lunedì 29 giugno 2015

Le difficoltà di raccontare un mondo diverso dal nostro – scrittevolezze


C'è una cosa che come lettrice mi conquista, ma che come autrice faccio ancora fatica a gestire: immergermi in un mondo davvero diverso dal mio. Ci sono molti libri che amo e che descrivono la mia realtà, ma se penso a quelli che porterei nella proverbiale isola deserta, allora la fanno da padrona  opere che mi portano altrove. Mi affascina il diverso, l'entrare in contatto con qualcosa ne non è il mio modo di vivere e di pensare.
Quando scrivo "mondo altro", la mente corre subito al fantasy, ma in realtà ci sono molte storie che si ambientano in un mondo diverso dal nostro.
Storie ambientate in luoghi lontani con condizioni socio-economiche e ambientali diverse dalle nostre.
Storie ambientate nel passato.
Storie ambientate nel futuro.
Storie ambientate in un altrove che non ha alcuna relazione con la nostra realtà.
In tutti questi casi l'autore dovrà il lettore al di fuori dalla sua realtà, da quello che conosce e che giudica normale e logico. A ben vedere, non ritengo queste quattro categorie così diverse. L'unica che ha davvero una differenza sostanziale è la prima, perché può basarsi su una solida esperienza personale. Posso ambientare una storia in Groenlandia dopo esserci stata, invece il passato, il futuro e l'altrove alternativo mi sono parimenti preclusi. Le difficoltà, quindi sono affini.

RENDERE CREDIBILE IL PROPRIO MONDO
Si fa sempre l'esempio di Tolkien che ha inventato tutte le lingue della Terra di Mezzo, con tanto di grammatica e storia della lingua per rendere credibile il suo mondo. Non è precisione maniacale è quello che serve. Per costruire un mondo altro bisogna cesellarlo nei più piccoli dettagli.
Come parlano, come pensando i suoi abitanti? Come il mondo che abitano influisce sulla loro vita?
Non bisogna dare per scontato, ad esempio, che il mondo del passato fosse lo stesso di oggi o venisse vissuto come oggi. Basti pensare alla continua paura dei contagi, delle pestilenze, al fatto che ogni ferita, se si infettava, era potenzialmente letale. Tutte paure oggi in gran parte dimenticate e che influivano moltissimo non solo sullo stile di vita, ma anche sul modo di pensare, sulla scala dei valori. Basti pensare che perdere un figlio sotto i tre anni era cosa tanto comune che quasi erano guardati male i genitori che lo piangevano, oggi è una disgrazia immane.
Un mondo totalmente altro porrà poi, ulteriori difficoltà. Ogni variazione, di clima, di flora, di fauna rispetto al nostro presente avrà delle ripercussioni sul modo di vivere e di pensare degli abitanti.

LA PAURA DI SPAESARE IL LETTORE E IL MONDO EDULCORATO
La cosa che più mi irrita, da lettrice è "l'altrove addomesticato" cioè un mondo diverso dal nostro, ma non così tanto da spaventare il lettore.
Mi irrita particolarmente quando si parla di un passato storico edulcorato delle parti che possono disturbare il lettore moderno. Ricordo in particolare una saga ambientata nell'antica Roma dove nessuno dei personaggi si divertiva ad andare a vedere i giochi gladiatori, tutti trattavano bene gli schiavi e Giulio Cesare era un giovanotto romantico fedele alla propria moglie. 
Irritazione non troppo diversa mi coglie quando in un fantasy simil medioevale ci sono le guerre, sì, ma nessuno si fa male davvero, di saccheggi non si parla e tutti agiscono secondo le regole della cavalleria. Se c'è un enorme merito che ha Martin e le sue Cronache del Ghiaccio e del Fuoco è quello di mostrare un medioevo alternativo ma credibile, dove la gente viene massacrata, stuprata, storpiata e dove "tutti possono morire". Non è questione di sadismo, ma di coerenza.
Il primo consiglio che mi sento di dare, quindi, è di non aver paura di spaesare il lettore e di non edulcorare il mondo che si vuole raccontare.
Se dovessi raccontare una storia ambientata in un certo periodo nell'Isola di Pasqua o tra gli Anasazi, dove l'antropofagia era la norma, ebbene non dovrei pormi il problema di non spaseare il lettore. Dovrei avere personaggi che giudicano normale o comunque inevitabile il cannibalismo, senza per questo essere dei mostri.

COME PORTARE IL LETTORE IN UN MONDO ALTRO?
Quando ambientiamo una storia in un mondo diverso dal nostro non dobbiamo aver paura di spassare il lettore, ma dobbiamo comunque portarlo per mano in una realtà diversa e, in molti casi, in contrasto con la nostra e con quello che riteniamo buon senso. Per farlo ci sono tre sono le strategia più usate.
– Il protagonista viene dal nostro mondo/è più affine a noi
Può essere ad esempio un nostro contemporaneo che tramite macchina del tempo/portale/vai a sapere cosa, si trova catapultato in un mondo altro/in un'altra epoca. Vedrà la realtà con uno sguardo che è comunque affine al nostro e lo spaiamento del lettore sarà il nostro.
È il caso, ad esempio de Le cronache di Covenant o di Timeline
A volte il protagonista non viene direttamente dal nostro mondo, ma è comunque più affine al lettore degli altri personaggi che andrà a incontrare.
È il caso di Genly Ai, terrestre e inviato dell'Ecomune nello strano mondo di Gethen nel mio "romanzo-feticcio" La mano sinistra delle tenebre
Se ci fate caso, è anche l'espediente usato da Tolkien che, tra tutte le creature della sua Terra di Mezzo usa come protagonista degli hobbit, che sì, vivono in caverne e hanno i piedi pelosi, sono bassini e gioviali, ma sono relativamente simili agli abitanti dell'Inghilterra rurale. Tra gli hobbit, poi,  Bilbo e Frodo sono particolarmente simili a gentiluomini di campagna e il lettore li percepisce come i più affini a lui tra tutti i personaggi presentati.
– Il protagonista è un'eccezione all'interno della sua società
Frodo e Bilbo sono i personaggi più simile al lettore ideale di Tolkien, ma sono comunque degli hobbit ben inseriti nel loro gruppo sociale.
A volte, dovendo presentare un altrove particolarmente alieno dove la "norma" è qualcosa che fa a pugni con il nostro senso comune, l'autore sceglie un personaggio che sia un diverso nella sua società, con dei valori più affini a quelli del lettori. Ad esempio, nella mia ipotetica epopea anasazi, un giovane anasazi che rifiuta in cannibalismo. In questo modo si racconta una società molto lontana dalla nostra, ma allo stesso tempo se ne prende le distanze e non si mettono in discussione i valori dei lettori.
Tra i tre espedienti è quello che amo meno, anche se nella mia adolescenza ho letto le avventure di Drizzt Do'Urden (per la serie, pessimi libri che comunque abbiamo amato...)
– L'autore fa proprio il punto di vista del/dei protagonisti
Con la prima persona o la terza limitata l'autore porta il lettore direttamente nella testa del/dei protagonista, fa vedere il mondo dai loro occhi e quindi appare normale ciò che al protagonista appare normale. Se l'autore è bravo, anche le cose più lontane dalla nostra sensibilità appariranno ovvie se percepite come tali dal personaggio. Amo molto le storie di questo tipo, ma mi limito a due esempi.
La saga dell'assassino di Robin Hobb in cui entriamo nella testa di un ragazzo istradato alla "nobile" carriera di assassino di fiducia del re.
Le ultime gocce di vino uno dei pochi romanzi capaci di portare davvero dentro alla mentalità della nobiltà ateniese del V secolo (piuttosto lontana da quella odierna).

Io come dicevo, amo molto questo genere di storie, ma mi rendo conto che non sono brava come vorrei a scriverle. Voi le amate? Le leggete? Che difficoltà incontrate, da lettori o da autori?

venerdì 26 giugno 2015

Il caso del cucciolo di Bulldog – racconto autoconclusivo

Nei mesi scorsi ho colpevolmente trascurato Holmes e Watson. Li ho trascurati in scrittura, rimandando la stesura di un racconto lungo già progettato. Li ho trascurati anche non riuscendo a organizzare tutte le presentazioni che avrei voluto del romanzo che li vede protagonisti. Il fatto è che c'è stato un impegno che non ha a che vedere con la scrittura che mi ha sottratto quasi tutte le energie mentali. Per uno strano caso, gli step di tale percorso si sono legati molto a Holmes, alla scrittura e alla stesura di apocrifi. Ieri ho concluso (bene) una prima, importante fase. Per festeggiare ho scritto ad hoc questa paginetta di pura fuffa holmesiana, che spero possa far sorridere voi come ha fatto sorridere me.
Gli eventi hanno un aggancio preciso con quanto da me narrato ne "Il mistero dell'uomo meccanico", ma credo che il racconto sia godibile per tutti

IL CASO DEL CUCCIOLO DI BULLDOG

Dal diario del dottor J.H.Watson

 25 Giugno 1882

     Sono un medico, sono stato un soldato. Ho ucciso e ho guardato la morte in faccia. Mi rendo conto di quando mi si tende un agguato.
Per quanto quello della signora Smith, del 210a, sia stato ben architettato non ho alcuna intenzione di cedere. E non importa se è una donna gentile e ha ancora luminosi occhi azzurri a cui è quasi impossibile dire di no.
Deve avermi osservato a lungo, prima di attirarmi in trappola. Mi deve aver tenuto d'occhio dall’anno scorso, quando ero solito uscire dal 221b in compagnia del mio Bob. Si è ricordata dell’irruzione dei ladri e del mio sgomento alla scoperta della morte della bestiola. Proprio nominando Bob è riuscita a convincermi a visitare la sua cagnolina e la sua nutrita cucciolata di piccoli, deliziosi bulldog, poiché, seppur non sono un veterinario, sono pur sempre un amante della razza e avrei potuto consigliarla sulla salute delle bestiole. Tutte chiacchiere. 
Appena entrato in salotto, mi ha messo in braccio il più piccolo dei cuccioli, un frugolino tutto pelle grinzosa e zampette, che subito a iniziato a lapparmi le dita. Il piccolo è il nono cagnolino della cucciolata, rifiutato dalla madre, senza un acquirente o una una persona di buon cuore disposta a prendersene cura… Intanto, la bestiola mi guardava con i suoi occhietti languidi, mentre la codina che si dimenava ad ogni mia carezza…

     Sono un soldato, un medico e un uomo di mondo. Nella mia vita ho ucciso, ho dovuto dire a dei parenti che per il loro caro non c’era più speranza, ho stretto la mano a dei morenti. La mia risposta poteva essere una soltanto. No.
Non posso portarmi a casa la bestiola.

      La convivenza di una qualsiasi creatura indifesa con Holmes è impossibile. 
Non penso davvero che possa usarlo per sperimentare intrugli, veleni o altri composti chimici. Non per bontà d’animo, si badi bene. Sono perché è consapevole che la fisiologia di uomini e animali è diversa. Gli intrugli chimici preferisce testarli su se stesso. O sul sottoscritto. A mia insaputa, ovviamente.
Sono le abitudini quotidiane che mi spaventano.
Tutti i cuccioli di cane amano rosicchiare le pantofole. Solo Sherlock Holmes ha l’abitudine a tenere il tabacco in una babbuccia persiana. Immaginate la duplice iattura di un bulldog con i dolori addominali per aver ingurgitato tabacco e di un consulente investigatore furente, senza la possibilità di calmarsi con l’ausilio della propria pipa.
Immaginate poi di aggiungere un cucciolo di cane alla visione di un salotto sotto sopra con ritagli di giornale sparsi ovunque in quello che a chiunque pare un caos senza capo né coda, ma che è il nuovo sistema del nostro investigatore per dividere le informazioni priva di archiviarle. Già immagino la bestiola a sbavare sugli articoli riguardanti un certo professore di matematica esperto di asteroidi, l’ultima fissazione del mio coinquilino. Ed è altrettanto facile immaginare la reazione di Holmes...
I cani abbaiano. A volte guaiscono. Altre ancora si risveglia in loro la reminiscenza di un’ascendenza lupesca e ululano. Risveglio che avviene con più facilità se si ha un coinquilino che suole passare nottate intere a cercare di far produrre al proprio violino i più lugubri lamenti da romanzo gotico. Già immagino, Sonata in sol minore per violino e cane, durata: cinque ore a partire dalla mezzanotte.
I cani poi, necessitano, tutti, di un minimo di disciplina e di addestramento. Il militare che in me impazzisce alla vista del totale disordine di oggetti e abitudini in cui può vivere il mio coinquilino. Aggiungiamoci un cane. Lo troverei senza dubbio con composti esplosivi a portata di zampa. Sarebbe l’occasione per scoprire se Holmes abbia effettivamente scheletri nell’armadio. E intendo l’affermazione in senso maledettamente letterale. Non mi stupirei a trovare la mia bestiola intenta a rosicchiare, per dire, un teschio umano.
Tutto questo, poi, solo nel caso che Holmes accettasse la presenza di un cane, cosa tutt’altro che scontata. Anzi, su questo punto è stato lapidario.
  – Mai più un altro Bob. Non potrei sopportarlo – mi ha detto giusto ieri, come se mi avesse letto nel pensiero. 
Cosa che, per altro, potrebbe aver fatto.
No. Sono un medico e un soldato. Ho dato ordini difficili e pessime notizie. Posso senza dubbio dire di no a un’affascinante signora e al suo cucciolo dallo sguardo dolce.

26 giugno 1882

  – Mio caro amico, la smetta di torturare la sua salsiccia, non è certo lei la causa del suo dilemma.
Così mi ha salutato Holmes, questa mattina, entrando in salotto mentre io stavo facendo colazione.
 – Holmes, sa… Ho avuto modo di parlare con la signora Smith, del 210a… – ho iniziato io, prendendola alla lontana.
  – Certo, gli Irregolari saranno qui alle cinque del pomeriggio – ha detto lui, come se completasse il mio discorso.
  – Abbiamo un caso in corso? 
  – Ma certo, dottore, lei ha tante notevoli qualità, è dotato di notevole inventiva, ma in alcuni campi mostra una disastrosa mancanza di fantasia. Gli Irregolari ci aiuteranno a risolvere il caso.
  – Quale caso? 
La mia pazienza si stava già erodendo.
  – Ma quello del nome del cucciolo di bulldog, è ovvio. Mi rifiuto di avere una bestia dal nome insulso come Bob o Fido per casa.
  – Ma come…
 – La signora Hudson ha già detto chiaramente che non ha intenzione di rincorrere il cane chiamandolo con il nome di un criminale. Questo mette un veto alle mie proposte, temo. L’unica soluzione è ricorrere a una consulenza qualificata…

26 giugno 1881, ore 6,30 P.M

     Pendragon.
Come re Artù.
Nome scelto a maggioranza. Ovviamente il voto di Holmes è stato determinante.

    Sono un medico e un soldato. Ho ucciso, ho combattuto, ho guardato più di una volta la morte in faccia. Tutte cose che al 221b di Baker Street sembrano avere un’importanza relativa.
Pendragon sta già dando l’assalto alle mie scarpe e io non riesco a rammaricarmene più di tanto.

mercoledì 24 giugno 2015

Pro e contro dei corsi di scrittura – Praticamente


Ciclicamente torna il dibattito, pro o contro i corsi di scrittura? A farmi capire quanto interesse ci sia su questo tema è stato, tra le altre cose, questo post sul blog di Marina.
A scanso di equivoci, meglio chiarire subito che io sono favorevole ai corsi di qualsiasi genere, memore dell'insegnamento della nonna "impara l'arte e mettila da parte". Ho dedicato due anni della mia vita al master in Tecniche della Narrazione presso la scuola Holden di Torino e da due anni tengo un corso base di narratologia presso Ecomuseo del Lago d'Ora.
Sul master torinese ho ancora sentimenti contrastanti per motivi extra scrittura. Col senno di poi, se avessi invece frequentato in quegli anni la scuola di specializzazione per l'insegnamento adesso sarei di ruolo. Invece, al termine del master la scuola è stata chiusa, cosa che mi ha portato a insegnare da non abilitata a fare un corso abilitante di dubbia utilità pratica e, ora, a essere esclusa dal piano assunzioni della nuova riforma. Col senno di poi, però, tutto è più facile. Va anche detto che alla fine del master mi era stato offerto uno stage con editor presso Fabbri, che ho rifiutato perché avrei dovuto licenziarmi da un lavoro meglio retribuito. Mi rimane, quindi, la sensazione, forse fasulla, di aver buttato voi delle occasioni. I miei dubbi retroattivi, però, hanno poco a che fare con la scrittura. Come autrice quei due anni mi sono serviti e me ne rendo conto più ora di quando ero fresca di diploma. 
Avendo vissuto i corsi di scrittura sia da una parte che dall'altra della cattedra, poi, mi rendo conto forse meglio di altri di quello che un corso di scrittura può o non può fare.

QUELLO CHE UN CORSO DI SCRITTURA NON FA

Trasformare chiunque in un grande autore
Gli artisti, tutti, diventano tali per un mix di propensione individuale (il così detto talento), lo studio personale delle opere altrui, la dedizione e un briciolo di tecnica. Un corso, in qualsiasi comparto artistico, incide sull'ultimo di questi aspetti e un poco sul secondo, allargando gli orizzonti dello studente. Il primo e il terzo punto, che poi sono quelli fondamentali, rimangono a completo carico del singolo. Vale per la scrittura, per la musica, per la pittura, la fotografia e pure per la cucina. Per motivi che mi sfuggono, però, per la musica, la pittura e tutto il resto questo è un dato acquisito, per la scrittura bisogna ogni volta ribadirlo.

Dare contatti certi con case editrici
Alcuni corsi di scrittura sono in contatto più o meno diretto con realtà editoriali. Questo non vuol dire che per tutti i corsisti la pubblicazione sarà garantita. Anzi. Magari un corsista di particolare talento/sensibilità particolarmente affine a ciò che la casa editrice cerca sarà invitato a inviare la sua opera. Tale opera poi verrà valutata. Nulla è garantito.
Io e alcuni miei compagni di master abbiamo pubblicato dei romanzi. Un paio di loro ha effettivamente preso dei contatti durante il master. Io, ad esempio, no. Uno dei compagni che più stimo è poi stato finalista al premio Calvino e la sua opera è stata selezionata per la pubblicazione.

Standardizzare lo stile di scrittura
Non so perché, ma qualcuno ha paura che, frequentando un corso, potrebbe perdere la propria voce personale. Nessuno al mondo vuole standardizzare la scrittura di un autore. In generale gli editori cercano proprio voci personali. Magari si impara cosa è più leggibile e cosa non lo è. Poi ognuno è libero di scegliere la propria strada con consapevolezza. È chiaro che se scrivo periodi di 50 righe e non seguo minimamente la struttura in tre atti sto creando un'opera che molti (editori compresi) troveranno ostica. Nessuno però mi vieta di farlo, anzi.

Rubare le idee/i testi
Questa è un'altra strana paura. Che un corsista di talento racconti il proprio romanzo e zac, qualcuno glielo freghi. Se siete così bravi, al massimo verrete invitati a inviare l'opera al giusto editore. Il plagio in narrativa è rarissimo. Per altro, considerato il giro d'affari della narrativa italiana, assai poco remunerativo. Insomma, a nessuno conviene rubare i vostri scritti. Tanto più a un corso che, si spera, ci tiene alla propria professionalità.


QUELLO CHE UN CORSO PUÒ FARE

Allargare i tuoi orizzonti di lettore
Lo ammetto. Prima di entrare alla Holden non sapevo chi era Carver. Avevo letto pochissimo Hemingway. Non avevo terminato Lolita. Un corso di scrittura è in primo luogo un invito alla lettura. Come dice Marina nel post che ho citato, la lettura è la prima palestra per uno scrittura. Una lettura guidata può essere ancora più utile. Le tematiche dei racconti di Carver continuano a non essere il top del mio interesse, ma i dialoghi di Carver mi hanno incantato. Insomma, ho allargato i miei orizzonti e ho imparato a far caso a particolari che prima mi sfuggivano.

Esercizio e confronto tra pari
In un buon corso si fanno esercizi e poi si leggono i testi prodotti. Si scrive più di quanto si farebbe normalmente, ci si mette alla prova, si scopre, magari di riuscire meglio in qualcosa che non si aveva previsto e ce ne si rende conto confrontandosi con i compagni, col gruppo dei pari. Io ero entrata al master per specializzarmi in divulgazione culturale. Ho scoperto che la narrativa mi piaceva un sacco e di non cavarvela male neppure a scrivere di cinema. La sceneggiatura, invece, proprio non fa per me. Come potevo scoprirlo se non provando e confrontandomi con i compagni?

Tempo per maturare
Questo secondo me è uno dei punti più importanti. Che sia lungo o breve, un corso è del tempo che si è deciso di investire sulla scrittura. Un investimento emotivo, oltre che pratico. Tempo per guardarsi dentro, capire di che cosa davvero si voglia parlare e se ne valga la pena. Può essere una spinta psicologica non indifferente "sono arrivata fin qui, non posso mollare proprio ora..." piuttosto che "forse non fa per me fino in fondo".

Entrare in contatto con la realtà editoriale
Un buon corso avrà come docente qualcuno che ha fatto qualche passo più di noi nel mondo editoriale e ce lo può raccontare per com'è davvero, con i suoi pro e i suoi molto contro. Da un corso si deve uscire consapevoli di tutti i problemi che l'editoria italiana ha, ma anche con alcune informazioni pratiche. Come si presenta un romanzo a un editore, formato, lettera di presentazione etc. e che scopo ha ogni cosa. Quando e come inviare. Che cos'è l'editor e che cosa fa. Saper leggere un contratto editoriale e riconoscerne le trappole.


QUINDI TENAR CONSIGLIA DI SEGUIRE UN CORSO?
Dipende. 
Dalle aspettative. 
Dal corso. 
In generale penso che un corso male non possa mai fare. Più cose si imparano è meglio è. Bisogna però capire che cosa offre un corso, per non crearsi aspettative sbagliate o eccessive. Come per la musica, un conto è iscriversi al conservatorio e un altro è farsi dare lezioni dal vicino di casa che strimpella un po' la chitarra. Entrambe le cose possono servire, ma è ovvio che siano diverse. E entrambi i corsi saranno inutili senza dedizione e talento.

Questo è ciò che penso io sui corsi di scrittura, opinioni che si sono formate sulla base delle mie esperienze personali. Le vostre quali sono?

lunedì 22 giugno 2015

Quando l'attualità entra nella storia

Postazione di scrittura estiva

Vorrei sfatare il mito dell'insegnante che smette di lavorare al suono della campanella dell'ultimo giorno di lezione. Anche in assenza di esami (cosa che mi capita per la prima volta da che lavoro) rimangono tutta una serie di questioni burocratiche da sistemare, con il loro strascico di moduli, relazioni e riunioni. È inevitabile, però, che la tensione si allenti. Scompare il carico casalingo dei compiti da correggere e delle lezioni da preparare e per una volta le ore svolte a scuola coincidono con le ore di lavoro. L'estate per me, quindi, è il momento della scrittura.
Se poi la settimana inizia con questo post di Lisa, come non sentirsi motivati a proseguire col proprio romanzo?

Motivazione o no, questo progetto continua a propormi nuove difficoltà e nuovi interrogativi. Se non altro mi regala anche continui spunti per post e condivisioni.

Fino ad ora mi sono sempre tenuta consapevolmente lontana dall'attualità e da riferimenti o prese di posizione precise su fatti di cronache o polemiche del momento. Anche quando ambiento una storia nel "qui ed ora" cerco di trattare prevalentemente temi universali. 
Questo per vari motivi.

L'attualità rischia di non essere più attuale nel momento di un'eventuale pubblicazione
I tempi dell'editoria sono, nel migliore dei casi, biblici. Ogni volta che si scrive qualcosa non si sa se e quando arriverà al lettore. Che ci possano volere anni non è un caso isolato, è la norma. Quindi quello che oggi è un tema caldo e scottante tra un anno o due potrebbe essere un argomento obsoleto di cui a nessuno si interessa più.

Sull'attualità è difficile avere profondità di campo
Sarà che io ho questa formazione da archeologa preistorica, ma ho sempre l'impressione che per dare un giudizio ponderato su qualcosa sia necessario osservarlo da lontano. Un conto è esprimere un parere basato sul buon senso e un conto proporre, attraverso la narrazione, una meditazione. Io faccio fatica a tirare le somme sul presente e sull'attualità. Non ho dubbi su come la penso, ma so che potrei anche avere torto. Prima di parlare di una cosa mi piace averci ragionato a lungo e sull'attualità mi manca questa profondità di campo.

Esprimere in modo netto il proprio pensiero su tematiche "calde" può alienare parte dei lettori
Questo, devo dire, può preoccupare più gli editori che me.
Ho spesso l'impressione, leggendo narrativa italiana, che prevalga un generale buonismo. Si può parlare di delitti, certo, ma è meglio se il tutto è contestualizzato in comunità ridenti, dove ci sono, sì, le mele marce, ma le brave persone prevalgono. Basta deviare appena da questa formula che ecco si viene accusati di "rovinare l'immagine... (di un posto, di una categoria, dell'Italia tutta)".
Sia chiaro. Nessuno mi ha mai chiesto di essere politicamente corretta o di modificare questo o quel passaggio. È un'impressione mia, derivante dalle mie esperienze di lettrice. Ma mi pare che il cerchiobottismo sia preferito al prendere posizione.

Di queste tre motivi, per me è sempre stato più forte il secondo. Non mi sento preparata a inserire nelle mie storie l'attualità. 
Ma...
Ma, ovviamente c'è un ma.
C'è stato un fatto accaduto poco tempo fa, piccola propaggine di una problematica ben più grande, che mi ha molto colpita. Dovendone parlare ai miei alunni e dovendo prendere delle decisioni, per quanto piccole e banali, in materia, ho ovviamente espresso il mio punto di vista e ho toccato con mano quanto siano accesi gli animi su questo tema.
Senza che me ne accorgessi davvero, tutto questo è entrato nel romanzo che sto scrivendo. Peggio ancora, dovendo connotare negativamente dei personaggi, mi è venuto istintivo connotarli proprio con le affermazioni sentite in quei giorni. Quindi adesso ho in una sottotrama un tema d'attualità molto controverso e dei personaggi negativi che dicono quello che un sacco di italiani pensano essere sacrosanto. Mi faccio i complimenti da sola per quanto riesco a complicarmi la vita senza alcun motivo.
Potrei tagliare la sottotrama? Certo, il personaggio negativo potrebbe ad esempio dare calci a un cagnetto. Sarebbe negativo uguale e avrebbe l'odio di tutti i lettori.
Però non voglio. 
Proprio le reazioni che ho visto con i miei occhi a risvegliare il mio animo di umanista post illuminista. Ho l'esigenza di raccontare adesso queste cose.

Io non so davvero che sorte avrà questo romanzo. Più vado avanti e più penso che ci sono cose adoro, ma che nessuno mai me lo vorrà pubblicare. Questa sottotrama, tra l'altro, è il minore dei suoi problemi. Però penso che ben difficilmente qualcuno riuscirà a farmela tagliare.

Voi come vi relazionate con l'attualità? La inserite abitualmente nelle vostre narrazioni? Leggete volentieri storie che trattino temi d'attualità?


mercoledì 17 giugno 2015

Game of thrones 5 – recensione e prognostici

Si è conclusa la quinta stagione del Trono di Spade, la serie tratta dai romanzi di Martin.
Attendevo questi episodi con timore e trepidazione. Gli ultimi romanzi hanno messo a dura prova la mia (scarsa) pazienza di lettrice con spostamenti interminabili e spazi smisurati dati a personaggi che sono chiaramente dei morti che camminano o di cui non me ne può importar di meno. Quindi temere o sperare nelle modifiche alle storyline promesse dagli sceneggiatori? E, per quante modifiche non essenziali (l'autore ha dichiarato in ogni modo possibile che tutte le morti presentate nella serie ci saranno anche nei libri) si potessero fare, come porre rimedio a questi problemi strutturali?

La quinta stagione, quindi, partiva già con dei problemi difficilmente aggirabili a cui se ne sono aggiunti altri. 
Fin dall'inizio, infatti, è apparso chiaro come le capacità attoriali dei vari interpreti fossero molto disomogenee, andando dal sublime all'appena guadabile. Il problema è che in questa serie i personaggi in mano agli attori più dotati o sono morti o hanno avuto un minutaggio assai ridotto per motivi di trama.
Il risultato, abbastanza prevedibile, è stata una serie nettamente inferiore alle altre.
Quello che è mancato, a mio avviso, è stato un personaggio in grado di catalizzare l'attenzione del pubblico, ruolo l'anno scorso svolto egregiamente da Oberyn. Questa avrebbe dovuto essere la stagione di Stannis, ma, vuoi per l'innata antipatia del personaggio (che così deve essere e così è stato), vuoi per delle cadute di stile nella scrittura, sopratutto dell'episodio finale, Stannis è riuscito a farsi odiare, più che compatire, rasentando nel finale la comicità involontaria ("Cosa potrebbe esserci di peggio di un ammutinamento?" "Eh... Mio signore, da quant'è che non parla con sua moglie?...").
Aggiungiamoci tutta la parte di Dorne in cui non ha funzionato NIENTE, né gli attori, né la sceneggiatura, neppure la coreografia di una delle scene d'azione più brutte che si siano viste.
In alcuni episodi si è sfiorato il disastro.
Però...
Però... Rimane la forza intrinseca della storia. Rimane l'esercito degli Estranei, con la loro armata di non morti, che quando appare in scena catalizza l'attenzione. Rimangono i draghi che, con tutti i limiti della computer grafica, riescono ancora a farmi sognare. Rimangono parti di rara forza, come tutta la storyline di Arya, sempre più inquietante.
Rimane una storia violenta di personaggi imperfetti che tuttavia anelano a qualcosa di più, che sia un amore senza barriere (tema più che mai presente in questa serie) o a un mondo migliore di quello che vivono. Personaggi imperfetti, che sbagliano, si sporcano anima e corpo e pagano sempre per intero i loro errori.

Arrivati a questo punto della narrazione, prendendo per buono l'assunto che la serie tv semplifica ma non nega i romanzi (e quindi i decessi finiranno per equivalersi) adesso il divertimento maggiore è giocare a fare previsioni. Considerando che per ora ho azzeccato quasi tutti i colpi di scena ecco il mio:

TOTO TRONO DI SPADE

GENTE CHE FINIRÀ A CAVALCARE UN DRAGO E PRESUMIBILMENTE ARRIVERÀ VIVA IN FONDO ALLA STORIA

Dany: ovviamente
Tyrion: altrettanto ovviamente
Arya: non so come e non so attraverso quali vie, ma sono convinta fin dal primo libro/prima serie, che finirà alla corte di Dany. Forse, visti gli ultimi sviluppi, l'incontro con la Regina dei Draghi le mostrerà un modello femminile non arrendevole, ma neppure schiava della propria sete di vendetta. Magari questo le salverà l'anima...

GENTE CHE COMUNQUE ARRIVERÀ VIVA (O REDIVIVA) ALLA FINE DELLA STORIA O ALMENO ALLO SCONTRO FINALE

Bran: che qualcuno dovrà pur difendere 'sti sette regni dagli Esterni
Jon: è dal secondo libro (credo, da non so quale profezia) che penso sia l'uomo di Dany, destinato a sposarla e a regnare con lei. Ci sono però due piccoli ostacoli: è un Guardiano della Notte con tanto di voto di castità o quasi e al momento è un po' morto. In realtà penso che il secondo problema risolva il primo. Verrà curato/resuscitato/non so che cosa. Non tornerà più tra i guardiani e probabilmente acquisirà il proprio vero cognome.
Jaime: non lo davo probabile, fino a poco tempo fa, ma in fondo ritengo che il suo cammino possa terminare solo diventando davvero una Guardia Reale integerrima. Proteggere Daenerys (ed eventualmente morire all'ultimo per farlo) sarà la sua vera redenzione.
Sam e Gilly: non me ne importa un gran che di loro, ma sono la coppia che ha più probabilità di arrivare viva alla fine e di coronare il proprio sogno d'amore. Certo, in mezzo ci sono svariati giuramenti da infrangere, ma che sarà mai?
Davos: potrebbe avere un ruolo importante nel futuro (?) di Jon. In ogni caso è un personaggio che non ha ancora fatto ciò che aveva da fare. Potrebbe morire, ma la sua dipartita non è imminente.
Edd l'addolorato: nei libri lo adoro. E comunque lui se la cava SEMPRE.

MORTI CHE CAMMINANO

Tommen: ci stiamo anche a pensare?
Cersei: qui è al massimo il toto morte. Morirà male, dopo aver visto morire Tommen. I fati più probabili sono: mangiata da un drago o uccisa da Jaime costretto a farlo per difendere Dany.
Jorah: mi stupisce, in realtà, che sia ancora vivo. Spero abbia almeno una gran morte.
Varys: è uno dei miei personaggi preferiti, ma il suo compito è istruire Tyrion. Quindi onore a te, Varys, ogni pagina/puntata guadagnata è una piccola vittoria.
Brienne: idem come sopra. Ha fatto quello che doveva fare e non ha fatto quello che non poteva fare. Adesso deve morire male sotto gli occhi di Jamie. Onore per ogni pagina/puntata di sopravvivenza.
Theon: ammazzatelo, per pietà! Morirà probabilmente per difendere Sansa.
I Bolton tutti: c'è anche da commentare?
Melisandre: dopo quanto visto nell'ultima puntata il suicidio per lei sarebbe la soluzione più dignitosa (Ops... Ho sbagliato tutto nell'interpretare le mie profezie... Va be' riproviamo altrove...). Temo avrà ancora un ruolo importante, ma morirà male. 
Alto passero: Cercei lo spiumerà per bene.

PERSONAGGI CHE SONO ANCORA UN GRANDE INTERROGATIVO

Ditocorto: non penso che abbia la possibilità di arrivare vivo alla fine della storia, ma rimane uno dei personaggi più imprevedibili (nel senso migliore) della vicenda. Lo è nei libri e nella serie è nobilitato da un'interpretazione perfetta. Stupiscici con altri intrighi e voltafaccia, caro.
Sansa: questa povera creatura vessata dovrebbe a questo punto sfracellarsi dalle mura di Grande Inverno o rimanere (nella versione cartacea) in qualche roccaforte dimenticata dai sette dei. Però... Rimane una mina vagante, la variabile impazzita che può far saltare il tavolo in molte occasioni.
Rickon: è ancora da qualche parte (O me lo sono perso per strada?). Suppongo che alla fine Grande Inverno spetterà a lui (?)
Margaery: non ho idea di che fine faccia. Non credo che nel gran quadro generale conti molto, povera cara. Stessa cosa dicasi per suo fratello.

Non riesco invece ad appassionarmi al destino di tutti i (moltissimi) personaggi che non ho nominato.
E voi, lettori del blog che leggete o guardate Il Trono di Spade, quali sono le vostre puntate al Gioco del Trono?

lunedì 15 giugno 2015

Sei dialoghi che è meglio non scrivere – scrittevolezze


Se dovessero chiedermi cosa più mi piace scrivere, non avrei dubbi: I DIALOGHI!
Adoro scrivere dialoghi, per certi versi il mio amore per l'universo di Sherlock Holmes deriva dalla possibilità di scrivere dialoghi brillanti, con bruschi cambi di tono, che spesso diventano la vera ossatura della storia. Del resto sono convinta che A.C.Doyle sia tra i migliori dialogisti di sempre.
Mi piace il dialogo perché è AZIONE VIVA.
Il dialogo non è un momento in cui l'azione si ferma perché i personaggi parlano. È un momento in cui l'azione passa attraverso le parole dei personaggi. Può succedere di tutto durante un dialogo:
– Hai inquadrato il bersaglio?
– Non sono sicuro...
– La scelta è tua.
...
– Bersaglio abbattuto.
(Dialogo plagiato da America Sniper per rendere l'idea)
Possono cambiare gli equilibri di forza. Può cambiare la percezione che un personaggio ha di sé. Possono esserci persino racconti di solo dialogo (Colline come elefanti bianchi). Ci sono, però, dei dialoghi che, ho imparato, è meglio non scrivere.

Dialoghi iper realistici
Il dialogo letterario è un'astrazione, qualcosa di assai diversa dai dialoghi veri che pronunciamo ogni giorno. Persino i più convinti veristi lo sanno. Pagine e pagine di dialoghi di questo tipo sarebbero insopportabili:
– Ciao.
– Ciao.
– Ma stai benissimo con questa nuova pettinatura!
– Trovi? Non ero convinta, sai, poi ho visto Carol con un taglio simile...
– Carol chi?
– La cugina di Marina, quella che abita di fianco a Giandomenico...
– La conosco?
– Ma sì, Carol, te l'ho presentata tre domeniche fa uscendo da messa.
– La messa delle 10?
– No, quella delle 9.
– Ah, sì, quella ragazza un po' in carne...
– No, è magra così.
– Davvero? Con gli occhiali...
E via così per settanta righe, quando ai fini del racconto ci interessa solo che la protagonista vada dallo stesso parrucchiere dell'amica...

Dialoghi che servono a dare al lettore informazioni che i personaggi già conoscono
– Ciao. Questa è Carol, la cugina di Marina. Abita a fianco di Giandomenico, viene a messa tutte le domeniche con me alle 9 e da poco ha cambiato pettinatura.
– A parte che sono Marina e conosco mia cugina, ce l'ho davanti e vedo la sua nuova pettinatura.
– Lo dicevo per il lettore...

Dialoghi che servono a riassumere parti di trama e/o background del personaggio, senza che queste informazioni siano una rivelazione per l'interlocutore
– Mi sono trasferita a fianco di Giandomenico quando sono scappata da mio marito. Sai, lui mi picchiava, era un vero mostro. Il caro Giandomenico, per fortuna, aveva un appartamento libero proprio di fianco al suo, quello in cui abitava la sua vecchia zia, morta a novantacinque anni. Credo me l'abbia offerto perché è un po' innamorato di me, anche se adesso gli è passata. A me piace il parrucchiere, è per questo che cambio pettinatura così spesso. È una scusa per andare da lui...
– Carol, cara, abiti in paese da cinque anni. Tutti sanno queste cose!
– Ma il lettore no!

Dialoghi in cui un personaggio rivela un segreto ben custodito al primo che passa al solo scopo di informare il lettore
– A causa delle botte prese da mio marito ho perso il figlio che portavo! È stato un trauma da cui non mi sono più ripresa. Sono cinque anni che mi tengo dentro questo segreto.
– Signora Carol, poteva aspettare altri cinque minuti? Io sarei solo la nuova cassiera del supermercato, al primo giorno di lavoro!
– Il lettore deve saperlo ora!

Dialoghi in cui un personaggio dice cose che, per background, livello culturale o altro non potrebbe sapere
– Alla fine mio marito, povero diavolo, era affetto da un disturbo bipolare del II tipo. Mi ha colpito durante un episodio depressivo maggiore. Avrebbe dovuto curarsi con il carbonato di litio, ma non l'ha mai fatto.
– Caspita, Carol, ma che sei? Psichiatra?
– In realtà ho finito a stento le medie, non leggo un libro da quindici anni e in tv guardo solo telenovele. 
– Ma... Caspita, come le sai quelle cose? Tutte quelle parolone?
– L'autore si è documentato su Wikipedia, è importante che il lettore capisca l'impegno che ci ha messo!
– Wikiche?
– Ma che ne so io, a casa non ho manco la connessione e sul cellulare uso solo Fb. Una roba che legge il tizio che ci scrive.
– Ah...

Dialoghi in cui tutti parlano allo stesso modo, del tutto incongruo con il background del personaggio e l'ambientazione
– Buonasera.
– Buonasera a lei.
– Ecco il locale al quale ho il piacere di introdurla.
– "Diavolo Scatenato", qual nome suggestivo.
– Qui suole riunirsi il gruppo di motociclisti fuorilegge al quale mi fregio di appartenere, prego, entri.
– Dopo di lei, mio caro anfitrione, dopo di lei.

Cosa ne pensate?
Vi vengono in mente altri dialoghi che è meglio non scrivere? 


mercoledì 10 giugno 2015

Letture – Hyperion, Dan Simmons

Illustrazione ispirata al romanzo Hyperion, utilizzata per una delle
copertine del romanzo. Fonte flick.com
Le parole sono solo proiettili nella bandoliera della verità. E i poeti sono i cecchini.
Da "I canti di Hyperion" – Il racconto del poeta, in Hyperion, Dan Simmons

Tra le mie letture, uno degli autori che torna sempre più spesso è Dan Simmons. A volte mi incanta, a volte mi irrita, ma quasi mai mi lascia indifferente. Parlando con altri lettori, mi sono spesso trovata in questo dialogo:
– Ultimamente, apprezzo sempre di più Dan Simmons.
– Quindi hai letto Hyperion.
– Ehm... No.
– Ah... Hyperion...

Ah... Hyperion... 
Di questo romanzo (che poi, ho scoperto, è il primo di quattro) ho sempre sentito parlare con questo tono sognante, come di qualcosa che trascende la normale esperienza di lettura e di cui non si può parlare chiaramente. Ah... Hyperion...
Nessuno che sapesse dirmi di cosa parlasse (dell'Amore... Dell'umanità... Ah... Hyperion...). 
Il fatto è che Hyperion è stato per molto tempo introvabile, un romanzo mitico e quasi perduto. Se non che (adesso che, oltre tutto, Fanucci l'ha riproposto anche in e-book), facendo le pulizie in casa in modo un po' più radicale, ho trovato la vecchissima edizione Urania in due volumi del 1999 di mio marito. 
E l'ho letto.

Ah... Hyperion...
Non è per niente facile definire cosa sia Hyperion. Ha la forma della fantascienza, ma l'ambizione di essere una sorta di poema moderno, sulla scia di quelli di Dante, Milton e della poesia di Keats. Mica bruscolini.
La trama, volendo proprio semplificare, si intesse intorno a un pellegrinaggio. Sette personaggi sono stati scelti per raggiungere le Tombe del Tempo, luogo mitico (che viaggia nel tempo al contrario?) dove è a guardia un mostro inconoscibile, lo Shrike, in un mondo chiamato Hyperion in onore del poeta John Keats. Abitualmente, i pellegrinaggi alle Tombe del Tempo si concludono con la morte di tutti i pellegrini tranne uno, questa volta, però, nessuno ha scelto spontaneamente di intraprendere il viaggio. 
Il romanzo altro non è che la somma dei racconti dei pellegrini.
Già questo dovrebbe lasciare intendere quali siano i riferimenti letterari dell'opera, non proprio razzi e spade laser, senza nulla togliere a razzi e spade laser.
Appare ben presto chiaro che il pellegrinaggio ha a che fare con cosette lievi come la fede, la fine dell'umanità, il senso della poesia, la distruzione dei mondi in cui viviamo, bazzecole così.
I racconti dei pellegrini oscillano tra l'estremamente inquietante e lo struggente, ognuno trasporta in un mondo altro, sorretto da un prosa ricca di suggestioni e di riferimenti.
Difficile non trattenere un fremito di fronte all'orroifico racconto del prete e sfido chiunque sia dotato di un minimo di cuore a trattenere una lacrima sul racconto dello studioso Il fiume Lete sa d'amaro. L'idea alla base di questo racconto non è nuova, tutti abbiamo visto Il curioso caso di Benjamin Button, ma il racconto di un padre costretto a vedere la propria figlia ringiovanire ogni giorno e perdere ogni giorno la memoria di quanto vissuto rientra a buon diritto tra le cose più strazianti che io abbia mai letto.

Cercando recensioni in rete, troverete lettori perplessi di fronte alla frammentarietà di quest'opera e a uno stile che non è proprio quello veloce e secco dei romanzi d'azione. Qui siamo dalle parti della grande fantascienza filosofico/sociale, molto più affine alla mia amata Le Guin e che al concetto mainstream di "fantascienza". I riferimenti filosofici, letterari e religiosi non si contano, pur essendo immersi in un altrove del tutto coerente e non rinunciando a lanciare chiare staffilate all'oggi (il sistema editoriale di questo futuro non sembra affatto diverso da quello di oggi...). 
Il risultato è una lettura lenta e meditativa, ricca di spunti e suggestioni, che genera domande e non risposte.

Non finisce, Hyperion.
Non porta a termine il pellegrinaggio. Certo, ci sono altri tre romanzi che mi attendono (sia grazie a Fanucci per averli rimessi sul mercato), ma nel saggio dell'autore che apre questa mia vetusta edizione, è chiaro come questo finale fosse quello originariamente voluto. E a me piace così. Con il lettore lasciato a immaginare cosa attenda davvero i pellegrini alle Tombe del Tempo, dall'altra parte dell'arcobaleno.
Leggerò gli altri romanzi, ovviamente, quest'estate sarà probabilmente, per me "l'estate de I canti di Hyperion". Eppure, senza considerare i seguiti, questo romanzo, così com'è, con questa struttura medioevale e le sue mille suggestioni, rimarrà per sempre nel mio immaginario, a dare forma ai miei sogni e ai miei incubi.

Avete letto Hyperion?
No?
Ah... Hyperion...

AGGIORNAMENTO 11 GIUGNO
È di oggi la notizia che da Hyperion trarranno una serie tv. Che lo Shrike prenda tutti coloro che non se ne riveleranno all'altezza. 

lunedì 8 giugno 2015

La crisi del capitolo X


Innanzi tutto leggete l'avviso ai naviganti che trovate qui di lato, in alto e ben visibile, come da norma. 

Ho deciso, per questo progetto lungo così particolare per me, di tenere una sorta di diario, un po' per condividere gioie e dolori della prima stesura, un po' per farmi coraggio.
Ho pubblicato due romanzi, ne ho almeno due completi che non verranno pubblicati e uno che chissà, ma a ogni giorno che passa il chissà si fa più labile. Ne ho un certo numero di altri incompiuti, ancora nella memoria di questo computer o abbandonati in memorie ormai disgregate di apparecchi precedenti. Tutti quegli abbozzi di mondi narrativi mai compiuti sono arenati più o meno al capitolo dieci.
Il capitolo dieci è, per me, un punto di passaggio cruciale. I primi dieci capitoli, bene o male, si scrivono, un po' sulla spinta dell'entusiasmo iniziale, un po' sulla cresta del "beh, almeno proviamo". Ma dopo dieci capitoli le battute si accumulano, le ore passate al computer anche e la domanda "ma ne vale la pena?" diventa impellente. 
Io sono una che, quando ha una storia per le mani, la scrive. Piuttosto preferisco non pensare neppure a un progetto lungo quando sono incasinata, perché poi soffrirei a non poterlo scrivere o, come già capitato, mi troverei alla tastiera ad orari improbabili. Se ho da scrivere, scrivo. Come imperativo morale, necessità fisica. Dieci capitoli, quindi, vogliono già dire un bel monte ore rubato a qualsiasi altra cosa, famiglia, amici, uscite serali, lettura, televisione, sport. Abbandonare un progetto dopo il capitolo dieci, per le stesse ragioni, diventa una sorta di auto tradimento. Tutte quelle ore buttate vie per niente. Così, progetto dopo progetto, il capitolo X è diventato una sorta di punto di non ritorno, momento di crisi o di riflessione.

Di SM ho scritto la sinossi durante il ponte del 1° maggio e adesso, inevitabilmente, sono al capitolo dieci. È, per certi versi, una storia diversa da qualsiasi altra abbia scritto prima. Perché c'è un pochino più di me (o c'è in modo meno velato). Perché, pur rimanendo con orgoglio un giallo, parla profondamente d'amore.
Di amore tutti, dai dodici anni in su si sentono di poter pontificare. Per me, invece, è sempre stato un argomento da trattare con pudore. Non era mai l'argomento principale della storia e, chissà per quale assurdo sadismo, ci fosse mai stata una singola storia d'amore finita bene! Solo in due racconti brevi sono riuscita a mettere una storia d'amore a lieto fine. Per il resto, solo tragedie più o meno trattenute (chi ha letto Prima che venga il gelo avrà visto come sia riuscita a far finire male anche la storia d'amore del cane...). Per tutti questi motivi e per altri ancora, i primi nove capitoli di SM sono stati una sofferenza. Il "beh, almeno proviamo" mi ha fatto andare avanti con un buon ritmo, ma mai con facilità. Mi sono bloccata. Ho chiesto un preventivo per una valutazione della sinossi (non me lo posso permettere). Ho scocciato gli amici. Attendevo l'arrivo del capitolo X come di una pietra tombale pronta a calare sul romanzo.
Invece no.
Al capitolo X qualcosa è cambiato. Sarà che finalmente qualcosa è successo (la lentezza geologica dei primi nove capitoli è qualcosa a cui prima o dopo bisognerà porre rimedio). Sarà che finalmente i due protagonisti si sono trovati faccia a faccia. E funzionano. La cosa è tutt'altro che scontata. Non c'è sinossi, costruzione o tecnica che regga. È chimica, è magia. Proprio come con gli attori, non si sa mai se due personaggi insieme funzioneranno oppure no, fino a che non li si trova insieme. Funzionano. E proprio mentre scrivevo questo maledetto capitolo X, mi rendevo conto che la storia fluiva. Magari non il modo perfetto, certo, ma ha una sua ben chiara ragione dell'esistere. Adesso che queste due anime tormentate si sono incontrate, credo, ho il dovere morale di portare a conclusione la loro storia. Adesso che il capitolo X è concluso, posso iniziare a pensare di poter arrivare in fondo a questa storia.

Anche per voi funziona così? C'è un punto preciso in un progetto di scrittura in cui capite se ce la potete fare oppure no? E come sta procedendo il vostro attuale progetto?

mercoledì 3 giugno 2015

La propria vita tra le pagine – scribacchiando


Se spesso l'autore alle prime armi pecca di autobiografismo, io ho sempre ecceduto nel lato opposto. Ho pudore a parlare di me o delle persone che mi sono care. Sul blog non ho mai avuto problemi a raccontare chi sono, che lavoro faccio, che ho un marito di nome Nik, un persiano e un gatto vero, qualche volta mi sfogo, sopratutto per quanto riguarda il lavoro/le questioni scritteveli, ma ci sono limiti oltre i quali non vado. In narrativa ho sempre nascosto il mio vissuto dietro maschere e paraventi stilistici. Altri personaggi, altre epoche, altri contesti.
Il protagonista del mio primo romanzo è un prete quarantenne, quello di uno dei primi racconti pubblicati è Giulio Cesare e confido che nessuno mai mi possa scambiare per Sherlock Holmes. Dietro a queste maschere mi muovo sicura perché per quanto possano essere mie le emozioni dei personaggi ci sono talmente tanti filtri che sfido chiunque a indicare un legame preciso con il mio vissuto. Per molto tempo è stato qualcosa di cui ho avuto bisogno.
Adesso ho sentito il bisogno di togliermi alcuni veli e mettere in campo parte del mio vissuto con meno barriere. I motivi sono diversi e non tutti esplicitati, c'è una parte di necessità di riappropriarmi anche con fierezza di alcune parti della mia vita, di raccontare sensazioni, esperienze ed emozioni che sono così ovviamente mie che non avrebbe senso negarle o nasconderle. Più semplicemente, avevo in mente una storia che viene meglio attingendo ad alcuni aspetti del mio vissuto.
Ho finito per inoltrarmi, così, in un sentiero per me nuovo, dove molto di quel poco che ho imparato sulla scrittura è, non dico da buttare, ma quasi. Per la prima volta in vita mia ho chiesto il preventivo per l'editing (ancor prima di finire il lavoro, per altro) perché mai come questa volta non mi fido di me stessa e ho bisogno di uno sguardo esterno.
Per iniziare a inoltrarmi in questa storia ho comunque pensato di darmi delle regole, delle corde di sicurezza per non farmi risucchiare. Non so se esse abbiano senso, ma mi piace l'idea di condividerle con voi e magari confrontarle con quelle che altri si sono dati.

I PERSONAGGI SONO COMUNQUE ALTRO DA ME/DA COLORO CHE CONOSCO
Per la prima volta ho per le mani un protagonista femminile che ha pochi anni più di me, ha un percorso di studi per certi versi simile al mio, un vissuto sentimentale affine al mio. Ma non sono io. Questo per me deve essere chiaro, scritto a lettere di fuoco nella mia mente. La mia protagonista è cresciuta in un contesto new age che è diversissimo da quello iper razionalista in cui sono cresciuta io. Questo la rende inevitabilmente diversa da me, uno scarto emotivo apparentemente minimo, ma che mi obbliga in ogni momento a chiedermi: come guarda LEI il mondo? Qual è il SUO modo di reagire? Qual è il SUO modo di pensare? Non il mio, il suo. Per quanto mi possa apparire affine, è sempre altro da me, non meno di Sherlock Holmes. 
Ho bisogno di questa distanza per gestirla come personaggio, per gestire la storia, per non farne la mia Mary Sue, per non cadere nell'autoindulgenza.
E, sì, c'è un personaggio che è inevitabilmente ispirato a mio marito. Sarebbe sciocco e inutile negarlo. Ma non è lui. Ha un vissuto diverso, delle problematiche famigliari e mediche diverse. Per ricordarmene mi sono imposta di dargli aspetto e abitudini ben diverse da quelle di mio marito (il mio personaggio ha un senso della disciplina e dell'ordine molto militaresco che è l'opposto del fare felino e anarchico di mio marito). Il mio personaggio è R.D., ha delle caratteristiche in comune con mio marito Nik, ma non è lui. Se pensassi davvero che lo fosse come potrei fargli capitare cose spiacevoli senza sentirmi un mostro?

IL TUTTO È FUNZIONALE ALLA STORIA
Non voglio raccontare una storia per raccontare di me. Sono disposta ad attingere direttamente dal mio vissuto per il bene della mia storia. Ho già provato a raccontarlo con più distacco. Non funzionava. È un giallo, ma tocca delle tematiche così totalmente mie che l'eccessivo controllo diventa un danno, piuttosto che un beneficio. Peccare per eccessivo coinvolgimento mi sembra meno grave di eccedere in freddezza.
Il fine, tuttavia, è la storia. Farla vivere al lettore. Sono disposta perfino a dare in cambio un po' più di me.
Per questo sto lavorando in modo ossessivo sulla sinossi, definendo i capitoli, la scansione precisa degli eventi. Le emozioni hanno senso solo se radicate in una struttura solida e ben definita. 

PENSARE AL LETTORE COME A UN PERFETTO SCONOSCIUTO
A cui di me non importa nulla.
Cosa mai potrà scoprire di me dalle mie pagine? Che sono una donna? Wow! Che sono una donna che non apprezza essere imbrigliata in ruoli tradizionali? Che in passato ho maneggiato per lavoro ossa umane senza provare particolare orrore? Che cerco con il mio partner un rapporto paritario? Che non mi faccio spaventare dalla diversità, che anzi guardo con simpatia? Certo che sono proprio dei grandi segreti! Un perfetto sconosciuto potrebbe arrivare alle stesse conclusioni dopo la lettura di due/tre post di questo blog. Forse l'unica grande rivelazione è che ho lavorato su ossa umane (è incluso nel pacchetto "archeologia") e che, se sono ben spolpate, non mi fanno particolare orrore.
D'altro canto pensare al lettore come a un perfetto sconosciuto aiuta anche a tenere ben dritta la barra del timone. A lui di me non importa. Se sono brava gli importerà dei miei personaggi, ma non starà a chiedersi chi tra i miei conoscenti è nascosto dietro ad Antonio, Riccardo, Martina o Luisa. Non gliene potrà importare di meno. 
Questo è in assoluto il pensiero più liberatorio, quello che mi permette di scrivere. 
E, povero lettore, evitiamo anche di ammorbarlo con questioni che, al massimo, possono interessare i miei famigliari o i miei migliori amici!

Voi avete mai inserito la vostra vita tra le pagine? Come avete evitato di esserne risucchiati?

lunedì 1 giugno 2015

Mad Max, fury road – Visioni


Non ho mai visto i precedenti film della serie Mad Max e non avrei visto neppure questo. Ovunque mi girassi, però, sentivo una sola parola "CAPOLAVORO". Quindi ok, andiamo a vedere se una pellicola su un pazzo in fuga in un mondo post atomico girato da un tizio poco soddisfatto di un lavoro di trent'anni prima e nel frattempo diventato ricco con maialini e pinguini parlanti è davvero in grado di stupirmi.
Sono uscita dal cimenta frastornata con gli occhietti un po' allucinati e la testa che girava.
Ok.
Lascio ad altri il giudizio tecnico sulla parte action del film. Come ho letto, gli altri sono film d'azione, questo è una categoria a parte.

Molto, molto in breve, è tutta una lunga fuga. Un uomo che sente le voci e vive in un desertico mondo post atomico viene catturato da un gruppo che si è impossessato di una delle rarissime oasi e usato come rifornimento di sangue sano. La sua storia interseca quella della fuga di Furiosa, donna di fiducia del boss dell'oasi, che però ha scelto di tagliare la corda su un'enorme camion cisterna a bordo del quale si trovano le mogli-schiave del boss. E scappano.
Scappano in un deserto dove reale e digitale si mescola senza strappo alcuno, scappano da dei tizi folli, ripresi in modo folle, intenti in acrobazie coreografate in modo ancora più folle.

Da narratrice l'unica cosa che mi sento di aggiungere alle mille considerazioni che potete trovare nelle mille recensioni presenti in rete è una riflessione sulla scrittura di questa follia.
Tanto è magniloquente e ridondante l'apparato visivo, tanto è essenziale quello narrativo.

Mostrato e non raccontato.
In una storia come questa, dove non c'è un attimo di tregua e lo spettatore rischia di morire in apnea perché non osa respirare, bisogna portare allo stremo la solita massima "mostrare e non raccontare".
Di raccontato ci sono due minuti iniziali in voce-off in cui il protagonista spiega due cose di sé. Non so se fossero una sorta di "marchio di fabbrica" della serie originale, ma sono i due minuti peggiori del film. Poi si parte. Nel fantasy o nella fantascienza arriva inevitabile lo spiegone. Perché le cose funzionano così e bla bla. Niente bla bla. Niente le cose funzionano così. Lo vedi come funzionano le cose e te ne fai una ragione.
I personaggi scappano, sbattono l'uno contro l'altro, si pestano e poi scappano insieme (perché il nemico avanza, non per altro). Hanno giusto due minuti in fondo per dirsi chi sono e da dove vengono, ma lo fanno a frasi spezzate, con sguardi e silenzi. E tanto basta.
La vera colonna portante del film è Furiosa, donna guerriera senza un braccio in cerca di redenzione (da cosa lo spettatore lo può solo intuire). La Theron è bravissima a far intuire con uno sguardo o con un silenzio tutto un mondo interiore che viene taciuto, ma non banalizzato. Hardy viene un po' cannibalizzato e forse non lascia altrettanto intuire il proprio inferno interiore, che però sentiamo e vediamo in sequenze orrorifiche che in una manciata di secondi definiscono tutto ciò che c'è da definire. 
Il non spiegato la fa da padrona, anche sul finale, con l'ultimo sguardo di Max, in mezzo alla folla, e crea il fascino, perché si intuisce che le motivazioni esistono, i personaggi non sono costruiti di carta velina e ciò che non è esplicitato lo spettatore lo può intuire.

Essenzialità di mezzi narrativi.
"Se c'è una pistola in scena, prima o poi dovrà sparare" è un'altra massima di sceneggiatura portata all'estremo.
In un mondo post atomico le risorse sono poche. I personaggi non avranno presumibilmente a disposizione arsenali infiniti a cui attingere. Gli stessi avversari non possono ad ogni sequenza portare una minaccia più temibile di quella precedente. Non si può, quindi, giocare d'accumulo come nella maggior parte dei film d'azione, dove ad ogni sequenza si carica la precedente con qualcosa in più. Qui, al massimo, si gioca in sottrazione. I mezzi che i personaggi (tutti quanti) posso usare saranno sempre meno via via che la storia procede.
Quindi ogni elemento scenico mostrato viene usato una, due, tre, quattro, cinque volte di cui almeno una in modo funzionale in una scena d'azione. Non c'è nessun deus ex machina, nessun oggetto necessario che capita per caso tra le mani di un personaggio al momento giusto. Tutto è dove è stato lasciato là dove lo spettatore l'ha visto lasciare. Questo è lavoro di scrittura.
È sbagliato pensare che i film d'azione non abbiano una sceneggiatura. I pessimi film d'azione non hanno una sceneggiatura. Nei buoni film d'azione tutto deve tornare, deve essere comprensibile la logica dell'azione. 
Le tenaglie o il pugnale nascosto nel cambio tornano infinite volte, usati in infiniti modi per risolvere le più varie situazioni. Lo spettatore può contare i proiettili sparati e sapere quando stanno per finire. 
In un film mostrato a ritmo accelerato, dove tutto corre, salta e esplode, non si perde mai il senso dell'azione. Immagino che, rivista la pellicola un paio di volte, sia possibile ricostruire lo schema esatto dei movimenti di ogni singolo personaggio. 
Questa è scrittura cinematografica. 

Una storia archetipa dagli infiniti spunti
Questa è una storia achetipa di quelle più antiche, dallo svolgimento lineare.
Appartiene alla formula "uno straniero arriva in città" in cui un personaggio esterno (Max) si inserisce in un contesto (la fuga di Furiosa) e ne spezza gli equilibri.
Questa storia è già stata raccontata infinite volte, così come l'opposizione maschile/femminile, che qui domina la scena.
A lato degli eventi principali, nel non raccontato, ma nel mostrato ci sono infiniti spunti narrativi, al punto che mi è venuto spontaneo paragonare questa pellicola a Birdman. Anche in questo caso c'è un elemento stilistico (la scena d'azione, come là c'era il piano sequenza) portato all'eccesso per raccontare una storia che suggerisse varie e conflittuali interpretazioni. Mad Max non è così complesso, ovviamente, ma non è neppure banale. Crea suggestioni, riflessioni, linee di pensiero che varieranno anche di molto da spettatore a spettatore.
A me ha colpito il tema dei figli. L'opposizione tra padri che vedono i figli come proprietà, madri che vedono i figli come il futuro e in mezzo un personaggio che ha perso i propri figli, Max e una Furiosa che... (non li può avere? Non li ha voluti avere? Li ha uccisi?) ... Sicuramente è una donna non madre. Mad Max non è un film sulla genitorialità, certo, ma anche lo è, profondamente, se lo si guarda nella giusta direzione. Così come, guardato da altre angolazioni, svela altri aspetti, alcuni ovvi, altri meno.
Mi fa un po' ridere, ad esempio, che un film vietato ai minori di 17 anni possa essere descritto anche così: "è una favola ecologista girata da un regista amante delle storie per bambini in cui le donne sparano meglio degli uomini". Non ho mentito, l'ho solo guardato da un'altra angolazione.

Alla fine, c'è poco da fare. Avevano ragione quelli che hanno obbligato a vederlo.
Mad Max è un film che va visto. Anche se non amate le macchine che esplodono, anche se i kamikaze calvi e dipinti di bianco vi causano un misto di senso di orrore e di ilarità. Va visto perché è gran cinema. A livello di montaggio, fotografia e coreografia delle scene d'azione ha in assoluto ben pochi competitori (voglio vedere come giustificano un oscar al montaggio a un'altra pellicola...). Ma anche sulla pura scrittura ha parecchio da dire.

Mi fanno solo paura gli inevitabili emuli che finiranno per invadere le sale...