lunedì 27 novembre 2017

I dubbi della mamma socratica – i grandi interrogativi


Una mamma socratica come me vive di interrogativi. Alcuni molto seri, del tipo come sopravvivere alle mamme non socratiche? Cioè quelle prive di dubbi, quelle del "si fa così perché ho ragione io", che abbondano sopratutto in rete e non danno consigli, ma diktat.
Per fortuna la pupattola risponde in modo deciso (eh, ha un bel caratterino, ci dicono dall'asilo) a molti dei dubbi della mamma socratica.
Si troverà bene all'asilo? Ciao ciao, mamma. E si dirige verso i giochi senza un minimo cenno d'ansia da separazione.
Mangerà abbastanza? Ancora un po' e ci svuota la dispensa a ogni pasto (anche se è iniziata la guerra selettiva alle verdure)
Dormirà abbastanza? Lei sì, noi no.

Rimangono alcuni interrogativi, dubbi su cui bisognerebbe indagare in modo scientifico (ma anche no, non so se voglio sapere davvero)

Cosa contengono davvero alcune pappe pronte?
La pupattola è una buona forchetta. A parte certe verdure, che vengono accuratamente isolate dal resto del cibo, ripulite da ogni residuo di altri alimenti e gettate sotto il tavolo appena mamma si distrae, mangia quasi tutto. Ha sempre preferito il "cibo vero" all'omogeneizzato, tanto che tutte le mie scorte mai utilizzate sabato sono state devolute al Dona Cibo. Con un'unica eccezione. Una "pappa completa" di una nota marca, chiamata "la pappa gialla" per il suo colore, per altro non chiaramente correlato agli ingredienti.
Niente, non c'è giornata storta o situazione disagevole che prevalga sulla pappa gialla. Quando tutto fallisce, è una sicurezza. Basta fargliela vedere per scatenare urla di giubilo e trepidante attesa. 
Eppure la pappa è praticamente insapore, dalla consistenza acquosa è la cosa che d'istinto assoceremmo alla parola "sbobba". Nessuna delle altre numerose pappe pronte di quella o di altre marche ha lo stesso fascino. La pappa gialla, invece, è stata mangiata in ogni condizione, in un caso semi fredda in un parcheggio, allungata con qualsiasi altro alimento, scatenando sempre lo stesso entusiasmo.
Lo studio accurato dell'etichetta non è riuscito a svelare né l'origine del colore né questa predilezione. Riamane uno dei misteri insoluti dell'universo degli infanti.

Cosa nasconde davvero Peppa Pig?
I nostri tentativi di crescere una figlia lontana dalla tv sono naufragati dopo i primi cinque minuti di accidentale visione di questo famigerato cartone animato. All'epoca il vocabolario della pupattola avrà avuto si e no 20 parole, ma si è subito arricchito della parola "Peppa!",  corredata da grugniti di gioia.
Al momento Peppa Pig è il premio serale dopo la cena, cosa che permette a noi grandi di bonificare la cucina (andando a caccia di tutti i pezzi di verdura gettati in giro). Inevitabilmente ci siamo fatti anche noi una cultura in merito. Io e il marito abbiamo notato che si tratta di un cartone animato dotato di una forte coerenza interna. E qui sono partiti gli inquietanti interrogativi.
Molte delle famiglie presentate appartengono ad animali dalle cucciolate numerose. Eppure solo tra i conigli sono apparsi dei gemelli. Non dovrebbe avere molti gemellini Peppa e così pure George? Mio marito ha ipotizzato che la società di Peppa Pig si regga su un terribile segreto. Per ogni cucciolata, secondo lui, viene tenuto solo un cucciolo. E che fine fanno gli altri?
Inutile dire che appena questo dubbio si è insinuato nella mia mente ho iniziato a trovare estremamente inquietante il cartone animato.
La pupattola, per fortuna, è del tutto ignara dei nostri dubbi, continua a grugnire felice e a gridare "Peppa!" per tutta la sigla e va bene così.
Però il dubbio rimane...

sabato 25 novembre 2017

Le donne della storia a cui sto lavorando

Questi sono giorni in cui ci si mobilita contro la violenza sulle donne. Violenza che spesso non è solo fisica, è la pacca sul sedere, il commento per cui sei zoccola solo perché ti vesti in un determinato modo, è l'idea che non puoi, solo perché sei donna.
Per la prima volta, sto lavorando a una storia che è quasi al 100% femminile. Spero che siano personaggi femminili veri, con il loro carico di passione e sentimento. All'inizio le mie protagoniste sono delle perdenti ed è così che voglio presentarvele, con i loro dolori, fin troppo comuni, ancora ben vivi.

Veridiana
Anche se il giorno in cui lei aveva organizzato tutto per presentarlo a suo padre, Gualtiero si era trovato con trentanove di febbre e nessun anello col brillante sembrava voler apparire al suo dito, non c’era stato un momento in cui Veridiana aveva supposto che le intenzioni del giovane fossero meno che oneste. Abituata ad essere l’unica figlia dell’uomo più influente del paese, non era pronta a capire che c’erano al mondo partiti migliori di lei. Di Gualtiero non si era accorta del gentile, ma assiduo, salutare la figlia del professore ordinario, né poteva sapere dei fiori che le venivano inviati ogni domenica mattina. Veridiana era arrivata del tutto impreparata al giorno in cui Gualtiero Molinari pubblicava a proprio nome l’ultima parte della ricerca sul Mantegna scomparso e, contemporaneamente, annunciava il proprio fidanzamento con la figlia dell’ordinario. Il cuore di Veridiana si era frantumato all’istante, per poi ricompattarsi, non più di carne e sangue, ma del granito del Montorfano, una montagna poco distante da Roncaglio, il cui nome dava perfettamente l’idea dello stato d’animo della donna. 


Palmira
Dopo seicento anni non ci sarebbe più stata una Strigoni a Roncaglio. Nessuno più che sapesse estrarre il veleno da una vipera, far cicatrizzare una ferita con le giuste foglie o rimettere a posto una spalla lussata senza quasi fare urlare il proprietario. Nessuno più che sapesse quali fiori cogliere nel cimitero nelle notti di luna piena e su quali pietre versare un bicchier d’acqua per far cessare la siccità. Nessuno più che sapesse perché c’era un carpine vicino al masso erratico, nei boschi appena fuori dal paese e il modo in cui una donna appena sposata dovesse toccare pianta e sasso per essere sicura di rimanere incinta. L’ultima casa del paese, che non era più l’ultima, con tutto quel gran giardino, sarebbe stata comprata dall’immobiliare che da due anni faceva loro il filo, l’avrebbe abbattuta per fare spazio a una palazzina.


Marieme 
...Era una donna sola, arrivata in Italia incinta, pensando che il medico italiano responsabile di quella sua condizione l’avrebbe sposata. Aveva scoperto che l’affascinante volontario che le aveva giurato amore eterno di moglie ne aveva già una e anche di figlia. L’aveva messa a tacere aiutandola con il permesso di soggiorno e istradandola verso un centro di aiuto per ragazze madri, perché non finisse in mezzo alla strada. Solo quando si era impratichita con la lingua e la legislazione, Marieme si era resa conto che il buon medico avrebbe avuto il dovere di riconoscere la piccola e provvedere a lei, ma, come molte donne in quella situazione, a quel punto era troppo impegnata a sopravvivere per gettare energie in una battaglia legale e poi aveva ancora l’orgoglio di riuscire a farcela da sola.

Albina
Era cresciuto considerando la madre una figura incolore contro cui il marito riversava tutte le sue frustrazioni. Una creatura apparentemente senza personalità propria, senza desideri o aspirazioni il cui unico scopo era nutrire i famigliari e produrre lamentele prolungate che non prendevano mai una forma propositiva. 

Inutile dire che le mie quattro donne riusciranno alla grande a riprendersi in mano la propria vita, purtroppo questo è un romanzo e che nel mondo reale non sempre accada.

mercoledì 22 novembre 2017

Di ruolo, ma non troppo


C'è una rubrica che appare ciclicamente su questo blog mio malgrado. 
Quella delle mie vicissitudini da prof. Innanzi tutto vorrei che non esistesse per un motivo preciso: non avere vicissitudini, limitarmi a alunni bravi, meno bravi, genitori collaborativi, meno collaborativi, riunioni interessanti, meno interessanti, colleghi, insomma il mio desiderio di vita non noiosa sarebbe già appagata così.
Poi, però, c'è tutto questo mondo folle di burocrazia scolastica che genera racconti surreali che a inventarli non verrebbero neppure sotto LSD.

Pensavate che ora che sono di ruolo non avessi più di che scrivere?

Il fatto è che non sono ancora del tutto di ruolo.
Avendo passato lo scorso anno scolastico in maternità, adesso sono in pieno "anno di prova".

Come il solito in un mondo ideale il tutto avrebbe senso. Io dovrei essere una giovanissima neolaureata che dopo un percorso abilitativo e un concorso per la prima volta quest'anno metto piede in una scuola. Affiancata da una docente esperta imparo per la prima volta il mestiere, rifletto sul tipo di prof che voglio essere, seguo dei corsi e produco una tesi.
Come se i miei quasi dieci anni di precariato non fossero mai esistito.

Quindi oggi sono di nuovo migrata verso la cittadina, alla solita oretta d'auto dalle mie lande, per migliorare l'unica competenza davvero accresciuta con tutto questo percorso: guidare di notte nel traffico.
Anche questa volta non sono mancati i momenti surreali regalatici da un formatore più consapevole di quanto visto precedentemente della sua utenza effettiva:
"Mi avevano proposto di farvi un laboratorio sull'alternanza scuola-lavoro, ma un buon terzo di voi lavora alla scuola dell'infanzia, che dite, li mandiamo a lavorare subito?"
"Obblighi importanti: non uccidete gli alunni, non uccidete il preside, almeno per quest'anno"
"Va beh, nel documento finale ricordatevi di dire che avete imparato qualcosa. Che so, numerate le vostre competenze e fate in modo che ce ne sia almeno una in più rispetto al documento di partenza".

Cose positive di questo primo incontro? Finalmente ho avuto il tempo per pensare bene a un racconto. In questi casi, quando sale lo stress da cose da fare, torno sempre a rifugiarmi nel salotto di Baker Street.

Spero di non avere nuove puntate per questa rubrica, ma tra documenti da compilare, corso da seguire e piattaforma on-line non dubito che qualcos'altro salterà fuori.

lunedì 20 novembre 2017

Il difficile equilibrio della leggerezza


Scrivevo qualche post fa, prima che il cervello si ibernasse, che da un libro cerco intrattenimento o ragionamento. Meglio entrambe le cose, ma almeno una delle due.
Ma è così facile scrivere un buon intrattenimento, un libro leggero, da leggere tutto d'un fiato?

L'altra sera un'amica diceva che un buon libro non può essere solo "godibile" e sul momento le ho dato ragione. 
Però adesso, a mente fredda, non so. 
C'è un tempo per le storie impegnate, un tempo per le storie emozionanti e un tempo per le storie godibili.
E una storia godibile facile da fruire non è affatto detto che sia una storia facile da realizzare. Non per niente le belle commedie che non scadono nel volgare, nella noia e nel già detto sono così rare.

Vi è mai capitato di guardare una gara di ginnastica artistica o ritmica, alle olimpiadi? 
Le ginnaste completano l'esercizio in pochi secondi, sorridendo. Sembrano svolgere gli esercizi con  naturalezza, come se fosse la cosa più facile del mondo. Le loro esibizioni sono gradevoli, tanto che molta gente, come me, guarda volentieri le gare senza in realtà capirci molto. 
Dietro c'è un lavoro ossessivo, perché non dico un piede in una posizione spagliata, ma un dito che manca una presa alle parallele ed è il disastro.
Eppure tutto risulta spontaneo, quasi gioioso.
Credo che le buone commedie siano così.
 Qualche settimana fa ho rivisto Come sposare un milionario.
 È un film che io continuo a riguardare ogni volta che Sky me lo elargisce. È del 1953 e, a ben vedere, la sua età la mostra. Le protagoniste non hanno altra aspirazione a parte il buon matrimonio. Sono astute e infingarde ma, in quanto donne, alla fine vengono tradite dai sentimenti. Dovrebbe cozzare con tutte le mie professioni di femminismo. E invece niente, lo guardo estasiata ogni volta. Perché i tempi comici sono perfetti, l'ironia è graffiante e non salva nessuno e l'eleganza della messa in scena è impeccabile.
Tra i film più importanti di sempre quasi nessuno lo cita perché, insomma, è solo una commedia, non ha neppure pretese di critica sociale. Non ha altro scopo che farci passare del tempo in modo piacevole. Non apre chissà quali riflessioni, non ci rivela verità nascoste. Persino la recitazione sovraffina passa in secondo piano, perché è a servizio della storia e non serve a far pavoneggiare gli attori. Ha oggettivamente meno ambizioni di A qualcuno piace caldo. Al contrario di quest'ultimo non è un capolavoro, è solo piacevole. Però viene trasmesso in modo regolare dal 1953 e si continua a guardarlo.
Questo perché non c'è nulla che sia fuori posto. E una tale precisione che dia come risultato una tale impressione di leggerezza è difficilissima da ottenere.


Per una volta, con la storia che ho appena terminato di revisionare, anch'io ho provato il cammino della leggerezza. E l'ho trovato difficilissimo.
Se non si cerca la risata sguaiata né il melodramma, bisogna camminare sulle punte, rischiando di scivolare a ogni passo.

Se mai dovesse essere edito, questo libro sarà di quelli che si leggono in due sere.
Non ha alcuna ambizione di cambiare la vita ai lettori. 
Vuole intrattenerli, farli sorridere, sorprenderli, magari, con qualche svolta imprevista.
E sembrerà quasi assurdo dire che, al netto delle pause obbligate, ho faticato un sacco a definire la trama, a tenere le redini della vicenda e a gestire lo stile di una storia in apparenza così facile.

Del resto, però, in certi pasticcini che si mangiano in un boccone c'è più lavoro che in un sontuoso arrosto.
Non ho alcuna idea, ancora, sull'effettiva riuscita dell'opera, ma vorrei tanto che fosse un buon pasticcino, da gustare in un attimo di godimento, a dispetto di tutto il lavoro di preparazione.

Voi cosa ne pensate? Qual è la vostra "lettura pasticcino"? Ne avete scritte?

giovedì 16 novembre 2017

Pemmican – racconto breve completo

Niente da fare. Il cervello continua a essere in modalità letargo. Ogni tanto lo sento russare. Di solito in quel momento sto cercando di spiegare o dire qualcosa di sensato in una qualche riunione, con il risultato di avere l'impressione di nuotare nella melassa.
Non ho voglia, però, di lasciar languire il blog e dalla profondità dei miei archivi riemerge un racconto di quando invece le connessioni neuronali funzionavano.

PEMMICAN


Il pemmican ha il sapore del canto delle donne e il calore di un'estate di vittoria.
Mentre cuoce la carne, lenta, sul fuoco,
mentre lento lievita il pane,
mentre i miei figli inseguono i cani
e il mio uomo a cavallo li guarda,
io cucio una veste.
Molti punti per molti giorni
Molti giorni di sonno e di cibo
Molti giorni di guerra e di caccia
Che il tempo consuma.

  Sento il sapore delle grida di uomini e bambini che si mescolano nel grande accampamento di guerra, mentre l’odore grasso del tanka-a-me-lo si alza in volute dense dalle pignatte piene della fatica dei cacciatori.
 Sento il sapore dolce delle mani di Pernice Bianca che con la pietra sbriciola la carne rossa secca e canta.
Oltre i luoghi del mistero
Oltre i luoghi del mistero
E sopra la mia testa soffiano i venti
E le mie orecchie li raccolgono più forti.

 Potevamo cantare, allora, nell’esaltazione dell'estate, perché avevamo osato alzare la testa nonostante il vento furioso, prendere la carne degli ultimi bisonti per nutrire guerrieri.  Potevamo cantare allora, perché nel piccolo fiume l’acqua era diventata del colore del sangue dell’uomo bianco. Pernice Bianca poteva mischiare carne e grasso in parti uguali per l’inverno. Sapevamo di essere deboli, ma ci sentivamo forti. Perché potevamo morire guardando il sole negli occhi.
Ma io corsi tremante più avanti
Io corsi tremante più avanti,
perché archi e frecce mi perseguitavano
molti guerrieri erano sul mio sentiero

 Carne e grasso e polvere di ciliegie secche, mischiava Pernice Bianca dalle dita sottili, per portare il sole nel nostro inverno. 
 Ma quali mani impasteranno il pemmican la prossima estate? Dove sono le mani di Pernice Bianca, uccisa da cinque colpi, come un guerriero, dopo aver avuto tre uomini addosso, nell’autunno della nostra fuga? 
 Con quale carne si mescolerà il pemmican la prossima estate? 
Da quando era sorto per la prima volta il sole, da quando la prima stella era spuntata nel cielo, il bisonte ogni primavera tornava agli stessi pascoli. Ho calpestato le loro ossa sotto la neve, abbattuti a centinaia per portare la fame alle nostre tende.
Quale cavallo può catturarmi?
Quale cavallo può catturarmi adesso?
Il cavallo con la stella sulla fronte
Eccolo, corre e guadagna su di me.

 Anche adesso, nell’inverno dell'ultima neve, il pemmican ha il sapore del canto delle donne.
 I soldati risalgono la valle e il cavallo trema, sotto di me, troppo magro per reggere a lungo il mio peso.
 Ho ancora in bocca il sapore dell’ultimo boccone. 
 Cavalco nel sole dell’estate della nostra vittoria.

Siamo qui, in riposo insieme
Siamo qui in riposo insieme,
cantando il canto dell’oriente
e il canto dell’occidente.



NOTA: i brani di poesia sono liberi adattamenti di canti dei nativi americani 
Il Tanka-a-me-lo è lo stufato di bufalo, piatto tradizionale delle tribù delle pianure. 
Il Pemmican è un cibo preparato con carne secca di bufalo o cervo sbriciolata mescolata con grasso e ciliegie o frutta selvatica secca. Veniva consumato in inverno o come “cibo da viaggio” 

domenica 12 novembre 2017

Quando si scrive a pezzi e a bocconi...

... E poi si revisiona!

Come sarà una storia scritta tra un cambio e una pappa da preparare? Iniziata tra una prova e l'altra di un concorso, con la propria vita rivoluzionata in mezzo, continuata nei minuti rubati al sonno, scritta in viaggio, nel senso che a volte il marito guidava, la pupattola dormivo e io scrivevo?

Innanzitutto è una storia. 
Non ci avrei scommesso.
Ha un capo e una coda e bene o male la successione degli eventi fila.
Però, ecco...

Come chiamo quel personaggio? Allora, vediamo, è uno storico dell'arte, è un personaggio secondario ma dovrà tornare in scena, devo ricordarmi il nome... Facciamo come l'ex collega di artistica, che ha un some facile, come un noto liquore? Ma un liquore tira l'altro, solo nella mia mente, non pensatemi (troppo) alcolizzata, e il personaggio ha cambiato cognome e pure digestivo.

Questo capitolo qui? Non è meglio dopo? O più avanti? E così me lo trovo due volte a inframezzare la narrazione, in entrambi i casi al posto sbagliato.

E due capitoli 20 sono sicuramente essenziali.

E la storia della tipa, che è importante, ma non a questo punto, forse deve saltar fuori più avanti, forse prima, forse... Mi sa che l'ho proprio cancellata dalle bozze.

Che poi questi marescialli, è così importante che abbiano un nome? E se avessero un problema di personalità multiple? Così giustifico il fatto che entrino in scena sempre con nomi diversi. Anche adesso ho usato il plurale, ma il personaggio è uno solo.

Per non parlare di un personaggio misterioso, chiaramente dotato di super poteri che riceve una lettera in California, parte dall'Inghilterra e cena in Italia più o meno in giornata.

Però, vi assicuro, pensavo che la situazione fosse pure peggiore.
Adesso devo capire di che colore hanno gli occhi le protagoniste, perché ho talmente mescolato le cose che penso che ognuno dei tre personaggi principali li abbia almeno di due colori.

A voi è mai capitata una cosa del genere?

giovedì 9 novembre 2017

Il femminismo di cui sento la mancanza

È da tempo che medito questo post e, dato che il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, giornata in cui di solito si sentono dire un sacco di banalità, si sta avvicinando, ho deciso che non poteva più aspettare.

Nessuno più di me conosce le assurdità e il fanatismo di un certo femminismo. Perché mia madre apparteneva a quelle correnti femministe. Nel suo benintenzionato tentativo di crescermi in modo più possibile neutro, mi ha convinto che gli orecchini fossero come gli anelli al naso delle mucche e che truccarsi volesse dire nascondersi e vergognarsi della propria faccia. Nelle foto dei primi anni delle elementari sono indistinguibile dai maschietti, con i capelli a spazzola e i pantaloni. L'unica gonna rosa che possedevo me l'aveva comprata mia nonna di nascosto e la indossavo solo quando stavo da lei e mia madre era ben lontana.
Per questo, suppongo, negli anni del liceo, quando cercavo un equilibrio tra identità e accettazione, spesso esordivo con "non sono certo femminista, ma..." 
Del resto quel "non sono certo femminista" andava e va per la maggiore e nessuno più di me capisce la necessità di prendere le distanze da un certo femminismo.
Eppure oggi, che mi trovo a formare nuove generazioni e a crescere una figlia, di un po' di femminismo sento la mancanza.
Non tanto del femminismo di mia madre, che voleva imporre un nuovo modello femminile che, in quanto imposto, risultava coercitivo tanto quello precedente (e comunque no, i buchi alle orecchie non li farò mai e mia figlia li farà, se vorrà, raggiunta l'età della ragione, perché nessuno è ancora riuscito a convincermi che non sia traumatico quanto la marchiatura del bestiame).

Il femminismo di cui sento la mancanza è quello che non dice che le donne devono, ma che le donne POSSONO. 
Che possono partire e scalare l'Everest oppure stare a casa a fare le casalinghe, secondo la loro indole e la loro attitudine. E che una donna che scala l'Everest ha diritto, se lo desidera, a costruirsi una famiglia come quella che fa la casalinga e che nessuna debba considerarsi o essere considerata una donna migliore (un'alpinista migliore in un caso, una cuoca migliore in un altro, in entrambi i casi persone).

Mi manca il femminismo che ha lottato perché l'uguaglianza fosse sancita sul piano legislativo. Perché è troppo facile dimenticare che mia nonna per parte della sua vita non ha potuto votare.

Mi manca il femminismo che ha lottato perché fossero approvate alcune leggi di cui personalmente non voglio che avvalermi, ma che trovo sacrosanto ci siano. Perché è troppo facile dire che l'aborto è male (cosa su cui a livello personale posso anche essere d'accordo) e poi fingere di non vedere se viene praticato al di fuori della legge. È molto più difficile e onesto e faticoso accettare che una pratica che non si riesce a debellare sia legale e operare attivamente perché chi si trova in condizioni di disagio con un figlio non voluto possa crescerlo in modo dignitoso.
Perché, parliamoci chiaro, se una ragazzina molto giovane rimane incinta, per dire, il lui del momento si eclissa e per lei portare avanti una gravidanza è un martirio sociale. Oltre a tutte le difficoltà intrinseche viene additata come zoccola e come se quel figlio fosse una colpa da scontare.
Mi manca un femminismo che spieghi a tutti che una ragazzina incinta non sta espiando una colpa e che ha il sacrosanto diritto a vivere la sua età e la sua condizione insieme, se lo desidera.
Mi manca un femminismo che dica a chiare lettere che il "si fa ma non si dice", magari in strutture non a norma, è assai peggio del "lo si fa in casi estremi in sicurezza e legalità".

Mi manca, mi manca tantissimo un femminismo che metta al centro la solidarietà.
Ci pensavo vedendo un film ambientato negli anni '70 (non in Italia) in cui c'era una manifestazione di solidarietà per la vittima di una violenza da parte di un gruppo femminista.
In Italia negli ultimi mesi gli episodi di violenza a danni delle donne non sono mancati, ma la solidarietà non l'ho vista.
Ho visto cose agghiaccianti dette da donne ad altre donne.

Due fatti, più di altri, mi hanno agghiacciata (per sensibilità personale, suppongo).
Il caso della ragazza sfregiata dal suo ex che torna a lavorare come addestratrice di otarie e a cui alcuni sedicenti animalisti augurano le peggio cose perché nella struttura per cui lavora, a sua insaputa, potrebbero esserci stati maltrattamenti agli animali.
A parte la follia del prendersela con lei (se un'ipotetica collega in un'ipotetica altra classe ha un comportamento scorretto io non ne ho colpa e probabilmente neppure lo so), la follia più follia è che le "peggio cose" avevano a che fare con quanto già aveva subito.

Ancora peggio, per la mia sensibilità, il caso delle ragazze straniere che accusano di stupro due carabinieri.
Mentre i magistrati nelle ore immediatamente successive andavano parlando di "gravi indizi di colpevolezza" e, almeno per uno dei dei due indagati di "precedenti da tenere in considerazione", si scatenava ogni sorta di commento, non solo al bar o su fb, ma anche su i mezzi di comunicazione gestiti, in teoria di professionisti.
Invece di essere preoccupati dal fatto che, nella migliore delle ipotesi, in questo caso si avevano dei tutori dell'ordine che in servizio si facevano gli affaracci propri e nella peggiore un reato grave, tanti blateravano di ragazze che volevano incastrare i carabinieri a fini estorsivi e di atteggiamenti provocanti. Molti di questi erano donne.
Da ex studentessa turista all'estero ho pensato a tutte le volte in cui una persona armata e in divisa avrebbe potuto avvicinarmi. Come mi sarei sentita? Inerme e terrorizzata. Cosa avrei fatto? Tutto il possibile per limitare i danni e uscirne viva.
Cosa caspita è accaduto al nostro paese perché il primo pensiero fosse contro le vittime?
Perché mai la solidarietà alle vittime è stata data solo in forma personale e a macchia di leopardo?

Ho scelto dei fatti accaduti mesi fa per evitare di citarne altri su cui il polverone è ancora alto, eppure non in un caso c'è stato un movimento di solidarietà nei confronti delle vittime.
Gli atti di violenza in sé mi spaventano fino a un certo punto. Quello che mi terrorizza è questo dilagante pensiero che sia la vittima a dover dimostrare di essere tale, non il presunto colpevole a dover dimostrare la sua innocenza, come avviene in qualsiasi altro genere di accusa. L'idea che la vittima sia un pochino colpevole perché "provoca", "se l'è cercata", "non era certo una santa". Mi terrorizza il fatto che a esprimere queste opinioni siano altre donne.

Sento la mancanza di un certo femminismo. Fatico a trovare siti e luoghi di incontro che trattino questi temi non perché "è la giornata contro la violenza sulle donne e dobbiamo farlo" e si adoperino sul territorio per combattere la disparità di genere.

Mi interrogo, come prof, come mamma, ma anche come autrice su come si possa fare. Non giungo, però, a risposte rassicuranti, perché l'azione del singolo, quando si tratta di smuovere mentalità, a meno che non sia eclatante, agisce solo fino a un certo punto.

martedì 7 novembre 2017

Una serata dedicata a Innocenzo Manzetti (e a Sherlock Holmes)

Come ho già avuto di raccontare Innocenzo Manzetti è forse il più bistrattato tra i grandi uomini d'Italia. 
Sfortunato da morto come da vivo non gli è stata riconosciuta la paternità di molte invenzioni. Tra queste, una piccola piccola, il telefono, quando Meucci stesso riconosceva che gli studi di Manzetti erano più avanzati dei suoi.
Ha inventato anche un sacco di altre cose, la mia invenzione preferita è la sua macchina a vapore, con un'autonomia su strada e una maneggevolezza che nessun altro mezzo a vapore aveva. 

Un manipolo di studiosi oggi cerca di divulgarne la storia e si batte (oddio, detto così fa cosa molto epica, ma è semanticamente corretto) perché i suoi meriti vengano riconosciuti.

Personalmente mi sono innamorata della sua storia e l'ho messa al centro del mio romanzo Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico. Grazie ad Holmes ho potuto indagare su Manzetti e sulle sue mille invenzioni.

Se anche voi siete incuriositi e ne volete sapere di più ne parleremo la sera di venerdì 10 novembre a FONTANETO D'AGOGNA (NO) presso La Casa di Paglia.

Per chi volesse leggere il mio romanzo, lo travate in vendita qui, come tutte le mie altre pubblicazioni sherlockiane, tra cui l'ultimo Sherlock Holmes contro il Fantasma dell'Opera

sabato 4 novembre 2017

Come giudico un libro



È già da un po' che sto ragionando a un post su come io giudico i libri che leggo (anche ad uso degli incauti che mi propongono di recensire le loro opere).
Credo sia inevitabile partire dalle aspettative, perché del resto è così in ogni campo di giudizio. Ci sono volte in cui mangio alla mensa della scuola. Non ho certo le aspettative di quelle rare volte in cui mi capita una cena in un ristorante stellato. Se non è scotta, troppo salata o al contrario insipida, la pasta della mensa è "buona" e faccio i complimenti alla cuoca, consapevole che cucinare a basso costo per decine e decine di persone non è affatto facile. Ci vuole persino più tecnica che per cucinare per quattro gatti avendo a disposizione attrezzature super raffinate. Lo stesso piatto, quindi, propinatomi per altro a un costo ben diverso in un ristorante stellato lo tirerei dietro allo chef. 
Un giudizio, quindi, quale che sia, parte sempre in qualche modo dalle aspettative di chi giudica.

Le mie aspettative nei confronti di un libro sono essenzialmente due:
INTRATTENIMENTO
RIFLESSIONE

Non è detto che le due cose debbano essere distinte, anzi, i miei libri preferiti sono quelli che mi fanno riflettere mentre mi intrattengono, ma almeno una delle due cose un romanzo me la deve offrire.

Quando si legge per puro intrattenimento il gusto personale ha un peso enorme. Per questo trovo per certi versi pretestuose alcune critiche a Moccia, Volo o a quella delle 50 Sfumature basate essenzialmente sul gusto. Come io ho il sacrosanto diritto di intrattenermi, come ho appena fatto, con Marco Malvaldi e il suo Nell'occhio di chi guarda, altri hanno il sacrosanto diritto di intrattenersi con Fabio Volo. 
Questo non vuol dire che "va bene tutto e tutto è soggettivo".
Può essere emesso un giudizio tecnico nei confronti della scrittura, della struttura della storia e del genere di appartenenza. Anche perché non è affatto vero che un romanzo di intrattenimento sia facile da scrivere. Provateci voi a scrivere un Harmony, vi assicuro che non è facile.
Bazzicando io il genere giallo, posso quindi dire se un giallo è più o meno riuscito di un altro da un punto di vista tecnico, se più o meno scontato capire chi sia l'assassino, le l'indagine è credibile, se l'approfondimento psicologico dei personaggi è sensato in quel tipo di storia, se lo stile ha quel guizzo che gli permette di distinguersi dagli altri. 
Quando poi ho due gialli ugualmente riusciti in mano, uno mi piacerà di più, magari l'altro non mi piacerà per niente. Lì entriamo nel mondo del gusto personale, per cui Marco Malvaldi quasi sempre mi piace e Gianni Simoni ha tutta la mia simpatia umana e la mia stima professionale, ma non sono mai riuscita a finire con gusto uno dei suoi gialli. Su Malvaldi o su Simoni il mio giudizio è essenzialmente tecnico, sono a mio avviso due grandi giallisti, però, per carità in queste sere datemi un Malvaldi.

Diverso è il caso di un romanzo che non si proponga come puro intrattenimento.
Un romanzo che si propone (o viene proposto dall'editore) come "un libro importante" o "destinato a durare" ha il dovere di portare la mia mente su sentieri che non avrebbe intrapreso da sola.
Non deve essere una lettura divertente. 
Non deve essere una lettura facile.
Non devo trovare simpatico il protagonista.
Non devo essere d'accordo con il pensiero dell'autore.
Devo essere stimolata, attraverso il percorso narrativo che mi propone a formulare pensieri nuovi, a soffermarmi su fatti, luoghi del mondo, periodi storici, problematiche che non avrei affrontato autonomamente. Deve spingermi a schierami, farmi arrabbiare, rattristarmi, smuovermi emozioni profonde. Deve infilarsi nella mia testa e costringermi a vedere il mondo con gli occhi dell'autore, anche per rendermi più consapevole che il mio pensiero è totalmente diverso.
Per questo credo che "carino" e "piacevole" siano parole che calano come pietre tombali sopra dei libri che non si pongono come puro intrattenimento. 
"Carino" va bene per un Harmony non troppo riuscito, che mi ha comunque alleviato il tedio di un viaggio in treno troppo lungo, non certo per un romanzo di un premio Nobel.
"Picevole" è già svilente per un romanzo di Marco Malvaldi da cui mi aspetto "sommamente divertente", per un romanzo che si pone come una rivelazione della letteratura mondiale è una stroncatura bella e buona.

Mi rendo conto di non essere una lettrice facile. 

La lettura è un investimento non indifferente di tempo e di energie mentali. 
Se voglio essere intrattenuta voglio essere intrattenuta con un libro tecnicamente ineccepibile e che rispetti il mio gusto. 
Se invece mi si pone davanti una "lettura impegnata", ebbene deve essere all'altezza dell'impegno che mi richiede e portarmi dove la mia mente da sola non sarebbe andata.
Non ho tempo né energie da dedicare a libri carini, piacevoli e insapori.

Voi come giudicate un libro?

mercoledì 1 novembre 2017

Piovono Libri – Volo di notte

Questo mese il gruppo di lettura ci ha portato a librarci con i piloti del servizio postale notturno di Volo di notte di Antoine de Saint-Exupéry.
Purtroppo non non ho partecipato alla riunione, era già qualche giorno che si dormiva poco, forse a causa dei prodromi di una tonsillite della pupattola esplosa poi lunedì. I miei fidi compagni di letture, però, mi hanno recapitato foto e riassunto i commenti.

Come il solito mi ha colpito la mia ignoranza, dell'autore conoscevo solo Il piccolo principe e non avevo mai letto altro.
Da ignorarte sono stata colpita dal fatto che il racconto abbia, a mio avviso, il proprio cuore più a terra che in cielo.
Si narra infatti di una lunga notte in un servizio postale aereo notturno sudamericano. Ci sono tempeste di sulle Ande. Qualcuno arriverà a destinazione, qualcuno no. Qualcuno si preparerà a partire a sua volta. Delle mogli attenderanno. La gran macchina organizzativa non dovrà smettere di funzionare.
Tra i personaggi quello che mi ha colpito di più è senza dubbio Rivière, il responsabile della rete di trasporti, che deve far sì che tutto funzioni. Per ottenere il risultato si disumanizza, reprime i propri sentimenti, chiede ai suoi diretti sottoposti di fare altrettanto e tratta gli altri come ingranaggi. La perdita di un pilota è, prima che un dramma umano, un pericolo per il sistema, che deve essere salvaguardato ad ogni costo. 
Mi ha colpito il fatto che il giudizio implicito dell'autore su di lui non sia negativo. Il buon Antoine, lo sapevo perfino io, ha fatto parte di un servizio postale aereo, occupandosi di voli notturni ed è poi scomparso insieme al proprio veivolo durante la seconda guerra mondiale. 
Il libro, che è un po' eccessivo definire "romanzo", con le sue cento pagine non proprio fitte, è dedicato a tale Didier Daurat, capo del pilota Saint-Exupéry e, almeno secondo la mia edizione, ispiratore del personaggio di Rivière.
Ecco, mi ha fatto una strana impressione il fatto che l'autore presenti sotto una luce quasi eroica un uomo che in nome di una chissà quale idea di progresso porta i suoi sottoposti al limiti e non li mette in condizione di prendere tutte le precauzioni necessarie per la loro sicurezza (già comunque precaria per gli aviatori di quegli anni).
Ai miei occhi la durezza di Rivière non può essere in alcun modo giustificata, sopratutto quando a farne le spese è la vedova di un pilota o un sottoposto la cui unica colpa è quella di cercare un poco di amicizia. L'autore, però, la vedeva evidentemente in modo diverso. Senza Rivière i piloti non avrebbero dato il massimo, non avrebbero scoperto cosa potevano davvero fare e a star davvero a pensare al costo umano forse non si sarebbero mai autorizzati i voli notturni. Mi ha ricordato certi allenatori nei cartoni animati giapponesi sportivi, che erano evidentemente dei sadici ma venivano elogiati in nome dei risultati che portavano alla squadra o alla nazione.
Questo mi ha lasciato una grande tristezza. Perché forse sono proprio i Rivière che portano l'umanità sulla strada del progresso eppure io non riesco a convincermi che sia una strada giusta.

Mi ha colpito sapere che nella riunione non si sia parlato tanto di Rivière, quanto del pilota disperso nella tempesta. Dei rischi che si prendono scegliendo attività estreme. Se sia giusto, nel caso si facciano certe scelte di vita, costruire una famiglia.
Ovviamente non ho risposte, ma sono figlia di un alpinista di livello (che infatti in montagna ha lasciato la salute della sua schiena) e l'unica altra vita che vorrei è forse quella dell'alpinista (ho provato, ma alla fine non fa per il mio fisico e ho troppo istinto di autoconservazione). 
Però capisco, in un modo viscerale che è difficile esprimere a parole, cosa si possa provare di fronte all'ignoto e all'estremo. Chiunque si avvii su una simile strada sceglie per sé una "soglia di rischio accettabile", all'interno della quale mette in atto tutte le misure di sicurezza possibili, pur sapendo che nel caso qualcosa andasse davvero storto si può solo accettare il destino (c'è una scena del film Rush che mette ben in luce quello che intendo, quando Lauda dice che accetta il 2% di probabilità di incidente mortale, ma non di più). Il pilota, una volta che tutto è andato storto, non ha davvero scelta, c'è solo ineluttabilità, non onore o disonore. 
Non riesco in alcun modo a rimproverarlo, né a elogiarlo. Mi chiedo solo se l'ossessione di Rivière non gli abbia fatto prendere decisioni tali da fargli innalzare quella "soglia di rischio accettabile".

Alla fine non posso dire che questo libro mi sia piaciuto. In parte perché l'ho trovato troppo lungo per l'esile storia che racconta, in parte perché non posso che essere in disaccordo col punto di vista dell'autore.
Non posso fare a meno, però, di confrontarlo con Le otto montagne, che ho letto in contemporanea. Volo di notte non mi ha esaltato, ma mi ha dato spunti per riflettere, per mettere in discussione il mio pensiero e se avessi partecipato alla seduta avrei discusso animatamente. Le otto montagne no. Lascia una vaga impressione, poco più di un retrogusto, che già scompare. In questo, al di là dei gusti personali, del "mi è piaciuto" oppure no, sta, per me, tutto il peso della letteratura.