravedere per poi finalmente iniziare a capire quel che stava per guardare"...
Non so bene come farò a uscire dal tunnel :D
In quel tunnel ci sono anch'io, il problema è che il succo è "si girò e vide"...
EliminaCi sarà un gruppo di recupero in giro, no?
"Cerco di capire se ogni parola è necessaria. Mi chiedo per ogni frase se serva davvero e, se sì, cosa voglio dire esattamente".
RispondiEliminaQuesta frase del post riassume molto bene l'atteggiamento intransigente con cui ho dato inizio alla revisione del mio romanzo.
Pensa che molte delle frasi del mio romanzo in prima stesura (parliamo di tre o quattro anni fa) suonavano più o meno come quella usata da Lisa nel suo esempio qui sopra. Per questo è stato un lavoro immane ma che mi ha anche reso felice :)
Lasciata a me stessa, anche le mie frasi assomigliano a quella di Lisa! Quindi immagino molto bene il lavoraccio...
EliminaInizio ad avere il sentore che forse pian piano capirò di non essere esattamente l'unica a cominciare a pensare di avere un problema di questo tipo. Gruppo di recupero? Ci sto. Il più sarà finire di scriverne lo statuto. :D
RispondiEliminaNon posso fare a meno di domandarmi se questa essenzialità sia vera anche per i romanzi. Lo è per la poesia e per i racconti, ma quando la storia si sviluppa in un fiume più lungo? Io amo gli aggettivi, un po' meno gli avverbi. Magari con il tempo imparerò a farne a meno, nel frattempo dovrò andare al gruppo di recupero con Lisa :D
RispondiEliminaNon sono sicura che necessità ed essenzialità siano proprio sinonimi. Ci sono storie in cui le divagazioni (apparenti) sono necessarie ed è altrettanto necessario un ritmo lento nella narrazione, con frasi ricche. Però ho notato che in tutti i miei brani preferiti gli aggettivi non la fanno da padrone, per centrare un concetto si usano immagini, metafore, spiegazioni. E gli aggettivi, quando ci sono, sono ben scelti, come il colpo di un cecchino.
EliminaNoi avevamo fatto un simpatico esercizio scrivendo un racconto senza aggettivi. Completamente senza. Ti assicuro che il risultato è stato davvero straordinario: togliendo l'aggettivazione si producono dei pezzi notevoli.
RispondiEliminaAnche io, però, tendo a strafare di aggettivi e sto cercando di smettere :)
Ricordo quel post! Era proprio un esercizio interessante.
EliminaIl mio commento arriva un po' in ritardo, questa volta: ho avuto delle giornate molto piene. Comunque condivido appieno quanto tu scrivi. Uno degli "esercizi" che ho dovuto fare, dopo aver ripreso a scrivere, è proprio quello di scegliere le parole giuste senza essere troppo stringata (cosa che accade però raramente) né troppo prolissa (cosa che avviene spessissimo). Inizialmente avevo una tendenza a "sbrodolare" lo stile: credevo che usando fiumi di parole la storia potesse risultare più chiara. Ma non è assolutamente così: ora la mia pagina è molto più asciutta, ma non per questo meno elegante, anzi ... ;)
RispondiEliminaArriva in ritardo anche la mia risposta (ero in gita e ora sono esausta!!!)! Anch'io ho avuto gli stessi problemi all'inizio ... ehm... Mica sono all'inizio. Diciamo che la giusta misura è ancora una meta a cui si arriva con fatica.
EliminaE' vero, il concetto di necessario è collegato allo scopo, non a una semplice quantità. Sì, mi piacerebbe scrivere così, e mi piacciono gli autori che riescono a farlo. Ora mi viene in mente Lansdale, ma ce ne sono tanti altri.
RispondiEliminaSì, esatto, non è una questione di quantità di parole, ma di qualità del testo. Con Lansdale ho un rapporto conflittuale, ma del libro che mi è piaciuto di più, In fondo alla palude, non cambierei nulla.
EliminaMi piacerebbe, quanto meno...
RispondiEliminaPiacerebbe anche a me!
EliminaGli aggettivi sono pericolosissimi come coltelli affilati. Se li maneggi bene, non ti tagli e sono indispensabili per dare forza alla prosa. In questo senso non sono d'accordo con chi non li usa proprio. Se ne ammassi troppi, tolgono vigore e confondono il lettore. Ho appena pubblicato un post su alcuni racconti di Raymond Carver, che Aislinn cita, e su quanto sia essenziale il suo modo di scrivere.
RispondiEliminaRicordando invece Dante e il suo incontro con Ciacco, mi è venuto in mente l'uso dell'aggettivo "dolce" che il poeta usa in maniera per niente stucchevole e molto potente:
"Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo".
Sì, infatti. Usato al punto giusto, anche l'aggettivo più banale ha la forza di una cannonata.
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