venerdì 31 luglio 2015

Dove osano gli elefanti meccanici


Poche cose danno l'idea della caducità della vita come la fine delle vacanze.
Ma come, un'attimo fa stavo decidendo cosa mettere in valigia e sono già tornata? 
Se guardo nella valigia, però, trovo abiti sporchi, depliant stropicciati, incontri, istantanee e storie. Moltissime storie.
Questa in Francia è stata una vacanza di incontri e esperienze più che di paesaggi. Ho portato a casa storie da scrivere, trovate nei meandri della mia mente e esperienze da raccontare.

Inizierò con una storia vera, così magica da sembrare una favola o una metafora.

DOVE OSANO GLI ELEFANTI MECCANICI

C'era una volta una città, Nantes.
Attraverso la città scorreva un fiume e nel fiume sorgeva un'isola. Per tantissimo tempo l'isola si era trovata alla periferia della città ed era servita come cantiere navale e come zona industriale. Ma la città si era ingrandita fino a fagocitare l'isola al suo interno, mentre i cantieri e le industrie si spostavano pian piano più in là. Sull'isola erano rimaste spianate di cemento, enormi capannoni in disuso, alte gru ad arrugginire contro il cielo.
Fu così che si decise di riconvertire l'isola e furono chiamati architetti e progettisti perché esponessero le loro idee. Ci fu chi propose dei musei nelle vecchie fabbriche, e furono fatti i museo. Ci fu chi propose parchi giochi per i bambini e i ragazzi e passeggiate per adulti.

Ci fu chi propose di costruire un elefante meccanico solo in legno, cuoio e metallo, senza alcun componente di plastica. Un mostro gentile di dodici metri d'altezza, capace di trasportare 50 persone, che camminasse per l'isola.


E, dato che vi erano gli enormi capannoni abbandonati, fu proposto che fosse impiantata stabilmente una fabbrica di meraviglie, che studiasse la costruzione di automi in legno e metallo, che i bambini potessero azionare, far muovere e camminare. E che fossero chiamati progettisti ed esperti di insetti, di draghi e di mostri marini, perché dessero liberamente sfogo alla loro fantasia.



E il progetto fu approvato.


E io, dopo aver scioccamente chiesto al punto informazione se fosse possibile vedere l'elefante senza pagare un biglietto (non si preoccupi, signora, lo vedrà. Magari non si faccia calpestare, eh...), ho pensato che se oggi esiste una cosa del genere, un posto dove ora è in costruzione un immenso airone in grado di sollevare la gente in cielo, è perché qualcuno un giorno lo ha sognato.

Prototipo in scala ridotta
All'inizio deve esserci stato, da qualche parte, un bambino che sognava di costruire enormi animali di legno e metallo, in grado di muoversi e di spiccare il volo. Un bambino che non è cresciuto, ha continuato a disegnare, progettare, sperimentare, finché non ha trovato qualcuno che ha deciso che, sì,  un elefante meccanico semovente alto dodici metri che barrisce e getta acqua sui bambini che rischiano di essere calpestati era un ottimo modo per riqualificare un quartiere.

Noi che sognano di scrivere e di pubblicare romanzi, quanto sono piccoli i nostri sogni al confronto?
Mentre guardavo il prototipo di airone (scala 1/2) aprire le ali e spiccare il volo con due persone a bordo, ho pensato che c'è chi sente il bisogno di camminare ben ancorati alla terra, altri che vogliono tentare il sentiero dei sogni.
Il sentiero dei sogni, però, si snoda tra le nuvole e l'unico modo di percorrerlo è posare i piedi sul puro vapore acqueo con una tale certezza di esserne sostenuti che le nubi, lusingate da tanta fiducia, non oseranno farti cadere.

Ogni volta che vi scoraggiate, che pensate che è troppa la distanza tra la realtà e i vostri sogni, pensate all'elefante di Nantes. Se il vostro obiettivo vi sembra meno improbabile di far camminare per un centro cittadino un elefante di dodici metri, allora non è impossibile da raggiungere.

giovedì 16 luglio 2015

Tempi glaciali – Letture


E alla fine, grazie al provvidenziale ventilatore piazzato a fianco del computer, riesco a produrre un ultimissimo post prima della partenza.

Fred Vargas è importante per me quasi quanto Ursula Le Guin. È grazie ai suoi romanzi che ho capito che il giallo poteva essere la mia via, che l'amore per la storia, per i personaggi con un piede nella realtà e l'altro altrove, per trame dalle suggestioni poco ortodosse potevano starci benissimo anche in un'ambientazione contemporanea e, anzi, potevano stare ancora meglio in una trama gialla.

La serie del commissario Adamsberg ha un ritmo preciso. Tutte le storie iniziano in una Parigi realistica e odierna, dove l'unica nota stonata è, appunto, il trasandato Adamsberg, spalatore di nubi, che viaggia per strane associazioni di idee e segue intuizioni bislacche e il suo vice, il colto Dangland, fatica a tenerlo incollato alla realtà. Ma pian piano i confini della realtà si fanno sfumati, si entra in un territorio nebbioso dove l'unica guida sono proprio le intuizioni di Adamsberg e l'improbabile diventa assolutamente plausibile nella Parigi di oggi, per i personaggi come per i lettori. Certo, il killer è un ottantenne armato di tridente, logico, no? Ovvio, l'assassino voleva completare l'elisir per l'eterna giovinezza. Ma era evidente che fosse un cacciatore di vampiri! L'abilità dell'autrice sta proprio nel rende questo slittamento verso una realtà altra del tutto naturale, senza scossoni, tanto che i suoi romanzi (quelli del ciclo di Adamsber e quelli del ciclo degli Evangelisti) piacciono anche agli amanti del giallo classico  e dei romanzi realisti.

Anche in questo Tempi Glaciali il canovaccio non cambia, ma qualcosa nel meccanismo non funziona a dovere.
Ho letto da qualche parte che il romanzo ha avuto una genesi difficoltosa e una storia editoriale travagliata. La mia impressione è che ne siano stati fusi insieme due, con una sutura di gran classe, certo, ma con almeno un grosso guaio strutturale non sanato.

Siamo a Parigi, oggi. Ci sono dei suicidi, che forse non sono suicidi e, come da tradizione, uno strano segno tracciato. L'indagine prosegue su due filoni paralleli, poiché le prime vittime sembrano avere  due caratteristiche in comune: avevano partecipato, anni prima, a un viaggio in Islanda finito tragicamente e ora sono membri di un'associazione che fa rivivere, anche troppo, i personaggi della Rivoluzione Francese.
Entrambe le indagini ci portano in tempi e in luoghi lontani, a contatto con quei personaggi bislacchi che la Vargas riesce a farci amare così tanto e forse, entrambe le storie avrebbero meritato più spazio. La mia impressione, dicevo, è che in origine dovessero essere due romanzi differenti, uniti quando ci si è accorti che la vicenda islandese era, in effetti, largamente prevedibile. Al contrario di quello che avviene negli altri romanzi, poi, c'è un buco abbastanza evidente nella sceneggiatura della parte gialla e non tutte le reazioni dei membri della squadra di Adamsberg sono davvero comprensibili (con tutto quello che hanno passato ancora dubitano delle intuizioni del loro capo e abbandonano una pista che urla "seguimi!" a gran voce?)
Infine, alcuni passaggi sono difficili da capire per un non francese. Ai miei occhi di giocatrice di ruolo, con al mio attivo partecipazioni a ritrovi e fiere in cui essere in costume è la norma, l'associazione che fa rivivere la rivoluzione pare assolutamente normale. Quindi che sia un segreto indicibile l'andare vestiti in abiti settecenteschi a recitare eventi storici mi risulta davvero difficile da capire. Ma io non sono francese, non so quali rancori, quali paure possa ancora evocare il Terrore a Parigi e su questo punto non mi sento di pontificare.

Le mie, poi, sono critiche da innamorata. La verità è che la prosa della Vargas mi ha stregata un'altra volta e io, che spalo nuvole proprio come Adamsberg, sono sempre ansiosa di andare a unirmi alle sue indagini. Il romanzo l'ho divorato. Non è perfetto, non è certo il migliore della serie, ma è sempre un gran leggere.

Con questo vi saluto davvero, domenica parto per la costa atlantica francese. In valigia ho due romanzi di Simmons, dato che devo terminare il ciclo de I canti di Hyperion.

Per chi volesse, vi lascio i link ai racconti lunghi pubblicati nel corso dell'anno:
I link ad altri racconti gratuiti li trovate qui, vi consiglio sopratutto il thriller storico La donna con il liuto e il breve divertimento sherlockiano Il caso del cucciolo di bulldog.

Buone vacanze a tutti, ci si rilegge ad Agosto.

martedì 14 luglio 2015

Visioni di luglio

Dopo la trasferta nella metropoli per questioni amministrative, tornata dalla visita ai miei al mare (quanto mai necessaria, dato che hanno dimenticato il bancomat), prima delle ferie vere e proprie, faccio di nuovo tappa a casa.
La temperatura è sempre ben oltre la soglia di guardia per l'utilizzo del computer, ma con il ventilatore in posizione strategica riesco, più o meno, a lavorarci.
Giornate di viaggio, queste, un po' caotiche al centro, con momenti di calma piatta ai lati. Guardo film un po' a casaccio, in questi casi, magari perché nella metropoli il cinema ha l'aria condizionata e così non mi si scioglie in marito o perché è una pellicola che può interessare anche i miei. Si può incappare in questo modo in gran bei film o in pellicole imbarazzanti.

Fury
Se la famiglia è la mia, un buon film di guerra è quello che ci vuole per una serata tutti insieme.
E Fury è un ottimo film di guerra.
Un ragazzo addestrato come dattilografo si trova (per errore?) a rimpiazzare un mitragliere all'interno di un carroarmato americano nelle ultime settimane della seconda guerra mondiale, in Germania.
La guerra è una cosa sporca e spietata, che spinge l'uomo a dare il peggio di sé, mette alla prova fede e coscienza, ma porta anche a stringere inossidabili legami. Fury ce la racconta proprio così, sporca e fangosa che di più non si può, senza pietà per nessuno, in una terra desolata, già sconfitta, ma non ancora conquistata, dove ideali, ragioni e torti hanno ormai poco senso. Sono esausti, assuefatti alla violenza e senza speranza di redenzione gli uomini del mezzo blindato Fury, in mezzo a cui il ragazzo si trova. I tedeschi sono fanatici nazisti, certo, ma anche persone che si trovano con il nemico in casa, spesso costrette a scegliere tra farsi sparare dagli americani o dalle ss. In ogni caso, per sopravvivere e andare avanti non c'è altra scelta se non uccidere.
In questo contesto assai più claustrofobico fuori che dentro il Fury, si disegnano i contorni di animi tormentati e scontri tra mezzi blindati che sembrano duelli tra rinoceronti, ma hanno una loro spietata bellezza.
In un film così sporco e realista, l'unica cosa che non ho apprezzato è la ricorrente metafora del cavallo (fate attenzione, il film si apre con un cavaliere, ha un lungo dialogo sui cavalli morenti al centro e si chiude con il rumore degli zoccoli), come memoria di tempi in cui alla guerra rimaneva un briciolo di cavalleria. Ma questo, in fin dei conti, è il senso, suppongo: non è più tempo per equini.

Nota famigliare con SPOILER:
Mio padre è un tipo pragmatico, di quelli che non perdono mai il contatto con la realtà. In caso di emergenza, avere uno come lui al fianco è la cosa migliore, come ha dimostrato nei suoi anni da guida alpina. Suo padre, mio nonno, era uguale, infatti è uscito vivo da un campo di prigionia tedesco. In tutta la sala mio padre è l'unico che non si è fatto per niente contagiare dall'opprimente senso di morte. Mentre alla fine tutti soffrivano e si commuovevano, lui lapidario commentava: "il capo è un cretino, non si ferma un intero plotone con un carro armato".
Ecco, nel caso di un'emergenza vera e prolungata, quando la razionalità va un po' a farsi benedire, è meglio capitare vicino a uno come mio padre, piuttosto che a un eroe.

Jurassic word
Da un film scelto unicamente perché in sala c'è l'aria condizionata non è che si possa chiedere molto. Qualche dinosauro, un po' d'azione, dei bambini in pericolo e un po' di frescura.
Lo spirito era quello, non è che mi aspettassi chissà cosa, anche se io ero bambina all'epoca di Jurassic Park, che rimane uno dei miei ricordi cinematografici più potenti di sempre, e quindi, sotto sotto, una parte di me sperava ancora. Invano.
Certo, la mezzora netta di pubblicità che ha preceduto la pellicola non ha certo addolcito il mio giudizio, però...

I dinosauri... I dinosauri non si sono evoluti di un grammo dai tempi di Jurassik Park. Solo che allora nella pellicola come nel (bel) romanzo da cui era tratta si metteva in scena lo stato della ricerca. Adesso che i dinosauri sono ufficialmente uccelli, che non si discute più, ormai, se i dinosauri avessero o no le piume, ma si arriva a definirne il colore, vederli tutti così rettiliformi e nudi fa un po' impressione. I velociraptor (che poi, tecnicamente, non sono velociraptor) sembrano dei polli spiumati, così come un imbarazzatissimo tirannosauro. Insomma, fanno più pena che paura, poveretti.

Gli esseri umani... Ecco, dopo Mad Max il confronto è imbarazzante. Come già letto sui quattrocento calci, qui i più giurassici sono gli sceneggiatori. Era da tempo che non incappavo in un così bieco maschilismo. Ricordate il primo, glorioso film, con la paleontologa tosta e la bimba genio del computer? Dimentichiamoceli. A parte che qui gli scienziati, se ci sono, sono tutti cattivi e/o senza scrupoli, che l'intelligenza non è dote gran che apprezzata, i personaggi femminili sono imbarazzanti. Inutili e insopportabili, trovano la loro ragion d'essere solo quando accettano di capitolare al fascino del maschio dominante (è chiamato proprio così, non è una mia maligna illazione) e si accollano il loro ruolo di madri. Se no, femmine inutili, fanno una brutta fine (come è giusto che sia, sembra dire il sottotesto). Ci si tiene anche a far sapere il dinosauro cattivo è una lei, mentre la velociraptor buona (!) è tale solo perché sottomessa al suddetto maschio alfa.
Se una volta dai dinosauri scatenati ci salvavano paleontologi, matematici e bimbi in gamba, senza troppa differenza di genere, all'alba del 2015 dobbiamo tutti arrenderci al maschio alfa...
Ho sperato fino all'ultimo che la Teron con un braccio solo balzasse dentro la pellicola a prendere a pugni il maschio alfa, ma niente...


Con questo di nuovo vi saluto. Domenica parto per le ferie vere, non so se avrò, tempo, voglia ed energia per postare ancora. Al peggio ci si rilegge ad agosto!

lunedì 6 luglio 2015

Cinque pregi, cinque difetti e chiacchiere estive

Come vedete, il Persiano mi aiuta a fare la valigia.
Per tutto luglio sarò a casa a macchia di leopardo, spesso via non solo per vacanza, ma anche per commissioni e impegni famigliari. Promettere un aggiornamento regolare sarebbe quindi quanto meno azzardato.

In questi giorni, intanto mi sono goduta la calura. Eh, sì, goduta. Non è chiaro se io abbia sangue di iguana o di drago, ma sopra i trenta gradi sono nel mio ambiente naturale, perfettamente adattata al clima, che pare, verrà. L'unico problema è che il computer dopo un po' si surriscalda e non trovo complici per attività diurne:
– Andiamo a fare una passeggiata?
– Fa caldo!
– Andiamo a prendere qualcosa al bar?
– Fa caldo!
– Va be', allora io vado a correre!
– Ma sei matta?!?
Ecco, ho dovuto limitare le uscite a correre agli orari mattutini o serali perché la gente si preoccupava...
Ho terminato La caduta di Hyperion, meno ipnotico ed evocativo del precedente, è tuttavia un solidissimo romanzo di fantascienza. E poi, non so, sarò una romanticona io, ma è difficile non appassionarsi a una storia in cui gli eroi sono poeti anziani o moribondi, vecchi filosofi o sognatori alla ricerca di amori perduti, in cui il racconto della caduta dei mondi e della guerra tra l'uomo e la macchina è raccontata con una così soffusa dolcezza.
Prima di affrontare i due libri conclusivi del ciclo (dei quali ho un po' paura perché, tutto sommato, questo finale mi piace un sacco) farò una pausa per dedicarmi al nuovo romanzo di Fred Vargas, la donna che mi ha messo sulla via del giallo e credo ci sarà spazio anche per qualcuno di quegli apocrifi sherlockiani che Delos e  Giallo Mondadori continuano a elargire con generosità. Dal punto di vista delle letture, quindi, luglio è iniziato con i migliori auspici, perché non posso pensare di fare una valigia come si deve senza avere dei bei libri da metterci dentro (Fred, cara, sappi che le aspettative sono alle stelle, non farmi scherzi).

Infine, questo bel post di Grazia mi sfida a elencare cinque difetti e cinque pregi del mio essere autrice. Be', perché no? Proviamoci!

CINQUE DIFETTI

Sono insicura
A livello quasi patologico. Non mi fido del mio fiuto di autrice, delle mie trame, della mia prosa, della mia eventuale spendibilità sul mercato. Non mi fido. Sono alla ricerca di continue conferme esterne. Cosa che poi, alla fine, mi spinge a cercare il confronto e anche la pubblicazione. Però che fatica uscire dal guscio!

Fatico a staccarmi dalla prima stesura
Finché la parola non è scritta è mutabile. Ma quando appare sulla pagina, com'è faticoso trovare soluzioni alternative. Anche quando lo vedo che quello che ho scritto non funziona, rivoltare come un calzino qualcosa che c'è già diventa di una difficoltà quasi insormontabile. Difficile che riesca nell'impresa senza un input esterno.

Non sono un'esteta della prosa
Pago in questo, suppongo il mio non essere fino in fondo letterata, la mia formazione più con un piede nelle scienze naturali che in quelle umane. Fatto sta che la parola è un mezzo e non un fine. L'attenzione è sempre a quello che voglio dire e non a come lo voglio dire. Mi diverto, entro certi limiti, a giocare con lo stile quando è funzionale alla storia, ma, appena trovo una soluzione che funziona, va bene quella. Non riscrivo mille volte una pagina alla ricerca della bellezza formale. A volte mi chiedo se questo non sia un po' viaggiare con il freno a mano tirato.

La trama ad orologeria ancora mi sfugge
La inseguo. E sento che sto migliorando. Però i miei sono ancora meccanismi imperfetti, trame affascinanti, ma non del tutto solide sulle loro gambe. Passo le ore a cercare di oliare meccanismi della storia, ma sento ancora quello scricchiolio, quell'incepparsi dove non dovrebbe. Allora mi armo di nuovo di cacciavite e chiave inglese e riprendo a lavorare, finché bene o male si muove, ma ancora non vola.

Le pubbliche relazioni non sono il mio forte
E questo che ha a che fare con la scrittura? Ha a che fare, ha a che fare... Dovrei scrivere di più ai miei editori, all'agente, proporre sempre nuove presentazioni, frequentare di più altri autori, coltivare meglio i pochi contatti che ho. Presentare i miei scritti come capolavori. Ma a coltivare mi esce bene solo se i beneficiari sono i miei rosmarini nani o il mio acero bonsai... 

CINQUE PREGI

Uno sguardo originale sul mondo
Certo che tu vivi in un mondo buffo. È stata una delle prime cose che il mio futuro marito mi ha detto, forse dopo tre giorni che stavamo insieme. Un test psicologico fatto a un corso d'aggiornamento ha messo in luce che sono un "intuitor puro", viaggio di intuizioni, collegamenti pindarici e pensiero laterale. Per me è normale andare da A a B passando da Z.
Difficile quindi, almeno, che mi dicano che le mie storie sanno di già sentito.

I personaggi
I personaggi funzionano. Quasi sempre, almeno. E sono personaggi, non maschere, non archetipi, alter ego o altro. Personaggi, creature altre, che vivono in modo coerente con la loro storia personale, la propria visione del mondo e le circostanze che sono loro date. Infatti fatico a considerarli burattini nelle mie mani. Sono esseri umani. Posso accompagnarli nella storia, soffrire o gioire con loro, ma manipolarli mai.

Sono tenace
E testarda come un mulo. Non importa quante storie, quanti romanzi ci siano nel mio cassetto virtuale, inediti. C'è sempre un'altra storia, che sarà più forte, più sentita e più bella. E prima o poi qualcuno se ne accorgerà. È con questa filosofia che due romanzi sono arrivati in libreria. Ne arriveranno altre. Non so quando, non quali, non so per quali vie, ma è più facile che i fiumi smettano di scorrere che io di lottare per le mie storie.

Scrivo velocemente
Se c'è da scrivere, scrivo. Covo la storia dove posso, quando posso, negli interstizi della vita. Ferma al semaforo, in coda al supermercato, facendo pulizia, e quando sono al computer scrivo. Non mi fermo a meditare sulle frasi, che ho già scelto, sulle svolte della trama, che ho già deciso. Scrivo. Con un'ora e mezza di tempo al giorno (gestibile, magari alla sera) posso procedere senza intoppi e la tempistica di King (tre mesi per la prima stesura) è, al netto degli imprevisti, raggiungibile.

Ci sono storie nascoste dietro ogni angolo
Basta affinare l'orecchio per imparare ad ascoltarle. Ce ne sono di più di quante potrò scriverne e spesso non è facile capire qual è la forma più adatta a loro. Ma ci sono.
E ci sono in ogni angolo spunti per le storie in lavorazione. Nelle parole delle amiche, nei visi solo sfiorati tra la folla, dietro gli oggetti da spolverare. Basta tenere le orecchie tese e gli occhi attenti.

A questo punto non mi resta che augurarvi una buona estate e chiedervi quali sono i vostri cinque difetti e i cinque pregi di autori.
Magari in questo luglio di torna e parti ci scapperà qualche altro post estemporaneo. In ogni caso, da agosto le pubblicazioni dovrebbero tornare regolari.
Per intanto un caro saluto a tutti

venerdì 3 luglio 2015

Tendente a più infinito – racconto autoconclusivo

Eccoci di nuovo al racconto del fine settimana. Questo è un frammento autoconclusivo, scovato negli anfratti dei miei archivi. Inizio a chiedermi cosa pubblicherò il venerdì, quando avrò finito di scovare storie dimenticate negli angoli bui...

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        Quattro metri e mezzo sono tanti. Tanti. Un bus in verticale, due piani di casa. 
Quattro metri e mezzo sono una distanza che si protende verso l’infinito, svanisce nella nebbia, si fa evanescente. 
 Giulio fa quasi fatica a vedere l’elastico tirato tra i due sostegni metallici, lassù, a quattro metri e mezzo da terra, il suo orizzonte da superare. Stringe l’impugnatura dell’asta con la mano sudata e non si decide ad iniziare il salto. Gli sfugge il senso come l’aria dai polmoni. Intorno a lui la nebbia si adagia pian piano nel silenzio. Quattro e mezzo. È la cifra che segna anche l’orologio. 
 Dove Giulio posa lo sguardo, incontra solo crepe. Lungo il rosso stinto della pista di atletica che gli corre intorno sono vecchie cicatrici nere. Nel verde stentato del campo da calcio sono ferite di fango, inferte a forza dai tacchetti dei giocatori. Sugli spalti vuoti sono di un grigio sfinito da troppe piogge e troppi inverni. Sul giallo del materasso che lo attende sono sottili e scure come capillari sotto la pelle. Giulio le guarda e non trova la forza di saltare. Neppure l’allenatore è venuto a sostenerlo in questo pomeriggio di nebbia, si fida della sua caparbietà, o della sua stupidità.
 Quattro e mezza. Luigi è in sala giochi a lanciar battute in un contorno di risate di ragazze con l’ombelico in vista, Marco è in palestra a sollevare pesi a ritmo di rock, Davide sta entrando in un altro dungeon, combattendo orchi armato di tastiera. Giulio stringe l’asta osservando le crepe della sua determinazione. L’elastico è sempre là, a quattro metri e mezzo, e Giulio si chiede che senso ci sia a raggiungerlo. Dopo averlo superato, dovrebbe prendere la scala, salire, spostare in alto di cinque centimetri l’elastico, scendere e tornare a saltare. Saltare, fino a superarlo di nuovo. Poi di nuovo la scala, salire, spostare l’orizzonte di altri cinque centimetri e scendere e saltare e continuare, fino alla fine del cielo. 
 Preferirebbe essere a casa a risolvere le equazioni per domani. La matematica gli piace, è un mondo ordinato di numeri e simboli senza variabili occasionali. Ti puoi fidare dei numeri come della buona asta in fibra di carbonio, gli uni e l’altra possono proiettarti in alto senza spezzarsi.
 La matematica dovrebbe essere fatta da uomini sicuri con pochi capelli in testa e gli occhiali sul naso, ordinati e rassicuranti come i loro numeri. Non da ragazze ricce e bionde con occhi verdi da gatto come Eva. Giulio ha perso la sua sicurezza nel saltare il giorno in cui Eva è entrata in classe. 
 L’aveva presa per una di quinta f che, per qualche motivo, vestisse da vecchia. Maglioncino e jeans né stinti né strappati, posati però su un corpo a cui non mancava niente. Piccolo, un corpo comodo, morbido da stringere e leggero da sollevare. Poi ha visto il suo viso. Quando Eva non sorride è una giornata senza sole. Quando il sorriso appare, è il mezzogiorno dei tropici. Ha sorriso, mentre, appoggiando la cartelletta sulla cattedra, si è presentata come la supplente di matematica.
 Per venti giorni, Giulio ha vissuto di matematica, sogni e salti, come se fosse possibile andare a fare solletico al cielo. Eva, come professoressa di matematica, è fisicamente sbagliata, induce a pensieri incerti, che difficilmente si lasciano imbrigliare in equazioni. Però riesce ad addomesticare i concetti e a renderli lisci, facili come un salto di due metri e trenta.
 In venti giorni, Giulio si è innamorato delle funzioni, ha scoperto di essere troppo alto e che seduto al banco sembra fatto solo di gomiti. Ha scoperto di odiare Luigi.
 Luigi passa la sera in quello stesso campo di atletica, ma non cerca di superare il vuoto, è uno di quelli che infligge ferite all’erba verde. Il calcio è una buona scusa. Una scusa accettata per sorridere e giustificarsi per i compiti non fatti. Luigi ha sempre un’impresa domenicale da magnificare e le ragazze lo stanno ad ascoltare. Luigi non è alto, ma i suoi muscoli si vedono. Siede al primo banco e ha sempre una domanda che sembra intelligente, anche quando non ha studiato. Eva ha sempre una risposta sorridente e gliela dà guardandolo negli occhi. Forse anche Eva lo trova bello.
 Giulio, invece, arranca all’ultimo banco, sempre preso nella morsa tra un allenamento e una verifica. Suo padre non gliele fa, le giustificazioni, anche quando torna a casa alle sei dopo aver perso il conto degli elastici saltati. La matematica gli piace, ma i compiti li fa sul pulman, la mattina, o all’intervallo. Sono esercizi disordinati che non lo fanno brillare né nel bene né nel male. Nessun prof ricorda chi prende sette e anche Eva non fa eccezione. In venti giorni Eva non gli ha mai sorriso guardandolo negli occhi. Fino a questa mattina. O, meglio, Giulio è certo che abbia sorriso a lui, ma anche Davide era sicuro di essere l’oggetto del sorriso. Però Giulio sa che Eva guardava lui e che le sue parole erano per lui. O che per lui dovevano avere un senso speciale, anche se non lo ha capito bene. Questa mattina è stata l’ultima di Eva. Domani la matematica tornerà ad essere stempiata e rassicurante. Questa mattina è stata l’ultima volta in cui i numeri hanno avuto i ricci biondi. Eva ha sorriso e li ha salutati e ha detto parole che Giulio non si aspettava. Ha detto che per la prima volta si è sentita vecchia e che prova per loro affetto e tenerezza. Ha raccomandato di essere come certe funzioni, che tendono all’infinito. Non lo raggiungono mai, ma continuano a tendere ad esso. Non dimenticate mai di tendere verso l’infinito.
 Oggi pomeriggio Giulio è tornato al campo di atletica. Lo ha fatto per non a pensare ad Eva, che se ne è andata a portare ricci ed equazioni ad altri visi e non tornerà più. Ma nel vuoto della nebbia sembra nascosto ovunque il suo sorriso, fermo là dove l’occhio non guarda, e nel tentativo di fissarlo Giulio ha trovato solo le crepe e ha ascoltato le loro parole. Gli dicono che non sarà mai un campione, che l’olimpiade che sognava da bambino la disputerà qualcun altro. Che continuerà a sembrare fatto solo di gomiti, rattrappito sul banco. Che non troverà mai una ragazza dal corpo piccolo e comodo, morbido da stringere e leggero da sollevare. Che non c’è alcun senso nel gettare il tempo in uno sport senza fama e senza eroi come il salto con l’asta.

   Adesso però sono le quattro e quarantacinque e Giulio è pronto a saltare. Quattro metri e mezzo, quattro metri e cinquantacinque, quattro metri e sessanta, forse. L’elastico è come Eva, qualcosa che non si può raggiungere.
 Alle quattro e quarantacinque, in mezzo alla nebbia, Giulio ha deciso che le crepe hanno ragione, gli raccontano esattamente la verità. 
 Lui, però, preferisce non starle ad ascoltare e tendere all’infinito.  

mercoledì 1 luglio 2015

Tutti i problemi del mio romanzo in stesura


Finito il secondo mese di lavorazione del mio nuovo progetto, è giunto il momento di fare il punto della situazione e, come promesso, vi tengo aggiornati.

Eppure il vento soffia ancora
Ecco, questa è senza dubbio la notizia migliore. Il vento della passione per questa storia soffia ancora e la stesura prosegue. Ho iniziato a mettere a punto la trama proprio il primo maggio e oggi inizierò, salvo imprevisti, il capitolo 19. Questo nonostante impegni e imprevisti, riunioni pomeridiane, qualche fine settimana via, insomma, pur con la quotidianità del lavoro e della vita famigliare il vento soffia e la scrittura procede.

A questo punto ci si sente proprio come a metà dell'ascesa verso una vetta. La valle è giù, lontana, si percepisce il senso della strada percorsa, ma la vetta è ancora avvolta dalle nuvole. E intanto si inizia a guardare alla ripida salita compiuta chiedendosi come sarà la discesa/revisione, solo in apparenza più facile, su quali passaggi sarà più probabile scivolare o, speriamo di no, cadere.
Perché i problemi ci sono. Solo un cieco non li vedrebbe. Problemi che al momento, in prima stesura, mi annoto, ma non riesco a risolvere. Proprio come certi passaggi in montagna, che si fanno in salita, ma intanto si pensa "io di qua non scendo!". 
Eccoli qua, i miei passaggi difficili.

Un primo terzo lentissimo
I primi 15 capitolo sono di una lentezza geologica. Si muovono più o meno al ritmo con cui si sposta una lingua glaciale. Atmosfera, personaggi che si incontrano, si sfiorano, si guardano e poco altro.
È una storia di segreti che riemergono e non possono farlo di colpo, come squali che improvvisamente saltano fuori dagli abissi. Però, ecco, qualcosa si potrà pur velocizzare senza perdere in atmosfera e costruzione del setting...
Inoltre è una storia con pochissima azione, tranne che alla fine. Dei protagonisti, una ha "un fisico da ballerina classica", l'altro usa il bastone, non è che li possa usare per inseguimenti e pestaggi. Non può essere quel genere di poliziesco. E ogni tanto penso "purtroppo". Forse è perché sono abituata a Holmes e a padre Marco che, insomma, se è il caso, un bel pugno sanno come tirarlo...

Un storia statica
Questi 19 capitoli si svolgono quasi tutti in quattro location. Scena del crimine, luogo usato come base/laboratorio, alloggio di lei, alloggio di lui.
Il fatto è che l'indagine prevede un lavoro davvero lungo sulla scena del crimine, Giorni e giorni di rilievi e analisi. Ho tagliato tantissimo i tempi, ma farlo ancora vuol dire buttare al macero ogni verosimiglianza. Quindi ho un personaggio bloccato per giorni e giorni nello stesso posto, alla sera è stremato, poveretto, e non è che ci si possa muovere...
Aggraviamo ancora la situazione, i due personaggi principali non hanno la macchina per motivi interni alla storia e importante a livello di trama. Ora, il fatto che fossero bloccati in un piccolo paese un po' opprimente era voluto, ma io sto iniziando a soffocare, figuriamoci il lettore.

Difficoltà a conciliare la trama gialla con quella rosa
Per la prima volta in una mia storia lunga c'è una vera storia d'amore. L'avevo promesso a uno dei miei personaggi, che appare nel racconto Certe Mattine all'interno dell'antologia Delitti di Lago, edito da Morellini. Nel racconto al poveretto accadevano parecchie brutte cose, tra cui essere mollato dalla fidanzata. Gli avevo promesso che non l'avrei lasciato così, solo e con una mezza idea di farla finita. 
Però se il giallo lo conosco e un pochino lo so scrivere, con le storie d'amore mi sento maldestra, goffa come una foca in un bar. Ho paura che le due parti, sopratutto, chissà perché, quando c'è il punto di vista di lei, si incollino in modo artificioso...

L'attualità entrata a tradimento nella storia
Ne ho già parlato, non era previsto che l'attualità entrasse di forza nella storia, ma è stato così. Anche se si tratta di una sottotrama, ormai c'è e il "politicamente corretto" è un po' andato a farsi benedire.

Mancanza di spalle comiche/scene che alleggeriscono
Pare che sia nel decalogo dei gialli italiani di successo. E, mi raccomando, che ci siano dei personaggi di spalla ben caratterizzati e un po' comici, come Catarella nel commissariato di Vigata, per intenderci. E poi i lettori non hanno voglia, pare, di storie troppo pesanti, si deve ridere, sorridere, almeno... Ecco, non succede, o succede molto poco. I miei due protagonisti sono in piena crisi personale, il terzo personaggio in ordine di importanza è pieno di problemi e nessuno di coloro che sta loro intorno è buffo in modo innocuo. Hanno tutti qualcosa da nascondere o hanno un grettezza pericolosa, decisamente non comica. È una storia dove c'è gente morta. È una storia autunnale, che si svolge durante un alluvione. È una storia di segreti sepolti.
E no, io non ho voglia di riderci sopra.

Ecco, questi non sono tutti tutti i problemi del mio romanzo, ma quelli che mi preoccupano di più. O, almeno, quelli di cui, al capitolo 19, sono consapevole.
Come procede il vostro progetto di scrittura? Quali sono i problemi che vi preoccupano di più?

Ah, dimenticavo, la versione riveduta e corretta del racconto Il caso del cucciolo di bulldog è approdata allo Sherlock Magazine on-line. La trovate qui. Un grazie speciale al responsabile del magazine che l'ha preparata in tempo record, e ha scelto per illustrarla uno dei miei Watson preferiti (il mio immaginatelo più giovane, ma proprio con quello sguardo)