mercoledì 30 settembre 2015

Quando un manoscritto è pronto per l'invio? – Praticamente


Quando un figlio può fare a meno dei genitori?
Il cuore di ogni mamma ha una risposta chiara e semplice per questa domanda: MAI!!
Il rischio è che anche l'autore si comporti come un genitore disperato all'idea che il proprio figlioletto se ne vada di casa e che cerchi in ogni modo di rimandare il distacco.
In parte è per la sensazione di perdere il controllo sulla propria creatura, accettare che sia ormai diventata altro da noi, in grado di vivere di vita propria. In parte è pura è semplice paura del giudizio. Mandare nel mondo il nostro manoscritto, a un agente, a un editor, a un editore, anche solo a un lettore beta, vuol dire accettare che qualcuno emetta dei giudizi su di esso. Potrebbe dirci che non gli è piaciuto, che non è adatto alla pubblicazione o addirittura che abbiamo buttato via il nostro tempo.
Eppure è un passo che va fatto, prima o poi.
Ho visto in un documentario delle anitre fare il nido in cima a un'altissima rupe, dove nessun predatore può arrivare. Arriva il momento, però, in cui gli anatroccoli, che ancora non sanno volare, devono buttarsi di sotto, cercando di mirare al morbido tappeto di muschio che sta intorno a una polla d'acqua. Sbagliassero mira e arrivassero sulle rocce, per loro non ci sarebbe niente da fare. E sono così piccoli e così fragili che obbligarli al salto pare una follia. Tuttavia nel nido, pur così sicuro, non c'è cibo. Quindi, saltare o morire.

Quando siamo pronti al salto?

Impaginazione gradevole e di facile lettura

Sembra una sciocchezza, ma pare che arrivino a editor, agenti e editori manoscritti letteralmente illeggibili. Assicuriamoci quindi che la nostra impaginazione sia ordinata e di facile lettura.

Niente caratteri stravaganti, per segnalare pensieri o passaggi particolari basta il corsivo.
Nel caso volessimo giocare con i caratteri, magari per un libro per bambini in stile "Geronimo Stilton", meglio spiegarlo nella lettera di presentazione e fornire solo una pagina o un capitolo d'esempio.

Niente scritture lillipuziane. Carattere almeno corpo 12.
Interlinea almeno 1,5.
Testo giustificato.

I dialoghi si possono scrivere in svariati modi. C'è chi usa «», chi (come me) –, chi altre notazioni grafiche. Le regole specifiche variano a seconda dei casi. Basta scegliere una versione e attenervisi per tutto il testo.

I capitoli separati da una interruzione di pagina.

Le pagine numerate.

Il file convertito in un formato di facile lettura o un PDF. Se si provvede a un invio cartaceo, meglio una rilegatura semplice, ma funzionale. 
Se la persona/la casa editrice a cui desiderate inviare il manoscritto ha delle regole specifiche è meglio attenervisi. A volte gli editori usano questo espediente come primo filtro del tipo "vediamo se almeno si è informato su di noi e su cosa vogliamo".

La caccia grossa al refuso è conclusa

Il refuso è l'incubo di noi tutti, sicuramente è il mio incubo.
I refusi peggiori sono quelli frutto di una revisione. In una frase decido di cambiare il soggetto (di solito a ogni revisione le mie frasi si accorciano), magari da singolare diventa plurale. Controllo bene, ma una parola nella frase rimane al singolare. Non è un errore ortografico che il correttore mi possa segnalare, leggendo velocemente il testo fila ugualmente e quindi il refuso rimane lì, magari per una, due, tre revisioni. Vuol dire che ne servono quattro, l'ultima delle quali mirata proprio a queste minuzie.
Bisogna inoltre rassegnarsi al fatto che QUALCHE refuso rimarrà. Inevitabilmente. Ma dovrà essere QUALCHE. Ovvero il numero minore possibile.
Nessuno si sognerebbe mai di bocciare un testo perché in 500 pagine ci sono tre concordanze sbagliate. Se però ci sono tre concordanze sbagliate in 5 righe è probabile che la lettura venga abbandonata a pagina 3.

Abbiamo ascoltato e valutato tutte le osservazioni degli eventuali lettori beta

Chi abitualmente si avvale dell'aiuto di amici lettori sa che ogni giudizio amatoriale su un testo è filtrato dal proprio gusto personale. Tuttavia archiviare le osservazioni come dettate esclusivamente dal gusto è quanto meno sciocco. Se un lettore ci segnala una dissonanza, al 90% dei casi un problema c'è, anche se il lettore non è riuscito a individuarlo con precisione.
"Quei tot capitoli mi sono sembrati un po' noiosi", ad esempio, è un bel campanello d'allarme. Può essere che il nostro lettore sia un fanatico dell'azione e che quei capitoli corrispondano alla storia d'amore tra i protagonisti, che lui giudica un'inutile melensaggine. È anche vero che, forse, abbiamo concentrato la storia d'amore tutta in pochi capitoli, causando una repentina interruzione delle altre linee narrative.

Anche alla millesima lettura, la storia ci emoziona ancora

A volte arriva un momento in cui l'autore non ne può più del proprio testo. Non ha più voglia di rovinarsi gli occhi alla ricerca dei refusi, di angosciarsi per quella svolta di trama che ancora non si sa se funzioni oppure no.
Eppure, nonostante tutto, quando rilegge il proprio testo si emoziona. È passato del tempo da quando l'ha pensato, da quando l'ha scritto, da quando per la prima volta ne ha avuto in mano la versione definitiva. Eppure ancora si emoziona.
Ci sono, purtroppo, fiori che appassiscono in fretta, passioni che si affievoliscono e fuochi che si spengono. Capita anche nella scrittura. Ci si rende conto che, forse, quella storia che ci appariva fantastica non lo è poi così tanto. Il mio computer è pieno di appunti e abbozzi di storie così, che non sono arrivate non solo a vedere la luce, ma neppure a compimento.
Se invece, a distanza di tempo, ancora la nostra storia ci entusiasma, allora vuol dire che ha diritto a provare a vivere al di fuori di noi e del nostro computer.

Accettare il fatto che la nostra storia non sia ancora perfetta

E che parta così, verso l'ignoto, con questa sua intrinseca imperfezione.
Può darsi che incontri un animo sensibile, che ne apprezzi il valore e ci aiuti a migliorarla.
Può darsi che ci vengano segnalati gli errori che contiene e che il suo scopo, nella nostra vita, non sia altro che un utile esercizio per l'opera successiva.
Bisogna accettare che quasi nessun testo è stato pubblicato così come l'autore l'ha concepito la prima volta. Ci sono casi illustrissimi di capolavori su cui gli editor (o i loro antenati) hanno a lungo lavorato di lima, prima di renderli le opere che oggi conosciamo. Ho scoperto da poco, ad esempio, che La certosa di Parma è stato sfoltito dall'editore di quasi 300 pagine. La storia dell'editing dei racconti di Carver, invece, è nota ai più.
Quasi certamente la nostra opera contiene imperfezioni che ci verranno fatte notare.
Se siamo fortunati, da questa consapevolezza nascerà una nuova, migliore versione del nostro scritto.
Esiste poi la possibilità che la nostra opera non venga considerata valida. In questo caso possiamo prendercela con il Grande Complotto, con gli Alieni e i Grandi Antichi, ma può essere, semplicemente, che non sia abbastanza matura.
Se noi stessi non siamo abbastanza maturi per affrontare questa eventualità, allora di sicuro la nostra opera non è ancora pronta. Meglio tenerla nel nostro cassetto, convinti di cullare un capolavoro, piuttosto che dare in escandescenze per un giudizio negativo.

Tenar e il suo manoscritto
Io sono qui, in ansia come ogni autore in procinto di gettare nel mondo la propria opera. Devo revisionare gli ultimi capitoli. Capire se un'ulteriore rilettura sia necessaria. E poi osare. Cercare una strada per la mia storia. 
Mi sento come se avessi passato gli ultimi mesi a distillare una sola, splendida goccia d'acqua. Salvo poi rendermi conto di vivere circondata dai fiumi, dai laghi, dai mari. E la mia è solo una (splendida) goccia d'acqua che deve unirsi al grande flusso. Come posso sperare che riluca in mezzo a tutta quell'abbondanza di luci? Nelle mie mani, dov'è sola, mi appare bellissima, ma là fuori...
Non ho alternative. Devo farle affrontare il mare aperto.

Voi cosa ne pensate? I vostri manoscritti sono pronti per l'invio?

lunedì 28 settembre 2015

Inside out – Visioni

Dopo le ultime due settimane, un we di tutto riposo ci voleva, comprensivo di ronfate fino a tarda ora,  chiacchiere con gli amici e serata al cinema.

Inside Out è il nuovo film della Pixar e si pone l'obiettivo di mostrare il funzionamento del cervello, o, meglio il funzionamento di un cervello, quello di una ragazzina nella difficile età tra infanzia e pre adolescenza.
Nella sua testa le cinque emozioni basilari, Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto hanno sempre dato vita a una personalità allegra, con Gioia a capo del gruppetto e Tristezza un po' in disparte. Una ragazzina felice, quindi, formata da un'infanzia serena. Quando la famiglia, però, si trasferisce a San Francisco, all'interno della piccola avviene un letterale terremoto emotivo. Gioia e Tristezza vengono risucchiate nella memoria, lasciando la ragazzina in preda a Rabbia, Paura e Disgusto...

La Pixar si è sempre mostrata in grado di fare l'impossibile. Negli anni ci ha fatto commuovere per un robottino, ci ha convinto che mettere un ratto in cucina fosse un'ottima idea, ha raccontato la terza età e la morte con una dolcezza struggente. Eccola quindi a realizzare un film altamente concettuale sul funzionamento della psiche umana a misura di ragazzino. 
Con apparente estrema semplicità si mostra la nascita di emozioni complesse sulla soglia dell'adolescenza, rivalutando il ruolo della tristezza, vera eroina del film, che sì, trasforma i ricordi felici del passato in malinconia, ma fa anche comprendere l'importanza delle cose.
Forse non adattissimo ai più piccoli (il film si rivolge ai coetanei undicenni della protagonista o a ragazzini appena più giovani), mostra con delicatezza cosa accade dentro di noi, ricordando agli adulti cosa si provi a undici anni e spiegando ai ragazzi quanto incomprensibili si possa essere agli adulti.

In tutta questa meraviglia di rappresentazione visiva e di perfetta concettualizzazione, forse, si perde un poco l'aspetto emotivo. Si guarda il film più per scoprire il "come è fatto" (come sarà realizzato il Pensiero Astratto? E la produzione dei sogni? E l'inconscio) che il "cosa succederà poi". Dà molti spunti di riflessione, sia agli adulti che ai ragazzini, ma non muove a commozione. 
È chiaro l'intento di mostrare l'impatto emotivo tutto interiore di eventi che drammatici non sono, tuttavia mi rimane l'impressione di essere di fronte a una pellicola, è il caso di dirlo, più di testa che di cuore.

Inside Out rimane una pellicola memorabile, con una rappresentazione della psiche così iconica che entrerà probabilmente nell'immaginario pop. Difficile uscire dal cinema senza chiedersi quale delle emozioni base governi la nostra consolle e quella degli altri.
Difficile per me non guardare i miei alunni, proprio esemplari appartenenti a quell'età così delicata, senza immaginare le isole della loro personalità infantile crollare a una a una, mentre si accende il pericolossimo tasto "pubertà".

Infine, è un'ottimo punto per gli scrittori: mai dimenticarsi di chiedersi quale emozione base domini la psiche del proprio personaggio!

sabato 26 settembre 2015

Giorni di ordinaria follia scolastica...


È sabato mattina. Il sole accarezza i petali delle ultime rose, il persiano sonnecchia sul divano e anche la gatta vera viene a chiedere due coccole. Io ho aperto gli occhi alle 10,40 e penso che tutto sia perfetto, che questo è proprio il mondo e il modo in cui voglio vivere.
Poi vedo i rotolini di polvere e pelo di gatto che attraversano il soggiorno come quei cespugli rotolanti dei film western, la borsa abbandonata semi aperta, la pila di carte a fianco del computer e la pila di panni vicino al ferro da stiro e pian piano i ricordi delle ultime settimane riemergono. 
Realizzo che è da lunedì 14 settembre che non mi siedo con calma a scrivere un post.
Cos'è successo da allora? Un po' di tutto, in realtà, trasferte improvvise, corse folli, problemi allergici e la grande follia della scuola.
Ah, la scuola...

Vi ricordate la riforma, il fatto che non ci sarebbero stati più precari? Infatti lunedì 14 settembre i ragazzi sono andati a scuola e i precari non li hanno trovati. Hanno trovato le cattedre vacanti. Niente prof di italiano e matematica. Chissà, magari quest'anno queste materie sono state abolite? Così come i prof di sostegno?
Il fatto è che la riforma non ha tenuto conto che, assumendo solo gli insegnanti abilitati prima di una certa data, quelli iscritti nelle così dette GAE (Graduatorie ad Esaurimento, nervoso, suppongo io) alcune classi di concorso sarebbero rimaste scoperte. Matematica e Italiano hanno molte ore, quindi servono più insegnanti e i precari delle Gae risultano pertanto già tutti di ruolo. Il sostegno ha avuto dei percorsi abilitativi erratici e complicati, così che molti docenti che vi si vogliono dedicare non hanno potuto abilitarsi. Risultato: classi senza prof di italiano, matematica e sostegno.
Che fare?
Si attiva la così detta "Scuola Polo" che dovrebbe organizzare i precari, ma già lei non è molto organizzata, il ministero poi non aiuta. A ridosso di inizio scuola fa compilare dei moduli on-line a chi, come me, ha appena conseguito l'abilitazione, per far valere il proprio titolo. Ovvio che questi moduli non si visualizzino tutti all'istante, non sia chiaro come far valere i punteggi. Poi si viene invitati a compilare un secondo modulo, che però non viene messo on-line...
Insomma la "Scuola Polo" fa una prima convocazione giovedì di settimana scorsa. Ci presentiamo in tremila, troppi. Loro dicono che siamo noi a non aver capito, loro si rendono conto di non capirci niente e ci rimandano a casa, ri convocati martedì.

Martedì si è fatto un po' d'ordine sulle cattedre vacanti e su chi abbia conseguito l'abilitazione. Io sono schizzata quasi in cima alla graduatoria e catturo senza problemi la mia 3/4 di cattedra nella scuola col pontile, che nel mentre si è trasformata in cattedra completa abbondante. Mi rilasso appena, mentre dopo di me si scatena il caos.
Allora, so che sembra assurdo, ma la cosa funziona così:
Ogni candidato ha un punteggio in base al quale viene chiamato a scegliere la sede.
Ogni candidato, però, può far valere il proprio punteggio solo su un numero limitato di scuole. Quando esprime la propria scelta, un delegato della scuola deve confermare di averlo nel proprio elenco.
Ogni candidato, in caso di spezzoni, può cumulare tre scuole, disposte su un massimo di due comuni e deve essere nell'elenco di tutte le scuole.
Il Tetris a confronto è niente.
Oltre tutto quest'anno c'erano molti docenti inesperti, o arrivati da altre province, che non ricordavano a memoria le proprie sedi disponibili. Alcune scuole non avevano inviato un loro delegato e quindi si ricorreva a lunghe e continue telefonate ai dirigenti.
Aggiungiamoci vari problemi tecnici, tra cui un momento esilarante in cui tutto si è bloccato perché non si trovava una singola penna nera per firmare le prese di servizio!

Alle 19.30 erano tutti stremati, ma con ancora una ventina di cattedre da assegnare. Si trattava, ovviamene, di cattedre in scuole molto periferiche, che pochi avevano in elenco.
Quindi il responsabile ha chiamato una sorta di mischia rugbistica, con tutti i candidati intorno alla cattedra, scorreva velocemente i nomi e quando si veniva nominati bisognava imporre la propria presenza. I rappresentanti delle scuole dovevano come in un quiz televisivo rispondere immediatamente se avevano oppure no il candidato in elenco.
Alle 20.30 tutte le cattedre sono state finalmente assegnate, salvo scoprire nelle ore e nei giorni successivi che qualcuno si era sbagliato (strano, vero?) con conseguenti ricollocazioni tra prof.

Le mie colleghe, compagne di viaggio e di sventura, hanno catturato una cattedra in quegli ultimi momenti di follia, quando è stato detto, tra l'altro che tutte queste nomine sono provvisorie.
Il ministero provvederà a ricalcolare il punteggio di noi abilitati, onde stilare una nuova e più precisa graduatoria... 

Mercoledì ho quindi preso servizio alle 8.00 in punto. Ho trovato colleghi stremati che per dieci giorni hanno fatto i salti mortali per coprire i buchi e (alcuni) alunni rinselvatichiti. Ne sono conseguite una serie di riunioni straordinarie, ad aggiungersi alla follia di iniziare a lavorare ad anno iniziato, con libri da recuperare, un ritardo già accumulato sui programmi etc. etc...

In tutto il cielo ci ha messo la sua parte, con mattinate a 7° e pomeriggi a 27°, per una situazione di totale anarchia organizzativa, del tipo "esco, non so cosa devo fare, non so a che ora torno, non so come mi devo vestire, non so che materiale portare, va be', speriamo bene..."

Per fortuna c'era il lago ad accoglierci, c'erano i colleghi, assai comprensivi per il nostro disorientamento da precari, c'erano i ragazzi, a ricordarci che alla fine è per loro che lavoriamo e che non si meritano di subire i nostri (comprensibili) malumori.

In tutto questo io avrei un romanzo da revisionare, che avrei già dovuto spedire da un po' a chi di dovere e invece è ancora fermo, con 100 pagine ancora da riguardare...
Faremo, come sempre facciamo noi precari della scuola, inventandoci il lavoro tra i buchi dell'organizzazione ministeriale, supplendo con l'inventiva al tutto il resto. Felici, nonostante tutto, di avere ancora una speranza di lavoro.

giovedì 24 settembre 2015

Ritorno a Baker Street


Come potete intuire dall'immagine, un altro mio racconto è giunto a pubblicazione.
Si tratta de Il caso dell'assassino smemorato, vincitore dell'ultimo Sherlock Magazine Award e farà compagnia al bel racconto di Patrizia Trinchero Fantasmi asfagani sul numero 35 della Sherlock Magazine.
Alla rivista di Delos ci si può abbonare, oppure si può acquistare il singolo numero, cartaceo o digitale.

Ho tantissima voglia di avere io per prima in mano la rivista, per leggere gli altri racconti e gli articoli e per tornare a Baker Street. Un ritorno di cui sento di aver bisogno. Appena terminerò (la terminerò mai?) la revisione del romanzo, inizierò a scrivere un apocrifo sherlockiano e già ne pregusto il piacere.
Piacere, del resto, è la prima parola che associo alla lettura e alla scrittura di apocrifi. 
Per quanto riguarda la scrittura non si tratta MAI di narrazioni facili. Ci sono vincoli tecnici linguistici e stilistici non indifferenti. Bisogna cesellare il proprio racconto affinché possa essere inserito negli interstizi della narrazione "ufficiale" e con la storia non si scherza mai. Ho imparato più cose sulla fine dell'800 documentandomi per degli apocrifi che in tutti i miei anni di studi.
Eppure per me è un piacere, così intenso che lo centellino, "tenendo in caldo" i racconti da scrivere per i momenti di bisogno.
Ho l'impressione di entrare fisicamente nel salotto di Baker Street, sentire il calore del fuoco, bere un buon the servitomi dalla signora Hudson, pronta a una chiacchierata stimolante. Mi sento tra amici. Sarà che nella vita vera ho il privilegio di conoscere un paio di persone che non sfigurerebbero nella famiglia Holmes (messaggio in codice per loro: Lele, ripensandoci, qualcuno poteva fare ben di peggio, non ha neanche finto ti essere finito in fondo a una cascata...). Sarà che discorrere di delitti mi mette di buon umore, sarà... Ma io a Baker Street sto proprio bene.
Proprio come Watson, sono contenta che Holmes mi trascini sempre in avventure insolite. Non mi intimoriscono i suoi modi eccentrici e spesso bruschi. Curiosamente, una volta che si entra in confidenza e si impara a rispettare i suoi spazi, Holmes si rivela un personaggio tutt'altro che intrattabile. Quasi fosse orgoglioso di fare vedere a quest'autrice di un altro tempo tutto quello che sa fare.
Watson poi è, per certi versi, un personaggio tutto da scoprire.
Holmes fa tanto il misterioso, ma il suo è più che altro un atteggiamento. Se gli si dà corda, finisce che raccontare anche della nonna, parente di un pittore paesaggista. Watson, invece, è chiuso come un'ostrica. Nel tempo, quella sua scarsa propensione a parlar di sé gli è valsa una fama non troppo lusinghiera, ma del tutto immeritata. Nei racconti originali, ascoltando i suoi silenzi e tracciando i contorni della figura che appare dietro i suoi mezzi accenni, esce il ritratto di un uomo tutt'altro che banale, con tanto dolore sulle spalle e una gran voglia di riscatto.

È curioso che sia il mio racconto, che quello di Patrizia Trinchero, partano dallo stesso presupposto. Watson ha servito come ufficiale medico nell'esercito, in Afganistan e lì è accaduto qualcosa che può causargli guai seri anche ad anni di distanza...

Presentazione racconto
Il caso dell'assassino smemorato
Il Watson ritornato dall'Afganistan, quello che conosciamo nelle prime pagine de Uno studio in rosso, è un uomo distrutto. Gravemente ferito in guerra, è considerato invalido e pertanto congedato. Zoppica, ha i nervi a pezzi, la salute malferma e non può pertanto lavorare regolarmente. È per questi motivi che divide un appartamento con un giovane consulente detective.
A un anno dal ritorno, Watson sta visibilmente meglio e affianca il coinquilino, ormai un amico, in alcune indagini, ma non si può dire che l'esperienza afgana sia stata dimenticata.
Da una serata passata in compagnia di altri reduci, il dottore rincasa tardi, ubriaco al punto da avere i ricordi confusi. Non è questo, però, ciò che preoccupa il suo coinquilino. Quando il detective Lestrade suona alla loro porta, Holmes è convinto che sia lì per arrestare Watson. Quello che neppure Sherlock Holmes può immaginare è che il dottore venga accusato di omicidio e che Watson, pur non ricordando gli avvenimenti della notte precedente, dichiari di aver effettivamente voluto uccidere la vittima.
Mentre Watson è costretto, in carcere, a ricordare alcuni degli episodi peggiori della sua vita, Holmes si lancia sulle tracce della verità, convinto che non tutto sia come sembri...

Vi invito a leggere il mio racconto e quello di Patrizia e anche a raccontarmi quali sono per voi i luoghi della narrazione in cui più vi sentite a casa.

martedì 22 settembre 2015

Il mio racconto in Aspettando Mondi Incantati


Forse, dico forse, oggi pomeriggio termineranno le assegnazioni delle cattedre e forse, dico forse, la mia vita prenderà dei ritmi più regolari.
Questo clima di attesa, tuttavia, è l'ideale per presentare 


Si tratta di un e-book acquistabile su Amazon a 4,99€ contenente trenta racconti, i finalisti del trofeo Rill, uno dei principali concorsi italiani per racconti fantastici, nelle edizioni 2013, 2014 e 2015.
Io sono presente tra il finalisti del 2015 con il racconto Notte Stellata.
Credo che questo significhi, tra l'altro, che quest'anno sono finalista al trofeo Rill!!
Spero quindi di avere la possibilità di parlare anche più avanti di questo racconto, ma non posso non anticipare qualcosa.

Notte stellata
È il meno fantastico dei miei racconti fantastici.
Nasce tutto da una frase, da un paradosso.
Ci sono luoghi che sembrano fatti apposta per essere infestati. Altri no. Chi immaginerebbe un fantasma a Milano, oggi, chiuso in un appartamento del centro? 
Non un fantasma d'altri tempi, non uno sfortunato eroe romantico, ma un politico colluso e cinico che, dopo la morte, non è più riuscito a uscire dall'appartamento che aveva acquistato per incontrarsi con l'amante...

Per la prima volta sono anche ospite in un altro blog!
Oggi mi trovate su Penna Blu a parlare, come spesso succede, di letteratura di genere


Vi segnalo inoltre che è iniziata una collaborazione più stretta con la rivista on-line Sherlock Magazine, dove potete trovare le mie recensioni di gialli e di apocrifi sherlockiani.

domenica 20 settembre 2015

I reietti dell'altro pianeta – Riletture (retrospettiva Le Guin)


Dire che queste giornate sono state intense è riduttivo. È successo un po' di tutto, al punto che ogni stato d'animo è giustificato: euforia e profondissima tristezza, sollievo e ansia. Una persona che conoscevo da sempre se n'è andata all'improvviso, ho dovuto correre a Torino a recuperare un documento molto importante (positivo e per altro arrivato assai prima del previsto), le convocazioni sono state un caos confuso, ma così confuso che il provveditorato ha deciso di rimandare tutto a martedì. Infine, ciliegina sulla torta, una bella crisi allergica con tanto di attacco d'asma in piena notte per ragioni tutt'ora sconosciute.
Volevo scrivere un post tosto sulla scrittura, la revisione o l'invio del manoscritto, ma ho deciso di premiarmi con la seconda puntata della retrospettiva Le Guin, che mi mette sempre di buon umore.

I REIETTI DELL'ALTRO PIANETA: ma che razza di titolo è?
Questo è esattamente il primo pensiero che ho fatto io, quando, nel 2003, ho trovato questo romanzo in libreria. Ma era della Le Guin, di cui avevo letto all'epoca solo Earthsea, quindi, grazie al Cielo, l'ho acquistato ugualmente.
Il titolo originare è:
Dispossessed. An ambiguous utopia.
Persino il mio inglese mi permette di tradurlo. 
Fa molto trattato filosofico/politico, vero? 
Ebbene, è così che dev'essere. 
Lasciamo le magiche isole sotto cieli solcati dai draghi e inoltriamoci nelle ambiguità delle utopie.

I REIETTI DELL'ALTRO PIANETA
Dispossessed. An ambiguous utopia

Ci sono due pianeti gemelli, Urras e Anarres. Gli abitanti di entrambi i mondi considerano l'altro "la luna", sanno che è abitato, ma non ci sono mai stati. 
Urras è un lussureggiante pianeta dove impera la società capitalistica, con tutti i suoi pregi e le sue contraddizioni. Sul desertico Anarres è migrato un gruppo di anarchici non violenti (le cui teorie sono ispirate al pensiero di alcuni anarchici pacifisti statunitensi di fine '800) per costruirvi una società perfetta.
Su Anarres tutto è in comune, la famiglia stessa non esiste, anche se alcuni individui tendono a formare coppie stabili. I bambini, cresciuti in comunità, imparano ben presto a "non egoizzare" a non considerare nulla come loro e tutto della comunità. 
Su Anarres nasce e cresce Shevek, un fisico teorico di quelli in grado di cambiare la visione dell'universo intero. Sin da giovane Shevek si rende conto che l'utopia perfetta in cui è cresciuto non è priva di ombre e tende a distruggere ogni voce dissonante. Inoltre, nella chiusa e autarchica Anarres, gli studi di Shevek sono del tutto inutili, se non dannosi. Anarres non vuole comunicare con i mondi esterni, non vuole viaggiare nello spazio.
Ben diversa è la situazione di Urras, dove da poco sono sbarcati gli alieni, cioè altri esseri umani, che vivono in altri mondi, a cui si sono variamente adattati. Gli studi di Shevek, che potrebbero rendere possibili comunicazioni istantanee e un nuovo motore spaziale, su Urras fanno gola a molti. Il fisico decide quindi di lasciare il suo mondo natale per recarsi "sulla luna", per poter completare le sue ricerche, che su Anarres vengono osteggiate. Ma una volta arrivato su Urras non potrà che guardare la luna, Anarres...

Il romanzo non procede in ordine cronologico. I capitoli pari raccontano la giovinezza di Shevek, dalla sua nascita alla sua scelta di lasciare Anarres, quelli dispari, invece, narrano la sua esperienza su Urras. A inizio di ogni capitolo un disegno permette di collocare il protagonista all'interno di uno dei due pianeti.
In questo modo il lettore scopre in contemporanea Urras e Anarres, con occhi prima sognanti (quelli di un bambino per la parte di Anarres, quelli di uno straniero affascinato per Urras) e poi via via sempre più consapevoli.

Di utopie e di uomini imperfetti
Uscito nel 1974, questo romanzo ha vinto, l'anno seguente, tutto ciò che poteva essere vinto da un romanzo di fantascienza (premio Hugo e Nebula). 
Si era in piena guerra fredda ed è stato interpretato come un'allegoria di quella situazione.

Letto a guerra fredda ormai finita da un pezzo, il suo fascino è, a dire il vero, accresciuto.
Quello che colpisce immediatamente il lettore è la descrizione della società di Anarres che non è il comunismo di stampo sovietico. È un comunitarismo utopico che, però, viene rappresentato come perfettamente funzionante. Tutto è in comune, la famiglia stessa è stata destrutturata e l'arido clima di Anarres crea nella popolazione un senso di assedio perenne, che costringe a stringere i denti, restare uniti e sentirsi eroi. 
Anarres affascina. È difficile non pensare, leggendo dell'adolescenza di Shevek, priva di vincoli e pregiudizi che non sarebbe male crescere su Anarres. Affascina anche quando il lettore inizia a percepirne le storture e il sottile condizionamento che un'oligarchia inizia ad esercitare. 
Vi sono inoltre delle debolezze strutturali. La bellezza, l'arte è un lusso, che spesso Anarres non può permettersi. La salute è un lusso che Anarres non può permettersi. L'aspettativa di vita su Anarres è terribilmente più bassa che per i ricchi di Urras e, nel profondo, gli uomini si ribellano all'idea di essere solo copie conformi le une delle altre, destinate a vivere una breve vita di fatica, per essere dimenticati da tutti. C'è qualcosa di spersonalizzante nella società di Anarres che la fa sentire curiosamente ingiusta.
Eppure, è anche nei capitoli dedicati ad Urras che si sente il fascino di Anarres. Perché, con tutte le sue storture, Anarres è meglio di Urras. 
Alla fine, l'impressione che rimane a lettura conclusa, è che l'uomo non sia capace di raggiungere la perfezione. Qualsiasi utopia, tradotta in realtà, sarà per forza ambigua e imperfetta. Questo non vuol dire che non si debba provarci. Alla fine, il lettore non può non schierarsi con Shevek, più anarresiano di molti suoi pari, che cerca di migliorare ancora un'utopia che non sarà mai perfetta. Si tende all'infinito senza raggiungerlo mai, sapendo di non poterlo mai raggiungere. Ma smettere di provare sarebbe la morte stessa dell'animo umano.

Questo, però, non è solo un libro di filosofia politica (anche se è inutile nascondere che la filosofia politica ha un grande spazio) è anche la storia di una crescita personale, di un uomo introspettivo che ragiona su quello che vede e cerca, anche come individuo, una perfezione impossibile.

Benché sia un romanzo più freddo di altri della stessa autrice, non è un romanzo privo di sentimenti. Tutt'altro. C'è un passo, in particolare, che mi rimarrà impresso con forza, per sempre.
Nel gruppo di amici adolescenti di Shevek c'è un giovane letterato che scrive una commedia satirica e critica nei confronti del sistema. Accusato di essere un pericoloso sovversivo, gli viene impedito di scrivere. Shevek ritrova l'amico anni dopo, ormai pazzo, che ripete ossessivamente i passi di quella vecchia commedia. Amaramente, Shevek ragiona sul fatto che uno scienziato ha più difese nei confronti di un potere oppressivo perché ha la speranza in una ragione oggettiva, sa che qualcun altro, magari dopo di lui, convaliderà le sue teorie. Uno scrittore, invece, non può scindere se stesso dalla sua opera. Uno scrittore è la sua opera. Distruggendo completamente la sua possibilità di scrivere, si distrugge completamente anche la sua personalità.

Una scrittura di arida, struggente bellezza
Quando ho preso in mano per la prima volta questo libro, della Le Guin avevo già letto solo i primi quattro romanzi di Earthsea. Mi erano molto piaciuti, ma pensavo che quello fosse lo stile dell'autrice. Limpido, semplice, adatto a storie eleganti, ma tutto sommato lineari.
Di quello stile, qui, ho riconosciuto solo l'eleganza.
La prosa de I reietti dell'altro pianeta è di una precisione chirurgica. Lo sguardo sui mondi è quello di un fisico/filosofo. Le frasi sono brevi, ogni elemento è descritto con minuziosa precisione. I ragionamenti arrivano subito al dunque. Come Anarres, la scrittura è arida, non si perde in fronzoli o in aggettivazioni inutili. E tuttavia ha la sobria eleganza del deserto. La bellezza delle dune e delle rocce levigate dal vento. Una scrittura decisamente non sentimentale, ai limiti, a volte, del trattato, ma che non rinuncia mai alla ricercatezza formale. L'inizio, in questo senso, è folgorante:

C'era un muro. Non pareva importante. Era fatto di ciottoli uniti senza pretese, con un po' di malta. Gli adulti potevano guardare senza sforzo al di là del muro, e anche i bambini non avevano difficoltà a scavalcarlo. Dove incontrava la strada, invece di avere un cancello degenerava in una pura geometria, una linea, un'idea di confine. Ma l'idea era reale. E importante. Da sette generazioni non c'era nulla di più importante, al mondo, di quel muro.
Come ogni altro muro, anch'esso era ambiguo. bifronte.
Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendeva dal lato da cui lo si guardava.

La Le Guin non ha paura di insistere sulla ripetizione di una parola chiave. Le frasi sono brevi, precise. Dalla descrizione fisica si passa all'astrazione geometrica (è un fisico, un matematico, del resto, quello che sta guardando il muro) e poi subito al suo significato filosofico e simbolico.
Poche righe e siamo già nel cuore di Anarres e nella mente di Shevek.

Per la prima volta, leggendolo, mi sono resa pienamente conto della capacità della Le Guin di modificare il proprio stile in base alla materia narrata e di plasmarlo a immagine del mondo che intende descrivere. Non ci sono frasi ariose, su Anarres, né aggettivi decorativi. Non c'è nulla di arioso o decorativo nel mondo che sta descrivendo.

Tenar e I reietti dell'altro pianeta
Questo libro è stato una folgorazione. Credevo di leggere un'elegante favola per adolescenti e mi sono trovata in un testo dove la narrazione va a braccetto con la filosofia. 
Come sempre mi è capitato con quest'autrice, l'ho incontrato al momento giusto, a 23 anni, quando potevo apprezzare appieno i ragionamenti sulla società e l'evoluzione personale del protagonista, perché questo non è, decisamente, un romanzo per adolescenti.
Avevo da poco iniziato a scrivere e questa struttura temporale "a elica" e le caratteristiche stilistiche mi hanno folgorato. Mi ha folgorato la possibilità di giocare con la struttura e con la lingua. Il fatto che tutto sia coerente con i testo (unificare il tempo e lo spazio è lo scopo degli studi di Shevek, quindi la narrazione unifica due piani temporali e spaziali).
Come effetto collaterale, mi ha appassionato alla fisica. 
La Le Guin è una di quelle poche autrici di fantascienza che gioca nel rispetto della fisica moderna, con tutti i suoi paradossi. Il protagonista, poi, rimane affascinato dagli studi terrestri del XX secolo. E io, alla fine della lettura, ho iniziato a leggere articoli divulgativi di fisica...

Di questo romanzo è da poco disponibile una nuova edizione Mondadori, che ha la copertina che vedete a inizio post. 
Non posso che consigliarvi di leggerlo.
Vorrei chiedervi però cosa ne pensate del titolo italiano, se vi vengono in mente delle idee alternative di traduzione. 
Se ci sono altri libri di cui il titolo italiano non vi è proprio andato giù e per quali motivi.
Infine se grazie a un libro vi siete appassionati a qualcosa che proprio prima non vi interessava.

mercoledì 16 settembre 2015

Il questionario di Proust in un giorno di pioggia.


Piove.
Domani ci sono le convocazioni. Confido non abbiate creduto alla barzelletta secondo cui con la riforma tutti i mali della scuola siano stati sanati. Noi precari siamo ancora precari. Le cattedre vacanti sono vacanti. In più un tot di persone è stato costretto al trasferimento da una parte all'altra dell'Italia con un preavviso minimo (da noi hanno assegnato quelle cattedre lunedì, a scuole iniziate, così uno poteva scoprire, mettiamo da Catanzaro, che il giorno dopo doveva prendere servizio alle pendici del Mottarone, in alto Piemonte...).
Al momento il delirio sta giungendo delle vette notevoli, ma temo che non sia ancora all'apice. Ci sono moduli da compilare oggi per ieri che dovrebbero essere visualizzati dalle scuole, ma non risultano on-line. Ci sono cattedre che appaiono e scompaiono peggio delle oscillazioni della borsa e c'è tutta una popolazione di precari (tra cui io) prossima alla crisi di nervi.

Niente post impegnativo per oggi.
Approfitto del meme che sta girando in questi giorni tra i blog, che io ho letto prima da Marina e poi da Chiara e mi dedico anch'io al "Questionario di Proust", sperando che Proust stesso non si rivolti nella tomba.

Il tratto principale del mio carattere: 
Difficile dire quale sia il "principale". La curiosità intellettuale, suppongo. Mi faccio domande su tutto, non accetto dogmi, assiomi e dati di fatto. Se proprio non ci sono risposte, me le posso sempre cercare o immaginare...

Qualità che desidero in un uomo:
Intelligenza, sensibilità e apertura mentale.

Qualità che preferisco in una donna:
Intelligenza, sensibilità e apertura mentale.
Non capisco (preso atto che sono felicemente sposata e quindi non in cerca di partner) perché dovrei preferire qualità diverse negli uomini e nelle donne. Non siamo tutti esseri umani? Perché dovrei relazionarmi in modo differente?

Quel che apprezzo di più nei miei amici:
Quando parlo capiscono cosa voglio dire. (Cosa che spesso non capita, ahimè).  
Possono anche essere in capo al mondo, ma in caso di emergenza arrivano in un attimo.

La mia principale qualità:
Sono leale. 

Il mio principale difetto:
Sono insicura e irritabile.

La mia occupazione preferita:
Leggere, scrivere, correre.

Il mio sogno di felicità:
In realtà mi piace la vita che ho, la si potesse epurare di tutte le ansie quotidiane... E si potesse avere la certezza che i progetti in corso vadano a buon fine...

Mai senza:
Un libro.

Magari senza:
L'insicurezza galoppante e la sensazione di essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato con la battuta sbagliata.

Se fossi un animale: 
Uno scoiattolo. Piccolo, scattante, che salta agile tra i rami nel bosco e poi dorme acciambellato su se stesso con la coda sul musetto.

Pittori preferiti:
Difficile scegliere un preferito! Ho un quadro preferito, però. La madonna del Magnificat di Botticelli. Forse perché una volta agli Uffizi in una stanza eravamo solo io questo quadro, come se volesse ragliarmi un privilegio speciale, il farsi guardare da vicino, solo da me, senza alcuna interferenza. Segue a ruota il Tondo Doni di Michelangelo.

Il paese dove vorrei vivere:
In Scozia, se piovesse meno.

Il colore che preferisco:
Blu oltremare.

Il fiore che amo:
La violetta selvatica.

I miei autori preferiti in prosa:
U.K. Le Guin.
Marguerite Yourcenaur.

I miei poeti preferiti:
Difficile difficile anche qui.
Tutto sommato credo di scegliere Dante e la Commedia, se un poema passa per poesia. Sembra quasi riduttivo.

I miei eroi nella finzione:
Leggo Tex da che avevo otto anni e tradirlo sembra brutto.
Ned Ellis di Magico Vento ha un posto speciale nel mio cuore.

I miei musicisti preferiti:
Mi nutro di cantautorato. De André, Guccini e De Gregori, in quest'ordine. 

I miei eroi nella vita reale:
Penso in particolare a una persona che ho conosciuto e frequentato troppo poco, ma che ricordo con grande affetto e che mi ha insegnato cos'è davvero in coraggio: guardare la realtà senza nascondersi nulla, vivendo tutto ad occhi aperti e rimanendo fino alla fine fedeli a se stessi.

Quel che detesto più di tutto:
L'ipocrisia.

I personaggi storici che disprezzo di più:
Tutti coloro che, in ogni tempo, sentendosi nel giusto, si sono arrogati il diritto di decidere chi doveva vivere e chi morire.

Il dono di natura che vorrei avere:
Saper disegnare e/o dipingere.

Stato attuale del mio animo:
Più o meno come la pioggia di oggi.

Le colpe che mi ispirano maggiore indulgenza:
Credo che a volte si facciano errori terribili con le migliori intenzioni e a volte si cerca malamente riparo dalla solitudine e dalla tristezza. 

Il mio motto:
Ne sono tristemente priva. 
Credo di essere troppo complicata per riconoscermi in una singola frase.

lunedì 14 settembre 2015

Piovono Libri – Il giro di vite (e Certosa di Parma)


Prima esperienza al Gruppo di Lettura
Non è meravigliosa l'idea che degli adulti, impegnati con lavoro e famiglia, senza che nessuno li obblighi, si trovino a parlare di libri e decidano di leggere insieme dei classici, magari quei tipici romanzi che non vengono più presi in mano dalle superiori?
Io trovo quest'idea di raro romanticismo. 
Quando delle amiche mi hanno parlato del loro gruppo di lettura, però, avevo anche un po' paura. Non sarà uno di quei ritrovi tristi di persone tristi che vogliono sentirsi intellettuali per dare così un'aura di prestigio a una vita grigia? Certo, le mie amiche non sono né tristi né grigie, ma non si sa mai...
Invece il bello di leggere insieme un classico sta anche nel poterlo dissacrare, poterne parlare male, poterne ironizzare. Per fortuna lo spirito di Piovono Libri è questo. Niente verbosità, tanto cibo, qualche alcolico, e un sacco di risate.
Si inizia con un gioco, divisi in due squadre bisogna essere rapidissimi a ricordarsi cosa indossava quel personaggio, dove andava quell'altro e chi ha detto cosa. Vincere è importante: a fine serata vengono estratti due titoli e il gruppo vincente sceglierà quale dei due sarà la prossima lettura.
Si passa poi a parlare dei libri letti. Se sono stati una sofferenza li si può "gettare giù dalla torre", espressione che trovo molto catartica. Se sono stati interessanti, si può scoprire che gli altri lettori ci hanno visto dentro tutt'altro, rispetto a quello che abbiamo trovato noi. Del resto a questo serve la narrativa, a creare continuamente nuovi significati.
Infine si consiglia o sconsigliano altri libri letti, dai saggi ai comici passando per le saghe famigliari. Nel mentre si chiacchiera, si mangia, si ride in un gioioso informalismo letterario. Alla faccia di chi associa i classici alla noia.

Il giro di vite
Mi sono inserita nel gruppo con la lettura di uno dei due libri dell'estate, Il giro di vite di Henry James.
Le mie impressioni, leggendo, sono state peculiari. All'inizio sono stata colta da un profondo senso di metaletterarietà. Praticamente c'è un circolo letterario (o qualcosa di molto simile) come io immaginavo essere il gruppo di lettura, all'interno del quale vengono narrate delle storie. Uno dei membri propone la lettura di un diario di un'istitutrice che, alla prima esperienza, si è trovata in assai strane circostanze. Da questa cornice si passa quindi al racconto in prima persona dell'istitutrice, sola insieme a una governante e a pochi altri domestici a prendersi cura di due bambini in una tenuta solitaria dove qualcosa di sinistro è probabilmente in atto.
La mia seconda impressione è stata di trovarmi nella versione maschilista di Jane Eyre. Tante erano le caratteristiche in comune, l'istitutrice alla prima esperienza, il padrone assente, la presenza inquietante nella casa, ma se nel romanzo della Bronte Jane è sicuramente un personaggio forte e positivo, qui l'istitutrice è nel migliore dei casi una sprovveduta, nel peggiore una povera pazza.
Andando avanti nella lettura, mi sono resa conto però che il tema principale dell'opera è il non detto. La casa dove la ragazza va a lavorare è oppressa dai misteri. Sono accadute cose innominabili (la morte della precedente istitutrice, l'espulsione da scuola del bambino più grande) che rimangono tali. Per convenzione sociale, per differenza di status tra i diversi personaggi è impensabile fare delle domande dirette, la verità non solo non viene a galla, non viene neppure cercata attivamente, con i risultati che si possono immaginare.
Proprio per il tipo di romanzo e i temi trattati ho apprezzato particolarmente la discussione. Da brava strutturalista io raramente mi curo di biografie e storie degli autori, preferendo, almeno a primo impatto, giudicare un testo solo in quanto tale. I miei compagni di lettura hanno fugato i miei dubbi su un eventuale maschilismo di James. Pare che l'autore fosse definito "la più gentile anziana signora" e "virtuosa signorina" e non avesse alcun odio per il gentil sesso. Partendo da questo c'è chi ha ipotizzato che sentisse particolarmente il peso del pettegolezzo e delle convenzioni sociali inglesi che tanto gravano sulla protagonista del romanzo che sarebbe quindi vittima di una società che preferisce la rispettabilità alla verità. 
Quanto al non detto, ognuno ha riempito i vuoti a modo suo, c'è chi ha sospettato che i bambini fossero vittime di abusi chi, come me, immaginava una svolta sovrannaturale, anche se quasi tutti abbiamo considerato l'istitutrice inaffidabile.
Personalmente ho trovato Il giro di vite un'opera di raro fascino, scritta con molta eleganza. Ne avevo sentito parlare molto poco e probabilmente senza il gruppo di lettura non mi sarebbe mai capitata per le mani.

La certosa di Parma
Solo pochissimi coraggiosi hanno finito La certosa di Parma. Dei tre, uno la scaglierebbe giù dalla torre (in testa ad autore e protagonista), una la salva per il valore storico, la terza ha riso molto leggendola (Elena, ti adoro, lo sai), ma forse non era questa l'intenzione di Stendhal. 
Tra i loro commenti e quelli di chi ha abbandonato la lettura stremato ho capito le seguenti cose:
– Il primo capitolo fa dubitare chiunque di essere capace di leggere. Non si capisce nulla.
– Stendhal ha un'idea tutta sua della geografia italiana o forse, dati i tempi di percorrenza, dota i suoi personaggi di carrozze con motorizzazione al plutonio.
– A trent'anni si è irrimediabilmente vecchi, sopratutto se si è donne.
– Fabrizio Dongo, il protagonista, pare avere affinità con Il Trota, il figlio di Bossi. Escludo sia un complimento.
– La storia pare ispirata a quella della famiglia Farnense.
– Forse Stendhal amava l'Italia e gli italiani, ma pare lo nasconda molto bene, dato che non fa che parlarne male.
– Il libro è dedicato agli Eletti, loro solo ne capiranno il senso. Noi non siamo eletti. Forse leggendolo al contrario si evoca il demonio, o lo spirito di Stendhal, in ogni caso è meglio astenersi.

Il prossimo libro in lettura è La luna e i falò. Io con Pavese ho un rapporto controverso e ne ho paurissima...

Piccolo angolo di autopromozione
Sono finalista al concorso Giallo Laghi, organizzato dalla sempre attivissima Ambretta Sampietro in collaborazione con Giallo Mondadori (che pubblicherà il vincitore).
Alla proclamazione dei finalisti, per motivi personali, ero particolarmente sconvolta, quindi ero pochissimo di compagnia e non ho salutato un tot di persone (che non ho visto, che ho visto e che poi ho perso...) e mi scuso con tutti.
Io invece sono felicissima di essere in finale. Ringrazio enormemente la giuria che in tempi molto brevi ha letto 103 racconti, una quantità immenso!!!
Adesso i finalisti andranno in mano a una seconda giuria che stabilirà i vincitori.
Faccio a tutti un grande in bocca al lupo. 
Qui per tutti i particolari

venerdì 11 settembre 2015

Si può leggere (e scrivere) solo Alta Letteratura?


Lo spunto, anche se indirettamente, mi viene da questo post di Helgaldo, ma anche dall'atteggiamento di alcuni lettori e alcuni autori.
In Italia noi lettori siamo un'esigua minoranza. I lettori forti, quelli da più di un libro al mese, sono la minoranza della minoranza. Dovremmo farci forza, stringerci gli uni agli altri a cerchio, come fanno i buoi muschiati contro i lupi. Invece siamo sempre con i capponi, pronti a becchettarci tra noi, fino al momento in cui cala la mannaia.
Quindi ci sono i lettori di serie A e i lettori di serie B. I lettori di serie A leggono solo classici, solo opere impegnate non di genere, possibilmente tristerrime. Loro non leggono per divertirsi, leggono per capire, per arricchirsi. Chi legge Fabio Volo andrebbe messo al rogo, gli harmony dovrebbero smettere di esistere e "romanzo giallo" è un'espressione denigratoria. Loro sì, che sanno apprezzare la letteratura.
Ovviamente ci sono anche gli autori di serie A e gli autore di serie B. Gli autori di serie A aspirano a fare Letteratura. Se mille case editrici rifiutano le loro opere è perché loro non vengono capiti, loro non vogliono sporcarsi le mani con il mercato, loro vogliono offrire una nuova visione del mondo. Fanno arte per arte. Solo che poi mettono in vendita i loro capolavori a pagamento su Amazon, con un editing inesistente, perché la loro sarà anche Arte fatta per amore dell'Arte, ma intanto non disdegnano di guadagnarci. Se dici loro che scrivi letteratura di genere fanno un sorrisetto di superiorità e ti danno una pacca sulla spalla. Poveretto te, se quello è tutto quello che puoi fare, vai pure, continua a giocare, mentre loro fanno la Letteratura.

Piccola precisazione per capire il tono del post. Oggi sono stanca. A breve mi aspetta un super raduno di parenti e, per preparare, ho fatto milioni di scale (pensando alle poesia di Montale), ho spostato tavoli, sistemato tovaglie, tende, tovaglioli, stoviglie e sopratutto ho convinto mio padre che no, non moriremo di fame. Sono stanca e ho finito la pazienza. Inoltre le poche forze che mi rimangono le devo usare per andare, questa sera, alla riunione del gruppo di lettura a cui mi sono iscritta. Scopo del gruppo è leggere classici e discuterne insieme, magari dissacrandoli un po'. Gli altri (io mi sono aggiunta all'ultimo) quest'estate si sono divorati La certosa di Parma e Il giro di vite (di cui scriverò a breve).

Iniziavo a pensare a questa polemica ieri sera, mentre cercavo i miei tre titoli da proporre. Scorrevo liste e liste di classici e constatavo che molti di quelli li avevo letti. Altri no, perché la sola lettura della trama mi induceva al suicidio. E allora, mi chiedevo, perché in queste polemiche io mi schiero sempre dalla parte del lettore di serie B?

Perché rivendico il diritto di leggere anche letteratura di consumo
Presumo, nei mesi che verranno, di aumentare le letture di romanzi classici, grazie al gruppo di lettura. Già ieri ho iniziato un libro che mi ispirava, ma che non rientrava nei parametri del gruppo e quindi non proponibile: i libri suggeriscono sempre altri libri. Cerchi un romanzo da proporre e scopri che vuoi leggerne anche un altro. 
Ebbene, penso che aumenterà anche la dose di Tex che leggerò e di romanzi beceri. Oggi, tornando da casa dei miei, mi sono portata dietro un romanzetto della mia adolescenza, che pregusto di rileggere. 
Non si può sempre leggere libri impegnativi. Ci sono volte in cui voglio leggere Tex proprio perché è Tex. Perché so che alla fine vince lui. Che nessuno dei suoi amici morirà. Che rimarrà fedele alla memoria della moglie morta. Lo leggo perché mi rassicura, mi ripropone le stesse cose che proponeva a mio padre e mio nonno. Questo mi rende una pecorona? Non credo.
Come ho scritto nel blog di Hel, ricordo una sera a uno scavo archeologico. Il direttore dello scavo, luminare di fama europea, leggeva un fantasy assolutamente becero. Aveva fatto otto ore di cantiere, avrebbe dovuto scrivere un articolo in tedesco, cosa doveva leggersi nella pausa, Proust?
Quindi attenti a giudicare chi vedete in metropolitana o dal medico o in spiaggia con in mano Fabio Volo. Magari è un esperto di sanscrito che vuole rilassarsi un attimo. 
Noi lettori in Italia siamo una minoranza discriminata. Dovremmo solidarizzare tra noi, non creare ghetti e distinguo.

Si può scrivere solo Alta Letteratura?
Io ammiro sinceramente chi è convinto di scrivere un romanzo destinato a entrare nella Storia della Letteratura.
Però, ci sono dei però.
– Molti dei grandi autori del passato hanno fatto la fame, sono stati considerati poco commerciali e riscoperti solo dopo morti o in procinto di morire. Se credete di essere dei grandi autori non lamentatevi se gli editori preferiscono altro, è sempre andata così.
– In ogni tempo gli autori convinti di poter entrare nella Storia della Letteratura sono stati di più di quelli che ci sono effettivamente entrati. Mettete in conto di non riuscirci.
– Un po' d'umiltà male non fa.
– A volte la Storia della Letteratura se ne frega delle intenzioni. Così capita che romanzetti usciti a puntate, come, che so Il conte di Montecristo, finiscano per entrare nella Storia Letteraria a dispetto di altre opere scritte con molte più ambizioni. Non vi sto dicendo che Fabio Volo vi precederà nel regno dell'Alta Letteratura, ma che potrebbe succedere che qualche libro scritto semplicemente per vendere ci entrerà prima del vostro. Ma non temete, a quel punto, tanto, con ogni probabilità sarete morti.

Io non aspiro a scrivere Alta Letteratura. Mi piacerebbe scrivere della buona letteratura di genere, che sappia intrattenere, senza per questo far colare il cervello dalle orecchie. Non nego che mi piacerebbe pubblicare bene e anche, perché no, guadagnare. Per cui non me la sento di dire che un editore non debba considerare le logiche di mercato, né che il pubblico sia fatto di idioti. Tutt'altro. Non mi interessa molto che ne sarà dei miei libri tra duecento anni: io non sarò lì a controllare. Preferirei quindi un poco di successo da viva, piuttosto che essere incensata da morta.
Le mere operazioni commerciali non mi entusiasmano, ma so che sono sempre esistite. Anche nell'Antica Roma c'era chi si manteneva scrivendo porno. Non leggo le 50 sfumature, ma non mi sento migliore di chi lo fa. Leggo con orgoglio Tex e ho letto anche alcuni Harmony. Mia madre ne leggeva sempre un paio a inizio vacanze, prima di buttarsi sui russi, che amava. Io, che al contrario di lei Guerra e Pace non l'ho mai finito, mi ricordo ogni volta che vedo qualcuno che ha per le mani un libro becero che potrebbe fare come mia madre.
A volte non posso fare a meno di chiedermi quanta invidia ci sia, da parte di aspiranti autori, nei loro giudizi feroci sui casi editoriali.
Io rivendico il diritto di non leggere e non scrivere solo Alta Letteratura.
Adesso però scappo, che devo ancora decidere se al gruppo proporre Flaubert o la Austen.
A voi, invece, chiedo cosa ne pensate.

mercoledì 9 settembre 2015

Riletture – La saga di Earthsea


Mi sono accorta con orrore che nel mio blog non è presente un singolo post interamente dedicato a uno dei libri di Ursula Le Guin, cosa che grida vendetta al cielo. Quindi oggi inizia una serie di Riletture per porre rimedio a questa lacuna imperdonabile nel post di una tizia che si firma Tenar. Non possiamo che iniziare da qui. La saga di Earthsea

COS'È LA SAGA DI EARTHSEA?
Iniziamo dai fondamentali, perché già rispondere a questa domanda non è banalissimo. "Saga di Earthsea" stesso è inesatto, l'ho usato solo perché sono affettivamente legata al tomone di cui vedete la copertina, vecchissima edizione Nord, che conteneva, in quella che tutt'ora ritengo la traduzione migliore (Roberta Rambelli) i primi tre romanzi.
Si tratta di un ciclo narrativo composto da cinque romanzi e alcuni racconti pubblicati tra il 1968 e il 2001, ambientati nel mondo-arcipelago di Earthsea (o, in alcune traduzioni, Terramare). Del ciclo e dei singoli romanzi esistono varie edizioni italiane. Ci sono i primi romanzi, pubblicati singolarmente in collane per ragazzi, in collane per adulti (con improbabili copertine), volumi che raccolgono tra, quattro, cinque romanzi. Che io sappia, della raccolta di racconti del 2001 esiste solo un'ormai introvabile edizione Urania (o qualcuno ha notizia di altre edizioni?).
La saga ha inoltre due sfortunate trasposizioni, un'improbabile serie televisiva rivolta a non si sa che pubblico e un'incredibile occasione mancata, un film dello studio Ghibli. Il progetto era partito con grande entusiasmo da parte dell'autrice stessa, ma poi dal maestro Hayao la regia era passata al figlio Goro e il risultato ha causato anche un litigio tra i due. Il lungometraggio ha disegni splendidi e una trama tra l'improbabile e il confuso.
Il film dello studio Ghibli ha disegni splendidi. La trama, però...


LA SAGA VISTA DA VICINO
Con un'elaborazione durata decenni, la saga di Earthsea è tutt'altro che un'operazione commerciale o una saga fantasy nel senso che siamo abituati a dare oggi al termine. Anche se alcuni personaggi sono ricorrenti (e uno è presente in tutti i romanzi e in uno dei racconti), ogni opera è indipendente e completa in se stessa, diversa anche per tono e pubblico di riferimento dalle altre. La lettura consequenziale lascia spiazzato il lettore, perché ogni opera è frutto della meditazione di un'autrice in un dato momento della sua vita e, in un arco di tempo così lungo, sguardo, prospettiva e riflessioni non possono che cambiare. Rimane la stessa la sensibilità di fondo, l'amore per i personaggi e il loro mondo, lo sguardo disincantato e allo stesso tempo dolce sulla società (quella della narrazione e quella della realtà). Quello che non bisogna mai dimenticare, infatti, è che Ursula Le Guin è un'autrice che parla sempre al suo oggi, impegnata e meditativa. Non è e non vuol essere un'autrice d'evasione. Se parla di un altrove, è perché a volte è la via più rapida per raggiungere il cuore delle cose.
Il mago di Earthsea – 1968. Il primo romanzo della saga. Ged è un ragazzino portato per la magia e pertanto instradato alla scuola di magia di Roke (mamma di tutte le scuole di magia della letteratura fantasy, fino ad Harry Potter). Qui, però, sfidando un compagno, libera qualcosa dall'oltretomba che inizia a perseguitarlo (?). È una meditazione molto laica sulla morte e sull'accettazione della propria mortalità, scritto come la trascrizione di un racconto orale, come avrebbe potuto farla un etnologo di Earthsea
Le tombe di Atuan – 1971. Tener è una giovane sacerdotessa di un simpatico culto dedito, tra l'altro, al sacrificio umano, guardiana di un labirinto sotterraneo che si dice nasconda un tesoro. Quando trova e imprigiona un ladro, dovrebbe, secondo le tradizioni, ucciderlo. Il ladro è Ged, ora giovane mago (appena un po' più saggio di com'era nel romanzo precedente). Le cose vanno come ci si aspetta che vadano solo fino a un certo punto. Incontro con l'amore e meditazione sui propri ruoli, quelli sociali, ma anche le aspirazioni personali. Perché a volte non sempre deve finire con un bacio e un matrimonio.
La spiaggia più lontana – 1972. Ged è ora arcimago, riverito più o meno come il papa. Alla sua corte arriva un ragazzo con uno strano messaggio: nelle isole più lontane la magia non ha più potere e i morti tornano in vita. Ancora la morte al centro della narrazione, declinata però come ciò che dà senso alla vita. Sarebbero migliori le nostre vite da immortali?
L'isola del drago – 1990 (titolo originale: Tehanu). Troviamo Tenar, che alla fine non aveva sposato Ged, ma un altro. Ora è vedova e si prende carico di una bambina maltrattata. Un drago le recapita anche Ged, che alla fine del libro precedente aveva perso tutto i propri poteri. Tre persone "finite", una vedova, una bambina scampata alla morte, un uomo senza potere, che si ritrovano e vanno avanti.  Cosa determina l'importanza di un individuo? Cosa fa di un uomo un uomo e di una donna una donna? È, inutile negarlo, di gran lunga il mio preferito.
I venti di Earthesea – 2001 Di nuovo la morte al centro della riflessione, ma anche culture che si incontrano e si scontrano, saggezza di paese e saggezza di corte. E muri da abbattere, cosa sempre salutare.
Le leggende di Earthsea – 2001 raccolta di racconti che riempie un bel po' di buchi e risponde a parecchi interrogativi. Di una bellezza e di una dolcezza struggente, raccontano di come un gruppo di libertari abbia finito per gettare le basi per nuova segregazione, di come curare le mucche possa essere più gratificante che fare il mago di corte e di altre sovversioni di ordini costituiti.

NAVIGANDO TRA ISOLE DI SIGNIFICATO
Ci sono due tematiche principali che attraversano tutte le opere della saga: la morte e l'adesione al ruolo sociale.
La morte è trattata in modo assolutamente laico. L'oltretomba di Earthsea, così com'è presentato nel primo romanzo è un ade di tipo greco, in cui le anime permangono in puro nome, in cui gli amanti possono incontrarsi senza riconoscersi e madri e figli si ignorano. È inevitabile e tanto più intollerabile proprio perché rappresenta non una possibilità, ma una certezza. Eppure la vita eterna non è una soluzione. Da ragazzina, quando mi sono per caso avvicinata alla saga, sono rimasta incantata dalla bellezza delle isole, dal mare scosso dal vento, dall'ansia di vita di Ged. Tutto ciò è così struggente perché ne è tangibile la precarietà. La vita è un attimo che si assapora un'unica volta, prima di un oblio ineluttabile. Anche l'ultimo romanzo, che pure apre prospettive al trascendente lascia al massimo la speranza dell'ignoto, nessuna certezza ultraterrena. Ne consegue un'etica laica, di chi sa di agire, per dirla alla De André "non per un dio, ma nemmeno per gioco", in un mondo fragile, non per sé, ma per le generazione future. Un'etica, che, proprio perché non è imposta dall'alto, non è garantita dalle autorità (che, invece, cercano di utilizzare e incanalare le superstizioni della gente) è allo stesso tempo fragile e preziosissima. Al contrario di Gandalf o di Albus Silente, Ged ne "La spiaggia più lontana" non ha alcuna certezza da offrire al suo giovane compagno di viaggio. Io, che sono vecchio, che ho fatto ciò che dovevo fare, che sto alla luce del giorno, in faccia alla mia morte, alla fine di ogni possibilità, so che c'è un solo potere reale, il solo che valga la pena di possedere. E non è il potere di prendere, ma quello di accettare. 
Accettare la certezza della propria morte, tuttavia, non vuol dire, tutt'altro, accettare la vita che altri hanno scelto per noi. Non vuol dire neppure essere per forza eroi.
Tenar, il personaggi a cui ho chiesto in prestito il nome, sacerdotessa di divinità oscure, prende in mano la sua vita, ma non diventa né la moglie dell'eroe né un'eroina a sua volta. Sceglie per se stessa una vita semplice, in un'isola periferica. Sposa un uomo comune, dove nessuno conosce il suo passato. Questo non la svilisce. Kalessin, il signore dei draghi la cerca e le si rivolge come pari. L'eroismo di Tenar non sta nel compiere azioni gloriose, ma di essere ciò che si vuole essere e lottare perché anche gli altri possano esserlo. C'è un passo struggente, ne "L'isola del drago". Tenar ha adottato una bambina gravemente deturpata da un'ustione. Le consigliano di avviarla alla carriera da sarta, un lavoro che si può fare al chiuso, dove nessuno la vede. Tenar dapprima acconsente, con l'ansia comprensibile della madre che deve assicurare un futuro a un figlio disabile, poi si ribella, regala alla bambina un vestito di stoffa pregiato, perché non si debba mai nascondere. Come lei, la piccola deve avere il diritto di scegliere la propria strada.

Il tutto è calato in un mondo fantasy delineato con poche pennellate. Poche frasi descrittive, aggettivi che si ripetono come epiteti omerici ci portano in un arcipelago di isole montuose e povere, a metà tra le Ebridi e l'Egeo di Omero, dove gli uomini vivono temendo i venti di tempesta e i poteri della terra. Cieli solcati da quelli che per me rimangono i migliori draghi della fantasy, creature di pura volontà, al di fuori dell'etica umana, che scelsero la libertà e l'essere, invece del conoscere e del creare, come gli uomini.
La magia che pervade Earthsea, è la lingua della creazione che, se pronunciata, riesce a mutare e a ri tessere la realtà. Con tutti i rischi che un uomo che, di fatto, gioca a fare dio può immaginare. 
È un fantasy diverso da qualsiasi altro, che alterna passi che lo avvicinano, per certi, versi al Silmarillion e all'epica antica e altri decisamente più intimisti, con una magia talmente inesistente che quasi il lettore se ne dimentica. Se il primo romanzo è l'ipotetica trascrizione di un racconto orale, il quarto è quasi un romanzo Jane Austen in un contesto povero e solo vagamente fantasy.

La saga di Earthsea non è il capolavoro di Ursula Le Guin. Ha al suo interno istanze differenti, nasce come narrazione per ragazzi, poi approfondisce alcune tematiche, senza però trovare una vocazione unitaria. I romanzi sono tanto diversi da lasciare spiazzati. Ha una prosa limpida, più evocativa che descrittiva che però non ha la precisione chirurgica che la Le Guin ha tirato fuori in altre occasione.

TENAR E LA SAGA DI EARTHSEA
Razionalmente, so spiegare perché non sia un capolavoro. Rimane il fatto, però, che a distanza di così tanti anni, con tutta la fantasy che ho letto da allora, Earthsea continua ad avere un posto speciale nel mio cuore. È fondante, nel mio immaginario fantastico, tanto quanto Il signore degli anelli.
C'è anche un valore affettivo e un raro legame tra me e questi libri. Ne ho sempre trovato il giusto volume nel giusto momento della mia vita.
Avevo nove anni quando in una collana della Mondadori per ragazzi ho trovato Il mago di Earthsea. Un'età in cui odiavo cordialmente i compagni della classe in cui ero stata inserita dopo il trasferimento della mia famiglia. Ged ero io. Il pastorello sbalzato nella scuola di magia, che voleva a tutti costi primeggiare sugli altri per dimostrare il proprio valore, antipatico e consapevole di esserlo. Ero io, al 100%. Come lui, però, mi facevo anche domande non banali, a cui gli adulti non volevano o non potevano rispondere.
Da adolescente, qualche anno dopo, ho trovato il volume di cui ho messo l'immagine, in cui ho trovato il libro della mia infanzia e i seguenti due romanzi. Allora io ero Tenar, adolescente in cerca di identità, che si innamora, ma non vuole essere ingabbiata neppure dal proprio amore. Vuole vivere, capire, scoprire il mondo, vuole essere se stessa, prima di qualsiasi altra cosa. Ed ero anche Arren, il ragazzo del terzo romanzo, che vuole essere qualcuno, che vuole essere speciale, ha il terrore della morte e non osa dirlo.
Più grande ancora, ho messo le mani sul quarto romanzo. La Tenar che ancora mi rappresenta. Infine, sono arrivati gli altri due. 
Ogni libro mi ha incontrato al momento giusto. Sono cresciuta e diventata donna navigando tra le acque di Earthsea e nessun'altra storia mi ha avvolto così bene, per così tanto tempo, penetrando fin nel profondo del mio essere.

Non so se sia il post più lungo che abbia mai scritto, ma immagino che non sia lontano dall'esserlo, vi posso solo chiedere se ci sono storie così anche nella vostra vita, che vi hanno accompagnato nella crescita e nella vostra formazione.


lunedì 7 settembre 2015

Ogni fine è un nuovo inizio / prima revisione e impaginazione – scrittevolezze


Così adesso hai finito di scrivere il romanzo? Quand'è che esce?
Ecco, se c'è una domanda che deprime, ma deprime davvero una scribacchina, per altro già depressa dal mondo scolastico, è questa. Quand'è che esce? Perché alla fine della prima stesura, anche di una versione 1.5 come la mia, sarebbe bello credere di essere almeno a metà dell'opera. 
Invece sono solo all'inizio...
Vediamo quello che mi aspetta.

PRIMA REVISIONE
Quella a cui sono arrivata in fondo non è propriamente una prima stesura, ma una stesura già ampiamente rimaneggiata. Proprio per questo ora urge una revisione seria e ponderata. Bisogna armarsi di pazienza, una bibita fredda, di un gatto che faccia le fusa perché:

– Sono l'imperatrice mondiale del refuso
In questa specialità le olimpiadi le vinco di sicuro. La dislessia, certo, mi dà un certo vantaggio sulla concorrenza, ma sono primatista anche di incisi non chiusi, frasi un tempo autonome fuse tra loro con concordanze saltate, gestione farlocca dei tempi verbali.
La parola d'ordine qui è semplificare. Tagliare i periodi, farli più brevi. Fare in modo che il dio della grammatica faccia sì, magari, un po' di ginnastica nella tomba (che gli fa bene), ma non che voglia fulminarmi all'istante. 
Che poi, sia chiaro, un 10% dei refusi sopravvive a questo controllo. Hanno più vite dei gatti, loro. Anche a questo bisogna rassegnarsi. Del resto questa è solo la PRIMA revisione.

– Anche l'orecchio vuole la sua parte.
Certe frasi sono più stonate di un canto di ubriachi. Iniziamo con le ripetizioni. Ci sono parole che butto giù nelle frasi perché sono "giuste". Una cosa del genere "il cane dormiva nella cuccia. Appoggiata alla cuccia c'era il sacchetto delle crocchette per il cane. Appena a qualche metro dalla cuccia stavano la ciotola dell'acqua, quella del cibo, insomma tutto ciò che poteva servire al cane". Ok, non scrivo proprio così, ma rendo l'idea. Cane e cuccia non sono sbagliati, le frasi sono grammaticalmente  corrette, certo, ma che strazio. Si taglia, si modifica, si cercano sinonimi. Finché sono cani e cucce, va bene, è semplice, ma quando bisogna nominare più volte, che so io, "spettrometro di massa" andatemelo a cercare un sinonimo! 
Poi ci sono quelle parole che sembrano aver fatto della cacofonia un'arte. Non sono i poveri e sempre maltrattati avverbi in -mente. Cazzuola. Vi sembra che abbia un bel suono "cazzuola"? Ci credete che ho dei capitoli pieni del termine "cazzuola"? (Per la serie e trovatemelo un sinonimo!)
Infine ci sono gli aggettivi indefinibili. Non quelli indefiniti, ma quelli tanto abusati da essere indefinibili. Bello/brutto/dolce/cattivo... Non c'è nulla di più anonimo in una storia di un bell'uomo dallo sguardo dolce. O di uno sguardo truce. O di quasi qualsiasi cosa si possa associare a sguardo...

– Il diavolo sta nei dettagli e si diverte a scompigliarli
Così, ad esempio, decidi che RD è single, si è installato dove vive da qualche mese e in salotto ha solo una poltrona, peccato che nel primo capitolo in cui il lettore gli entra in casa in salotto ci sia un divano.
Poi c'è il personaggi che chiami sempre o quasi per cognome, così spesso, che le due volte che ne specifichi anche il nome lo specifichi diverso (questo poi per me è un classico).
Chiaro che il personaggio che ha cambiato sesso (non ha fatto l'operazione nella storia, sono io che l'ho pensata donna, ma poi mi sono accorta che mi serviva uomo) debba ancora adattarsi alla nuova condizione e in alcune frasi ci sia ancora il femminile.
Poi ci sono le essenze ballerine. Non era un faggio? Perché adesso è un olmo? O era un acero? Il problema è dato dal punto precedente e non è che si possa sempre parlare di "pianta"...

– Rafforzare le immagini e le idee ricorrenti
Mi piace quando un'immagine, una frase, una suggestione torna più volte all'interno di una narrazione, magari arricchendosi di significati. A me risulta difficile lavorare bene su questo già in prima stesura, è più facile dopo inserire la giusta frase al giusto posto, per dare maggiore omogeneità al tutto.

IMPAGINARE
Finita la prima revisione si può impaginare.
Io lavoro di solito su file separati per capitoli, un file a capitolo, con varie versioni, una per ogni modifica sostanziale apportata. Poi bisogna unire tutto in un file unico. Evitando di mescolare le varie revisioni, ma mettendo di ogni capitolo la versione più aggiornata (perché io non sono per niente caotica e non faccio MAI confusione...). Mettere le interruzioni di pagina alla fine di ogni capitolo. Numerare le pagine (tantissime volte mi dimentico di farlo...). Dare al tutto una veste di leggibilità. Un carattere che non affatichi la vista (il mio preferito è il garamond), un'interlinea decente, una dimensione non lillipuzziana. Fare in modo, insomma, che la lettura, per chiunque dovrà cimentarcisi, non sia una tortura. So che sembra strano, ma pare che un sacco di aspiranti esordienti siano estremamente creativi sul fronte "impaginazione". Come se invece che nella prosa o nella trama la loro fantasia dovesse esprimersi lì. E no, non è una buona idea.

E anche dopo che avrò compiuto queste operazioni, ahimè, sarò solo all'inizio...

Voi come ve la cavate con queste fasi del lavoro?