lunedì 30 aprile 2018

Scorci di scrittura privata

Spiegone sul post precedente.

Scrivendo per me posso concedermi di rallentare il ritmo e di buttarla sullo schifosamente romantico.
Di solito i miei personaggi hanno un assassino da prendere o qualcosa da salvare (non che ci riescano) e non hanno mai tempo per lanciare questi sguardi...

Lo trovò in giardino, seduto su una panchina, intento a tirare la palla a M.
Rimase un istante a guardarlo. Non sembrava sotto pressione, a poco più di una settimana da una finale internazionale, con tutte le aspettative di uno stato iper competitivo addosso e i problemi fisici con cui fare i conti. Giocava col cane in modo infantile, lasciandosi leccare in faccia e senza tuttavia perdere quell’eleganza che lo contraddistingueva. Se non si sapeva chi fosse, poteva essere scambiato per un modello o un attore. Uno di quegli individui frivoli e vanesi pronti a fare una scenata se tutto non era esattamente come lo pretendevano.

Fantasie atletiche per interposto personaggio (punto di vista differente rispetto a quello di prima).

Quindi era questo che significava essere un atleta olimpico.
Aveva ripetuto a tutti che era solo una gara come le altre. Anche l'allenatore lo aveva ripetuto un milione di volte. Quella mattina, mentre assisteva alla prima prova a squadre, gli era sembrato che fosse davvero così, una gara come le altre, solo in un posto più ventoso e scomodo del solito e quel senso generale da vacanza organizzata per bambini dei quartieri disagiati che aleggiava sul villaggio olimpico.
La cerimonia d’apertura era un’altra cosa.
Anche se non voleva, anche se cercava di rifugiarsi in quella pozza di rabbia e cinismo del suo animo a cui poteva quasi sempre attingere forza, gli faceva effetto. Gli faceva effetto essere uno di quella massa di atleti che sfilava, ognuno con i propri sogni, ognuno consapevole di essere solo polvere nell’universo, ma di avere, in quel momento che forse mai nella vita si sarebbe ripetuto, la possibilità di fare la storia. Dava, suo malgrado, l’idea di quanto fosse immane l’impresa di vincere una medaglia olimpica. Solo pochissimi di quelle centinaia e centinaia di atleti avrebbe terminato le competizioni con qualcosa al collo. Ancora meno con qualcosa d’oro al collo. Un numero ancora più piccolo avrebbe portato a termine davvero un’impresa degna di essere ricordata. Con i suoi diciotto anni non ancora compiuti e i suoi sessanta chili scarsi, per la prima volta si sentiva piccolo.

giovedì 26 aprile 2018

Scrittura privata


In questi giorni, rubando il tempo un po' qui e un po' là, anche al blog, sto scrivendo parecchio.
Cose che sicuramente non verranno mai pubblicate, neppure in rete sotto pseudonimo.
Cose che, nella migliore delle ipotesi verranno lette da quattro persone.

È un'esperienza nuova per me. Non ho mai avuto un diario personale, ad esempio.
Il mio computer stralipa di racconti, anche romanzi, che non vedranno mai la luce. Alcuni nascono volutamente come esercizi, propedeutici a qualcos'altro. Altri sono malriusciti. Di alcuni francamente mi vergogno (per la resa, in realtà pochissimo per i contenuti). Altri non hanno trovato una casa editoriale e non si prestano a essere pubblicati qui, quindi, poveri, finiscono per restare nel mio archivio e basta. Altri erano destinati a progetti abortiti.
Un numero davvero esiguo nasce come "scrittura interna", relativa per lo più al gioco di ruolo e quindi funzionale a narrare e a condividere con gli altri giocatori la storia di un personaggio o il suo punto di vista su un determinato evento. Si tratta di storie brevi, di non più di cinque pagine. Solo in un caso ne è nato un racconto che aveva una sua ragione d'essere e che, infatti, è poi finito su questo blog.

Questo caso è del tutto diverso. Intanto il per la quantità di pagine che stanno uscendo. Sono già  sopra le 100000 battute e manca almeno un terzo della storia. Non è un dato solo numerico. Chiunque scriva sa che non si può andare molto in là in una narrazione se non c'è un'esigenza profonda, qualcosa che preme per uscire. 
La cosa più curiosa è che il tutto nasce da una serie di esperienze condivise con altre amiche (di fatto le 4 persone che, forse, leggeranno) e che ha portato tutte sulla strada della narrativa, con esiti molto diversi in fatto di racconti, perché in ciascuna di noi, evidentemente, si è smosso qualcosa di importante ma di differente.

Ne sta uscendo un'esperienza molto strana.
Io avevo appena terminato un racconto molto doloroso, per le tematiche trattate e i contraccolpi psicologici e ora invece scrivo davvero con la gioia di scrivere. 
Da un punto di vista meramente tecnico ho la sensazione di inoltrami in generi che mi sono sempre negata, perché non sentivo di padroneggiare o perché avrei scritto cose che mi sarei vergognata a far leggere in giro. Sì, insomma, ho un'anima schifosamente romantica e me ne vergogno e, siccome ritengo di non saper fare una storia romantica, non ne ho mai scritte. Ma dato che questa volta è una faccenda privata chisseneimporta.
La cosa che sto producendo si articola in due narrazioni separate. La seconda, volendo poteva essere convertita a giallo (certo, avrei dovuto ammazzare un personaggio che mi sta simpatico...). La parte della mia mente che ragiona per schemi narrativi mi ha avvisato subito delle potenzialità del contesto. Anzi, non escludo in un futuro di usare ambientazione (non pensiate che non ci sia un lavoro di documentazione dietro, anzi...) e motivazioni dei potenziali assassini per un bel giallo. Però adesso, davvero, questi personaggi non li voglio ammazzare. Di più, li voglio portare al miglior lieto fine possibile, magari non quello che vorrebbero loro, ma quello che, forse, alla lunga, li farà stare meglio. Già il lieto fine è una cosa che mi concedo davvero di rado.
Questo mi porta  in un universo di equilibri narrativi sconosciuti, perché, bene o male, un giallo so come si scrive e come ci si ragiona, una storia d'altro genere no e quindi è continuo andare avanti e indietro a sistemare, inserire e togliere elementi e premesse come non mi succedeva da anni (con gran divertimento del marito che mi sente sbuffare e non capisce come una cosa che faccio per puro sfizio mi dia più difficoltà di racconti pensati per concorsi).
Ci sono considerazioni stilistiche che normalmente non farei. Mi è venuto in mente troppo tardi perché mi metta davvero a riscrivere una cosa come 50000 battute, ma è la prima volta che ho ipotizzato di fare un racconto tutto in prima persona presente, alternando tre punti di vista. Non escludo neppure di farlo in un'ipotetica seconda stesura, anche se mi vien male al solo pensiero.

Questo solo per la parte tecnica, che poi è la meno particolare del tutto.

Di certo questa esperienza mi sta facendo bene a molti livelli.
Scrivere sapendo che chi mi leggerà già mi conosce mi leva un gran numero di paranoie e mi permette per certi versi di essere più scoperta e per altri più giocosa. Di questi tre punti di vista, ad esempio, capiranno subito qual è quello più personale e quello che invece mi ha divertito molto scrivere perché con me ci azzecca poco. D'altro canto, essere più scoperta mi permette di entrare più in sintonia con me stessa, accettare le mie paure e le mie (molte) paranoie come mie. In un momento della mia vita in cui sono molto presa da quello che devo fare e dai miei molti ruoli esterni, diventa una coccola per l'anima. Si capiscono cose della propria vita sorprendenti. Ad esempio io ho praticato sport a livello agonistico nazionale per molti anni e, come tutti gli atleti, ho sognato di avere le capacità e le possibilità di andare oltre (tra l'altro una mia compagna di scuola faceva gli europei nella stessa disciplina, con mia somma invidia). Lo avrei davvero vissuto bene? Alla luce di questa narrazione, no, sarebbe stato un incubo. Prima non l'avevo mai realizzato. Ora, questa è una sciocchezza, ma mette una bella riga sopra a un rimpianto della vita. Ed è liberatorio.
A livello di scrittura mi permette di ragionare con molta più libertà, di sperimentare, di giocare anche e di recuperare un livello più autentico di scrittura che forse stavo perdendo.

A qualcun altro è capitato?

lunedì 23 aprile 2018

Amore a prima vista


– Mamma... Armatura!
(tono sognante e affascinato)



Per la giornata del drago, il 21 aprile, di solito scrivo qualcosa a tema draghesco, ma visto come la pupattola ha reagito alla festa a tema (orgoglio di mamma!) organizzata sabato pomeriggio a Gozzano, ho il sospetto che il cucciolo di drago, qui, sia lei.

Tanto tempo fa, quando ho scelto il mio nikname, chi avrebbe potuto immaginare che sarebbe arrivata una piccola Tehanu?

Speriamo solo che con l'adolescenza non inizi poi a sputare (troppe) fiamme.

PS: poi torno a parlare di scrittura, promesso.

mercoledì 18 aprile 2018

I dubbi della mamma socratica – La carica delle mamme estremiste


L'arrivo della pupattola è stata per me la più spiazzante esperienza di "nuota o annega". Un giorno e mezzo per apprendere i fondamentali su cosa fosse un neonato, come girarlo, cambiarlo e nutrirlo senza romperlo e poi un grande "speriamo in bene". Il tutto con una pediatra che risponde alla mia mail di panico (aiuto! Ho un neonato in casa e non so niente!) con un serafico "se la bambina mangia e piange poco va tutto bene, ci vediamo tra un mese".
Col senno si poi, ora che i social si sono accorti che ho una puppatola e mi propongono articoli e discussioni a tema, ora che sono entrata nel grande universo delle mamme, mi è andata di lusso!

La cosa più spaventosa, ho scoperto, non sono le colichette o i pianti notturni, è l'esercito delle mamme estremiste.
Non ero così ingenua da pensare che il mondo delle mamme fosse il paradiso della solidarietà femminile, ma pensavo che fosse popolato da donne più o meno insicure, più o meno interessate a confrontarsi.
Sbagliato.
La mamma, sopratutto quella che puoi frequentare quando sei in maternità, cioè la mamma virtuale, è una mamma che SA.
Lei SA e non vede l'ora di spandere il sapere nel mondo con una dedizione che i testimoni di Geova a confronto sono dei principianti.

Obbligo alla felicità
Una povera e, sopratutto, ingenua, neo mamma osa levare una voce lamentosa per le ore insonni? meglio che abbia già preparato un piano per l'espatrio per evitare il linciaggio.
La moda è vantarsi di tutte le cose che non si fanno più dicendo "non mi mancano per niente, ora che ho mio figlio". Elencare punto per punto ogni disagio solo per mostrare come lo si affronta col sorriso, traboccanti della gioia interiore data dalla maternità.
Che poi boh, io sono una mamma fortunata, ma non è che abbia rinunciato a grandi cose. Però ho capito che devo pensarci due volte prima di confidare a un'altra mamma che ho ancora una vita sociale. E che con gli amici non parlo solo di pupu e pappine.

Il latte materno sempre e comunque
Ora, lungi da me criticare le linee guida dell'OMS. Sono del tutto convinta che il latte materno sia l'alimento migliore per il neonato. E pur tuttavia questo è il punto che più mi ha inquietato.
Perché questa cosa dell'allattamento al seno senza se e senza ma è diventata una crociata. Ma una crociata di quelle "ammazzatele tutte quelle che non allattano che poi Dio riconoscerà le sue".
Mamme cadute in depressione per non avere latte.
Scarsissima memoria storica. "Una volta tutte le donne avevano il latte" (e come no, mai sentito parlare delle balie? Della capretta che ogni famiglia aveva per le emergenze)
Follie psicologiche. "Se non allatti è perché non lo vuoi davvero"
Ma sopratutto scarsissimo rispetto per l'altro.
Mi è personalmente capitato di essere guardata male perché acquistavo del latte in polvere. E una perfetta sconosciuta che non mi aveva mai visto prima, vedendomi tirar fuori il latte artificiale per la pupattola dopo l'acquaticità, che si permette di chiedermi come mai non allatto, che sarebbe tanto meglio. Ora, io mi sono trattenuta a stento dal riderle in faccia, ma un'altra magari sarebbe scoppiata a piangere.

Le fazioni dello svezzamento
La mia pediatra è lo zen fatta pediatra.
È ora di iniziare a svezzarla.
E cosa le do?
Ma un po' quello che le piace, tanto non c'è nessuno studio che dimostri davvero che un cibo vada dato prima e uno dopo. Adesso va di moda l'autosvezzamento, le giro un po' di articoli, so che ad alcune mamme mette ansia, quindi faccia un po' lei.
Quindi la mia sempre affamata pupattola ha iniziato a sbranare un po' di tutto, salvo poi scoprire di essere comunque un'infante e le verdure adesso le considera ora armi da lancio.
Questo non mi aveva preparato allo scontro frontale, che Montecchi e Capuleti a confronto sono niente, tra autosvezzamento e svezzamento tradizionale.
Per i primi il bimbo può mangiare di tutto, subito, sbranare panini e piatti di pasta al primo dentino. Si fa a gara a mostrare che il pargolo ha mangiato le cose più improbabili. Il mio la peperonata. Il mio il cibo indiano (giuro).
Dall'altra i paladini della tabella. Posso inserire la zucchina? Ma la zucchina quale? La mia pediatra mi permette solo quella cornuta biologica di Trapani, ma siccome vivo in Trentino faccio un po' fatica a trovarla. Ne ho presa una qualsiasi. Malissimo! Il pargolo ne avrà ripercussioni per tutta la vita!
A questo si aggiunge la follia del biologico costi quel che costi. Che, anche qui, intendiamoci, io acquisto biologico sempre, quando posso. Però trovarsi in un dialogo come quello che segue è un po' assurdo:
Le hai dato i lamponi?
Sì ne va matta
Ma con quello che hanno su i frutti di bosco? Lo sai che sono tra le cose più trattate? Li hai trovati biologici?
No, li ho colti nel mio giardino.
Ah, ma quindi non sono certificati.
Nel. Mio. Giardino.
Chissà cosa contengono! Io mi fido solo del marchio tal del tali controllato dal tal ente che...
Tra l'altro su quest'ansia da biologico c'è gente che lucra in modo indegno. Mi è arrivata la pubblicità (giuro) di un'azienda agricola che coltiva senza mezzi meccanici. Di nessun tipo. Neppure l'aratro. Neanche a trazione animale o umana.
Cari contadini dell'anno 1000 che avete introdotto l'aratro pesante, siete tutti morti invano.

Per il momento qui mi fermo.
Ma temo arriveranno altre puntate di questa follia...

lunedì 16 aprile 2018

Sonata a Kreutzer – Piovono libri


Era il mio primo impatto con la grande letteratura russa e ho mancato il gruppo di lettura.
Questo anche perché per il mio compleanno mi è stato regalato un mazzetto di batteri che mi hanno tenuto "allegra" compagnia sopratutto di notte (che poi non tutto il male vien per nuocere, febbre o non febbre  mi sono regalata un'intera mattinata passata a scrivere, cosa che non facevo da anni).

Mi è spiaciuto, però, mancare il confronto, perché questo primo impatto con la letteratura russa non è stato dei più indolori.

Sonata a Kreutzer è il racconto di un femminicidio annunciato.
Durante un viaggio in treno un tizio inizia a raccontare di aver ucciso la moglie (e di essere poi stato assolto, in quanto "delitto d'onore") in quanto convinto, a torto o a ragione non lo sapremo mai, di essere stato tradito. Dopo l'omicidio, a suo dire, ha capito tutto della vita, ma in realtà ai miei occhi di lettrice è piombato in un'ossessione ancora peggiore, tanto più pericolosa perché radicata in una visione distorta della religione.

La cosa davvero interessante e magistralmente descritta è proprio la storia dell'ossessione, la descrizione di una vita matrimoniale diretta verso il disastro e che, tuttavia, tutti, in primis il narratore, giudicano normale.
Quella che si racconta è la nobiltà (o quanto meno alta borghesia) della Russia zarista, ma ho il sospetto che anche nel mondo di oggi ci siano relazioni più o meno simili a queste. Ossessionato in modo patologico dal sesso (questo sempre, desiderato, fino a che la moglie è in vita, negato, dopo, ma sempre al centro del suo pensiero), il narratore non riesce mai a vedere la fidanzata prima e poi moglie come un individuo, ma sempre e soltanto come un oggetto di desiderio, suo o altrui. Non ha mai un moto di empatia nei suoi confronti né un tentativo di comprenderne i pensieri. In filigrana vediamo tutta la disperazione di una donna sposatasi troppo giovane, innamorata non del fidanzato, ma dell'idea che aveva di lui. La vediamo cadere in depressione, fisicamente spossata dalle gravidanze e cercare comunque coraggiosamente di rinascere, pur accettando il sostanziale fallimento della propria vita. Costruendo così le condizioni del proprio omicidio. Credo che pochi personaggi della storia letteraria mi abbiano mai fatto pena quanto lei.
Dall'altra parte abbiamo l'assoluta incapacità di amare del marito che cerca alibi sempre più aberranti per il suo voler mantenere uno stato di quiete e non voler farsi toccare da niente.

Le pagine che più mi hanno sconvolta, credo, sono quelle dedicate ai figli. Da marito, quest'uomo non si capacita di come sua moglie sia sempre preoccupata per la salute dei figli, come sia sempre in ansia per le loro malattie e trova questo continuo agitarsi di lei un fastidio mortale. Il problema non è che i bambini si ammalano e che la moglie ha tutti i sintomi di un esaurimento nervoso, il problema è che lui, poverino, viene stressato da questo.
Il suo sguardo in retrospettiva sui fatti, poi, è ancora più agghiacciante. La donna, dice, dovrebbe essere come una gallina, fidarsi del superiore volere di Dio, tenere il figlioletto al caldo, se muore starnazzare un po' e poi farsene una ragione. 
Di fatto non si è mosso un passo dalle proprie posizioni, solo che dopo scomoda addirittura Dio per giustificare il suo sommo "non voglio che mi vengano rotte le scatole!"

Devo dire che più dell'omicidio in sé, ampiamente annunciato e in cui l'effettivo esserci di un tradimento della moglie è del tutto secondario (c'era in potenza nella testa di lui e tanto bastava) è il suo sguardo in retrospettiva ad agghiacciarmi.
Ormai sente di aver trovato la fede e la verità e non fa che sentenziare su come dovrebbe comportarsi una donna per il suo stesso bene finendo, appunto, per considerarla non più solo un oggetto desiderabile, ma addirittura un animale da cortile. Che una donna possa avere idee proprie, aspirazioni e desideri è un'idea che neppure sembra sfiorarlo.

Da un lato questo viaggio nell'ossessione è stato interessante, dall'altro mi ha lasciato addosso una sensazione di sporco e sgradevolezza che non mi invoglia ad approfondire la conoscenza della grande letteratura russa.
Sopratutto, mi rimane il sospetto che di persone come questo uxoricida sia pieno il mondo. E non so in che veste siano più pericolosi, se come assassini o come moralizzatori.

Qualcun altro lo ha letto? Cosa ne pensate?

mercoledì 11 aprile 2018

Riflettere e riflettersi nella scrittura


Ho terminato di scrivere (con molta sofferenza) il mio racconto molto sofferto.
Non so darne un giudizio tecnico, ma il fatto che non sia destinato, almeno a breve, a una pubblicazione mi permette di ragionarci con più distanza, o almeno da altri punti di vista.

Per un po', almeno, non voglio scrivere pensando a una possibile pubblicazione, non è esatto dire, in questo caso, neppure che io abbia scritto per il puro piacere di farlo. Ho scritto per dare una forma i sentimenti, in questo caso al magone, alla tristezza per alcune cose che non si possono fermare e alla paura.
Non è stato facile, ma mi ha fatto bene, nonostante il rischio "psicoterapia fai da te" insito nella scrittura di certe storie.

I miei nuovi ritmi di vita mi hanno imposto anche dei ritmi di lavoro più lunghi. Un racconto che una volta avrei scritto in una settimana mi ha tenuto compagnia quasi un mese e questo mi ha permesso di ragionarci meglio.

La scrittura è davvero il metodo con cui rielaboro la vita. Qui ci è entrato di tutto, lo spettacolo di falconeria a cui ho assistito a Pasquetta, una lezione di storia che ho preparato per i miei ragazzi, le cose che ho visto e che ho letto ultimamente, persino i mondiali di pattinaggio, le cose con cui si è parlato con gli amici. Allo stesso modo è impossibile trovare nel testo le cose che ho nominato prima, ad eccezione della falconeria, anche se niente è ricollegabile a questa più recente esibizione a cui ho assistito.

Non mi piace quando ci si chiede in quale personaggio un autore si immedesima. Con tutti e con nessuno.
Ci sono alcuni tipi di personaggi che posso rendere credibili e altri che non mi verranno mai naturali. Tutti quelli di questo racconto hanno un enorme senso del dovere che li schiaccia o li motiva. Bene o male questo ritorna in quasi tutti i miei protagonisti, di qualsiasi storia, perché in fondo io sono così. Devo fare le cose che devo fare, devo farle bene e non mi faccio sconti. Né io né i miei personaggi siamo bravi ad autoassolverci.
Poi però c'è sempre un personaggio che è più mio. E qui, in retrospettiva, vedo tutta la mia capacità mimetica, faccio davvero di tutto per nascondermi. Cinque punti di vista, uno solo femminile ed è, tra tutti, quello più lontano da me, oltre che quello che mi è uscito peggio. Di certo non è il personaggio più carismatico.
In retrospettiva, scopro di averci messo molto più di me di quanto intendessi. Eccolo lì, a 17/18 anni, l'unico del gruppo troppo concentrato su se stesso per avere o aver avuto un vero interesse sentimentale, che non sa neppure dire se sia stato innamorato o no. Diviso tra l'istinto di fare e quello di paralizzarsi per la paura. Col desiderio di trovare una causa a cui votarsi, ma possibilmente senza esporsi troppo. Insomma, ci ho messo dentro tutta la mia vigliaccheria!

Devo dire che mi è piaciuto molto scrivere senza pensare a una finalizzazione. Poi magari qualcosa ne uscirà comunque, ma non è quello lo scopo. Mi è venuta persin voglia di scrivere qualcosa che non potrebbe in alcun modo essere pubblicato, per il puro piacere di scrivere. Sono in attesa di un paio di riscontri su cui, in realtà, non ho molte speranze (anche se in qualche modo bisognerà cercare casa almeno a una di queste storie). Sono contenta, in tanto, di aver ritrovato una mia dimensione più intima e in fondo più soddisfacente della scrittura, non rivolta a un riscontro esterno, quanto a un riflettere e un riflettersi.

venerdì 6 aprile 2018

Visioni – Yuri on ice


Durante le vacanze pasquali mi sono concessa di mandare il cervello in vacanza, con una storia di rara leggerezza, una serie animata esile e piacevole come raramente capitano. 
Mi ci sono imbattuta come effetto collaterale del ritorno di fiamma col pattinaggio artistico, dato che è dedicata proprio a questo sport a cui, in effetti, deve tre quarti del suo fascino. Si tratta di una storia, tuttavia, con alcune caratteristiche particolari che meritano qualche riga di riflessione, anche a livello narrativo.

La vicenda segue lungo un anno il pattinatore giapponese Yuri. Reduce da una performance disastrosa, torna in patria con l'idea di abbandonare l'agonismo. Un video di un suo allenamento finito a sua insaputa in rete, però, spinge il più volte campione del mondo Victor a proporsi come suo suo allenatore, cambiandone la vita e le sorti agonistiche.


UNA STORIA SCRITTA DALL'INTERNO E SENZA ANTAGONISTI
La prima caratteristica unica di questa storia è che, al contrario di quanto si dice di solito ogni riferimento a fatti o persone è puramente voluto. Non solo è una serie realizzata dall'interno del mondo del pattinaggio, con coreografi e allenatori coinvolti nelle realizzazioni delle performance dei protagonisti, ma ogni personaggio è ispirato a uno o più pattinatori reali. La cosa è dichiarata e il mondo del pattinaggio sembra aver reagito con entusiasmo alla cosa. C'è chi partecipa alla serie come se stesso e chi si è divertito a posare come il personaggio a lui ispirato. La ragione d'essere dell'anime, del resto, è avvicinare il pubblico al pattinaggio artistico.
Qui, se volete dare un'occhiata, un articolo su "chi è chi" e le reazioni dei pattinatori.

Questo ha un contraccolpo tutt'altro che secondario sulla trama: non possono esserci personaggi negativi.
Yuri non ha altro nemico che se stesso e la propria insicurezza.
Chiunque sia cresciuto negli anni '80 ricorderà le storie sportive giapponesi piene di allenatori ai limiti del sadismo e le rivalità che sfociavano in odi personali. Non c'è nulla di tutto questo. Gli allenatori possono essere severi e burberi, ma si sciolgono per un abbraccio. Ognuno può voler far ben figurare il proprio paese, ma con grande ammirazione per gli avversari. C'è stima persino tra cinesi e giapponesi o tra russi e americani.
A livello narrativo, sembra un possibile suicidio, se non che gli sceneggiatori riescono a rendere una potenziale debolezza in un punto di forza lavorando bene sul carattere ansioso del protagonista e trasformando il naturale antagonista nel miglior personaggio della serie.
Yuri si chiama come il protagonista, ma ha quindici anni ed è russo. Vuole vincere tutto e ha già chiesto a Victor un aiuto per mettere a punto i programmi per il suo debutto nella categoria principale. Quando Victor molla tutto per andare in Giappone per seguire un atleta per cui lui ha già manifestato aperta antipatia la rabbia ci sta tutta. Ma Yuri, soprannominato Yurio per distinguerlo, non è in grado di serbare rancore. Va a sua volta in Giappone con l'intento di far tornare indietro Victor e finisce suo mal grado per far amicizia con le persone con cui si trova a interagire e con lo stesso Yuri. Ne risulta un personaggio credibilissimo, nella sua rabbia adolescenziale, nel suo desiderio di rivalsa anche sociale (basta pochissimo per far capire da dove provenga), ma anche nei suoi slanci. È proprio lui a confortare il protagonista in un momento di tristezza con un gesto semplice, ma che racchiude lo spirito di una storia in cui dall'incontro tra culture si può uscire solo arricchiti.

UNA STORIA D'AMORE POSITIVA E MATURA
Il target di questo anime è probabilmente la tarda adolescenza (diciamo dai 15/16 anni). Ora io ho ormai un sacro terrore per la parte romantica delle storie rivolte a questo pubblico, perché trovo che spesso lancino messaggi aberranti, con atti di stolkeraggio passati per dimostrazioni d'amore e totale annullamento di una delle due parti.
Anche se è pensata per un pubblico più giovane, questa, però non è una storia di adolescenti o di giovani promesse. Anche se Yuri ha l'autostima di un gatto schiacciato in autostrada, è tra i migliori pattinatori del mondo, a 24 anni è all'apice della carriera, a tutti gli effetti un adulto in un mondo in cui si matura in fretta. Victor ha quattro anni in più ed è prossimo al ritiro. E la loro storia mi è piaciuta per molti motivi.

Non siamo dalle parti dell'amicizia affettuosa che tanto va di moda, quella tra Victor e Yuri è anche la storia di una relazione, mostrata con molto pudore (giusto qualche abbraccio e bacetti sulle mani), ma che non si nasconde. E del resto viene vissuta con assoluta normalità da tutti, famiglia e amici di Yuri compresi. Se la produzione fosse stata americana o europea, quasi sicuramente entrambi gli Yuri sarebbero diventati delle ragazze e la storia sarebbe rimasta identica, salvo che per un particolare, che poi è l'unico che interessi ai fini della trama, cioè che Victor e Yuri sono potenziali avversari.

L'inizio della loro storia è, sia per Yuri che per lo spettatore, piuttosto spiazzante. Yuri è tornato a casa pensando al ritiro e si trova il suo idolo di sempre sulla soglia di casa che palesemente (per motivi che verranno chiariti in seguito) si aspetta di essere accolto con baci e abbracci. Come gli dice più o meno velatamente un'amica "chissenefrega se è un capriccio, approfittane biecamente". Invece Yuri si rende conto che non potrà mai costruire niente con un idolo sempre ammirato da lontano, ha bisogno di conoscere Victor come persona e gli chiede di limitarsi ad essere il suo allenatore. E, dato in fondo  Yuri per Victor non è un capriccio, il pattinatore russo acconsente. Questo mi sembra già un messaggio assai positivo a fronte di storie in cui una parte è disposta a tutto pur di compiacere l'altra.
Nel corso dell'anno raccontato, Yuri cresce come atleta e Victor impara, non senza difficoltà, a fare l'allenatore, fino a che entrambi capiscono di essere abbastanza maturi da non doversi annullare per l'altro ed entrambi spronano l'altro a continuare o a riprendere la carriera agonistica.
Credo che sia questo ciò che davvero mi ha colpito. Dopo i primi episodi pensavo fosse qualcosa di trito e ritrito, con il personaggio più forte che gioca con quello più debole e finisce per innamorarsene, rimanendo comunque in posizione di forza. Invece Yuri, nonostante si consideri un debole, non ha nessuna intenzione di diventare uno zerbino, come atleta o come persona. E Victor, nonostante un'entrata in scena non proprio felice, non ha mai voluto scherzare o cercare qualcuno da plagiare. Al di là della parte atletica, l'unica cosa che insegna a Yuri è l'importanza di amare se stessi e di trovare la propria personalità. In fin dei conti, la loro relazione mi sembra tra le più sane viste o lette ultimamente.

L'USO DEI SOCIAL
Chi ha scritto questo anime sa come usare i social ai fine della trama e della promozione e tutto sommato riesce a lanciare anche qui un messaggio positivo.
I personaggi di Yuri on ice sono iperconnessi, più sono giovani e più hanno nel cellulare una propaggine di loro stessi. Victor si decide ad andare in Giappone dopo la visione di un video di un allenamento di Yuri registrato e postato da tre bambine. Yurio lo raggiunge seguendo i tag delle foto che Victor ha postato sul suo profilo quasi come moderne briciole di pane. Tutte le relazioni tra i pattinatori, sparsi per metà dell'anno ai quattro angoli del mondo, avvengono attraverso i social, con cui comunicano, si spiano, lanciano messaggi di sfida.
La promozione stessa dell'anime credo sia passata in gran parte attraverso i sociale e i commenti dei pattinatori stessi.
I personaggi più maturi, tuttavia, hanno un uso più consapevole del mezzo e sanno di praticare una disciplina che vive molto anche d'immagine. Victor spende bene il proprio tempo nello spiegare ai due Yuri che non sono in grado di gestire la loro immagine e che ci sarà sempre una differenza tra ciò che si mostra in foto o in scena e la loro personalità. In uno degli episodi vediamo Victor e un suo storico avversario/amico posare in foto ammiccanti da mandare in rete, ma loro sono i primi a proteggere la propria e l'altrui privacy quando sanno di avere nelle memorie dei cellulari materiale davvero imbarazzante.

LE COSE CHE NON FUNZIONANO
Non è che sia tutto perfetto, sia chiaro.
Yuri on ice è, in fin dei conti, uno spottone al pattinaggio artistico, che mostra in maniera fin troppo edulcorata. Il grande assente dalla trama è l'infortunio. Victor e il suo amico e rivale, ancora competitivi anche se prossimi ai trent'anni, sono praticamente dei sopravvissuti in uno sport in cui si si rompe spesso e spesso male. Raccontare una stagione in cui nessuno dei personaggi, neppure quelli secondari abbia un infortunio non sono non è credibile, ma rende il pattinaggio stesso un po' troppo lezioso per i miei gusti (sarà che sono d'accordo con il kazako, "al diavolo la danza, per me il pattinaggio è una guerra").
Il personaggio di Victor è scritto male, cosa piuttosto grave in una storia che si regge su tre personaggi. Victor galleggia senza un passato, definito solo dal fatto di essere una leggenda vivente del pattinaggio. Dobbiamo fidarci degli altri personaggi, quando dicono che lo stare con Yuri lo ha cambiato, dato che non abbiamo idea, neppure come sottotesto, di come si comportasse prima.  E avere in scena un personaggio che ha mollato tutto da un giorno all'altro senza che lo spettatore riesca a capire se l'impulsività fosse o meno un tratto del suo carattere non è il massimo. Inoltre non sappiamo cosa davvero lo abbia spinto a un ritiro temporaneo, basta davvero il non aver più stimoli? Questo toglie molta forza al suo percorso come personaggio, oltre tutto compresso negli ultimi tre episodi, ed è, dal mio punto di vista un po' un peccato.

Al netto di tutto, Yuri on ice è una storia volutamente leggera, fatta per far star bene e far apprezzare il pattinaggio.
Funziona come antidepressivo e antistress senza effetti collaterali (a parte l'insano desiderio di acquistare un portafazzoletti a forma di barboncino) e tutto sommato, in questo mondo che ci mostra sempre più cattiveria, competitività, ritorno di nazionalismi esasperati, porta dei messaggi tutt'altro che disprezzabili.

mercoledì 4 aprile 2018

La storia sbagliata


In queste vacanze di Pasqua mi sono concessa il lusso di usare del tempo per farmi ossessionare dalle storie. Storie da scrivere, storie da guardare (più che da leggere, devo ammettere), un'immersione nella narrativa non sempre facile, ma che senza dubbio mi ha fatto bene.
In questo clima di immersione intensa in mondi altri mi è successo un episodio assai curioso.

Come ho già avuto modo di raccontare qui, il racconto (racconto, ormai naviga verso le 100000 battute e potrebbe anche superarle...) che sto scrivendo non è facile, sotto nessun aspetto.
Per quanto riguarda la parte tecnica, è la prima volta che alterno in una narrazione così tanti punti di vista, cinque per la precisione, saltando come una cavalletta da una mente all'altra. Una difficoltà accentuata dal fatto che si tratta di personaggi quasi coetanei, hanno tutti tra i 18 e i 23 anni, di cui, però, vorrei far emergere le diverse personalità. Aggiungiamoci anche il fatto che si tratta di una storia drammatica e che tocca dei temi per me sensibili e avete un quadro della situazione.
Nulla di strano, quindi, se una notte io avessi sognato la mia storia, o magari una storia che stavo comunque seguendo, o un miscuglio delle cose.

Invece ho sognato una storia incentrata su cinque personaggi quasi coetanei, ma che NON ERA LA MIA STORIA.
Non solo non era la mia storia, ma era del tutto estranea al mio immaginario.
Oltre tutto continuavo a svegliarmi, riaddormentarmi, ritrovarmici dentro, con una gran fatica a capire di cosa si trattasse. Di fatto ho passato tutto la mattina di Pasqua, mentre cucinavo, a cercare di venirne a capo, poiché la trama aveva una sua logica e il personaggi un loro spessore. Ma non potevano in nessun modo venire dal mio immaginario.

La storia sbagliata si svolgeva apparentemente negli anni '20 o negli anni '30 in una città universitaria nordeuropea posta sul mare. Un luogo senza rilievi montuosi, Danimarca? Olanda?

I protagonisti erano cinque ricercatori/giovani insegnanti universitari tra i 25 e i 30 anni, quattro uomini e un'unica donna. Sicuramente tre di loro lavoravano nella stessa équipe, di una qualche ricerca scientifica (fisica? biologia? medicina?). Tutti, però, frequentavano un gruppo di lettura e questo è l'unico elemento che può venire dal mio immaginario.
Tutti e cinque erano importanti a livello della trama, ma i personaggi che ricordo meglio sono due.

La donna, riccia e castana, abita da sola con una sorella molto più giovane, preadolescente, e per motivi economici deve lasciare la propria casa sul mare, a cui è molto affezionata. Ha forse una sorella maggiore, sposata, che la invita a sistemarsi tramite in matrimonio. Così finisce per fidanzarsi con uno dei tre ricercatori che fanno parte della stessa équipe.
Questi è un tipo timido e grassoccio, innamorato di un'altra donna, bruna, a cui però non si è mai dichiarato (potrebbe essere la sorella o anche la moglie di uno dei due colleghi). Il suo apporto è fondamentale per la ricerca che stanno svolgendo, ma lui non pensa che sia così ed è schiacciato dal carisma dei due colleghi, molto affiatati tra loro.  Non è davvero innamorato della donna riccia, ma è lusingato dal fatto di essere considerato da una persona di cui ha stima e per questo si fidanza con lei.

Degli altri tre ricordo meno.
Uno era leggermente più vecchio, sui 35 anni, un bell'uomo ma molto solo e con un ruolo di responsabilità, forse innamorato della donna riccia, ma impossibilitato per qualche motivo a dichiararsi (?).
Infine i due ricercatori erano amici da sempre, molto affiatati, non escludo che uno dei due fosse in realtà innamorato dell'altro, che però è sposato (con la bella bruna?), con figli e che nulla sospetta. In generale, benché siano persone di successo, hanno un animo gentile e anche il grassoccio, che invidia la loro disinvoltura e il vedersi attribuito il merito, non riesce a non stimarli.
Se deve arrivare un qualche tipo di tragedia, ho pensato, colpirà senza dubbio uno di questi due.

Il tutto aveva un'atmosfera ben definita, una tonalità virata al seppia, la città sempre nuvolosa, ma mai con la pioggia, il mare piatto e grigio (e io che pensavo "ma perché la riccia vuole tanto una casa su un mare così triste?").
Ricordo nel dettaglio gli abiti, le decorazioni degli ambienti, persino il centro tavola all'uncinetto della sala che utilizzavano per il gruppo di lettura. Il tutto mi sembrava più da film d'autore nordeuropeo che da romanzo.

Ora, il come sia arrivata una storia simile alla mie mente è un mistero.
Non ho idea di quali ricordi/suggestioni la mia mente possa aver rielaborato. Non so nulla del nord Europa degli anni '20 o '30, al punto che non so neppure scegliere con precisione il decennio, anche se sono sicura che se facessi una ricerca seria, in base agli abiti che ricordo, troverei l'anno preciso.
Non sono mai stati in Danimarca.
Non ho mai pensato, neppure di striscio, a una storia ambientata in un campus universitario prima della seconda guerra mondiale.
Il tipo di relazioni raccontato, in cui in fondo sembra che nessuno abbia ciò che desidera, ma fa del suo meglio per accontentarsi, non è per nulla quello che generalmente racconto io. Di certo non è l'accontentarsi il messaggio che voglio mandare con le mie storie, mentre qui tutto sembrava urlare "l'amore è sopravvalutato, meglio puntare a obiettivi più concreti".

So che non è possibile (credo), ma se ci fosse stato in quel momento nel mondo un'altra persona immersa in una storia con cinque punti di vista e ci fossimo scambiati i sogni?
Chissà, uno sceneggiatore danese, risvegliatosi sognando falchi e omicidi in un ambiente dall'aspetto scandinavo?

E questo, in fin dei conti, è già il possibile inizio di un'altra storia.