domenica 31 dicembre 2017

I libri del mio 2017

L'anno è proprio agli sgoccioli, ma non potevo terminarlo senza il tradizionale post sui libri che più mi hanno colpito quest'anno e che, quindi, mi sento di consigliare come letture per il 2018.
Post che ho faticato un poco a mettere insieme perché mi sono resa conto di non aver parlato sul blog di molte delle letture fatte, sopratutto negli ultimi tempi. Credo di avere un po' di post libreschi da recuperare a inizio 2018...

Comunque, sorpresa sorpresona sopratutto per me, i libri che più mi hanno colpito quest'anno sono tutti e tre di autori italiani. Tre libri diversissimi, che aprono mondi diversi, che mi hanno intrattenuto, arricchito e accompagnato e che mi ricordano di quante buone penne abbiamo avuto e abbiamo nel nostro paese e quanti talenti diversi ci siano.

3° classificato SRDN, Dal bronzo alla tenebra – Andra Atzori


Come ho scritto a suo tempo, il fantasy italiano che aspettavo da tempo. Non scontato, oscuro, radicato nelle nostre tradizioni. 
Consigliato per il 2018 a chi voglia leggere di una Sardegna lontanissima da quella dei villaggi turistici.

2° classificato LEONARDO, genio senza pace – Antonio Forcellino
Questo per me è stato l'anno delle letture rinascimentali (che confido di continuare anche con un fumetto appena acquistato). Tante cose lette, non tutte apprezzate, alcune amatissime. Alla fine, anche se ho capito che il mio personaggio del cuore è quell'insopportabile di Michelangelo, il libro che mi ha più colpito è stato questo. Perché scava oltre al mito di Leonardo e riporta a una personalità tangibile, umana, ma non per questo meno affascinante.
Consigliato per il 2018 a chi voglia scoprire un Leonardo diversissimo dal vecchio saggio barbuto che ci viene propinato e magare decidere che il festaiolo dagli abiti di lusso è più simpatico.

1° classificato CRISTO SI È FERMATO A EBOLI – Carlo Levi
Questo romanzo per me è stato la rivelazione dell'anno. Un libro che ho trovato bellissimo, intriso di poesia struggente e che mi ha riportato a un'Italia dimenticata, fatta di miseria, sofferenza e dignità. Da riscoprire, rileggere, promuovere nelle scuole, senza se e senza ma.
Consigliato per il 2018 a tutti, per riscoprire da dove veniamo, magari anche per guardare con meno spocchia chi oggi vive le condizioni che, in fin dei conti, sono state quelle dei nostri nonni.

E voi quali libri consigliate per il 2018? Quali vi hanno colpito di più del 2017?

sabato 30 dicembre 2017

Star Wars – Gli ultimi Jedi, ovvero "Il bigino della forza" – Visioni


Premessa numero uno: sono nell'animo più trekker che starwarsiana, ma per frequentazioni ho finito per conoscere meglio l'universo di Star Wars. Non ho perso un film, quindi, conosco annessi e connessi, teorie e, a questo punto, plurimi universi espansi, ma ne percepisco poco la mistica.

Premessa numero due: eravamo chiusi in casa da giorni con l'influenza. Non andavamo al cinema da un anno. Avrei apprezzato questo film anche se fosse saltato fuori che Luke Skywalker si era riciclato come pornodivo per Hutt.

Concluse le premesse, il primo tempo di questo film è il delirio di uno sceneggiatore ubriaco.
La domanda che continua a risuonare nella mia testa è "perché?"
Insomma, sappiamo tutti dove si deve andare a parare: la giovane promessa ha trovato Luke, che è in esilio volontario e, tormentato da qualcosa che ha fatto/non ha fatto/pensato non la vuole addestrare, ma la ribellione è allo stremo, la giovane rampolla è l'unica speranza e Luke la dovrà addestrare. Nel mentre nella ribellione allo stremo sorgeranno nuovi eroi.
Se tutti sappiamo dove dobbiamo andare a parare, perché?
Perché, innanzi tutto non avete preso per i nuovi ruoli gente che sapesse recitare? Per non far sfigurare una vecchia guardia già mummificata?
Perché i dirigenti del nuovo ordine sono tutti tanto cretini da far rivalutare la classe dirigente italiana?
Perché buttare nello spazio e riportare indietro Leia con una delle scene più brutte di sempre?
Perché perdere tempo in una digressione di rara inutilità, che parte in modo altamente improbabile (la telefonata intergalattica all'usufruitrice della forza), continua in modo peggiore e ha l'unico scopo di far arrivare un anello a un bambino?
Perché, dico io, perché risparmiare sempre sulla sceneggiatura?
Nella prima parte di film, nonostante le pulcinelle di mare galattiche (per chi non lo sapesse, la pulcinella di mare è il mio animale preferito) e le suore pesce, che sono buffe quanto basta, non funziona niente. È tutto fuori fuoco, privo di ritmo e in definitiva inutile. L'unica cosa che si apprende e che il Primo Ordine è governato da un branco di deficienti e che se, nonostante questo, la ribellione è messa così male un motivo ci sarà.

Poi, a un certo punto, sembra che regista e sceneggiatori si siano resi conto che bisognava comunque mandare avanti la baracca nell'unico modo possibile. Luke si rassegna, la fanciulla impara, la ribellione si arrabatta e miracolosamente le cose migliorano.
A livello visivo il film ti piazza lì alcune sequenze oggettivamente belle, come il combattimento nel deserto di sale che rimane comunque memorabile, e a livello di trama qualche guizzo spiazzante. Se c'è una forza che il film ha è nel non rispondere a nessuna delle legittime domande dello spettatore o a rispondere in modo contrario rispetto a quanto fatto nei film precedenti.
Lo ammetto, da miscredente ho apprezzato la sistematica distruzione del mito dei Jedi. 
Gli Jedi sono quei tizi che, consapevoli che nella galassia vi sono individui in grado di incanalare la Forza e che questa capacità si trasmette anche per via genetica, decidono di raggruppare tutti coloro che hanno questa capacità in un ordine di monaci che fanno voto di castità. Ah, poi si lamentano che sono sempre meno...
Joda è quel tizio che, tra una frase a effetto e l'altra, affida il futuro Vader a un giovincello appena diventato cavaliere e non si accorge che Palpatine, a due isolati dal suo tempio, sta diventando imperatore.
Va da sè, quindi, che un bel rogo al luogo sacro Jedi mi risulti benvenuto.
Certo, forse si è un po' esagerato.
Trilogia prequel: servono decenni per diventare un Jedi. Anakin ormai è troppo vecchio per iniziare l'addestramento.
Trilogia classica: Luke, non andartene dopo solo qualche settimana di addestramento intensivo da parte di Joda, è troppo presto.
Nuova trilogia: ti insegnerò tutto in tre lezioni. Facciamo in due, dai.
Il bigino della forza, come diventare maestro jedi in un fine settimana al mare.
Ma, del resto, questo, temo, è un segno dei tempi. Studiare non serve proprio più a niente. Neppure a maneggiare una spada laser.

mercoledì 27 dicembre 2017

Volevo un gatto nero


Natale ha portato due arrivi inattesi. 

Uno, a dire il vero, assai sgradito: l'influenza intestinale di massa. Una sorta di piaga biblica che ha colpito tutti, dalla pupattola ai nonni passando per il cuginetto e, in ultimo, gli zii. Ho provato la non gradita ebrezza di sentirmi moribonda e costatare di essere quella messa meglio in casa. Tra montagne di panni da lavare e chili di leccornie che stanno andando a male in frigorifero (purtroppo non tutto si poteva conservare e la prontezza di congelare è mancata al momento giusto) ancora non so vedere l'unico lato positivo: sono riuscita a dimagrire per Natale. Non che il risultato si prospetti duraturo. Ho tutta l'intenzione di recuperare appena possibile, anzi, con la scusa di aver saltato alcuni pasti topici credo che non mi porrò alcun limite.
Non è questo, tuttavia, l'arrivo inatteso che da il titolo al post.

Appena prima che si scatenasse l'Apocalisse, il Nik mi torna a casa con qualcosa di nero in un trasportino.
Appena questo viene aperto ho una fuggevole visione di un'ombra che si rintana dietro a un mobile.
Ecco, del nuovo abitante della casa non so ancora molto più di questo.
Si tratta di una figura misteriosa e dall'oscuro passato.
Non mi è chiaro quale tam tam abbia portato fino a mio marito, se non la segnalazione che qui si aveva già esperienza di persiani (che non sono esattamente gatti standard).
Di sicuro questo persiano viene da un'esperienza traumatica e aveva la necessità di cambiare presto casa, ma non siamo certi che la precedente residenza sia stata la sua unica residenza. L'idea che ci siamo fatti è che non abbia avuto un passato facile, a riprova che la bellezza non dà la felicità. Neppure ai gatti.
I fatti accertati sono che si tratta di un giovane adulto di pura razza persiana, a quanto dicono i documenti sanitari sano, e spaventatissimo.
Al momento non sappiamo neppure se riuscirà ad adattarsi alla nostra famiglia e alla pupattola in particolare o se dovremo trovargli un'ulteriore sistemazione. 
Per intanto gli abbiamo messo a disposizione una stanza tutta per lui dove la pupattola non entra e il Nik sta iniziando un lento lavoro di domesticazione. L'obiettivo primario è che riprenda a mangiare con regolarità e si lasci toilettare (cosa che per un persiano è fondamentale, perché se il pelo si annoda rischia di lacerare la pelle). Dato che ci è stato detto che è terrorizzato dalle donne io proverò ad avvicinarlo solo nei prossimi giorni.
Il nome? 
La questione è dibattuta.
Prima di arrivare da noi stava in un allevamento dove, però, era bullizzato dagli altri maschi e non riusciva ad adattarsi alla loro presenza (da qui la necessità di un trasferimento). Là era chiamato "Orlandino". 
Nicola è dell'idea che possa ricominciare da capo con un nuovo nome: Calibano.
Mia suocera, che non lo dice, ma non vede l'ora di entrare nel programma di domesticazione, ha già deciso che lo chiamerà solo Nerone.
Quindi al momento è denominato Orlando Calibano Nerone. O.C.N.
Non so se si è intuito, ma in tutta questa vicenda io non ho alcuna voce in capitolo, anche se ovviamente tifo per una stabilizzazione di Orlando Calibano Nerone nel posto vacante di persiano di famiglia.


sabato 23 dicembre 2017

RACCONTO DI NATALE – racconto completo inedito

IL NATALE DI ANNALISA


 Più cercava di guardare fuori dalla finestre e più il fiato del suo respiro si ispessiva sul vetro, bloccandole la visuale. Tutto congiurava per tenerla lì. Prigioniera.
 Dietro di lei, nel salone, il Natale si allungava e diluiva in chiacchiere confuse che si avvolgevano nell’aria in gomitoli di noia. Con tutte le sue forze, Annalisa odiava essere lì. Odiava l’odore che aveva preso la stanza, di abitudine, arrosto con patate e profumo alla lavanda della zia Maria. Odiava la zia Maria, odiava sua sorella, la zia Olivia, che si era portata al seguito il marito che assomigliava ad uno gnu depresso e tutti i suoi tre figli, neppure uno che avesse più di dieci anni, e odiava più di tutti sua madre che li aveva invitati. 
 - Annalisa, viene ad aiutarmi a servire la zuppa inglese! – la chiamò sua madre.
 Ecco, appunto. Odiava servire a tavola e mostrarsi gentile con gli zii e simpatica con i cuginetti. Odiava scodinzolare dietro sua madre che prima invitava mezzo mondo e poi si lamentava del lavoro che questo comportava, come se non se lo fosse voluto lei. Annalisa soppesò le possibilità di una rivolta aperta, ma sarebbe solo riuscita ad aggravare la situazione, un’impresa non da poco. Si armò di sorriso e di ciotole da dessert.
 - Ma come sei cresciuta! – commentò la zia Maria, come aveva già fatto quando le era stato servito il primo e poi l’arrosto.
 - Chissà come ti annoi, con noi vecchi barbagianni. – zia Olivia, acutissima – Avresti dovuto andare a sciare con tuo padre.
 E un vero genio per le gaffe. Primo, non si nominava mai il padre di Annalisa con sua madre presente. Secondo, non ci era andata perché suo padre non l’aveva invitata, in montagna ci aveva portato una collega. Per scoparsela, come aveva sintetizzato mamma.
 - Scusatemi tutti, - zio Luigi, il marito di Olivia, senza la minima intenzione di scusarsi – ma con il dolce ci vuole proprio una sigaretta, se no, che festa è?
 Si tirò fuori una MS extra light, e se la ficcò in bocca.
 Annalisa sentì un brivido di desiderio percorrerle la schiena. Perfino per una MS extra light. 
 - Mai una light, se non vuoi sembrare debole. – le aveva detto Michele.
 Al diavolo Michele, anche lui ci sbaverebbe dietro, se si trovasse come lei, lì tra gomitoli di discorsi inutili, la zuppa inglese nel piatto, ad annusare il fumo di quello che desiderava, e non poteva avere.
 Aveva finito le sigarette il giorno prima e, con sua madre sempre a girarle intorno peggio di uno squalo, non aveva potuto approvvigionarsi. Di solito lo faceva andando a prendere il pulmino per la scuola, con una piccola deviazione passava davanti ad un distributore automatico, Michele le aveva spiegato come fingere a una macchina una maggiore età che non possedeva, e neppure sua madre faceva obiezioni se usciva di casa cinque minuti prima. Ma da quando erano iniziate le vacanze, tra saluti a parenti, amici di famiglia e altre persone che sarebbe stato meglio strozzare, non aveva avuto nessuna libertà d’azione. E così si trovava con l’acquolina in bocca alla vista di una MS extra light.
 Ed era strano, perché il Natale precedente aveva tossito per fumo della sigaretta dello zio e desiderato che la zuppa inglese arrivasse prima.
 Spizzicò un poco di dolce e poi aiutò sua madre a sparecchiare e mettere su il caffè. In tutta l’operazione, mentre si trovavano da sole in cucina, sua madre non fece altro che criticare le sorelle, per come erano vestite, pettinate, per il regali dozzinali che avevano portato, per come educavano i figli.
 Appena poté, Annalisa tornò alla finestra. Non doveva essere molto tardi, le 15.30 al massimo. Questo voleva dire che la giornata sarebbe stata ancora lunghissima. Conosceva il rituale. Sul caffè le chiacchiere si cristallizzavano, forse ormai i gomitoli erano tanto annodati che nessuno più riusciva a districarli e sua madre e le zie potevano rimanere ore a parlarsi addosso trovandosi reciprocamente insopportabili e tuttavia provando un piacere perverso nel sondare i limiti di questa insopportabilità. Se fosse uscita adesso, nessuno se ne sarebbe accorto.
 Si fermò, stupita da quel pensiero. Se fosse uscita ora, nessuno se ne sarebbe accorto. Gettò una cauta occhiata alla stanza. Sua madre e le due zie, sedute al tavolo, avevano stretto un’effimera alleanza nello sparlare di una conoscente comune. Lo zio, sprofondato in divano, era perso nell’estasi congiunta della sigaretta e del bicchiere di cognac. Le tre pesti avevano monopolizzato il computer, installandovi un aberrante gioco di Dragonball che, Annalisa ne era certa, nei prossimi tre mesi sarebbe partito in automatico ogni volta, invadendo lo schermo con i suoi mostriciattoli in kimono. Se fosse uscita nessuno se ne sarebbe accorto per davvero. Se si sbrigava, andava al distributore di sigarette e tornava subito indietro, non ci avrebbe messo più di un quarto d’ora. E se anche l’avessero vista rientrare avrebbe potuto dire di essere solo uscita in cortile. A fare cosa? A guardare l’albero di Natale. Avrebbero persino potuto crederle.

 Cauta, scivolò attraverso la stanza. Nessuno se ne accorse quando lasciò il salotto, e neppure quando ripassò davanti alla porta tutta imbacuccata nella giacca a vento. Annalisa registrò quella mancanza di attenzione con una blanda curiosità. Doveva essere così che si sentiva un fantasma costretto ad infestare un castello invaso di turisti. 
 Uscita di casa, rimase un attimo sull’uscio con un orecchio premuto sul portoncino per registrare eventuali reazioni. Non ve ne furono.

 Le strade le fecero un effetto strano, vuote ed immobili a parte le luci delle decorazioni che lampeggiavano o si rincorrevano sugli alberi dei cortili. Persino il cielo non aveva voglia di fare niente, di un neutro grigio chiaro che gli avrebbe permesso di scurirsi placidamente nella sera senza nulla di emozionante e faticoso come un tramonto.
 Non c’era nessuno in giro, nessuno. Se stava proprio immobile, le pareva di sentire un ronzio confuso proveniente da ogni casa, dove la gente pasteggiava, chiacchierava e si annoiava, prigioniera. Lei era libera. 
 Una libertà scomoda, o quanto meno fredda. Passata l’iniziale euforia, Annalisa comprese che non c’era nulla da fare lì fuori, nel sobborgo svuotato, senza persone da incontrare e luoghi accoglienti in cui andare. L’unica era raggiungere in fretta il distributore di sigarette, comprarne un pacchetto con i soldi regalatele dalla zia Maria (alla fine anche la zia Maria aveva una sua utilità), fumarsene una in pace e tornarsene a casa. La ragazzina sospirò, incamminandosi, una parte di lei aveva sperato che la sua fuga potesse diventare più definitiva. O almeno più emozionante.

 Qualcosa la seguiva al lato della strada, dietro le staccionate, passando da giardino in giardino. Quella consapevolezza la fece bloccare di colpo, guardinga.
 C’era un gatto che la osservava.
 Era un grosso, grasso gatto grigio tigrato che la fissava spudorato con gli occhi gialli e tondi. Nell’immobilità generale sembrava che in tutto il paese non esistessero che loro due, lei e il grosso micio che la fissava. Ma era solo un gatto, e la ragazzina proseguì.
 Rapido, con un’agilità insospettabile per una così gran mole, l’animale saltò il muretto che divideva il giardino nel quale si trovava con quello del vicino e proseguì, rimanendo all’altezza di Annalisa. Quando questa, pochi passi dopo, si fermò, anche lui lo fece e ritornò a fissarla.
 Sembrava sorridere e le ricordava quel gatto magico e sciocco di Alice nel Paese delle Meraviglie. Lo Stregatto? Che assurdità. Era passata una vita da quando aveva smesso di leggere tutte quelle idiozie che non avevano niente a che vedere con la realtà. Il gatto non la stava seguendo né fissando. Però adesso, con tre agili balzi, il felino era giunto sul marciapiede, proprio ad un passo da lei. Forse era stato abbandonato e aveva fame, pensò Annalisa, anche se non sembrava proprio denutrito.
 - Perché mi segui? – domandò, sentendosi stupida.
 Perché mi annoio
 La risposta le arrivò direttamente nella mente, chiara e con un sottofondo di fusa.
 Annalisa fece un balzo indietro, spaventata, ma il gatto venne a strusciarsi contro la sua gamba. Ron Ron. Per niente aggressivo.
 - I gatti non parlano. – disse ad alta voce, per convincersi che era vero.
 Che idiozia, certo che parlano. Avanti, accarezzami.
 - E allora perché non ne ho mai sentito uno? – adesso la situazione stava diventando irritate.
 Su, accarezzami, se vuoi che ti faccia le fusa, hai mai avuto un gatto?
 Quasi automaticamente, la ragazzina si piegò a grattargli la testa. Ron Ron Ron.
 - Mia nonna ne aveva uno, Fiocco.
 Un gattone bianco e sordo che si lasciava fare qualsiasi cosa. Quando era morto aveva pianto per ore. Che bambina sciocca che era stata!
 Accarezzami sotto il mento. Ecco, così, brava. Quando eri in casa col gatto ti è mai capitato di smettere di fare quello che stavi facendo per dargli da mangiare? O interromperti per fargli una carezza? Si? Lo vedi, i gatti parlano, ma di solito preferiscono non farsi sentire.
 - E perché tu lo stai facendo?
 Ormai si era seduta su un muretto, con il gatto al fianco tutto soddisfatto delle carezze. Aveva socchiuso e gli occhi e abbassato beato le orecchie.
 Te l’ho detto, mi annoio. I miei umani sono andati a trovare dei parenti e mi hanno chiuso fuori per paura che mi facessi le unghie sul divano.
 - Lo avresti fatto?
 Il divano è perfetto, per farsi le unghie.
 Se la strada non fosse stata così vuota, Annalisa si sarebbe preoccupata di parlare ad alta voce ad un gatto che le rispondeva con i pensieri. Ma non c’era nessuno.
 - A casa mia è arrivata un’intera tribù di parenti e non sanno fare altro che parlare di cose inutili, ignorandomi come se non ci fossi neppure. Avevo voglia di una sigaretta. – spiegò.
 Il micio si era girato sulla schiena, offrendole da accarezzare la pancia, dove il pelo era più chiaro e morbido.
 Territorio invaso, strategia di difesa, sbagliata, ma comprensibile, sei poco più di un cucciolo.
 - Ho tredici anni! – protestò Annalisa – Non farmi la predica anche tu!
 Ritrasse la mano. Il gatto la guardò male.
 Su accarezzami, ti fa stare meglio, lo sai. Ecco, così. Cuccioli, vogliono farsi notare, dimostrare di essere adulti e per farlo si comportano ancora più da cuccioli e poi si lamentano se i grandi li trattano come tali o li ignorano. Succede sempre così.
 Annalisa si corrucciò. Non sapeva se a darle più fastidio fosse quel giudizio affrettato o l’affermazione che tutti si comportavano così. I suoi problemi erano solo suoi!
 - Ma guarda, mi doveva toccare anche il gatto moralista. Adesso mi dirai anche che non devo fumare.
 No. Fece il micio. Gli umani fanno un sacco di cose che fanno loro del male. Mangiate cose che non sono mai state vive, non avete ancora imparato a sotterrare e ricoprire ciò che puzza, dormite troppo poco. Aspirate fumo. A volte non capisco come faccio a sopportarvi.
 - Guarda che sono gli uomini a darti da mangiare!
 Noi facciamo le fusa. Vi fanno stare bene. E poi vi fa piacere pensare che noi si dipenda totalmente da voi.
 Ron. Ron. Ron.
 - E’ stato Michele a insegnarmi a fumare. – chissà perché, Annalisa si sentiva di dare una spiegazione proprio al gatto – Ha quindici anni e, al ritorno, prende il bus alla mia fermata. Se fumo, dice, dimostro quattordici anni.
 Non sei tu che devi fargli la corte. Se gli piaci, deve essere lui ad azzuffarsi con gli altri maschi per averti. Poi tu devi decidere se lo vuoi o no.
 La ragazzina si alzò in piedi. Diede un’ultima pacca al gatto. Se voleva le sigarette doveva andare.
 - Le cose da noi non funzionano così. – disse con un sorriso amaro.
 No?
 Il micione non sembrava volerla mollare, le trotterellava al fianco, tutto interessato.
 - Noi dobbiamo assecondare i maschi, se no, per un niente ti lasciano per una più bella o più giovane, come a fatto papà con la mamma.
 Ah. Fece il gatto, con fare saputo. Ecco cosa c’è. Tuo padre ha lasciato tua madre, non te. I maschi umani non abbandonano i figli.
 - No?
 No. Io non ricordo l’odore dei piccoli che ho avuto l’anno scorso dalla rossa. Ricordo la rossa, però. So che ormai hanno raggiunto l’età per cacciare. Ma i maschi umani non fanno così, perché voi rimanete sempre un po’ cuccioli e ne avete bisogno.
 Avevano raggiunto il distributore delle sigarette. Annalisa inserì i soldi e digitò il codice, un po’ distratta dai pensieri del gatto. Prese il pacchetto che ne uscì e se lo rigirò tra le mani. C’era scritto “Il fumo invecchia la pelle”. La cosa più assurda che avesse mai letto. Se lo cacciò in tasca. 
 - Adesso lo vedo solo una volta ogni due settimane e anche così non facciamo altro che litigare. – Mormorò, mentre ricominciava a camminare.
 Ah, e il fatto che non fate altro che graffiarvi dovrebbe fargli desiderare di vederti di più…
 Certo che sì, era suo padre, che diamine! Invece così quando stava con lui desiderava solo tornare con mamma e tutto di lui le dava sui nervi. Quando stava con mamma, tutto di mamma le dava sui nervi e voleva tornare da lui e rimpiangeva la sentenza del giudice che glielo impediva. Voleva spiegarlo al gatto, ma non trovò le parole.
 - E cosa dovrei fare, allora? – Era la domanda che faceva a tutti, e nessuno rispondeva mai.
 Mangiare, dormire, fare le fusa. Guardare i maschi che si azzuffano per te.
 La risposta le strappò un sorriso.
 - Non ho mai visto nessuno azzuffarsi per me.
 Non avevi neanche mai sentito un gatto parlare. 
 Non si poteva proprio discutere con un micio. Forse era per quello che Fiocco finiva sempre per averle tutte vinte. 
 La ragazzina e il gatto camminarono un poco in silenzio fianco a fianco. Intorno a loro lampeggiavano le luci mute del Natale e le case ronzavano piene di pranzi agonizzanti.
 Arrivati davanti ad una villetta dalle piante potate con cura e le lucine messe su una araucaria, il gatto si bloccò.
Annalisa guardò la pianta illuminata.
- Questi devono avere la mia stessa idea di Natale. Ci vorrebbe anche a me un albero così spinoso.
 E’ casa mia. Il commento del gatto graffiava un po’. Io mi fermo qui. I miei umani tornano tra poco. Si sentiranno in colpa per avermi lasciato fuori e mi daranno la carne macinata.
 La madre di Annalisa le aveva regalato una gonna costosa, di un porpora troppo scuro. Forse anche lei si era sentita in colpa. Annalisa rimpianse di non saper apprezzare quell’ammenda come faceva il gatto.
 - Buon Natale, allora – disse, imbarazzata - … Non so neppure come ti chiami.
 Non mi chiamo. Gli uomini perdono tempo a chiamarsi. Noi gatti siamo.
 Con un balzo, l’animale era già dentro il cortile. Con due abili falcate, andò ad acciambellarsi sullo zerbino. Se fosse stato il suo gatto, e lo avrebbe trovato così, arruffato e infreddolito, Annalisa si sarebbe sentita in colpa. Si chiese quanta cura ci fosse in quella posa pietosa. 
 Be’, non aveva senso rimanere lì a guardare un gatto acciambellato. Aveva persino socchiuso gli occhi, ignorandola. 
 Sospirando, Annalisa tornò a casa.

 Aprì con attenzione la porta di ingresso, per non farla cigolare. Scivolò dentro e fluttuò fino a camera sua. 
 Quando apparve di nuovo in salotto la situazione non era cambiata di molto. Sua madre e le zie al tavolo. Lo zio dormiva sul divano come uno gnu esausto. Le tre pesti avevano tirato fuori le macchinine. Sullo schermo lasciato acceso del computer uno scimmiotto in kimono saltellava isterico.
 - Dov’eri? – le chiese la mamma, ma senza allarme.
 - Fuori, a guardare gli alberi di Natale. – rispose Annalisa – Tre case più in là hanno addobbato una araucaria.
 Sua madre annuì, con lo sguardo di chi si stava chiedendo cosa mai fosse una araucaria. 
 - Ha chiamato tuo padre. Voleva parlarti. Gli ho detto di riprovare più tardi.
 La ragazzina annuì, prendendo atto che se mamma aveva detto “tuo padre”, voleva dire che gli aveva sbattuto il telefono in faccia, lieta che lei non fosse nella stanza. Ha lasciato lei, non te. La frase del gatto le risuonò limpida nella mente, con un sottofondo di fusa.

 Fu solo più tardi, quando ormai i gomitoli di discorsi si stavano disfacendosi nel brodo dei ravioli della cena, che Annalisa si accorse di avere un pacchetto di sigarette in tasca, ma di non averne fumata nessuno. Lo avrebbe fatto dopo, forse. 


 ANCORA TANTI CARI AUGURI DI BUON NATALE

lunedì 18 dicembre 2017

Effetto Natale


Mio marito mi prende in giro con regolarità tutti gli anni. Io sono quella che boicotta i cenoni di Capodanno, odiando cordialmente la ricorrenza, che indietreggia come un mulo di fronte alle feste comandate, non sopporta di fare la grigliata a ferragosto e il pic nic a pasquetta, ma di fronte al Natale vado in visibilio.
Deve esserci l'albero e il presepe (quest'anno in libera uscita per preservarne l'integrità), le lucine no, perché nessuna norma di sicurezza è ancora riuscita a convincermi che non possano causare l'incendio della casa. Devono esserci i regali pensati con cura (impacchettati preferibilmente da altri perché io sono un disastro) e si devono incastrare le cene e gli eventi per riuscire a salutare tutti.
Devo ammettere che, essendo alla mia prima esperienza natalizia da mamma lavoratrice avevo sottovalutato quale buco nero di tempo tutto questo potesse diventare. Aggiungiamoci la neve e la temperatura in caduta libera, cosa che magari ti convince a non prendere la pupattola dopo il nido per condurla su strade trasformate in lastre di ghiaccio per fare gli ultimi acquisti, obbligandoti a rimediare nel fine settimana.
Il risultato è una corsa a ostacoli, una sorta di gioco dell'oca con degli obiettivi da raggiungere e una serie di inconvenienti da superare. Forse è perché è il primo anno, ma lo trovo comunque divertente. Nonostante la frenesia, gli impegni aggiuntivi magari non così sentiti e che portano a rinunciare a cose a cui terrei di più, queste giornate pre natalizie continuano a piacermi.

Si amplificano le contraddizioni.
– Marito, Amazon costringe i lavoratori a turni folli, boicottiamolo!
– Ma cara, consegnano i regali in due giorni e già impacchettati, cose che non troveremmo mai qui in zona.
– Ordina come se non ci fosse un domani!

– Marito, la pupattola deve mangiare sano, sempre!
– Ma cara, siamo alla festa del nido, è l'ora di cena, ci sono pandoro, panettone e biscotti. In alternativa sta già per addentare un compagnuccio.
– Che ceni a panettone!

È anche l'occasione per ritrovare persone che non riesco a frequentare come dovrei. Ci sono amicizie che non soffrono di queste lunghe pause. Sabato ho rivisto una delle mie più vecchie amiche, che non vedevo da questa primavera e dopo un poco eccoci lì a raccontarci di fatti delle elementari, di quando a sei anni era innamorato di lei il compagno tanto ricco da vivere in un castello con cuoco e maggiordomo a disposizione (quando le occasioni della vita capitano nel momento meno adatto, abbiamo commentato).
Quest'anno il giro è incompleto. Purtroppo ci sono persone che per vari motivi non riesco a raggiungere (mi pesa sopratutto mancare ai tradizionali auguri con gli amici di Ecomuseo). Parlando con i presenti e degli assenti mi ha colto più del solito un senso di malinconia. Un effetto da "elenco telefonico degli Accolli". Prendo l'espressione in prestito da Zerocalcare, indica il momento in cui si accorge di quanti dei suoi conoscenti si portino pesi assai maggiori dei suoi. Ci sono persone che non si riescono a raggiungere per via di serie malattie loro o dei loro cari più stretti, chi ha situazioni lavorative davvero precarie, chi non riesce a trovare una stabilità negli affetti. Si tratta di miei coetanei. Non dovrebbero essere questi gli "anni buoni", non spensierati come quelli della giovinezza, ma presi dalla gioia del vivere appieno la vita che ci si è scelti?
Eppure la nostra è una generazione per molti versi tradita, caricata da promesse non mantenute e quando a questo si aggiunge anche un destino avverso il peso da portare rischia di essere tanto.
Io mi stringo alla mia famiglia con un senso quasi di disagio di fronte alla fortuna dell'ultimo periodo.
Abbiamo anche già ricevuto il regalo più atteso: il nostro cognome ufficialmente attribuito alla pupattola. Certo, ci sono ancora delle strambe idiosincrasie burocratiche. Al momento nostra figlia è, appunto, nostra figlia, ma risiede altrove e solo dopo Natale potremo ricongiungerla, a livello di documenti, a noi. Insomma, non ha neppure un anno e mezzo e sulla carta già vive da sola!

In tutto questo devo guardare in faccia alla realtà: prima di Natale il tempo per il blog non c'è.
Ci rileggiamo più avanti, quindi, magari con il nuovo anno.

UN CARO AUGURIO DI BUON NATALE A TUTTI

mercoledì 13 dicembre 2017

Ritorno a Baker Street


Quando ho scritto Sherlock Holmes contro il Fantasma dell'Opera ho seriamente pensato che sarebbe stato il mio ultimo lavoro sherlockiano. Questo per una serie di motivi che non avevano nulla a che fare con la mia voglia di scrivere di Sherlock Holmes.
Quelli sherlockiani sono racconti molto rigorosi. Richiedono una documentazione puntuale (ci sono appassionati che penso sappiano a memoria la pianta della Londra vittoriana con tutti i nomi delle strade al loro posto e guai a sbagliarne uno!) e una progettazione a prova di bomba per quanto riguarda la parte gialla. Non si possono in alcun modo improvvisare. Bisogna pensarli con calma, cercare la documentazione, molte informazioni specifiche in rete non si trovano (almeno non in una lingua per me comprensibile) e bisogna setacciare i meandri delle biblioteche.

Eppure c'è qualcosa di estremamente rilassante in tutto questo.
Probabilmente è una questione di percezione personale. Quelle di Sherlock Holmes, dal mio punto di vista, sono, sul lungo periodo, storie a lieto fine (chiedete ad altri miei personaggi se secondo loro sul lungo periodo hanno una storia a lieto fine e rischiate il pugno in faccia). Non importa cosa accada, quanto dolore ci sia da attraversare (tra fratelli e mogli morti il povero Watson ne attraversa un bel po'), alla fine c'è un camino acceso, una pipa e il suono di un violino.
Lo stesso rigore che il lavoro necessita, con la necessità di studiare alcuni aspetti della società di fine XIX secolo in un certo modo, è rilassante.

Quindi succede più o meno sempre così. Se sono stanca (e lo sono parecchio) e un po' stressata dalle questioni lavorative (magari accessorie, come stare dietro alla documentazione per l'anno di prova), io mi rifugio a Baker Street.
Poi c'è questa cosa che abito se non tra i monti, almeno sulle colline e questi maledetti corsi abilitanti/per il ruolo/di aggiornamento, li fanno sempre in una parvenza di cittadina, il che vuol dire almeno un'ora d'auto da dove sto. Questo, più le ore di corso (che, ammetto, non è che segua al 100% con tutta me stessa) dà un po' di tempo per pensare.
Infine ha un suo ruolo anche l'inverno. Non credo di aver mai scritto di Sherlock Holmes d'estate. Cosa c'è di meglio in giornate come questa di un camino e una comoda poltrona in un'atmosfera inglese?

Così ho l'impressione di tornare a casa di amici e di essere sempre ben accolta a Baker Street, potermi sedere anch'io in poltrona, prendere non da fumare, ma magari qualcosa da bere (ho il sospetto che al 221b ci sia sempre qualche buon distillato da stappare al momento opportuno, cosa che ammetto di non disdegnare). A quel punto iniziano i racconti. C'è sempre qualcosa di interessante da scoprire, seduta in quella comoda poltrona.
Questa volta, ad esempio, ho scoperto l'esistenza di una gran donna italiana, Giuseppina Cattani e della volta che ha aiutato Sherlock Holmes a risolvere un delitto.
C'è persino il tempo per togliersi qualche curiosità che non ha poi posto nei racconti.

– Ma allora, come si è trovato davvero a vivere in un monastero tibetano?
– Sinceramente? Superata la curiosità iniziale, una noia abissale.

sabato 9 dicembre 2017

La mia esperienza di prof "capovolta"


Quest'anno ho deciso di modificare, almeno in parte il mio metodo di insegnamento e di sperimentare in modo un po' più scientifico per storia e un po' più a macchia di leopardo per italiano e geografia la metodologia della "classe capovolta".
Essendo all'inizio di un nuovo ciclo (quest'anno ho due prime medie) devo dire che l'esigenze era principalmente mia. In particolare volevo:

– programmare meglio le attività, in modo da arrivare in classe con uno schema pre impostato da seguire, prevedendo la possibilità di arrivare a scuola dopo notti in bianco senza sapere neppure se ho indosso abiti oppure ancora il pigiama.

– snellire le parti di lezione frontale, che spesso sono noiose sia per me che per i ragazzi

– avere delle griglie di valutazione il più possibile oggettive per evitare contestazioni nei voti, ma anche per snellire la parte di correzione

Devo dire di aver scelto la classe capovolta invece di altre metodologie perché ho avuto la possibilità, più casuale che cercata, di seguire un percorso di formazione e, effettivamente, dopo il primo impatto un po' straniante, l'impostazione mi è piaciuta.

Un po' di teoria

Nel mondo dell'insegnamento in questi anni, in realtà c'è parecchio fermento e si stanno provando diverse nuove metodologie. Il rischio è di saperne poco di tutte e di finire a confondere un po' tutto. Nel corpo docenti, la "classe capovolta" è conosciuta come "quella dei video", il che è vero solo in parte o, comunque, non è l'uso dei video l'essenza della classe capovolta.

L'idea base è quella di spostare a casa l'apprendimento teorico e di dedicare se non tutto, almeno in larga parte il tempo scuola ad attività pratiche/di approfondimento. Queste attività vengono sempre valutate secondo delle griglie di correzione che vengono a priori condivise con i ragazzi. La valutazione di queste attività punta molto sul processo di apprendimento e meno sulle conoscenze (si prendono punti non solo se si sanno le cose, ma anche se si è ragionato bene sul come impararle). A fine di unità di apprendimento c'è comunque la classica verifica sommativa/interrogazione per valutare le conoscenze apprese.
Non è necessario, in linea teorica, un supporto informatico o la presenza di video lezioni, ma a livello pratico è più comodo creare un sito/blog su cui i ragazzi possano trovare di volta in volta le informazioni e i video sono effettivamente più comodi. Permettono, infatti, di essere creati o scelti ad hoc e, sopratutto, possono essere guardati dai ragazzi più volte, anche dal cellulare, in momenti in cui non potrebbero studiare. In particolare i video aiutano quella fascia di ragazzi che per vari motivi hanno difficoltà nello studio, ma sono motivati a migliorare, perché permettono più visioni o di rivedere solo la parte più difficile da memorizzare/capire.



Un po' di miti da sfatare

La classe capovolta viene usata anche nella metodologia "senza zaino", ma di base non lo è. I libri di testo si usano eccome, sia per studiare a casa le parti teoriche, sia per le esercitazioni in classe.

La classe capovolta non è una metodologia a "zero compiti a casa", al contrario, ogni volta a casa i ragazzi devono studiare e rispondere a delle domande di comprensione del testo/del video.

Non è una metodologia "adatta solo alle elementari", anzi nasce in ambienti di scuola superiore. Se devo proprio trovare un difetto, necessita un'autonomia che i miei ragazzi in prima media spesso non hanno ancora

Non è una metodologia in cui si lavora solo in gruppo e "sono sempre i soliti a lavorare", innanzi tutto le esercitazioni sono le più diverse, si alternano esercitazioni in solitaria, a coppia e a piccoli gruppi (solitamente 3 o massimo 4 membri). Nel caso delle esercitazioni a gruppi nelle griglie di valutazioni ci sono sempre voci del tipo "tutti hanno contribuito al lavoro", "tutti hanno apportato idee costruttive". I ragazzi quindi sanno che per prendere un bel voto tutti devono lavorare e il prof, ovviamente, è lì per vigilare che la cosa avvenga davvero. Per questo è importante che i famigerati "lavori di gruppo" avvengano sempre e solo in classe, dato che il docente deve valutare non solo il prodotto finito, ma anche il processo.

La mia esperienza

È all'inizio, quindi mi riservo a fine anno di dare un giudizio più motivato, per il momento, però, ne sono molto contenta.

La difficoltà principale che trovo è che i manuali scolastici non sono ottimizzati per questa metodologia. In generale prevedono che il prof passi la maggior parte del suo tempo a spiegare quello che c'è scritto, il che è un controsenso, perché un testo scolastico dovrebbe essere comprensibile dai ragazzi, invece il lessico usato non è alla portata della maggior parte dei miei studenti. Quindi non posso dire loro solo di leggere quelle pagine, perché molti di loro le trovano troppo complicate. Inoltre i libri non forniscono molte idee per le esercitazioni, cosa di cui io sono sempre a caccia.

Per ovviare a queste problematiche ho deciso, avendo comunque molte ore per classe, di raggruppare le materie, in modo da avere sempre almeno due moduli orari nello stesso giorno da dedicare a quella disciplina (facciamo storia due ore consecutive, geografia una sola volta alla settimana ma due ore consecutive e così vie). In questo modo riesco a fornire quel surplus di spiegazione all'inizio o alla fine delle due ore e mi rimane comunque il tempo per le esercitazioni.

Non uso in modo esclusivo i video e, comunque, salvo rare eccezioni, non li creo io, sia per una questione di tempistica (ci vogliono parecchie ore per realizzare un buon video didattico da 5 minuti), sia perché la mia voce, registrata, risulta molto acuta (ancora più che all'ascolto dal vivo). Fortunatamente, almeno per storia, ci sono ottimi video, come quelli curati dalla Treccani o quelli di Rai Storia.
(PS: ho scoperto inoltre che, anche sulle ragazzine delle nuove generazioni il buon Alberto Angela ha il suo fascino)

Cerco di mettere molta attenzione nella creazione delle esercitazione, cercando di avere ben in mente cosa voglio che loro imparino, sia a livello di contenuti che di metodo di studio. Io lavoro alle medie, quindi ritengo che il mio dovere principale sia insegnare a studiare, non posso pretendere che sappiano già fare collegamenti e reperire informazioni in rete, devo essere io a guidarli.


Non voglio essere ipocrita, la mia scelta è stata all'80% egoistica e al 20% didattica.
A giugno, non avendo esami, ho preparato la maggior parte delle esercitazione e dei compiti di realtà, che è il grosso del lavoro del docente capovolto.  Quindi adesso vivo un po' di rendita e gestisco meglio le mie scarse energie.
Esperienze pregresse mi hanno fatto un po' temere le contestazioni dei voti da parte dei genitori. Il fatto che venga condivisa una griglia di correzione, nota ai ragazzi ben prima dell'esecuzione della prova è per me un sollievo tale che sto usando lo stesso metodo anche per altre prove. Bisogna stare ben attenti a calibrarla bene e sopratutto di attenercisi. Da un lato mi manca un po' quella parte di "valutare le condizioni del momento del ragazzo", dall'altro, avendo più valutazioni, anche una prova andata storta per una giornata no pesa meno.
Ho più prove da correggere, ma meno elaborati (spesso realizzati a gruppi o a coppie) e, con le griglie, sono più rapidi da correggere. Ritengo comunque che la mia sopravvivenza su questo piano (a settembre già mi vedevo svenire sui temi alle due di notte, cosa che per fortuna non sta accadendo) sia dovuta al fatto che ho classi poco numerose. Inoltre, essendo in una scuola a tempo prolungato, ho italiano solo in una classe.
C'è una parte di creatività, sia da parte mia nel progettare le esercitazioni/compiti di realtà, sia da parte dei ragazzi nel realizzarli, cosa che per me è importante.
I docenti che stanno usando questa metodologia sono molto attivi in rete, in un'ottica di condivisione dei materiali e delle idee. Io sento il bisogno sia di questo scambio di idee sia del loro entusiasmo.

Quindi, ecco, essere una prof capovolta senza dubbio aiuta me. Spero che aiuti un po' anche i miei studenti.

Maggiori informazioni, se ancora ne desiderate dopo questo post fiume, le trovate sul mio blog didattico

mercoledì 6 dicembre 2017

Soddisfazioni scolastiche

L'insegnamento è quel lavoro per cui, il più delle volte, torni a casa distrutta con una marea di cose da correggere e preparare e ti senti dire "beata te che lavori solo mezza giornata", in cui passi l'estate a preparare il piano per l'anno successivo mentre ti belano intorno "ah, due mesi di vacanza", in cui se qualcosa va bene è il ragazzo che è educato/brillante/seguito dalla famiglia, se invece qualcosa va male "ah, la scuola, ah, gli insegnanti".

L'insegnamento è anche quel lavoro in cui vai a scuola sconvolta, in un giorno in cui non hai sentito la sveglia, perché la pupattola ha passato la notte a tossire, salvo poi addormentarsi beata due minuti prima del risveglio programmato. Arrivi in classe che ti stai ancora chiedendo se hai finito di vestirti o se stai ancora indossando il pigiama con le pecorelle. Ti concentri strenuamente sull'idea del caffè nella speranza che la caffeina in qualche modo giunga dal mondo della mente a soccorso. Ed ecco che i ragazzi ti presentano con un sorriso il lavoro che hai sempre sognato di veder realizzato.

Quest'anno sto sperimentando in modo un po' più scientifico la metodologia della "classe capovolta", a cui in futuro dedicherò un post. In breve si tratta di far lavorare in modo più pratico i ragazzi in classe.

I miei alunni hanno dovuto inventare un personaggio medioevale e raccontare la sua vita quotidiana. In questo modo è nato Armando, contadino della Toscana medioevale.
Quattro ragazzi ci hanno lavorato esclusivamente in classe, senza aiuto da parte di adulti. Non tutto, quindi, è perfetto. Ma a me questi ragazzi hanno migliorato la giornata.

lunedì 4 dicembre 2017

Lo strano caso di Star Trek Discovery – visioni


La premessa necessaria a questo post è che sono stata cresciuta da mio padre a pane e Star Trek serie classica. Nelle estati della mia infanzia mio padre chiedeva una deroga alle draconiane restrizioni di mia madre sull'utilizzo della televisione per farmi vedere le avventure del capitano Kirk. Le serie successive le ho guardate a pezzi e bocconi, mentre ho visto più volte ciascuno dei film con il cast originale. Immagino che questo non basti a definirmi una trekker dura e pura, ma nell'eterna diatriba Star Wars vs Star Trek non ho dubbi su quale sia la mia squadra.

Mi trovo quindi immersa nello strano caso della serie Star Trek Discovery, serie Netflix di cui è disponibile la prima metà stagione. Strano caso perché in nove episodi la serie inanella una serie di caratteristiche che sembrano messe lì apposta per farla odiare, eppure, in realtà, ad ogni episodio coinvolge un pochino di più.
Sentendo gli amici appassionati e spulciando un po' in rete sembra che sia un'impressione condivisa. Si parte con un "ma che ca*** galattica!", si passa a un "però, diamogli una possibilità" a "vediamo dove vogliono andare a parare" fino a "quando escono i nuovi episodi?"

Ricapitoliamo tutto ciò che la farebbe cestinare immediatamente:

– La premessa su cui si basa il tutto è terrificante. L'universo intero avrebbe una sorta di micosi, o, meglio, una rete di micelio lo attraverserebbe. La nave spaziale Discovery ha un motore che funziona a spore (!) che le permette di teletrasportarsi ovunque voglia. 
NOTA: la serie è ambientata prima di quella classica, ma in seguito non abbiamo traccia di questa teoria né di una tale tecnologia

– Tutti i personaggi si distinguono per antipatia. Dopo un paio di episodi se ne ha la certezza, è una cosa studiata e voluta. Abbiamo la protagonista che a livello caratteriale unisce il peggio di umani e vulcaniani, il capitano "il fine giustifica il mezzo e i morti", lo scienziato per cui tutto va in secondo piano rispetto alla scienza, l'alieno con risentimento (per carità, giustificato) e la saputella imbranata. Dopo qualche altro episodio si inizia a notare che sono antipatici ma non monodimensionali. Il capitano Lorca, ad esempio, ha diverse sfumature di bastardaggine (solo io ho il sospetto che sapesse che la missione in cui era impegnata la sua ex era una trappola e che la cosa gli andasse assai bene?). Al momento l'unico metodo comprovato per migliorare il carattere è l'esperimento genetico clandestino .

– I klingon, specie aliena storica nell'universo di Star Trek, sembrano avere una grave malattia alla pelle. I klingon hanno in effetti più volte cambiato aspetto, ma così rettilei e glabri non erano mai stati. La cosa è troppo dissonante con le regole del gioco per non avere una spiegazione, ma è quanto meno disturbante.

– I primi episodi sembrano prendere a pugni lo spirito stesso di Star Trek, una serie che è sempre stata fondamentalmente ottimista, più speculativa che d'azione. Qui si parte con una cupa storia di guerra che lascia ben poco spazio alla speranza e dove viene ribadito che alcuni pregiudizi possono anche essere scomparsi, ma ci sarà sempre qualcuno considerato diverso e per tanto emarginato da un gruppo dominante.

L'impatto iniziale, quindi, è stato di guardare qualcosa di terribilmente fuori fuoco. Eppure, molte volte, guardando film, telefilm o leggendo libri ho avuto l'impressione di avere di fronte qualcosa che voleva a tutti costi funzionare, ma con evidenti errori di progettazione. Qui c'era qualcosa che evidentemente non voleva funzionare. E poi via, puntata dopo puntata, ecco tanti minuti aggiustamenti, spostamenti minimali di prospettiva che fanno sospettare che tutto sia voluto. Una sorta di grande scommessa con gli spettatori, dare loro quasi il contrario di quanto si aspettano per poi condurli lentamente nella storia.
Pian piano tanti tasselli tornano a posto. L'integrazione, è evidente, un tema della saga. Non ci viene presentato un futuro in cui è già in atto, ma uno in cui ciascun personaggio, per motivi che vanno dal risibile (russo e nessuno mi vuole come compagno di camera) al molto serio (ho causato accidentalmente una guerra) è un emarginato. I motivi "classici" per cui si viene emarginati oggi sono superati, ma non l'emarginazione in sé e tuttavia si lotta per superarla.
I personaggi sono antipatici, molto antipatici, volutamente antipatici, ma sono in evoluzione. Più che in altre serie. Per certi versi questi loro tratti di cinismo, disillusione, paura diventano le cose per cui li si percepisce vicini. Certo, dopo nove puntate non posso dire ancora di essermi affezionata a loro, ma inizio a trovarli interessanti.
Certo l'idea dell'universo percorso dal fungo gigante e quella del motore a spore continua a sembrarmi un'idiozia bella e buona e qualsiasi soluzione troveranno per giustificare la sua assenza nei tasselli narrativi successivi dubito che mi piacerà. Ma il tutto è, appunto, interessante, con la sensazione che qualcuno stia giocando volutamente con le aspettative del pubblico. È di più di quanto si possa dire per molti prodotti televisivi.

PICCOLA POSTILLA ULTRA NERD
I veri nerd ricorderanno che negli anni '90 girava un documento chiamato "Hai due mucche in..." in cui vi era tutta una casistica di avvenimenti che poteva capitare a qualcuno che avesse due mucche nei vari universi narrativi e ludici. Ricordo perfettamente quello che accadeva in Star Trek ... Hai due mucche, la Federazione le considera individui. Non puoi mungerle senza il loro consenso, non puoi macellarle se non ti attaccano per prime.
Ora, mi ha fatto sorridere e anche iniziare a rappacificarmi con la serie un episodio che sembra preso da questo vecchio ritrovato nerd. Hai un acaro gigante che ti serve per far funzionare la nave, ma il medico di bordo lo considera un individuo... Da qui una delle più importanti svolte di trama della serie...

Star Trek a parte, vi siete imbattuti in una storia che, pur partendo da pessime premesse ha saputo farvi ricredere? In che modo?

sabato 2 dicembre 2017

Festa Mobile – Piovono Libri


Se vi siete chiesti come mai il blog taccia da qualche giorno, beh è perché siamo saliti sulla giostra delle malattie infettive, con la nuova arrivata "piedi-mani-bocca", malanno, pare, più fastidioso che grave. Ha tuttavia il suo strascico di vai dalla pediatra-in farmacia-organizza i turni nonni-riprendi dai malesseri notturni che si è portato via e si porterà via gran parte delle mie energie mentali

Fortuna che c'è il gruppo di lettura, più attrezzato che mai, pronto ad accogliermi in diretta fb per partecipare alla seduta direttamente dai casa mia, con un occhio sulla bimba addormentata. 
Non so se dalle mie parole traspaia quanto sia grata agli amici lettori che in quest'ultimo anno hanno fatto di tutto per venire in contro alle nostre esigenze di neo famiglia, facendoci sentire più che mai parte del gruppo, e tenendo viva la mia curiosità intellettuale con libri che, da sola, non avrei mai aperto.
GRAZIE DI CUORE RAGAZZI!

Ma veniamo al libro.

FESTA MOBILE

Festa mobile è l'ultimo libro di Hemingway, rimasto incompiuto al suo suicidio. Si tratta di una sorta di autobiografia degli anni giovanili trascorsi a Parigi in un, ai nostri occhi incredibile, fervore culturale. Negli anni '20, infatti, nella capitale parigina c'era la crème delle arti figurative e della letteratura in lingua inglese. Gli scrittori di lingua inglese, in particolare, creavano un gruppo coeso che si incontrava spesso, scambiandosi spunti e idee, anche quando le produzioni e la ricerca stilistica  percorreva strade assai diverse (ignoravo, prima di leggere il libro che Hemingway apprezzasse Joyce e lo avesse frequentato a Parigi, dato che nella mia testa sono autori talmente diversi da percepirli come inconciliabili).

Al contrario della maggior parte degli altri lettori presenti in modo reale o virtuale alla seduta, questo libro mi è piaciuto moltissimo. Hemingway come personaggio continua a starmi neanche troppo cordialmente antipatico, ma quest'opera è riuscita se non altro a farmelo capire un po' di più.

Dubito che avrei avuto le stesse sensazioni durante la lettura se non avessi saputo che questo era il libro a cui Hemingway stava lavorando quando si è suicidato.
Vi sono numerosi passaggi nel romanzo in cui, com'è ovvio aspettarsi, si parla del lavoro dello scrittore e Hemingway insiste più volte su una parola, sincerità. Uno scrittore, dice, deve principalmente essere sincero. E queste frasi mi sono rimaste in mente quando in altri passaggi sottolinea come in quegli anni, quando era povero (per i suoi canoni, come si è detto al gruppo, in realtà a Parigi faceva la bella vita, altro che, un operaio lo avrebbe preso a schiaffoni per le sue affermazioni), era felice. Una felicità di cui non era consapevole e destinata a sgretolarsi quasi in contemporanea all'agognato arrivo del successo letterario.
Ecco, io non potevo non pensare a quest'autore ormai anziano e famosissimo, depresso, ossessionato dall'idea della morte, che ripensava a un tempo passato e a una generazione di artisti allora suoi amici, giovani e pieni di ideali che, al momento in cui lui scrive, hanno ormai fatto una pessima fine. L'Ezra Pound (per me sicuramente la figura più interessante del romanzo) idealista e generoso divenuto poi apologeta del fascismo e infine rinchiuso in manicomio o Fitzgerald, morto ormai da tempo, dopo dolorose traversie.
Sotto il ricordo gioioso di questi anni parigini vissuti con leggerezza, addirittura con incoscienza, tra feste, corse ai cavalli, idealismo e sogni letterari, ho visto una sorta di dolente canto funebre per una generazione ormai sì, irrimediabilmente, perduta, a cui Hemingway si sentiva sopravvissuto suo malgrado.

Il secondo grande motivo di fascino è stato, per me, proprio l'immersione in questa generazione perduta.
La definizione, che Hemingway proprio non amava, è di Geltrude Stein, ricca signora che, insieme alla propria compagna, aveva organizzato intorno a sé il più importante salotto culturale parigino. In ogni caso generazione perduta indica un gruppo di autori diventati adulti in una prima guerra mondiale a cui, quasi sempre, avevano voluto fortemente partecipare. Si erano trovati sopravvissuti loro malgrado in un'Europa che, per altro, capivano molto poco, con i gradi ideali che li avevano mossi,se non sfumati, almeno molto confusi. Leggendo il romanzo mi hanno dato l'idea di un gruppo di intellettuali con più talento che consapevolezza di ciò che accadeva davvero loro intorno, mossi dal disperato desiderio di lasciare una traccia in un mondo che, tendenzialmente, era mosso da forze assai più grandi di loro.
Non mi ha stupito che per la maggior parte abbiano fatto una pessima fine, ma forse, per la prima volta e come non mi era capitato con altri romanzi che in qualche modo trattano della stessa generazione, come La cripta dei cappuccini, ho capito il loro spaesamento. 
Figli di un'epoca precedente si sono trovati in un mondo in troppo rapido mutamento con l'illusione e l'ambizione di volerlo capire. 
Come minuscoli surfisti che ambiscano a cavalcare un'onda di tsunami. Nulla di sorprendente che ne siano stati travolti.

Infine, la cosa che ha colpito tutti i lettori è il fatto che, insomma, anche Hemingway è stato un giovane scrittore alle prime armi. Uno che andava a spiare Joyce da lontano e si sentiva euforico per averlo visto mangiare. Uno che festeggiava felice un racconto venduto, chiedendosi se sarebbe mai stato in grado di scrivere un buon romanzo. Lo vediamo pieno di ammirazione per il già famoso Pound e stupito nel constatare le fragilità di Fitzgerald. Certo, nella rievocazione si toglie un gran numero di sassolini dalle scarpe e sono davvero pochi i personaggi  a cui non riserva qualche cattiveria. In generale, però, ci riporta a un giovanotto pieno di sogni e ambizioni che, però, non ha alcuna certezza sulle proprie effettive possibilità di realizzazione.
Da questo punto di vista è in qualche modo imprescindibile per uno scribacchino che abbia una qualsiasi ambizione. Per quanto Hemingway vivesse alla giornata, sregolato, sempre impegnato a bere, pronto a giocarsi alle corse i guadagni, come autore era estremamente disciplinato. Percepiamo quanta fatica e dedizione vi sia nella sua ricerca stilistica.

In tutto questo, Hemingway mi stava cordialmente antipatico prima di questa lettura e continua a restarmi antipatico dopo. Si conferma privo di empatia, costantemente concentrato sul proprio ombelico. Sembra ricordarsi con esattezza ogni alcolico bevuto, il nome del suo gatto, ma non quello del figlio e anche la moglie sembra una figura pallida, della cui felicità il buon Ernest non sembra occuparsi molto, se non come riflesso della propria. Nonostante questo, Festa Mobile mi ha dato molto, immergendomi in un mondo di cui sapevo poco, presentandomi sotto una luce inedita autori di cui avevo sempre sentito parlare e fornendomi tutta una serie di spunti di riflessione. È, insomma, un esempio perfetto di ciò che richiedo a un libro che non abbia solo lo scopo (nobile) di intrattenermi.

Infine, sono crollata prima di poter condividere con il gruppo, perché secondo me, la rilettura di questo libro è stata scelta dai francesi come reazione simbolica agli attentati del 2015.
Ci riporta alla Parigi migliore, che accoglie gli stranieri e fornisce loro l'humus intellettuale necessario perché possano sviluppare al meglio il proprio potenziale. È sicuramente molto altezzoso e molto francese il volersi riconosce in questo. Ma mi è sembrato meraviglio che la reazione a un attentato sia la lettura, una lettura che ci riporti al meglio che una città può dare.