mercoledì 30 dicembre 2015

Libri e film del 2015 e chiacchiere di fine anno

Fino alla fine questo 2015 non si smentisce proprio, quasi avesse paura di lasciare un ricordo troppo lieto. Come ho già detto nel post precedente, non mi va di fare un bilancio. C'è stata tanta fatica, ma anche tante cose belle. Molti traguardi raggiunti sono però tappe di un percorso più lungo, di cui al momento non si vede la fine. 
Anche il 2016, in questo senso, si presenta come un anno di cammino e di fatica. 
Ho un po' paura, anche se sono abituata alle gare di resistenza ho paura di aver dato troppo fondo alle mie risorse fisiche e mentali e arrivare stremata ai passaggi decisivi, oltre tutto, come sempre nella mia vita, c'è il rischio concreto che si mescolino istante diverse e che TUTTO debba essere fatto PROPRIO NELLO STESSO ISTANTE.

Mai come quest'anno letture e film mi sono stati di supporto, di spunto e di slancio. In una pagina o in una sequenza ho trovato la calma o la grinta di cui in quel momento avevo bisogno, lo spunto per capire quello che mi avveniva intorno.
Sarà per questo che l'arrivo proprio in questi giorni della notizia della nuova collana di libri ridotti mi ha colpito come una bastonata in testa. Per carità, se serve ad avvicinare qualcuno alla lettura ben venga. Ben venga tutto, ormai, per come siamo messi. Però la cosa mi intristisce. Mi sembra un ulteriore gettare la spugna in un paese sempre più alla deriva.
Sarà che sto sto leggendo Fahrenheit 451 e che a volte mi viene da piangere, per quanto mi sembra descrivere l'Italia di oggi...

Libri e film, si diceva, che hanno puntellato il mio anno, hanno dato forza, hanno caricato di energia, hanno rappresentato un attimo di evasione o di riflessione. 
Non so se quest'anno abbia letto di più o se semplicemente, complice il gruppo di lettura, che mi aiuta a fare mensilmente il punto, mi sia resa conto di quanto effettivamente io legga. Il fatto è che leggo più libri insieme, spesso interrompendone qualcuno per qualche giorno, magari per intervallarlo con dei fumetti, così non ho la sensazione di divorarli. Però a conti fatti mi attesto sui 4/5 libri al mese più i fumetti e i periodici, come Le Scienze.

Così per quest'anno, in cui non mi va di fare bilanci, preferisco dare dei consigli. Tre libri e tre film  diversi tra loro che hanno segnato il mio 2015 e che consiglio di recuperare, magari approfittando di questi ultimi scampoli di feste.

TRE LIBRI...

Perché leggerlo
La fantascienza che non ti aspetti, strutturata come un pellegrinaggio medievale. Sette pellegrini, sette racconti, sette generi, sette riflessioni sulla vita, sulla morte e sulla poesia. 
Un libro che ti fa venir voglia di leggere mille altre cose, che apre ad infiniti spunti e regala immagini che si inchiodano nell'immaginario, modificandolo sin nel profondo.
Presto ne faranno una serie, quindi da leggere prima che lo abbiano già fatto tutti.




Perché leggerlo
Un po' reportage, un po' autobiografia, scritto al limite, col dolore ancora sulla punta delle dita. Un'esperienza immersiva come poche altre, un libro che è stato capace letteralmente di causarmi incubi.
Nel 2015 è uscito un film, che è in parte tratto da questo libro, ma su cui ci sono state non poche polemiche e che mi dicono non essere il massino.
Questo libro non è ben definibile cosa sia, ma certo non è fiction. E la differenza a volte va sentita.



Perché leggerlo
Anche di questo dovrebbe essere in procinto di arrivare un nuovo adattamento, quindi meglio attrezzarsi e leggerlo.
Strano libro, datato, senza dubbio, in cui si mescolano istanze differenti e non in tutte il lettore di oggi può ritrovarsi.
Rimane un'atto d'accusa contro una società tutto scritto da un uomo che probabilmente sapeva di avere poco da vivere e più nulla da perdere. Rimane un personaggio femminile memorabile, che non vuole essere rivoluzionario, ma rivendica i propri spazi e il proprio diritto ad amare a dispetto di tutto e di tutti.




... E TRE FILM...

Perché guardarlo
In un anno di grandissimo cinema sono la prima ad ammette che ci sono, forse, delle pellicole migliori. Ma questo è un gioiello di genialità pura.
Perché la comicità muta è ancora la migliore, perché è un inno all'intelligenza, perché, dopo, anche il mondo sembra migliore.

Perché guardarlo
Cinema concettuale, in cui la forma è sostanza. Ricerca di un ineffabile senso dell'esistenza. Perché tutti siamo, alternativamente, meduse spiaggiate e supereroi e la vita, forse, non è che cercare un precario equilibrio tra questi due estremi.



Perché guardarlo
Curiosamente simile al precedente: la forma è sostanza. Un film che è un virtuosismo formale senza fine, una delle cose più sbalorditive viste negli ultimi anni.
Anche una lezione scrittura asciutta. Personaggi che si definiscono con i gesti e non con le parole, mondi interi in scorci di oggetti e frammenti di ritualità.







Questi sono i miei consigli al termine di un anno di intense letture e appaganti visioni cinematografiche, i vostri quali sono?

BUON 2016 A TUTTI!

lunedì 28 dicembre 2015

Solo qualche piccola modifica... – Scrittevolezze


Oggi non sono un gran che in vena di bilanci di fine anno.
Non che questo 2015 non abbia regalato bellissime cose, tasselli importanti di quello che spero sia il mio cammino, professionale e umano, in divenire. È che oggi ho visto un tot di persone e il saluto è stato più o meno "che sia l'ultima volta quest'anno". Perché le ho incontrate solo in occasione di funerali o rosari, eppure non le ho perse di vista. 
Nessuno di questi lutti ha colpito la mia famiglia, di molti sono solo stata osservatrice lontana, ma da qualsiasi parte mi giri, vedo i vuoti che il 2015 ha lasciato. 
Mi sono resa conto che passo dopo passo quest'anno ci ha fatto camminare su una coltre di malinconia a tratti appena percepibile, a tratti soffocante, ma sempre presente. 

Oggi quindi preferisco parlare di scrittura.

Ho finalmente ripreso in mano il romanzo per operare "le poche modifiche circostanziate" che ritengo  indispensabili.
Il problema delle "poche modifiche circostanziate" è l'effetto valanga. Peggio.
Qualche anno fa, anche grazia al primo film e al romanzo di Jurassic Park, andava di moda la matematica del caos. Quella secondo cui se una farfalla sbatte le ali da noi può esserci una tempesta di neve in Giappone. Ecco, rimaneggiare un romanzo è la più pratica, comoda e inequivocabile prova dell'esattezza della teoria del caos. Nei sistemi complessi una minima modifica nelle condizioni di partenza (e non solo) può dare origine ad effetti su larga scala.
Combi una riga al capitolo 1 e devi buttare via tutto il capitolo 20. 
Non è solo una mera questione di coerenza. Se al capitolo 1 non viene introdotto il personaggio X vicino di casa, il personaggio al capito 15 non può accettare da X un passaggio in macchina, quindi non può arrivare in tempo all'appuntamento con Y. 
Peggio ancora. Se il personaggio al capitolo 1 non ha fatto il ragionamento X non può al capitolo 15 fare il collegamento Y per poi al 32 giungere alla conclusione Z.
Ogni piccola modifica, ogni minuscolo battito di ali di farfalle può provocare valanghe narrative incontrollate. Per ogni battito d'ali bisogna ripercorrere tutti i fili della trama e pettinarli ad uno ad uno per evitare si formino nodi.

Poi ci sono le amputazioni.
Gli editor li chiamano tagli. 
Per gli autori sono amputazioni. Ogni storia, non importa quanto mal scritta e sconclusionata, è un pezzo dell'anima di chi la scrive. Ogni singola parola è un frammento di Io. 
Ma la storia è fine, mezzo e dittatrice di un buon autore. Tutto ciò che è superfluo va tagliato. E non importa che sia il passato di un personaggio che è stata l'occasione per fare i conti con una nostra ferita, che sia un descrizione poetica degna di un nobel, la più bella metafora mai scaturita dalla nostra penna. Va tagliata. Un imperativo assoluto che a mente fredda è assai ragionevole e facile da accettare.
Salvo poi rimanere i quarti d'ora a fissare quella riga senza trovare il coraggio di schiacciare il tasto giusto. 

E infine l'inafferrabile "non so che". Quella sensazione che a quel pezzo, a quella scena, a quel personaggio manchi "un certo non so che". Che né tu, autore, né nessun altro sa meglio specificare. Il personaggio non incisivo. La scena non memorabile. 
Il terribile incubo del 6+.
Il 6+ è quel voto che a scuola si dà per far capire che siamo sopra l'orlo della mera sufficienza, che la strada è giusta, ma si può fare di meglio. Che altri fanno di meglio.
Oggi come oggi un romanzo con delle parti da 6+ non si pubblica, e comunque, da prof, non voglio alcun 6+.
Il problema del 6+ è che non è un completo disastro, non ci sono errori evidenti da correggere. Ma non sono neppure quelle tre virgole da sistemare. Manca "quel certo non so che", che però nessuno, né il lettore beta, né l'editore, né il tuo stesso istinto narrativo sanno meglio specificare.
Perché è facile dire "non è incisivo" o "potrebbe essere più scorrevole", ma è un incubo passare da un personaggio abbastanza incisivo a uno memorabile o da una scena abbastanza scorrevole a una che fila come seta tra le dita.
Sono serie a volte infinite di riscritture, per limare, smussare, cercare e infine raggiungere, si spera, un'approssimazione passabile di perfezione.

Non è la parte del lavoro di scrittura che preferisco. La calibrazione tra testa e istinto non mi viene ancora automatica e la mia naturale impazienza non mi aiuta. Mi diverto solo a tratti, ma spero di arrivare alla fine a quello che davvero era il romanzo che volevo.

Voi come ve la cavate con "qualche piccola modifica"?

martedì 22 dicembre 2015

Creature fantastiche – galateo per cene festive

L'anno scorso di questi tempi vi proponevo un post assai poco politicamente corretto Animali fantastici – come cucinarli invitandovi a preparare un menù festivo a base di brodo di fenice e filetto di unicorno (solo se cucinato da una vergine).
Mi sembrava carino, quindi, continuare con questo piccolo prontuario festivo fantasy. Magari a qualcuno capiterà di avere a tavola, questo Natale, qualche ospite inatteso, il nuovo fidanzato della cugina transilvana, l'amico non morto del nipote, come comportarsi in questi casi?
La letteratura, del resto, ci insegna che queste famiglie allargate sono sempre più comuni, una volta si sposavano solo i vampiri, invece adesso c'è chi si porta all'altare anche uno zombi.
Ecco quindi un

GALATEO PRATICO PER CENE CON CREATURE FANTASTICHE

Elfi, nani e altre creature tolkeniane
Qui siamo in un campo ormai conosciuto in cui potete orientarvi con facilità:
Elfi: cucina vegetariana francese destrutturata, musica dal vivo new age.
Nani: cucina tedesca o svizzera, conversazione pratica. Metteteli a fianco di un ingegnere edile.
Hobbit/Halflinf/Piedipelosi: cucina casalinga abbondate, sala da pranzo al pianterreno, musica tradizionale o country.

Folletti, spiritelli e altre creature della natura
Lasciate porte e finestre aperte, anche se è inverno. Sala da pranzo al pianterreno, possibilmente con accesso diretto al giardino. Rassegnatevi al fatto che porteranno in casa terriccio e/o muschio. Evitate mobili di legno, alcune di queste creature se toccano il legno gli fanno spuntare immediatamente rametti e foglioline, un effetto gradevolissimo sul momento, meno quando il giorno dopo vi dovrete rendere conto che il tavolo d'antiquariato è da buttare.
Il menù va preparato sulla base dei prodotti del bosco locali. Ghiande, bacche e funghi. I funghi, però, fateli controllare da un micologo e le bacche da un esperto. Folletti e spiritelli sono immuni dai veleni, ma voi no.

Licantropi
Se avete un gatto, chiedete a un parente o a un amico di tenervelo. Eviterete così che il vostro ospite lo punti per tutta la serata, lottando contro l'atavico istinto che lo spinge a inseguirlo. Eviterete inoltre alla povera bestiola di doversi asserragliare su un lampadario.
Nascondete l'argenteria. Non importa quanto è fine, se è un ricordo di nonna. No, non sarebbe per nulla gradita.
Prevedere un menù a base di carne alla griglia.
Evitate di fissare cene eleganti durante la luna piena.
Non lasciate pantofole incustodite. Anche i più compassati adorano sgranocchiarle, è quasi una compulsione.

Stirpi angeliche
Sono belli, sanno di esserlo e amano che glielo si faccia notare. Iniziate con i complimenti e andate sul sicuro. Evitate assolutamente nella conversazione la religione.
Nell'apparecchiare la tavola e nel disporre i posti tenete conto dello spazio per le ali, che possano ogni tanto sgranchirsele sbatacchiandole un po'.
Se portano spade lucenti o trombe del giudizio invitateli gentilmente a lasciarle nel guardaroba.

Vampiri
Togliete dalla casa gli specchi. Non è gentile ribadire che voi vi riflettete e loro no. 
I vampiri amano le vecchie maniere, l'etichetta e la formalità all'antica, quindi tirate fuori i servizi vecchi, le toglie di fiandra e calici di cristallo.
Non parlate di tecnologia e non gingillatevi con telefonino. Molti vampiri sono antichi, nel senso letterale del termine e non prestano attenzione a mode che giudicano transeunti. Alcuni fissano ancora con diffidenza le lampadine. Non metteteli a disagio.
Le cene, è ovvio, possono iniziare solo al calare del sole.
I vampiri non mangiano, bevono soltanto, ma sono di solito molto educati e non lo faranno in vostra presenza e sopratutto non berranno voi. Alcuni amano anche fingere di mangiare, quindi cucinate come fareste normalmente. Ma senz'aglio. È un particolare di una certa importanza.

Zombi
Ormai anche gli zombi sono stati sdoganati e fa brutto escluderli dagli inviti solo perché sono morti e puzzano. Del resto sono morti anche i vampiri (anche se il fatto che non puzzino aiuta).
Se dovessero perdere dei pezzi nel vostro salotto porgetegli con garbo come si porge una borsetta a una signora.
Il loro cibo preferito è il cervello.  Di quello bovino, ricordo, è vietata la commercializzazione fin dai tempi della mucca pazza e, anche se loro, tecnicamente, non possono ammalarsi in quanto già morti, dubito che il vostro macellaio di fiducia vorrà rischiare una denuncia. Optate per altre frattaglie. 

NOTA BENE: se è un drago che invitate a cena, dovete sapere che la cena siete voi. Fatevi trovare già con una mela in bocca e ben spalmati di olio al rosmarino. Lui apprezzerà. Voi, forse, un po' meno.

Con questo tocco di follia auguro a tutti buone feste e buon Natale!
Mi raccomando, chi avesse davvero a cena una di queste creature mi racconti poi com'è andata!

domenica 20 dicembre 2015

Star wars VII, Il risveglio della forza – visioni


È il film evento del 2015 e, da brava nerd che interpreta sempre il Jedi nelle campagne di gioco di ruolo, non potevo non andarlo a vedere.

Prometto NO SPOILER

Una notizia buona e una notizia cattiva.
Iniziamo da quella cattiva
Per questa rinascita di Star Wars si è deciso di far piazza pulita di un ipertrofico universo espanso, sconosciuto ai più, ma perfettamente noto ai fan, e di ignorare il più possibile la nuova trilogia prequel. Si apriva pertanto un universo vergine tutto da esplorare, pieno di nuove opportunità narrative in cui tutto poteva essere nuovamente immaginato. 
Questa immane potenzialità viene utilizzata facendo cadere la galassia intera in una sorta di "giorno della marmotta" stellare, in cui tutto si ripete secondo lo stesso canovaccio del film del '77. Un'intera generazione e siamo esattamente al punto di partenza, la Forza si arrotola e ripercorre proprio gli stessi passi. Di fatto si prende la trama di base, si capisce chi interpreta quale ruolo e si può descrivere a braccio tutto il film dopo neppure 5 minuti. 
Mesi, se non anni, di segretezza assoluta sulla trama per "arrivare vergini alla visione" e poi chiunque sia dotato di un minimo istinto narrativo può prevedere quasi fotogramma per fotogramma quello che avverrà. Mah.

La buona notizia è che comunque funziona. A un certo punto ci si dimentica anche di conoscere già la storia e ci si diverte. Addirittura ci si emoziona. Un po' per l'effetto nostalgia, ovvio, un po' perché, davvero, funziona.
Episodio I è diventato famoso per la presenza di Jar Jar, divenuto l'indice dell'insopportabilità cinematografica. Ecco, nessun personaggio è insopportabile in scala Jar Jar. Neppure mezzo Jar Jar, neppure 0,2. La protagonista funziona, il droide è adorabile, i comprotagonisti fanno il loro lavoro pur senza brillare, Han Solo è sempre Han Solo. A un certo punto non ce ne frega più niente dell'effetto sorpresa, ci si vuole imbarcare sul Millennium e godersi l'avventura. C'è forse un errore di casting, un personaggio che non ha, almeno in questo primo film, un quarto del carisma di cui avrebbe bisogno, ma importa poco.
Avventura, humor, melodramma al limite della telenovela, alieni, astronavi e spade laser, tutto è mescolato in una proporzione che, si vede, è studiata a tavolino e calibrata al millimetro, ma proprio, per questo, funziona.
Non è un capolavoro, non c'è genio o talento folle. 
È un prodotto Disney, intendendolo nel senso migliore: un prodotto studiato fin nei minimi particolari per piacere.

La sala, ieri, era piena di famigliole con bambini. Questa è forse la cosa che, a visione conclusa, mi ha colpito di più. Lo scambio culturale tra generazioni. Questo è un film molto "vecchia maniera". Un sacco di pupazzoni, di effetti speciali analogici. A giudicare dal piccolo campione che ho osservato, ai bambini è piaciuto un sacco. Già alla fine del primo tempo quasi tutti chiedevano ai papà o ai fratelli maggiori chi fosse questo Luke di cui tanto si parlava, cos'aveva fatto da giovane Han Solo, se conoscessero già il Millennium Falcon. Alla fine del film la maggior parte dei papà stava raccontando, raccontando anche le emozioni che aveva vissuto alla prima visione. Ho pensato che gran parte di quelle famigliole durante le feste riguarderanno tutti insieme la trilogia classica. 
Che ci piaccia o no, che sia giusto o no, la cultura pop è il nostro epos. Luke e i Jedi al posto di Ulisse e Achille. È proprio quel genere di storia con avventura, ingegno e melodramma. Questo passaggio generazionale, questa condivisione e continuazione dei propri miti è quello che più mi ha commosso di questo film. 
Bambini che si sono emozionati e per questo si sono sentiti più vicini ai loro genitori. 
Alla fine questa è l'essenza della magia del cinema.

venerdì 18 dicembre 2015

Ragionando su On Writing di Stephen King


On Writing del buon vecchio King è il libro che ogni autore o aspirante tale dovrebbe aver letto e aver sotto mano.
Ne ero convinta assai prima di mettere le mani su questa sciccosa nuova edizione. Ne avevo letto abbastanza estratti e citazioni per esserne già certa.
Adesso, capita più che mai a fagiolo. Devo rimettere le mani sul romanzo scritto quest'estate. Mi sono arrivati i commenti dei lettori e anche quello dell'editor preposta. Considerata la regola "se tre persone segnalano un problema, il problema c'è" devo quanto meno: riscrivere il primo capitolo in toto, snellire e velocizzare il tutto e sopratutto la prima parte, rendere più incisivo il protagonista maschile. Che è molto più facile a dirsi che a farsi. Quindi leggere il libro sulla scrittura del Re prima di lanciarmi nella seconda stesura del mio romanzo è stato un privilegio. È stato come se il Re il persona avesse abbandonato la sua dimora americana per venire da me a darmi lezioni private.

Quindi con il libro di King io ci ho parlato. Ci ho discusso. Proprio come se fossi a lezione. Io, del resto sono di quegli studenti non proprio accomodanti che non ci pensano troppo ad alzare la mano per dire "io non sono d'accordo" oppure "sì, ma io farei invece..."

Iniziamo dai sì, ma...
King può piacere di più o di meno. Personalmente non ho letto tantissimo di lui, ho adorato It, ho molto apprezzato Stagioni diverse, ma sono rimasta indifferente a Salem. Però è indiscutibile che scriva da dio. Lo stile è molto americano, può non piacere, ma intrecci, situazioni, atmosfere e personaggi è innegabile che funzionino. Quindi il rischio è prendere tutto il libro come una bibbia da seguire alla lettera. Io farei, però, almeno due distinguo.

King non è uno "scrittore medio"
Ha quanto meno un'inventiva, una rapidità di scrittura e una facilità nel comporre trame che tende a dare per scontate, ma che non lo sono.
È inoltre un compulsivo con problemi di dipendenza. È dipendente dalla scrittura. È evidente dalle sue pagine che si sfiora il limite della compulsione e spesso lo supera anche. King scrive tantissimo, ha sempre scritto tantissimo e quindi consiglia di scrivere tantissimo. Non tanto (sono d'accordo). Tantissimissimo. Ammette che ci si possa concedere una pausa a stesura terminata. Tipo due giorni. Fa fatica a concedere due giorni, è, evidentemente, un tempo per lui geologico di non scrittura. È evidente che nella sua testa bastino due ore, giusto una passeggiata, per poi rimettersi al lavoro. Ma ha paura di spaventare il neofita e gli concede due giorni. Non c'è Natale, Compleanno o Festa Comandata.  Bisogna scrivere! Si stupisce di autori indubbiamente bravi che producano così poco, che scrivano con dei ritmi meno forsennati. Due o tre anni per un romanzo, che scansafatiche! Ecco ho trovato un'analogia inquietante con i suoi ricordi di alcolista, quando si stupiva di qualcuno che potesse rimanere con davanti un bicchiere mezzo pieno di vino senza finirlo all'istante.
Chiariamoci, io sono una sgobbona. Le mie due/tre ore di scrittura giornaliere le ritaglio. Ma non credo che i ritmi di King siano indispensabili per scrivere qualcosa di decente. E ringrazio Dio di non aver letto questo libro quando ero più influenzabile. Mi mancava solo di sentirmi in colpa per non aver scritto il giorno di Natale!
Quindi no, non tengo e non credo terrò mai i ritmi di King. Ho scritto in due settimane un racconto che lui avrebbe scritto in tre giorni, ma in queste due settimane ho insegnato, ho frequentato amici, fatto spesa, cucinato, badato alla casa, corso. Insomma, ho vissuto. Non credo che potrei davvero farne a meno. 
Mi sono chiesta più volte come abbia fatto King a far durare il suo matrimonio. Poi, mi perdonino i coniugi King, ho pensato che forse alla moglie non spiaceva avere un sacco di tempo libero e tutti i soldi che il marito guadagna (e che evidentemente non si gode).

Discorso analogo per le trame. King è fuori scala. Io ci credo che per la maggior parte delle volte non ha sentito il bisogno di pianificare. Stiamo parlando di un tizio che ha scritto opere coerenti anche completamente fatto. Stiamo anche parlando di un tizio che non ha problemi, con i suoi ritmi di lavoro, a buttare nel cestino (oddio, riemergeranno tutte postume?) anche 200 o 300 pagine di manoscritto se le cose non quagliano.
Ecco, io concordo al 100% col discorso che una storia è un fossile da dissotterrare. Esiste già, da qualche parte, e basta solo scavarla fuori. Ma da brava archeologa so che anche per scavare bene un fossile serve pianificazione. Sopratutto se non si è un talento puro.

Il mercato americano non è quello italiano e l'inglese non è l'italiano
King scrive basandosi sulla sua esperienza personale, sopratutto per quello che riguarda gli esordi. Quindi americana e di qualche decennio fa.
L'Italia non è l'America, anche per un semplice fatto di utenza e ampiezza di mercato. Quindi non so quanti studenti squattrinati, provenienti da famiglie disastrate, potrebbero, anche a parità di talento, diventare dei miliardari nell'Europa di oggi. Non parliamo dell'Italia. Persino King, persino dalla sua ottica americana, ammette che molti bravi scrittori non vivono di scrittura. Figuriamoci da noi oggi.
La differenza è culturale, però, non solo commerciale. Dall'alto dei suoi due corsi di scrittura universitari frequentati, King può dubitare di ulteriori scuole di scrittura, ad esempio. In un paese in cui le basi della narrativa si possono apprendere in una qualsiasi università sono d'accordo anch'io che poi basti tanta lettura e tanta applicazione.
Poi ci sono le differenze linguistiche e stilistiche. La narrativa americana non è quella europea e l'inglese non è l'italiano. La corsa all'asciuttezza è una caratteristica intrinseca della narrativa americana. Ma noi siamo europei. La nostra tradizione va nella direzione di una narrativa meno scheletrica, di uno stile non così spolpato, a mio avviso non possiamo non tenerne conto.
Così come bisogna tener presente che i consigli prettamente linguistici sono fatti per l'inglese. Il cadavere era stato spostato in italiano è dignitosissimo e mette enfasi su "cadavere", che sarà anche soggetto passivo, ma è comunque il focus di ciò di cui stiamo parlando.
King è il re, ma è comunque un re straniero. Cerchiamo di rendere onore anche ai nostri.

Tutto il resto che rimane è da scolpire sulle pareti delle nostre case
Ecco, fatti i due distinguo, tutto il resto mi è piaciuto un sacco.
E sono d'accordo con la parola d'ordine di base
ONESTÀ
Fa quasi impressione che tutto un manuale di scrittura, che insegna a raccontare storie di finzione, sia basato sul termine "onestà".
Eppure penso che King abbia ragione. Essere onesti con se stessi, onesti con il lettore, con i personaggi, che devono essere coerenti con se stessi, con l'ambientazione. Uno sforzo costante di onestà che nulla ha a che vedere con la presenza o meno di demoni ragni, alieni, poteri telecinetici o torri nere. Tutto quello che scriviamo ha a che fare con noi stessi e con il nostro modo di vedere gli altri. In questo dobbiamo essere onesti. Anche se magari si discute di alieni gelatinosi che vogliono conquistare il mondo con il potere delle caramelle alla fragola.
Tutto il resto ne è diretta conseguenza. Se si scrive narrativa, si deve al lettore una storia. Non le nostre pippe mentali, lo splendido e tragico passato del personaggio o tutto ciò che abbiamo diligentemente studiato (io colpevole, qui), ma una storia. È il "cosa succede dopo?" che fa andare avanti il lettore e tutto il resto (almeno nella narrativa popolare) è fuffa. Certo, non c'è una ricetta precisa che faccia scattare nel lettore questa impellente domanda. Neppure il ritmo è la soluzione, poiché ci sono bei libri di successo indiscutibilmente lenti (carino che, qui, in un contesto in cui si parla comunque di "narrativa popolare" ci abbia schiaffato dentro il caro vecchio Il nome della rosa). Tutto sta a capire "cosa sia importante per la storia". Ciò che non lo è fuori. E non importa quanto riuscito sia da un punto di vista letterario o quanto sia importante per noi. La storia è, in fin dei conti, nostra creatura e nostra dittatrice.

Credo che questo libro me lo terrò di fianco, a portata di mano, durante tutta la seconda stesura del romanzo. So di non essere King, ma come lui penso che sia possibile passare da "scrittore passabile" a "buono scrittore" con dedizione, impegno e costanza. E qualche buona dritta. Tipo: seconda stesura = prima stesura -10% (che non sempre è vero, ma che nello specifico credo applicherò a breve).

Voi lo avete letto? Cosa ne pensate?

mercoledì 16 dicembre 2015

Un manoscritto non si invia alla cieca – Praticamente


Questo post è dovuto al mio essere nell'animo un po' maestrina. Non ci posso fare niente. Sono una prof di lettere e a volte questo aspetto del mio carattere riemerge. È che leggo troppo spesso di persone che pur avendo pubblicato con case editrici free non sono state distribuite, seguite o promosse. E allora mi viene in mente che forse c'erano altre strategie da applicare. Forse no. Ma, almeno, c'è qualche strada che si può tentare.
Ovviamente, per sua natura, questo post si rivolge a chi ha intenzione di pubblicare tramite casa editrice. Sono un po' stufa di ripeterlo, lo faccio di nuovo. Il self è una strada. Non è la mia e non la conosco bene. Pertanto non la giudico inferiore e neppure un ripiego. Semplicemente, come da lezione uno di qualsiasi corso di scrittura, parlo di ciò che conosco.

Avete un manoscritto, un romanzo pronto, ma anche una raccolta di racconti, perché no. Lo avete curato e coccolato, letto e riletto e vorreste pubblicarlo. Mettiamo che il vostro sogno sia pubblicarlo tramite un editore. Cosa si fa?

Step 1 – Guardate i libri che avete in casa. Passateli in rassegna uno ad uno. Dovrebbero fotografare sia i vostri gusti letterari che i vostri editori di riferimento. Concentratevi sui vostri libri preferiti. Quali sono? Chi li ha pubblicati? In quali collane? Fate un elenco di editori e collane in cui vorreste vedere il vostro romanzo, partendo da ciò che avete in casa.
Non avete libri in casa? Non leggete? E allora perché mai dovreste voler pubblicare?

Step 2 – Guardate l'elenco che avete stilato partendo dalle vostre letture e suddividete gli editori e le collane in tre grandi categorie: 
1) il sogno (quasi) impossibile – grandi editori e collane famose che pubblicano i vostri idoli letterari (esempio personale: Einaudi).
2) la media editoria che piace (esempio personale: Sellerio)
3) l'editoria di nicchia di qualità (esempio personale: Interlinea e Delos)

Step 3 – Andate dove di solito comprate libri. Se avete una libreria di fiducia è meglio. Controllate l'effettiva presenza degli editori che vi interessano, sopratutto quelli di nicchia. Se avete un librario di fiducia chiedete chi è il distributore, se fa fatica a farli arrivare, se i lettori sono affezionati.
A volte, purtroppo, si scopre che quello che era un editore di qualità solo un anno prima ha cambiato proprietà o è fallito o ha cambiato linea editoriale. Mi sono innamorata, ad esempio, dei volumi di Aisara, ma purtroppo ha chiuso e sono cresciuta con la vecchia Nord, che, dopo l'entrata in un grande gruppo editoriale, non è stata più la stessa. Quindi controllate lo stato dell'arte.

Step 4 – Andate a una presentazione di un romanzo degli editori che vi interessano e, se riuscite, parlate con l'autore. Cercate di capire come l'editore lo supporti e se le sue strategie di promozione vi soddisfino.

Step 5 – Adesso dovreste avere un elenco di editori in attività che conoscete bene come lettori e per cui vi piacerebbe pubblicare. Controllate su internet i loro siti. Accettano manoscritti? Sì? Con quali modalità?
Scoprirete che quelli che sembrano fortini inespugnabili hanno delle (strette) vie d'accesso. Come ad esempio i concorsi per letteratura di genere di Mondadori (Tedeschi per i gialli, Urania per la fantascienza, ma ce ne sono altri che io ignoro). Cercate una strategia percorribile.

Step 6 – Preparate il vostro manoscritto per l'invio secondo la modalità richiesta. Allegate per ogni editore una lettera di presentazione personalizzata in cui spiegate perché verreste pubblicare proprio con lui, proprio in quella collana. Citate i loro romanzi che avete letto e che vi sono stati d'ispirazione. Date, insomma, l'idea di non aver sparato nel mucchio, ma di voler fortemente pubblicare con loro perché li stimate. 
Sopratutto cercate di essere sinceri
Non inviate un romanzo a un editore di cui disprezzate le scelte.
Cercate di inviare il vostro manoscritto ad editori di tutti e tre i gruppi dello Step 2, perché, anche se è statisticamente più probabile che un esordiente venga notato da un editore di nicchia non è detto. Conosco autori che hanno pubblicato con dei big dopo un primo invio. Sono pochi, sono molto bravi, ma esistono.

Inviate i vostri manoscritti ad editori di cui avete letto e apprezzato i libri.
Inviate i vostri manoscritti ad editori i cui libri comprate e trovate in vendita senza difficoltà.
Inviate i vostri manoscritti solo ad editori per cui sareste fieri di pubblicare.

NON PARTITE GIÀ SCONFITTI
Non è vero che questi editori non rispondono o che rifiutano automaticamente. Provateci. Riceverete al 99% dei silenzi e dei rifiuti. Non è detto che tutti i rifiuti siano uguali e che non si possa mai imparare da loro. Da qualche parte, a casa dei miei, dev'esserci ancora un lettera di rifiuto ricevuta nel 2004 da Salani. Mi dicevano che no, il romanzo non era per loro e ad essere franchi non sembrava pubblicabile a prescindere, ma aveva tante buone idee e un'ottima prosa. C'erano delle parti di testo citate, immagino per farmi capire che lo avevano letto davvero e fino in fondo. Ricordo che mi salirono le lacrime agli occhi leggendo, perché era un no e anche categorico, ma era anche un grande incoraggiamento e forse se ho continuato a scrivere lo devo anche a quella lettera (Editor che lavorava in Salani nel 2004, se passi di qui, GRAZIE per quello che hai scritto).

Personalmente io ho seguito questi step per i miei romanzi. E sono stata felice di aver ricevuto i miei sì da case editrici che non sono dei Big, ma che abitavano stabilmente la mia libreria da anni.
Interlinea pubblica scribacchini come Sebastiano Vassalli e Laura Pariani. L'ultimo romanzo della Le Guin edito in Italia l'ha pubblicato Delos (Paradisi Perduti). Alla seconda pubblicazione ho trovato una casa editrici che lavora con il mio mito letterario. Sono entrambe pubblicazioni di nicchia. Non sono né ricca né famosa. Però i miei libri in libreria ci sono, distribuiti sono distribuiti, promossi sono promossi e io sono fiera delle mie pubblicazioni.
Non avrei mai pubblicato con un editore di cui non ho in casa neppure un libro, per il semplice fatto che un rapporto sano autore/editore non può che basarsi sulla stima reciproca.

lunedì 14 dicembre 2015

Piovono libri – Il più grande uomo scimmia del Pleistocene



L'ultima riunione del gruppo di lettura si è svolta in un clima natalizio decisamente più folle e festaiolo del solito. Ci siamo trovati prima, abbiamo ordinato pizze assortite per improvvisare un giropizza in una gioiosa informità. Abbiamo trovato casa nella sede di un'associazione dove l'ampia sala ospita comodamente un gruppo di lettura che ormai sfiora la ventina di membri, con la possibilità di avere con noi anche quella che è ormai la mascotte ufficiale, il bassotto Cuore di una delle lettrici.
Il grande gioco ha visto un'innovazione che ha reso indimenticabile la serata. Non c'erano due squadre, ma tre. Due composte da lettori che si sfidavano come sempre nel cercare di rispondere alle domande a tema e una composta da quattro non lettori. Se le squadre "ufficiali" non sapevano rispondere, la terza poteva accaparrarsi i punti cantando una canzone di Natale. I quattro coraggiosi si sono lodevolmente impegnati, dando anche origine a una serie di video con cui potranno essere ricattati a vita. Quindi se qualcuno associa ancora "gruppo di lettura" a "serietà" visualizzi l'immagine di un gruppo di lettura composto da persone maggiorenni, con una maggioranza tra i trenta e i quarant'anni, che passano dallo cercare disperatamente di ricordare un particolare del romanzo all'esecuzioni di canzoni in improbabili lingue dalle improbabili pronunce con tanto di coreografie improvvisate degne di X factor. Sia agli atti che comunque ha vinto una squadra di leggenti (non la mia, ahimè, io sono assolutamente negata per questo tipo di giochi) e che forse ce la caviamo ancora meglio a leggere che non a cantare. L'impegno, però, è stato lodevole.

Al clima leggero della serata ha contribuito anche il libro del mese:
IL PIÙ GRANDE UOMO SCIMMIA DEL PLEISTOCENE
Un libro che quasi tutti (tranne i quattro cantanti) hanno terminato e apprezzato, con solo una persona che lo ha definito "inutile". 
Libro strano, del 1960, che mescola divulgazione scientifica, comicità e spunti di riflessione non banali.
Nell'Africa del paleolitico vive una famigliola di ominidi il cui capofamiglia, il più grande uomo scimmia del Pleistocene, è un indefesso inventore, ricercatore e innovatore proteso verso l'evoluzione della specie. Ognuno dei suoi figli, invece, incarna un'anima dell'uomo, il pragmatico cacciatore, il mistico, l'artista e così via.
Il romanzo gioca sull'assoluta modernità del linguaggio dei membri della famiglia, della loro piena conoscenza di vivere nel Pleistocene e di voler progredire, con una esposizione della storia dell'evoluzione umana assolutamente perfetta da un punto di vista scientifico, almeno per quello che se ne sapeva nel 1960. Quindi discutono con un impagabile "zio Vania", si preoccupano se trovano un esemplare di hipparion (all'epoca uno dei fossili guida per la datazione del pleistocene), perché significa che l'Olocene è ancora lontano, non sanno accendere il fuoco, ma filosofeggiano sul destino dell'uomo lamentandosi anche di non avere ancora un pensiero astratto abbastanza sofisticato. Questa continua metariflessione dei protagonisti crea un simpatico effetto comico che rischierebbe di diventare ripetitivo, se il romanzo non virasse poi verso un finale assai meno allegro, spunto di più di una riflessione.
Si tratta quindi di un romanzo peculiare, l'unica cosa vagamente simile che mi venga in mente è Le Cosmicomiche, sicuramente datato, sopratutto per la parte scientifica, ma ancora in grado di rivelarsi una lettura piacevole e non scontata.

Come sempre la discussione è stata arricchente.
Il romanzo ha avuto più successo in Italia e in Francia che non in Inghilterra, dov'è stato scritto, tanto che se ne è tentato il rilancio con edizioni dai titoli diversi. Per una volta il titolo italiano è più adatto e incisivo alle varie versioni inglesi che vanno dal più o meno accettabile (L'uomo dell'evoluzione) al "non ci azzecca per niente" (C'era una volta in un'era glaciale non mi prepara esattamente a una storia ambientata in Africa) allo spoiler bello e buono. Insomma, non tutte le traduzioni vengono per nuocere.
L'evoluzione del pensiero, come la si giri la si giri, sembra per sua natura portare verso una perdita dell'innocenza. Anche accettando che l'Eden non ci sia mai stato, l'intelligenza umana non può essere presentata priva dei suoi lati oscuri. Non posso inoltrarmi di più in queste riflessioni per non svelare il finale (che molto mi è piaciuto), ma c'è una sottigliezza inaspettata in un libro all'apparenza così leggero, nella rappresentazione di questi lati oscuri che nascono insieme alla religione e alla stratificazione sociale.

Personalmente ho trovato all'inizio la lettura un po' faticosa per motivi meramente metatestuali. Avendo studiato a lungo l'evoluzione umana all'università (sono e rimango un'archeologa preistoricista) ogni due righe mi interrompevo per ragionare sul riferimento scientifico dell'autore, su cosa si sapeva negli anni '60 e su cosa si sa adesso. Questo nulla toglie al piacere per una lettura leggera, ma tutt'altro che banale.
In realtà mi chiedo perché questo modo di fare divulgazione si sia perso. Perché non si pensa di poter fare una storia leggera e divertente per spiegare l'evoluzione umana (piuttosto che qualsiasi altra cosa) senza banalizzare né concetti né riflessioni.
Anche da un'ottica di prof, credo che Il più grande uomo scimmia del Pleistocene sia un gioiellino da rivalutare. Anzi, mi piacerebbe ci fossero più libri così. Divulgazione scientifica e una certa ricercatezza letteraria che si uniscono per creare un romanzo godibile a più livelli. 

sabato 12 dicembre 2015

Di come ho iniziato a inventare storie

    La colpa credo sia da attribuirsi a mia madre.
Ogni bambino sa valutare con istinto innato quali regole si possono trasgredire, almeno un pochetto, e quali no.
Per mia madre la televisione era il male assoluto. Mi era concessa mezz'ora alla sera, in un'epoca in cui dalle 20 alle 20,30 su Italia 1 davano i cartoni animati e qualche extra nei periodi di vacanza costituiti esclusivamente da documentari e pochissimi film. A quattro anni sapevo cos'era un ornitorinco, sapevo distinguere un allosauro da un tirannosauro, ma la maggior parte degli idoli degli altri bambini mi erano del tutto sconosciuti.
Ancora oggi guardare la tv di pomeriggio mi dà il gusto dolce del proibito, è l'emblema della trasgressione. Di fatto me lo concedo solo se sono malata o alle feste comandate. E ancora temo di mangiare solo minestra per cena come punizione.

  Ovviamente c'erano dei modi per aggirare il divieto. Due. I nonni, da cui, però, stavo solo d'estate e per brevi periodi. Caldi giorni di maratone televisive pomeridiane. Credo che in realtà mia nonna non mi concedesse mai più di un'ora consecutiva di tv, ma poter guardare ben due puntate di cartoni di seguito, seduta sulla poltrona del nonno era, all'epoca, il massimo della vita. Poi c'erano le amichette. Sono stata una pre adolescente molto sola, ma una bimba socievole. In realtà, le amiche erano sempre loro, salvo il fatto che quando avevo 10 anni mi sono trasferita e ho impiegato circa sei anni a ricostruirmi una rete sociale in loco. Prima dei dieci anni, però, ero spesso a casa di questa o di quell'altra, anzi, il giovedì di fisso si andava a rotazione a casa di una del gruppo. E le altre mamme, per quanto non certo liberali nell'educazione, essendo comunque amiche della mia, lasciavano vedere i cartoni animati durante la merenda. Cartoni animati diversi da quelli della sera.

   Noi siamo una generazione di bambini traumatizzati dai cartoni animati. Le nostre eroine venivano incatenate per giocare a pallavolo, morivano di tisi dopo aver abbracciato il proprio amato morente, vedevano la famiglia andare in pezzi, se proprio erano fortunate finivano solo paralizzate per un periodo limitato. Il lieto fine era tutt'altro che scontato e la fine di una serie veniva attesa con un'ansia che rasentava il panico, perché la tragedia era sempre dietro l'angolo.
Le serie serali e quelle pomeridiane erano diverse. Di quelle pomeridiane io vedevo solo pezzi e bocconi. Se andava bene vedevo diverse puntate del giovedì, saltando tutte quelle intermedie.
Qualche lettrice ricorderà Là sui monti con Annette. In cui a un certo punto un bambino cadeva in un burrone. Per me quella serie esiste in una sola, indelebile puntata. Tutta una comunità alpina crede che un bambino sia morto e invece lui è in fondo a un burrone, con una gamba rotta, che chiede disperatamente aiuto. Non ricordo di aver visto né il prima né il dopo.
Ho nella memoria tragici spezzoni di Candy Candy con un misto di angherie nei confronti di una povera orfanella bionda, cadute da cavallo e l'abbattimento di un aereo durante la prima guerra mondiale (con sopra presumibilmente un ragazzo molto caro alla protagonista).

  Una bambina di sei o sette anni non può vivere con l'angoscia di non sapere se il ragazzino sarà mai salvato dal burrone, se Georgie tornerà mai in Australia, o chi sia il ragazzo che precipita con l'aereo. Una bambina di sei anni si vergogna a rivelare alle amiche che lei quei cartoni non li vede. Vuole far parte del gruppo dei pari, partecipare alle discussioni e agli scambi di figurine. Quindi inizia a raccogliere indizi narrativi. Le figurine, di cui mio papà (credo all'insaputa di mamma) mi comprava qualche pacchetto (senza album, che mi avrebbe quanto meno dato un'infarinatura sulla trama). Trovavo così delle istantanee, dei momenti narrativi che assemblavo a mio piacere. Poi ascoltavo con attenzione i discorsi delle altre bambine, per riuscire ad avere almeno un canovaccio da cui partire.
Riempivo i buchi, come potevo, cercando di immaginare tutte le puntate che non ero riuscita a vedere. 

  Non credo di aver mai ammesso di non vedere i cartoni animati, se non anni dopo, in una memorabile serata in Irlanda quando, proprio da quelle amiche conosciute all'asilo (che sono tutt'ora tra le mie amiche più care) mi sono fatta raccontare tutti i finali originali dei cartoni animati (scoprendo che sì, il bambino era stato salvato dal burrone). Da piccola cercavo di inserirmi nelle conversazioni improvvisando. E se le mie trame presunte erano più interessanti o plausibili o magari meno traumatizzanti di quelle originali, venivo ascoltata. Ben presto i nostri giochi iniziarono a vertere nel proseguire a nostro piacere i cartoni animati.
Credo l'abbiano fatto tutti i bambini della mia generazione, ma per me c'era un fascino diverso. Io non avevo altri finali che i miei. Dovevano essere soddisfacenti al punto da non farmi sentire il rimorso per quelle visioni mancate. Io dovevo essere all'altezza della storia originale, se non meglio.
Sono tutt'ora convinta che se Georgie non fosse mai tornata in Australia sarebbe stato meglio.

  Non ho molte morali da trarre da questo. La mia attitudine a inventare trame nasce paradossalmente dalla tv e dalla sua negazione. Mia madre voleva proteggermi, impedendomi di guardare certe cose, ignorando che, forse, a sei anni, se avessi saputo nel giro di pochi giorni che il bimbo nel burrone era in salvo, avrei avuto molti meno incubi. Eppure, senza il suo divieto non avrei scoperto quale meravigliosa risorsa sia l'inventare storie.

  Adesso, se mi chiedono come e perché scrivo, trovo più naturale trovare altri aneddoti. Mio zio che raccontava storie a noi cugine, mio nonno e mia madre che raccontavano l'Odissea. Cercare dei presupposti più letterari e più alti. Ma, in tutta onestà, non posso assicurare che siano stati più importanti di quei cartoni animati giapponesi monchi. A tutt'oggi ricordo con maggiore intensità quelle puntate rubate delle serie che ho visto dall'inizio alla fine e ho il forte sospetto che, in fin dei conti, la colpa sia loro.

Voi come avete iniziato a inventare storie?

mercoledì 9 dicembre 2015

Visioni – Nausicaa e Ex machina

Questa mini vacanza dell'Immacolata è arrivata quanto mai benvenuta.
Ho fatto letargo.
Lasciata a me stessa avrei solo mangiato e dormito, segno che forse i mesi passati non sono stati proprio di tutto riposo (né si prospettano tali quelli futuri).
Dato che non sono stata lasciata a me stessa ho dormito, mangiato in compagnia, preparato l'albero e guardato film. Non ho neppure letto, troppo faticoso! Ma questa mattina, quando mi sono svegliata tutto sommato in forma dieci minuti prima della sveglia mi è stato ulteriormente ribadito quanto questa  pausa fosse necessaria.

Nausicaa della valle del vento


Inseguo questo film dagli anni '90 e quando qualcosa è stato così a lungo sognato, desiderato e inseguito il rischio delusione è altissimo.
A Lucca Comics, quest'anno, ho trovato la nuova edizione dvd del film che, in pratica, ha dato vita al mitico studio Ghibli. Fino all'ultimo ho temuto che, chissà, il mio lettore non lo leggesse, la mia copia fosse difettosa, che, insomma, mi fosse ulteriormente preclusa la visione. Fremevo e temevo il momento in cui le prime immagini fossero passate sullo schermo.

Visto ora, nel 2015, è difficile non giudicarlo alla luce del dopo, di tutto quello che da lì in poi il maestro Miyazaki ha prodotto. Vedere in Nausicaa una proto Mononoke, vedere i germi delle macchine volanti di Laputa, piuttosto che tutte le tematiche condensate. Dimenticarsi che questo film non è "la prova di" o "l'antefatto per", ma un film che poteva essere unico e rimanere isolato.
Ritornare, quindi, al 1984 e immaginare di non aver visto null'altro di Miyazaki, non aver contrabbandato le cassette di Mononoke, di non aver setacciato i programmi di tutti i cineforum per trovare quelli che proiettassero Porco Rosso, in un'epoca in cui su internet ancora non viaggiavano i film, non aver poi quasi imparato a memoria tutti i suoi film, fino ad appendere sul frigorifero dei piccoli Totoro.
È un'opera che dischiude un mondo, che ha una gran voglia di raccontare, di dire tutto, subito, direttamente e chiaramente. Un'estetica che adesso è diventata "l'estetica dello studio Ghibli", ma che allora presentava qualcosa di totalmente nuovo. Un mondo apocalittico in cui l'uomo è stato scacciato da una foresta tossica, dove la fanno la padrona gli insetti. Un mondo che è, nonostante tutto, bellissimo. La capacità del regista di far entrare lo spettatore nell'animo di Nausicaa, la principessa della Valle del Vento, una comunità umana che è riuscita a trovare un equilibrio con una natura di colpo ostile. Uno sguardo che riesce a far provare empatia persino per enormi insettoni pieni di zampe di occhi. Roba che in qualsiasi altra visione del mondo farebbe virare la storia all'horror e qui è invece fonte di meraviglia e rispetto.
Dentro c'è tutto Miyazaki, una gran voglia di raccontare tutto, nel caso che non gli fosse data una seconda opportunità. Quindi il rispetto per la natura, l'uomo che, anche senza una precisa malvagità, è distruttore del proprio mondo, la capacità dei ragazzi di cambiare il senso delle cose, l'ammirazione quasi fanciullesca per le meraviglie del mondo, che è necessaria per il rispetto e la comprensione. 
C'è anche una gran voglia di far vedere tutto, nel caso non ci fosse una seconda possibilità. E allora la meraviglia della Valle del Vento. E una miriade di macchine volanti. Miyazaki adora gli aerei, tantissimi suoi film, Laputa, Porco Rosso, Si alza il vento, hanno il loro cuore negli aerei. In Nausicaa vola praticamente qualsiasi cosa. Vola Nausicaa su un agile mezzo che sembra quasi un aquilone, volano nel nazioni ostili, volano le cannoniere, volano gli insetti, volano tutti, meno gli uccelli, che sono invece usati al posto dei cavalli! 
C'è un continuo giocare a mostrare a stupire. Alla fine siamo anche noi viaggiatori degli occhi sgranati, continuamente stupiti e incantati e questo nostro stupore ci avvicina all'intimo candore di Nausicaa.
Quest'ansia di narrare, di arrivare alla meta, rende il film molto più lineare delle opere seguenti di Miyazaki. Gli uomini hanno avvelenato il mondo e possono sferrare (con le migliori intenzioni) il colpo di grazia. Nausicaa, principessa della Valle del vento, quasi una figura messianica, propone una via diversa, di rispetto e integrazione con la natura. 
La semplicità non è sempre un male, sopratutto se si contrappone a questa sovrabbondanza visiva. La storia è lineare, ma c'è una sincerità nella figura di Nausicaa che non passa inosservata. Il suo rifiuto della violenza non ha basi ideologiche, lo spettatore vive con lei il dramma della battaglia, sente con lei il fascino per la natura selvaggia, al punto tale da non poter non parteggiare con lei. 
Rivisto oggi, Nausica nella valle del vento è un film a cui è difficile dare 30 anni. C'è un'animazione che funziona ancora alla meraviglia, una rara capacità di stupire e una storia che non vuole essere di più che quello che è, una favola ecologista, che ha la sua forza nella sincerità con cui è raccontata più che negli artifici della trama.
Consigliassimo.

Ex machina

Natura e tecnologia si mescolano in modo del tutto diverso in Ex Machina.
Strano film, quasi teatrale.
C'è un genio dell'informatica che dopo aver inventato una sorta di Google vive nella sua villa isolata nei boschi (ispirata alla famosa "casa sulla cascata"). Uno dei suoi dipendenti vince una settimana di soggiorno nella villa. Ovviamente nulla è casuale. Il genio ha sviluppato una IA e il giovane dipendente deve eseguire il famoso "test di Turing" per stabilire se l'androide, che ha le fattezze di una fanciulla dagli occhi da cerbiatto preso in trappola dai lupi, sia oppure no dotato di autocoscienza.
Nel risulta un film pieno di fascino e di atmosfera, giocato solo con quattro personaggi, i pochi ambienti della villa e i meravigliosi boschi circostanti.
Promosso a pieni voti sulla recitazione e la creazione del mondo narrativo (il film regge benissimo nonostante i pochissimi elementi utilizzati), non è esente, purtroppo, da qualche difetto strutturale.
Perché la fantascienza minimalista con riflessione sulle Intelligenze Artificiali va benissimo ed è sempre attuale. Il problema è che è attuale da... Frankenstein? Ed è difficile, tremendamente difficile dire ancora qualcosa di nuovo. A metà film io e mio marito abbiamo ipotizzato tre finali possibili. Quello raccontato era il più banale e prevedibile e un po' ci è spiaciuto. Un guizzo in più e, forse, con questa cura per i particolari, avremmo avuto un capolavoro.

Solita morale della favola: le IA vanno costruite sconnesse ai controlli del posto in cui si vive e incapaci di moto proprio, perché se no, che siano mostri fatti di cadaveri assemblati o fanciulle dagli occhi da cerbiatto, finisce sempre nello stesso modo.

venerdì 4 dicembre 2015

Utopiche proposte di sostegno ai giovani autori

Oggi va così.
Ho un po' di febbre, quindi niente uscita alla ricerca dei regali di Natale. Ieri sono stata male in classe e, per fortuna, ero nell'aula più vicina al bagno! Oggi meglio, ho più o meno anche fatto lezione, ma il pomeriggio rintanata in casa non mi fa bene. Il nipotino è via, il marito è rapito dal lavoro. Domani ho il super incontro a Stresa, quindi vietato strafare e fregarsene della febbriciattola. Il risultato è che si finisce per pensare al lavoro incerto e a tanti altri, troppi, "se" che costellano il mio presente.
Quindi adesso, nell'attesa che il marito torni a casa, un po' di utopia!
Qui ci eravamo chiesti se la scrittura stia diventando solo un hobby per ricchi.
Per me no, non dove farlo. Perderemmo tutti, come lettori. 
E allora coraggio, quali proposte concrete possiamo fare per sostenere i giovani autori?
Nota aggiunta al post (5/12/2015): a scanso di equivoci, per giovani autori intendo giovani autori, ragazzi sotto i 30 anni, che, immagino, abbiano ancora più difficoltà di me e dei miei coetanei a districarsi tra lavoro e scrittura

RESIDENZE PER SCRITTORI E VERI E PROPRI FINANZIAMENTI
Qualche tempo fa (forse ancora oggi, ma non ho controllato) la Francia aveva un programma per sostenere i giovani scrittori.
Per accedervi bisogna avere meno di una data età e aver già pubblicato un libro non a pagamento. Si inviava un progetto e se si veniva selezionati si aveva diritto a un finanziamento che poteva avere la forma di una sorta di borsa di studio (per un anno, se non ricordo male, con cifre di poco inferiori ai 1000€ al mese), oppure della possibilità di risiedere gratuitamente in una residenza per scrittori messa a disposizione dalla stato (per sei mesi o un anno), infine c'era anche la possibilità residenza + borsa.
Anni fa ho guardato il bando, ma, dato che il tutto era finalizzato alla scrittura di un romanzo in francese ho rinunciato.
Non mi risulta che ci sia nulla di simile in Italia, anche se esistono resistenze per artisti. Eppure quale giovane autore non sognerebbe di potersi prendere un anno sabbatico retribuito (magari non molto, ma abbastanza per vivere) per scrivere il proprio romanzo?
Certo, rimarrebbe lo scoglio della selezione. Mi sembra che un limite di età + invio romanzo precedente + progetto possono essere dei buoni punti di partenza. 
Servirebbe ovviamente un impegno da parte dello stato a credere che l'investimento nella cultura sia importante.
Senza di quello purtroppo, poco o niente si può fare.

CORSI GRATUITI DI NARRATIVA E/O EDITING IN LICEI E UNIVERSITÀ
Ho detto e scritto più volte di essere molto grata al mio prof di italiano del liceo, uno che ci ha dato un metodo (quello strutturalista) per capire e decodificare i testi letterari. Tuttavia ricordo ancora la sua risposta schifata alle lamentele di una mia compagna per il fatto che si facessero SOLO analisi del testo: "qui si studia letteratura, non si fa scrittura creativa".
Ecco, io credo che scrittura creativa andrebbe fatta, al liceo e ancor più all'università. Al peggio avremmo studenti che sanno scrivere decentemente (e non universitari che vanno in panico all'idea di scrivere 50 pagine di tesina). Al meglio si potrebbero scovare precocemente dei talenti narrativi. In ogni caso si darebbe ai ragazzi la possibilità di toccare con mano le difficoltà della scrittura e anche il suo straordinario fascino.
Ho tenuto in un liceo per due anni corsi simili, con grande soddisfazione reciproca, il problema era come farseli pagare! Ora, a meno di non avere degli scrittori (possibilmente con anche delle buone basi teoriche di didattica della narrazione, perché saper insegnare a scrivere non è uguale a saper scrivere) che si offrano di fare volontariato non ci sono che due strade possibili:
– Usare delle risorse pubbliche per attivare gratuitamente corsi simili 
– Chiedere una sponsorizzazione alle case editrici (e qui andiamo al punto successivo)
In ogni caso serve, di nuovo, l'idea che si debba investire sulla cultura letteraria.

CORSI GRATUITI DI NARRATIVA E/O EDITING CURATI DALLE CASE EDITRICI
Mi rendo conto che è un investimento non da poco, ma deve essere visto, appunto, come un investimento.
Io casa editrice, magari specializzata nel YA (faccio une esempio) mi lamento di essere intasata da manoscritti pessimi? Mando i miei editor o i miei autori migliori a fare dei corsi gratuiti per i liceali degli ultimi anni. Con un po' di fortuna qualche anno dopo (o anche poco dopo, perché parliamo di ragazzi di 18/19 anni, potenzialmente già in grado di scrivere un buon romanzo) uno degli alunni sarà diventato un autore. Conoscendo editor e autori di quell'editore gli verrà naturale inviare il proprio testo proprio a quell'editore. 
Quello delle scuole è ovviamente un esempio che mi viene spontaneo per deformazione professionale. Ogni casa editrice deve capire dov'è il bacino dei suoi possibili autori e andare a investire lì.
Delos da tempo ha creato una rete di siti specializzati per i generi di cui si occupa, dove ha promosso l'interazione tra appassionati. Ha curato corsi di scrittura on-line e dal vivo e forum dove sia davano consigli di scrittura e ci si scambiava pareri sui propri scritti. Ha promosso concorsi letterari di vario tipo. Quando è nata Delos Digital, con la sua massa di pubblicazioni settimanali non credo abbia fatto fatica a trovare gli autori: se li era cresciuti in casa. Non scrivo questo perché pubblico con Delos, ma perché è una realtà che conosco. Spero non sia l'unica. 
Un editore che sa quello che vuole dovrebbe curare la crescita dei propri autori sin da quando sono solo "aspiranti".

AGEVOLAZIONI PER GIOVANI AUTORI
Sei un giovane autore, stai firmando il tuo primo contratto editoriale? Magari l'editore non ti propone un anticipo perché sei un giovane sconosciuto? Ebbene potrebbe però proporti altri benefit quali sconti sull'acquisto di libri, sugli ingressi al cinema, ingressi gratuiti alle fiere dell'editoria per un tot di tempo (un anno?). 
In questo modo il giovane autore è aiutato innanzi tutto economicamente con un sostegno alle sue spese culturali, ma anche incentivato a tenersi in contatto con il mondo della letteratura e a frequentare ambienti potenzialmente arricchenti.
Penso pertanto a qualcosa che non sia limitato solo alla propria realtà editoriale, ma che sia una sorta di "pacchetto di benefit obbligatorio per il primo contratto editoriale".
Ovviamente lo stato deve aiutare in qualche modo gli editori o almeno quegli editori disposti a proporre questo genere di contratto. 
L'editore, d'altro canto, essendo obbligato a un minimo dei esborso oltre al pagamento dei diritti d'autore dovrebbe essere incentivato a promuovere il giovane autore che ha deciso di pubblicare. A me non è mai successo nulla del genere, ma sento troppo spesso di autori che pubblicano con case editrici non a pagamento e che poi non sono per niente seguiti o promossi. Immagino che tali editori pensino che le vendite "fisiologiche" dovute a parenti e amici dell'autore bastino ai loro guadagni. L'obbligo di garantire dei benefit all'autore dovrebbe spingerli a impegnarsi un pochino di più.

"ADOZIONE" DI GIOVANI AUTORI
Negli anni passati sono stati tentati vari esperimenti, e-book che proponevano un testo di un autore affermato + testi di esordienti, presentazioni in tandem, autore affermato + autore esordiente, ma bisognerebbe creare qualcosa di più organico. Un vero programma di "adozione di giovane autore". Un congruo numero di autori affermati "adotta" un giovane autore e per un periodo X (sei mesi almeno) se lo porta sistematicamente dietro in ogni presentazione/programma televisivo/intervista.
Perché parliamoci chiaro, si fa presto a dire che la promozione oggi deve essere diversa, fatta in rete, ma è oggettivo che un passaggio da Fazio vale in termini di vendite cifre che nessuna soluzione fai da te potrebbe mai garantire. Immaginate se ogni autore famoso che va da Fazio si portasse con sé un esordiente sconosciuto...
Ovviamente si deve trattare di autori con una qualche affinità tra loro per genere e sensibilità. Per funzionare deve trattarsi di un'iniziativa vasta, che coinvolga più autori, più gruppi editoriale e possibilmente con un patrocinio statale.

Insomma, per come la vedo io, la parola chiave è investimento sensato (cioè evitando di buttare i soldi a pioggia o in tante iniziative una tantum) e fare rete (stato + editori, editori + editori).
Mi rendo conto che un investimento prevede che qualcuno ci metta dei soldi e che quel qualcuno possano essere solo stato ed editori. Questo rischia di tagliare fuori il mondo del self. Ma penso anche  e sempre più che anche Amazon (per dirne una) sia un editore. Un editore che gioca un po' sporco, accetta tutte le proposte indiscriminatamente, che magari lascia il 70% dei guadagni agli autori (ma che si tiene comunque il 30%), ma pur sempre un editore. E che quel 30% di guadagno su ogni pubblicazione self potrebbe anche reinvestirla in progetti volti a migliorare la qualità delle opere, come questi.

Queste, infine, sono proposte fatte da una che "è vecchia dentro", ha una fantasia limitata ed è a casa con la febbre. Sono sicura che da voi possano nascere idee migliori. Scrivete tutto ciò che vi viene in mente, chissà che qualcuno non passi e non legga!

E RICORDATEVI CHE DOMANI VI ASPETTO TUTTI ALLE 16.00 AL GIGI BAR DI STRESA

mercoledì 2 dicembre 2015

Rileggere i libri della propria adolescenza – L'erede di Hastur e L'esilio di Sharra.

Sarà che questi sono giorni faticosi, complice il fatto che, all'alba di dicembre, ancora non ci abbiano confermato la nomina sulla cattedra (cioè non sappiamo se insegneremo sullo stesso posto fino a fine anno. Lo so sembra assurdo, se ne è andato quasi un quadrimestre, ma così è). Sarà che ci sono altri pensieri e preoccupazioni. Sarà che per caso mi sono ricapitati in mano, ma ho riletto due romanzi della mia adolescenza: L'erede di Hastur e il suo seguito diretto L'esilio di Sharra. Un'esperienza assai strana e degna di essere condivisa.

UN TUFFO NEL PASSATO
All'inizio del terzo anno del liceo (per gli amici che hanno fatto il classico, la Prima Liceo) ho cambiato istituto. Ovviamente la mia principale preoccupazione non era il cambio di libri e di prof, ma se mi sarei fatta o meno degli amici. Da timidona com'ero, avevo forti dubbi in proposito. Ero una nerd ante litteram, occhialuta, che passava tutto il proprio tempo libero a fare uno sport assai poco fascinoso (la corsa di resistenza) o a leggere. Ebbene, dopo pochi giorni nella nuova scuola, già parlavo di libri con le nuove compagne. Pochi giorni ancora e L. mi avrebbe prestato quello che era il suo libro preferito. Il libro era L'erede di Hastur e L. è poi diventata una delle mie testimoni di nozze.

L'EREDE DI HASTUR E L'ESILIO DI SHARRA
Allora non pensavo di far parte di una sottocultura, né pensavo di avere in mano un libro "generazionale". Col senno di poi, forse sì. Per tutta una generazione di appassionati di fantastico questi libri sono stati l'equivalente di altri, più famosi, libri generazionali.
Adesso è difficile ricostruire la trama con una certa chiarezza. La saga di Darkover è una serie di romanzi per lo più autoconclusivi ambientati sul pianeta Darkover. Caratteristica del posto è il sole, una gigante rossa appena in grado di scaldare il pianeta, che vive pertanto un perenne inverno, e il fatto che gli abitanti abbiano sviluppato i poteri psi fino a farne una vera e propria scienza. Si scopre poi che i darkovani altro non sono che terrestri, naufraghi di un'astronave, che hanno però dato origine sul pianeta a una cultura a sé stante che ha solo lontani echi della nostra. Solo dopo millenni (anche a causa delle sfasature dello spazio-tempo) l'impero terrestre "riscopre" Darkover.
Questi romanzi, di fatto due parti di una stessa storia autoconclusiva, si ambientano proprio dopo la "riscoperta" del pianeta. L'impero terrestre vorrebbe annettere Darkover, ma la nobiltà locale teme di perdere la propria autonomia, anche se gli antichi poteri psi sono ormai quasi estinti. I protagonisti sono due giovani a cavallo dei due mondi: Regis Hastur, erede della più potente famiglia nobiliare di Darkover, che però sogna di viaggiare attraverso l'impero e Lew Alton, in parte darkovano e in parte terrestre, dotatissimo nelle arti psi. Nel tentativo di mostrare ai terresti le potenzialità dell'antica cultura darkovana Lew e un gruppo di giovani avventati riattiva però un'antica arma, che forse è qualcosa di più, un mezzo per richiamare entità non del tutto umane. Ne segue distruzione e morte e poi il difficile tentativo di porre rimedio al male fatto.
In mezzo c'è un po' di tutto, disperate storie d'amore, una selva di personaggi dalla fortissima personalità, ribellione ai ruoli sociali predefiniti, legami con le proprie origini e la necessità di confrontarsi con un impero globalizzato.

IL FASCINO CHE AVEVANO LETTI A QUINDICI ANNI
Questi libri non sono stati i miei preferiti in assoluto durante l'adolescenza, ma hanno avuto comunque un fortissimo impatto.
L'erede di Hastur parte come ogni buon YA dovrebbe fare. Lew ha all'incirca vent'anni e deve affrontare la sua prima missione diplomatica, Regis ne ha quindici e inizia il "corso da allievo ufficiale" nella guardia cittadina. È fin troppo facile immedesimarsi in loro.
Il mondo in cui sono immersi, però, è violento e moralmente ambiguo. Non ci sono "cattivi" non c'è un Voldemort o un qualsiasi oppressore. Ci sono, sì, adulti che trattano tutti con sufficienza, che vogliono che "il mondo continui ad andare come è sempre andato", organizzano matrimoni combinati, approfittano del loro potere e, chiusi nelle loro ideologie hanno ben poca attenzione ai sentimenti altrui, ma i guai, quelli veri, li causa tutti il benintenzionato Lew.
Sono tra i primi libri che mi hanno mostrato un mondo complesso, pieno di fascino e di problemi, dove fare la scelta "giusta" è tutt'altro che facile. A volte neppure c'è una scelta giusta. La difficoltà di crescere e di trovare se stessi mi era mostrata per la prima volta in tutta la sua complessa crudeltà. Lew, nel suo desiderio di autoaffermazione sposa la donna che ama e fa quello che ritiene giusto. Causa un disastro immane, la sua amata muore, lui rimane mutilato e passa il resto della vita (e il libro successivo) a cercare di convivere con il peso dei suoi errori. Regis vuole piacere, al nonno, l'unico parente che abbia, alla gente, che lo vede come il futuro punto di riferimento. È più incline al compromesso, a fare, almeno come facciata, ciò che ci si aspetta da lui. Appare il più debole dei due, almeno in apparenza.
Lo sguardo dei due protagonisti sugli adulti cambia. I due romanzi sono separati da uno stacco di cinque anni. Nel secondo libro si scoprono le ragioni degli adulti. Non despoti insensibili, ma persone tormentate, che hanno cercato, forse, di fare del loro meglio. A volte come esiti disastrosi.
Infine una ridda di tematiche (forse troppe, forse troppo confuse) fin troppo attuali negli anni novanta, quando io li ho letti (anche se sono romanzi di fine anni '70), il rapporto con la globalizzazione e la tecnologia, il ruolo della donna, il difficile equilibrio tra realizzazione personale e realizzazione delle aspettative altrui.
È stato, insomma, uno di quei libri che mi ha aperto a uno sguardo più complesso sul mondo.

RILEGGERLI A 35 ANNI
Non so da quanto non li prendevo in mano. Avevo paura. Avevo paura di scoprire che la me stessa adolescente avesse letto dei pessimi libri. Avevo paura perché nel mentre si sono scoperte delle cose assai brutte sull'autrice, ormai morta. Suo marito era un pedofilo e lei stessa (forse) ha abusato della figlia. Particolari che mi erano del tutto ignori durante la prima lettura.
Mi sono piaciuto lo stesso. Mi è piaciuta questa visione di un mondo puramente umano, senza un ideale superiore a cui fare appello, senza altra etica di quella personale. C'è un sottofondo di disperazione che certo allora non avevo colto. Qualcosa che un po' mi fa tristezza, che mi inquieta, perché è tutto terribilmente ambiguo a livello morale, ma che ha anche un fascino unico. Adesso che torniamo sempre più verso storie, sopratutto YA, manicheiste, dove almeno c'è il cattivo che è sicuramente cattivo, Darkover, dove non c'è nessun personaggio davvero che si possa in toto condannare o salvare, ha ancora più fascino.
Mi spiace che non siano più reperibili in Italia. Ma se li trovate su una qualche bancarella, valgono l'acquisto, nonostante la traduzione raffazzonata. È evidente che non è solo di oggi il problema della mancanza di una buona correzione di bozze. L'aquila bicipite (invece che bicefala) rimarrà, credo, per sempre nella mia memoria.

PROSPETTIVE CHE CAMBIANO
Non ho più 16 anni, ovviamente. Le cose cambiano.
Dyan, ovvero l'ambiguità protagonisti a parte, il personaggio che più rimane impresso è Dyan. Se c'è un "cattivo" è lui, il mostro d'armi del corso dei cadetti che abusa di uno di ragazzi e poi, per le astruse leggi darkovane, ne diventa padre adottivo. Un personaggio magnetico, arrogante, che spaventa, ma di cui si intuisce anche una profonda sofferenza.
Riletto oggi mi ha raggelato. Forse perché ora si conoscono retroscena così poco edificanti sull'autrice. Perché la condanna su questo personaggio non è totale e si percepisce che l'autrice lo ha amato. Perché è maledettamente realistico. E da adulta pensi: cosa farei se scoprissi che un mio amico, un collega di cui ho stima, abusa degli alunni? Da adulta e insegnante Dyan mi ha inquietato tantissimo, proprio perché non è un mostro e non è privo di umanità.
Da ragazza, paradossalmente, questa parte della storia mi aveva coinvolto ma non sconvolto. Leggevo ed ero coetanea dei ragazzi protagonisti ed ero perfettamente consapevole che l'abuso esiste e che un professore potrebbe fare certi pensieri su un alunno/a. L'anno prima a una mia compagna erano stati fatti apprezzamenti ai limiti del penalmente rilevante da parte di un docente (per altro prete. Sia detto che poi ha abbandonato tonaca e insegnamento). Insomma, da ragazza ero consapevole che persone come Dyan esistono e mi sembrava normale trovarne anche in un romanzo.
NOTA PERSONALE: gli adolescenti sono molto meno ingenui di quello che pensiamo. Non ha senso nascondere loro fatti scabrosi, tanto a 15 o 16 anni hanno già capito come gira il mondo. Ci sconvolgiamo forse più da adulti pensandoli più innocenti di come in realtà siano.
Lew Alton e Regis Hastur ricordo di aver molto amato entrambi, all'epoca. Oggi li ho trovati insopportabili. Regis è un eterno insoddisfatto. È il classico prima della classe che si lamenta quando prende 8. È bello, è ricco, è bravo e tutti gli vogliono bene. Ma si lamenta. Perché vuole andare in giro per la galassia e invece è l'erede di Hastur e deve rimanere nel suo castello con i suoi servitori. Perché vorrebbe far contento il nonno e sposarsi una brava figliola e invece è gay. Trova un bravo ragazzo, ma continua a lamentarsi. Glielo dice pure in faccia che lui, però, avrebbe preferito innamorarsi di una lei e non riceve in cambio neppure un pugno in faccia.
Lew Alton è pure peggio. Ha la sindrome dell'unica vittima. Capitano tutte a lui e lui è l'unico che soffre. Il padre per lui rinuncia a tutto e trascura il figlio minore, ma Lew non si sente amato. Si innamora di una brava ragazza, ma è invaghito pure della di lei sorella. La sua amata muore, lui si dispera, ma nel giro di poco ha già altre donne. Ma è sempre disperato. Perde una mano, è circondato da gente che sta peggio di lui, ma lui sente di soffrire di più. In tutto questo c'è sempre una brava donna che si innamora di lui, un bravo amico disposto a soccorrerlo, un parente che lo aiuta. Ma no, lui è quello che soffre.
NOTA PERSONALE: rileggendolo adesso mi sono resa conto che il mio primo fidanzato era Lew Alton. Lui fatto e finito. Avevo già letto il libro quando l'ho conosciuto (circa un anno dopo), ma questo non mi ha salvato. Fortuna che non sono una fragile donna darkovana. Lui certo avrebbe preferito fossi bruciata viva anch'io, invece l'ho lasciato in meno di due anni (non che la cosa non sia stata traumatica). Comunque rassicuratevi. Gli uomini alla Lew Alton trovano sempre una brava donna che si prenda cura di loro (e ascolti le loro sofferenze). Ironia della sorte o meno, oggi quel ragazzo sta proprio con L., la ragazza che mi ha prestato il libro.
Morale delle favola: ci sono errori da cui i libri non salvano.

Ecco, vi ho regalato uno scorcio della mia adolescenza.
A voi è mai capitato di rileggere dei libri legati alla vostra adolescenza? Com'è stato? Cos'è cambiato?

lunedì 30 novembre 2015

La scrittura è un hobby per ricchi?


"Ormai la scrittura è un hobby per ricchi" mi scrive con disillusione in una mail il responsabile della rivista on-line Kultural. E io, che non mi sono ancora psicologicamente ripresa ai "conti della serva" fatti dal sempre ottimo Penna Blu in questo post, in cui ha analizzato i costi del self, non posso che farmi, con preoccupazione, la domanda:
DAVVERO LA SCRITTURA È UN HOBBY PER RICCHI?

I COSTI DEL SELF
Ricapitoliamo. Secondo l'accurata analisi di Daniele pubblicare un e-book curato dal self autore, promozione esclusa, costa 2600 euro.
C'è chi nei commenti segnala che non è poi tanto, costa sicuramente di più fare sub o parapendio e questo è, del resto, il costo della libertà. Nessun editore che rompe le scatole e il 70% del prezzo di copertina va all'autore.
Qui mi tocca fare una doccia fredda di realtà. Perché io sono una prof precaria e quando va bene (quando ho cattedra completa e la conservo per tutto l'anno), prendo 1300 € al mese, luglio e agosto esclusi.
Infatti non pratico né subacquea né parapendio, pratico uno sport a costo zero e se dico a mio marito che voglio farmi da sola una vacanza da 2600 euro non solo lui mi chiede il divorzio, ma io gli do pure ragione. 
Certo, può essere un investimento sul futuro. Però se, mettiamo, il mio e-book costa 3€, se va bene ne intasco 2,1 a copia (giusto? C'è qualche altra tassa di cui devo tener conto?). Ne devo vendere più di mille per andare in pari. Non per guadagnare, solo per andare in pari. Considerato il mercato attuale degli e-book in lingua italiana possiamo considerarlo un investimento almeno ad alto rischio. E al momento il mio bilancio famigliare me lo sconsiglia vivamente.
Ovviamente c'è chi consiglia di apprendere delle competenze e fare rete per abbattere i costi. Cosa che, però, ha un suo costo in tempo. Ogni ulteriore investimento in tempo per me, oggi, avrebbe dei costi, perché avrei bisogno o di ridurre l'orario lavorativo o di introdurre un aiuto domestico e quindi entriamo nel solito circolo del drago che si morde la coda.

I COSTI DELL'EDITORIA
Va poi tanto meglio con l'editoria tradizionale?
La crisi c'è, è innegabile. Questo porta gli editori a tagliare sempre di più i costi. Vogliono dei romanzi il più possibile perfetti. Pronti da stampare.
Selezione e editing sono sempre di più affidati ai privati. Agenzie di valutazione e di selezione che scremano e propongono all'editore opere già ottimizzate secondo le richieste del mercato. Va da sé e questa non è assolutamente una critica, che questi professionisti debbano pur campare. Visto che non hanno neppure loro certezza da parte degli editori, devono farsi pagare alla fonte, cioè dagli autori. Lettura e valutazione hanno il loro prezzo.
Anche qui si spera che sia un'investimento sul futuro. Un futuro che dovrà comunque passare da diversi step decisionali: il romanzo sarà proposto? Il romanzo sarà pubblicato? Alla fine l'autore, solo se sarà fortunato, avrà i suoi diritti d'autore (spannometricamente intorno al 10% per il cartaceo e al 30% per gli e-book, ma calcolate anche meno). Solo se sarà molto, molto fortunato avrà un anticipo a fondo perduto.
I costi sono variabili e difficilmente quantificabili. Diciamo che affidarsi a un'agenzia (passaggio assolutamente non obbligatorio, ma, mi pare, sempre più comune) costa almeno qualche centinaio di euro. Molto meno dei 2600 stimati per il self, ma si tratta di un investimento ad altissimo rischio. Alla fine la pubblicazione può anche non realizzarsi mai.
Alcuni effetti collaterali
Questo sistema ha, secondo me, alcuni effetti collaterali che sono solo in parte dovuti all'aspetto economico. Un sistema editoriale che va al risparmio, che scarica i costi alla fonte, è un sistema che non fa innovazione e che non può permettersi di rischiare. Sono poche le case editrici che fanno scouting e che curano la crescita degli autori (direi Delos, ma poi dite che sono di parte). Le agenzie proporranno agli editori libri che sanno avere un mercato, piuttosto che scommesse editoriali. Infine, i giovani autori rischiano di scoraggiarsi prima di aver raggiunto la propria maturità artistica.

LA SCRITTURA STA RISCHIANDO DI DIVENTARE UN HOBBY PER RICCHI
Ormai sembra quasi che il problema "vivrò mai di scrittura" non solo sia archiviato per sempre, ma si stia trasformando in "ho abbastanza soldi per dedicarmi alla scrittura?".
Perché se scrivere in sé costa poco o niente, pubblicare sembra avere sempre di più dei costi. O quantomeno dei non guadagni che, alla lunga, diventano costi.
Gli effetti io li vedo. Giovani autori di talento che per campare scrivono sempre più spesso altro rispetto a quello che vorrebbero (leggasi, testi su commissione). Altri che si barcamenano tra famiglia, lavoro e scrittura fino a che qualcosa si deve pur tagliare e questo qualcosa è spesso la scrittura. 
Rimane sempre più a scrivere chi può permetterselo. Chi può permettersi editing, valutazione e agente (piuttosto che il molto tempo e denaro necessario al self). Chi può permettersi di girare l'Italia per presentazioni più o meno a proprie spese. Chi può permettersi di lavorare con le scuole (i ragazzi sono tra i pochi che ancora leggono), quindi di in orario lavorativo. Chi, insomma, può permettersi di mettere in campo risorse economiche e di tempo per la promozione del proprio libro.
Una scrematura a monte che poco ha che fare con la qualità della narrativa. Perché è vero che "bisogna investire su se stessi", ma se i fondi per tale investimento non ci sono si rischia di rimanere al palo.

PERCHÈ LA SCRITTURA NON PUÒ RIDURSI A UN HOBBY PER RICCHI
Gli scrittori sono i testimoni del loro tempo. Sentinelle sensibili in grado di decriptare la realtà e offrire possibili chiavi di lettura. Volendo, sono venditori di occhiali necessari per guardare il mondo.
Non sono un di più. La letteratura, quella vera, è necessaria per trovare chiavi di interpretazione dell'io e del mondo.
E non è pensabile che solo i privilegiati possano offrire tali chiavi interpretative.
Il rischio concreto è una letteratura che finisca solo per parlarsi addosso. Scrittori di salotti buoni che scrivono storie ambientate in salotti buoni in cui i personaggi sono scrittori ricchi. Del tutto avulse dalla realtà.
Per indagare il mondo bisogna innanzi tutto vivere in mondo. Vivere la società, esserne parte.
L'editoria non può accontentarsi di chi gioca a fare lo scrittore per hobby perché ne ha la possibilità, per il semplice fatto che così ci neghiamo la fetta forse più interessante di possibili autori. Quelli che non vivono nelle ville, non hanno attici nei centri storici.
Facciamo un gran parlare dell'autorefernzialità del cinema italiano, che parla solo dell'alta borghesia bene o con lo sguardo dell'alta borghesia bene, perché, al 99% è fatto da esponenti dell'alta borghesia bene, che se lo possono permettere.
Senza nulla negare ai grandi autori che possono nascondersi nell'alta borghesia bene, io non voglio SOLO questo genere di letteratura. Non mi interessa leggere SOLO libri scritti da chi se lo può permettere. Voglio leggere anche libri scritti da chi sentiva l'IMPERATIVO MORALE di scriverli. La NECESSITÀ di raccontare una storia, al di là del suo conto in banca.
Sono molto più preoccupata come lettrice che non come autrice. 
Come autrice in qualche modo ce la posso fare (non nel self, ovviamente). Sono più o meno in pari e so fin dove posso spingere i miei sogni.
Ma come lettrice sento di non potermi perdere delle storie solo perché l'autore non ha la forza di ottimizzarle da solo o di promuoverle

Ho ancora bisogno di editori che credano in autori non ancora del tutto maturi, che li facciano crescere fuori dall'ottica del "meglio un best-seller subito che un autore di culto domani", che li promuovano al di là della loro forza personale. Ho bisogno di editori che cerchino autori in grado di interpretare la realtà, di raccontare le vita fuori dagli schemi abituali. Per usare parole desuete, ho bisogno di autori che facciano cultura e non guadagno immediato.
Ce li ho bisogno come lettrici ben prima che come autrice.

E, chiaramente, non posso che chiedere a voi: la scrittura rischia di diventare un hobby per ricchi?