sabato 30 gennaio 2016

Come ti tesso la trama


Nel suo blog, Helgaldo lancia spesso sfide affascianti. Con il post di giovedì ha proposto un nucleo narrativo sfidandoci a produrre una trama, ma anche a mostrare in azione come produciamo una trama. 
Io che tra contenuto, e quindi trama, e stile scelgo sempre il primo non potevo certo stare a guardare e  ho deciso che l'esperimento meritava un post tutto suo.

Ecco quindi
COME TI TESSO LA TRAMA

Partiamo dal nucleo narrativo, che era:

"La tecnologia, grazie al software, è in grado di produrre giocattoli sempre più complessi che interagiscono a livello verbale con i bambini «dialogando»: raccontano storie, rispondono ad alcune domande, pongono essi stessi domande e in base alle risposte del bambino costruiscono spezzoni di dialogo. Il rischio è però di uccidere la fantasia dei più piccoli nel momento stesso in cui giocano."

Se vogliamo si tratta, quindi, di fare una "trama su commissione". A me non dispiace affatto lavorare su un tema dato. Non è affatto vero che in questi casi non escano delle cose interessanti e personali. Anzi. Riparlerò a brevissimo (evviva!) dei miei apocrifi shelrockiani. Non c'è nessuno di quei racconti che non sia un pezzo della mia anima. Per certi versi posso mettere in Watson, al 90% il mio io narrante, molto più di me di quanto mi sentirei di mettere in altri personaggi, perché so di essere protetta.

Quindi, per tornare a noi c'è qualcosa che mi sta davvero a cuore in questo nucleo narrativo?
Sì. 
Bambino/fantasia.
Fantasia può avere molti contrari. Per qualcuno il contrario di fantasia è verità. Per qualcuno i bambini vanno protetti dalla verità con la fantasia. Far loro credere a babbo Natale. O che la loro famiglia sia felice. Che papà non tradisca mamma, che mamma sia ancora innamorata di papà.
Quindi ecco un ottimo interrogativo narrativo:
Come reagirebbero i bambini di fronte alla verità nuda e cruda? La verità è una cosa da cui i bambini vanno difesi?
Ok, forse non era quello che Hel aveva in mente, ma è ciò che sta a cuore a me. La verità, il rapporto con la verità e l'effetto della verità sono sempre temi base per un giallista. Se non li sentissero fortemente non sarebbero giallisti.

Quindi iniziamo a buttare giù una trama. In poco tempo. Una ventina di minuti. 
Ecco l'abbozzo scritto nel commento del post:

"Una bambina sugli otto anni viene selezionata e riceve un prototipo del giocattolo interattivo. Un orsacchiotto dall’aspetto pacioso.
Non è l’unica, è parte di un campione selezionato casualmente in tutta Italia, ma nella sua scuola è l’unica.
In breve inizia a riferire che l’orsacchiotto è il suo migliore amico. Le parla, le spiega le cose, le dà le attenzioni che i genitori le negano.
Ci sono screzi con i compagni e le amichette, ma la maestra non dà troppo peso alla cosa, supponendo che le altre bimbe siano solo invidiose. La bimba tra l’altro a scuola va meglio, sembra più attenta e motivata.
La maestra (lo scopro ora, ma la maestra sarà probabilmente la protagonista, magari alternando il suo punto di vista con quello della bambina) legge degli articoli di giornale. Casi di suicidi di bambini sotto i dieci anni.
Le compagne si lamentano di affermazioni molto inquietanti fatte dalla bambina (cose come “i tuoi non volevano che tu nascessi”, “I tuoi preferiscono tua sorella”…). Interrogata, la bambina risponde solo che è la verità, che non si è inventata niente, pensava anzi che, dato che si tratta della verità, le altre bambine già sapessero.
I genitori della bambina non hanno notato niente, anzi, la bambina è più tranquilla e obbediente. Prima faceva dispetti per attirare l’attenzione, ora non più e sono quindi molto soddisfatti del prototipo ricevuto, a cui danno il merito del cambiamento.
Altri articoli inquietanti (da definire, anche l’apparizione dei primi è da definire).
La bambina scompare. Rapita o fuggita. Con sé ha l’orsacchiotto.
Fatti da definire. Flash dei punto di vista della bambina. NOTA: sguardo infantile, ma estrema lucidità sulle cose. Si intuisce che la bimba è fuggita e se la sta cavando da sola.
Maestra, genitori e parenti tutti disperati.
A una bambina particolarmente cattiva con la scomparsa (NOTA: inserire prima questo personaggio) accade uno spiacevole incidente mentre era sola.
La maestra inizia a porsi le domande giuste (Come? Perché?Definire le cose). I suicidi e gli altri fatti di cronaca riguardano bambini che avevano ricevuto l’orsacchiotto.
Altro incidente spiacevole (mortale?) a un genitore che si scopre poi essere violento con il figlio/a (NOTA: il lettore deve averlo già intuito).
Qualcuno di coloro che indagano (NOTA: personaggio da definire bene) inizia a pensare che sia la bambina a creare gli incidenti. Come?
La maestra riesce a contattare (COME?) un altro bambino in possesso dell’orsacchiotto. L’orsacchiotto dice al bambino la verità su qualsiasi cosa il bambino chieda. ( es: I miei genitori mi vogliono bene? No, sei nato solo perché tua mamma non ha avuto il coraggio di abortire. Lei ti odia perché ti considera la causa di tutti i suoi fallimenti)
Ovviamente l’orsacchiotto risponde sempre con la verità anche a domande operative (come faccio a fare questo e quell’altro?).
RISOLUZIONE
Da definire.
Visto il tono positiva è difficile. La maestra, d’altra parte, potrebbe avere un forte senso di protezione nei confronti della bimba che prevale (una maternità negata nel suo passato? LAVORARCI SU) e con l’aiuto di un altro orsacchiotto potrebbe salvare la bimba (NOTA: l’orsacchiotto dice la verità a tutti o solo ai bambini? Particolare non secondario da definire)."

King dice che lavorare a una trama è come scavare lo scheletro di un dinosauro. Sono abbastanza d'accordo. Anch'io ho l'impressione che la storia già esista da qualche parte tutta intera in quello che io chiamo, grazie a un'amica, "Paradiso delle storie possibili" e che lavorare alla trama sia essenzialmente cercare di vedere meglio particolari che già esistono.
Particolari che possono stupire in primis chi la trama l'ha pensata.

Ho scritto di getto questa trama giovedì, poi sono stata molto impegnata e la rileggo solo ora.
La prima cosa che mi stupisce è che siamo in Italia oggi.
Questa non è una storia su un futuro distropico in cui ai bambini viene uccisa la fantasia. È una storia sulle bugie che vengono raccontate ai bambini "per il loro bene" nell'Italia del family day. Quando si dice "urgenza narrativa"...

Non credo di voler davvero scrivere questa storia, di certo non oggi, anche perché tra mezz'ora devo uscire e questa non è una storia da mezz'ora di lavoro. Se però volessi scriverla, oggi, partendo dagli appunti di due giorni fa dovrei lavorare su due fronti.

1 – DEFINIRE GLI SNODI DELLA TRAMA
Io non credo all'ispirazione, credo nei problemi risolti perché presi ostinatamente a testate.
La mia trama, così com'è adesso, è piena di punti di domande, note e questioni irrisolte. Ebbene, l'unico modo che io conosco per risolverle è pensarci ossessivamente
Usare ogni energia che non mi serva per i problemi contingenti per pensare alle soluzioni. Tempestare il povero marito di domande. Lui, poveretto, ormai è abituato a sentirmi porre domande del tipo:
"Ho due uomini in una grotta su una scogliera a picco sul mare, uno solo di loro è armato. Ci sono altri due uomini armati (i cattivi) che arrivano. Alla fine entrambi i cattivi sono morti, deve sembrare un incidente e i miei devono averli uccisi accidentalmente, come faccio?"
(In un futuro sarà pubblicato un racconto che dimostra come io poi abbia trovato soluzione alla domanda).
Spesso il marito non ha una risposta. O non ne ha una che mi piaccia, ma esporre il problema ad alta voce aiuta ad analizzarlo e a trovare una risposta.
A volte sembra che le risposte arrivino per folgorazione improvvisa, mentre sto facendo altro, ma è perché una parte del mio cervello, quando inizia a macinare problemi di trama, va avanti da sola. Io posso andare al lavoro, fare lezione, correggere verifiche, cucinare e da qualche parte negli scantinati della mia coscienza un meccanismo che immagino simile a una macchina di Turing va avanti, va avanti, fino ad elaborare una risposta. Che arriva quando arriva.
Devo dire, però, che più spesso ci arrivo coscientemente, per riflessione consapevole, prolungata e ossessiva. Tipo, sembra che io stia fissando il vuoto, in realtà sto pensando a come ammazzare delle persone.

Altra cosa interessante, la trama non si risolve in modo consequenziale. Come nello scavo del dinosauro, magari la coda e la testa sono le prime cose che emergono, nettissime, ma si fa una fatica immane con le costole. Magari invece le costole ci sono subito, ma la testa la si trova per ultima.
Di solito io non inizio a scrivere fino a che non ho un'idea d'insieme, anche vaga, ma che almeno mi permetta di capire che bestia sto scavando, se la mia è una trama Velociraptor o una Triceratopo. 

2 – DEFINIRE I PERSONAGGI
Anche i personaggi già vivono nel Paradiso delle Storie Possibili.
Tutto sta a conoscerli sempre meglio. A capire più particolari di loro. 
Non ho capito subito che in questa storia la protagonista è la maestra. 
Bene, pensiamo alla maestra. Cosa già so di lei?
– Vive sola, perché ha una certa libertà d'azione che le permette di indagare sulla scomparsa della bambina.
– Non è troppo avanti con l'età, perché in caso contrario avrei problemi con eventuali scene d'azione. Potrebbero essercene, quindi diciamo che è sotto i quaranta.
– Ha una storia di maternità negata forte.
– Ora vive sola, quindi ha una relazione finita alle spalle.
Il tema, ricordiamolo, è "le bugie che raccontiamo ai bambini pensando di farli vivere meglio"
– Se il suo bambino fosse nato lei forse gli avrebbe raccontato delle bugie.
Quindi:
– Aveva una relazione che non funzionava e voleva un figlio per salvarla. La maternità, però, non è andata a buon fine e la relazione non ha retto. A distanza di anni, si rende conto che il bambino non avrebbe salvato la relazione. Se fosse nato lei e il suo lui sarebbero rimasti insieme "per il bene del bambino" cercando di recitare la parte della famiglia perfetta. Questo ci dice che è una donna consapevole, non giovanissima, almeno 35 anni, forse qualcuno di più, abbastanza per pensare che, anche se trovasse l'uomo giusto, il treno della maternità ormai per lei è passato. 
Ok, quindi:
– La maestra è una donna sui 40 anni con alle spalle un matrimonio fallito. Nessuno sa che la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l'aborto del figlio tanto desiderato e inseguito che avrebbe dovuto salvare la relazione. Da un lato c'è un forte senso di colpa inconscio ("se mio figlio fosse nato tutto sarebbe andato bene. Chissà, se avessi fatto questo o quell'altro non avrei abortito..."), dall'altro la consapevolezza sempre più forte che no, il bambino non avrebbe salvato il matrimonio. 
Cerca di fare il suo lavoro con coscienza, ma le classi sempre più numerose e i vari problemi dei bimbi la portano a sottovalutare all'inizio le stranezze dalla bambina col pupazzo. All'inizio, magari, la bambina con il pupazzo le sta anche cordialmente antipatica (capita anche alle migliori maestre o alle migliori prof), solo dopo, quando inizia ad esserci il sospetto che la bimba sia una sorta di psicopatica, la maestra sente di dover stare dalla sua parte e di volerla salvare ad ogni costo.

Ecco come si potrebbe lavorare sui personaggi. Ovviamente questo va fatto su tutti i personaggi, per passaggi successivi, dando sempre per scontato che tutto quanto già fissato prima è vero per forza e vanno solo visualizzati meglio i particolari di raccordo.

BONUS: TENERE SEMPRE VIVO IL PENSIERO LATERALE
Il pensiero laterale è quello dei collegamenti strani, quello per cui A+B=Z, in cui Z non ha nulla a che fare né con A né con B, ma viene in mente comunque.
È un genere di pensiero che di solito si tende a reprimere. Già a scuola. Persino io. Quando spiego, che so, la prima guerra mondiale e uno mi alza la mano e mi chiede la cosa più assurda perché un'immagine mostrata gliela ha fatta venire in mente.
È quella cosa per cui vorreste strozzare il vostro partner quando voi gli fate la lista della spesa e lui inizia a parlarvi, che so, della nuova macchina del vicino, perché scrivere "compra il sale" gliela ha fatta venire in mente.
Per un autore però il pensiero laterale è estremamente utile. È un ulteriore aiuto alla macchina di Turing che elabora trame nello scantinato del Pensiero Cosciente. 
Può sempre venir fuori un collegamento inatteso.

Io ad esempio ho scoperto che l'orsetto dice sempre la verità perché il programma che sta alla base era stato elaborato per tutt'altro. Solo che gli adulti non sono interessati alla verità. Vogliono solo conferme. Un politico non vuole sentirsi dire "stai sbagliando tutto", né un privato cittadino ama sapere con matematica certezza "tua moglie ti tradisce con il tuo migliore amico e tu stai facendo finta di non vedere".
Il programma era stato elaborato per fini bellici e politici, ma gli adulti non sono interessati alla verità. Però il programmatore aveva scoperto che suo figlio, invece, ne era affascinato. Ai bambini la verità piace. Vogliono sapere. Anche se poi non sono preparati. Anche se questo può portarli a scelte estreme. I bimbi vogliono la verità.
Quindi il programma è stato inserito in un giocattolo per bambini, perché i bambini cercano qualcuno che dica loro la verità.
Il problema è l'impatto della verità su bambini a cui gli adulti hanno sempre mentito. E l'impatto sulla società di bambini armati di verità.

Mamma mia, ho scritto tantissimo, però spero di aver risposto alla domanda di Hel su come tesso le mie trame.
Così.
Voi come fate?

mercoledì 27 gennaio 2016

Storia e Memoria – Saccenza non richiesta

In occasione del Giorno della Memoria ho deciso di scrivere un post un po' diverso dal solito e dai soliti temi sul significato e l'importanza della Memoria e ciò che la differenzia dalla Storia.

STORIA
È la ricostruzione e lo studio scientifico dei fatti e delle loro cause.

MEMORIA
È la selezione più o meno arbitraria e più o meno consapevole di ciò che viene ritenuto degno di ricordo.

Immaginate un'intervista a un famoso sportivo a fine carriera in cui gli venga richiesto di ricostruire le tappe fondamentali della sua esperienza di sportivo. Inconsciamente o consapevolmente lo sportivo opererà una selezione, magari omettendo il nome dell'allenatore che lo ha scoperto e con cui poi ha litigato o i due anni di crisi a seguito di un brutto infortunio in cui ha avuto problemi d'alcol. Parlerà se mai con enfasi del rientro e dei trofei conquistati. Nella memoria di chi ascolta o legge l'intervista, il nome dello sportivo non sarà mai associato né a quello del primo allenatore, né alla dipendenza da alcol.
Se poi qualcuno volesse fare uno studio rigoroso sulla sua carriera salterebbe fuori sia il nome del suo scopritore, sia il suo problemino. Ma lo studio sarebbe probabilmente successivo e probabilmente avrebbe una buona diffusione solo in un ambiente ristretto. Ipotizziamo che il nostro sia un tennista. Forse la maggior parte degli appassionati di tennis saprebbero che è stato scoperto da un allenatore con cui poi ha litigato e che ha avuto un problema di dipendenza. Per il resto della popolazione il suo nome rimane associato solo alle sue vittorie.

Storie e memoria spesso non coincidono perfettamente.
La storia ha bisogno di distanza temporale e di coerenza metodologica. Spesso i suoi risultati rimangono circoscritti al numero ristretto degli addetti ai lavori, senza allargarsi al grande pubblico. La memoria è ciò che si sceglie di ricordare a seguito di una selezione più o meno arbitraria o più o meno consapevole.

A primo acchito la Storia sembra molto più importante della Memoria. Per il semplice fatto che ha ragione. La Storia è il fatto comprovato, sicuro e verificabile.
La Memoria, però, è quella che forma la base comune di un'appartenenza.
La Memoria è ciò che si decide attivamente di ricordare e trasmettere anche al fine di costruire un'identità comune.
Spesso non vi è una volontà precisa nella costruzione della Memoria in quanto base dell'identità comune. Chiedete a un passante qualsiasi quando l'Italia ha vinto i mondiali di calcio l'ultima volta. Quasi tutti sapranno rispondervi, anche i bambini che non hanno visto in prima persona la partita. Senza che vi fosse una volontà precisa questo evento è andato a costituire una memoria condivisa, base per un'identità comune italiana. Spontaneamente i genitori lo hanno raccontato ai figli.
Spesso, però, alla base di una Memoria c'è una volontà precisa di ricordare. Io non credo che questo sia un male.

Non possiamo costruire una società senza valori condivisi e la condivisione di valori si basa anche sulla condivisione di Memorie comuni.
Mi sembra che in questi anni si stia un po' perdendo di vista il perché la Giornata della Memoria sia effettivamente nata. Una scelta precisa di mantenere la Memoria di quali siano stati gli orrori del Nazifascismo per creare un comune valore europeo di antinazismo. Un momento che non fosse solo di sacrosanto ricordo delle vittime, ma anche di unione all'insegna di un valore condiviso, tanto più necessario quanto più stanno andando sparendo i testimoni di quegli anni.
Memoria non solo quindi come cordoglio e vicinanza alle famiglie delle vittime, ma come scelta di campo e di valori attiva nel presente.

La Memoria è molto più labile e più fragile della Storia
Si fa presto a perdere la Memoria di qualcosa. I nostri padri e nostri nonni avevano fortissima la Memoria di cosa fosse stata Caporetto, sia in termini di morti e di sofferenza, sia in termini di unità nazionale, l'orgoglio di essere comunque riusciti a farcela anche dopo una sconfitta di quel tipo. Oggi si fa una fatica terribile a spiegare Caporetto ai ragazzi, che non riescono a capire la paura e l'impatto simbolico di avere gli austriaci fin sul Piave. In occasione del centenario della I guerra mondiale tutti si sono resi conto della difficoltà di tener viva la Memoria di fatti accaduti cento anni fa. In termini storici l'altro ieri. Fatti, tra l'altro, tutt'altro che secondari, e che dovrebbero ricordare per sempre come l'Europa che si credeva la più civile e all'avanguardia fosse piombata in un attimo nell'incubo di una guerra assurda.
La giornata della Memoria del 27 gennaio dovrebbe essere fondante per l'Europa di oggi. Per ricordare che vogliamo costruire una società in cui nessuna maggioranza segrega una minoranza. Eppure ogni anno vedo sempre più il 27 gennaio come un'occasione per sfornare film sempre meno sentiti, libri scritto su commissione e momenti di ricordo basati su un generico compianto per i morti. Sempre più generico.
In cui non si dice quasi mai che lo Sterminio ha toccato molto anche l'Italia. Che nel mio Piemonte una forte e radicata comunità ebraica è quasi scomparsa. È più facile parlare di orribili luoghi lontani in Polonia, piuttosto che far toccare con mano, che so, la sinagoga ormai in disuso di Vercelli e porre la semplice domanda: dove sono andati tutti? Ricordare che gli Ebrei sono sicuramente la comunità più colpita, con un numero di morti inimmaginabile, nel senso che lo si può studiare, ma non lo si può, davvero, immaginare, ma che non erano i soli ad essere discriminati. Dissidenti di vario genere, omosessuali, testimoni di Geova e Rom facevano loro compagnia. Ma è un po' scomodo, di questi tempi, ad esempio, ricordare con troppa enfasi le sofferenze del popolo Rom. 

La Storia ha bisogno di Memoria?
Grazie al cielo, la Storia è assai meno confutabile di quanto negazionisti e complottisti vari immaginino. La Storia è, almeno in parte, verificabile, basata sullo studio delle fonti e sull'analisi dei resti. 
Tuttavia la conoscenza della storia, senza l'impatto, anche emotivo, della Memoria ha ben poco effetto sul presente.
Non so se si possa davvero imparare dalla storia e se si possa davvero evitare di ripetere gli errori del passato. Sulla Storia si possono però fondare dei valori. Valori che, però, non crescono da soli e più o meno per magia come i funghi con la giusta luna. Valori scelti, condivisi e protetti.
L'idea di un Europa in cui possano convivere persone di religione diversa, di tradizione diversa, di orientamento politico e ideologico diverso per me è un valore. È un valore fondante, a cui tengo. Per questo è importante, insieme alla ricostruzione storica, anche la Memoria di un tempo, ahimè tutt'altro che lontano, in cui così non è stato. Ed è importante non solo per il ricordo delle vittime (che pure è sacrosanto) ma perché oggi xenofobia e intolleranza crescono sempre di più e sento in certe affermazioni sempre più l'eco di altre frasi.
La Memoria non è cordoglio, è sforzo attivo volto al futuro.

lunedì 25 gennaio 2016

The martian – Visioni


Tempo fa, sul suo bel blog Lisa riportava una teoria narratologica secondo cui l'antagonista è sempre un personaggio. La cosa mi sembrava un po' troppo categorica, ma non avevo ancora visto The martian e non avevo un esempio lampante sotto mano.
The martian  è un film dove tutti sono buoni e bravissime persone. Dove i capitani sono tutti coraggiosi, i capi hanno a cuore l'aspetto umano della vicenda, i politici scendono a patti per salvare vite e anche chi per lavoro deve tener conto dell'immagine sotto sotto ha un'anima. Dove l'eroe è bello, buono e intelligente, abbandonato su Marte senza dolo (viene ripetuto mille volte che no, non è colpa di nessuno) e non si può non tifare per lui.
L'unico antagonista è Marte, ma anche lui, con i suoi paesaggi così belli, con quel suo modo di mettere alla prova l'intelligenza dell'eroe solo per esaltarla non è davvero cattivo. L'hanno solo disegnato così.

Mi sono chiesta per tutto il film che storia sarebbe uscita se questo sopravvissuto così intelligente e tenace si fosse rivelato un po' bastardo nell'animo. Se fosse venuto fuori, che so, che era razzista, che era andato a letto con il capo, che avesse fatto qualche meschinità ai colleghi. Se fosse diventato, come nel film un caso mediatico "in naufrago di Marte da salvare ad ogni costo", ma le persone che lo conoscevano avessero avuto il dubbio che, in fondo, sarebbe stato meglio lasciarlo lì. Suppongo che ne sarebbe uscito un film migliore.

C'è da dire, però, che The martian non lo si può proprio odiare. Ci sarà un motivo per cui Matt Damon è l'attore più recuperato della storia del cinema. Perché ha proprio quella faccia lì e sa dare al suo eroe buono quel tanto di umanità per cui anche tu lo vuoi in salvo. Anche se pensi che sia un po' una follia, come ai tempi del soldato Ryan, alla fine, sì, sei contento se ce la fanno a recuperarlo. Matt Damon ha proprio la faccia di uno che si merita di essere salvato.

E il film, nonostante tutto, funziona. Anche se i capitani sono tutti coraggiosi, i politici lungimiranti, i lavoratori fanno gli straordinari con il sorriso e anche Marte non ci mette tutta la cattiveria che potrebbe. Perché ogni tanto ci vuole anche una storia così. Dove tutti sono buoni. Dove l'intelligenza doma la natura e le avversità. E dove basta un sacco di patate, della musica e un po' di buona volontà per salvarsi da soli su Marte.

Conoscete altre storie in cui tutti i personaggi sono buoni? Secondo voi possono funzionare?

venerdì 22 gennaio 2016

La colonna sonora del mio romanzo in divenire


Ieri ho finito di ruminare il romanzo. Ho spedito la nuova versione e non mi resta che attendere il parere di chi la leggerà e volevo scrivere qualcosa in proposito.
Ieri sera ho sfidato il gelo per andare a sentire una conferenza sulla spiritualità di De André. Mi è piaciuto molto, anche se mi sono quasi addormentata sulla parte relativa alla mistica, di per sé la più interessante, ma che alle 22.50 ha messo a dura prova il mio letargico cervello. In ogni caso volevo scriverne qualcosa.
Oggi ho letto il nuovo blog di una vecchia amica e il suo invito a indicare una colonna per i libri che si stanno leggendo o scrivendo. L'ho preso come un segno.


 COLONNA SONORA IDEALE DEL ROMANZO CHE STO SCRIVENDO
Se ti tagliassero a pezzetti – Smisurata preghiera (F. De André)

Ci sono due canzoni citate nel romanzo, anche se non lo fossero, ne costituirebbero la colonna sonora ideale, perché esprimono perfettamente quello che intendevo raccontare.
A. Pérez-Reverte alla fine del romanzo La regina del sud scrive che se fosse stato più bravo ne avrebbe fatto una canzone di tre minuti, invece non è riuscito a stare sotto le 600 pagine. Forse è questo che prova il romanziere quando si confronta col poeta o il cantautore. Un'invida infinita per una capacità di sintesi che manca, per il saper cristallizzare sensazioni in note e immagini, quando a noi narratori serve una storia intera.
Ecco, io non ho neppure il rimpianto di non aver condensato la mia storia in una canzone. Quella canzone esiste già.

La copertina del disco
La canzone è apparsa nel 1981 in un disco scritto a quattro mani con Massimo Bubola che di fatto è senza nome, ma che tutti chiamano "L'indiano" per via del quadro che ne costituisce la copertina. 
Si tratta del disco che De André incide dopo l'esperienza del sequestro e in cui uno strano filo sembra unire i popoli nativo americani e la Sardegna. Ogni canzone, sembra oscillare tra le pianure americane e l'entroterra sardo. Ogni canzone è intrisa di una speciale malinconia, quella dovuta a dolori che non si possono cancellare e alla consapevolezza che a volte anche i perdenti e le vittime si trasformano in carnefici. Vi è inoltre una spiritualità animista che pervade tutte le canzoni, una sensazione di divinità immanente che accarezza tutto con dolcezza, anche o sopratutto le tragedie.
Ecco, è sempre difficile per me definire la mia spiritualità. Ma c'è qualcosa, nell'animismo che De André racconta con termini cristiani, che sento molto mio. Più che credere, spero in una divinità sensibile, che piange per le vittime e per i carnefici, che è dentro quanto fuori di noi. 
Se ti tagliassero a pezzetti è la penultima canzone dell'album, sicuramente schiacciata da altri capolavori, come la famosissima Fiume Sand Creek, ma sin dalla prima volta che l'ho ascoltata me ne sono innamorata. Non ci ho pensato davvero quando ho iniziato a elaborare e quindi a scrivere il romanzo, solo sulle ultime pagine mi sono resa conto che di fatto avevo preso questa canzone e ne avevo fatto un romanzo.

Se ti tagliassero a pezzetti
il vento li raccoglierebbe
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di un Dio
di un Dio il sorriso 

Ecco qua la prima strofa della canzone, praticamente il riassunto del romanzo.
La mia storia parla di gente fatta a pezzi, raccolta da una protagonista che ha il nome di un vento, che ridà loro storia e volto, verità e giustizia.

Col proseguo della canzone, si intuisce che forse ad essere tagliata a pezzetti non è una persona ma un'idea, la libertà, la fantasia (l'anarchia, in alcune versioni live, tra cui quella che ho linkato). Liberà, fantasia, anche anarchia, a ben vedere, sono vocaboli perfetti, nella mia storia, per descrivere le vittime.
Ho letto, spesso, che nei gialli le vittime non sono importanti. Sono un pretesto. Io non volevo che queste lo fossero, per niente. Se qualcuno ha tagliato a pezzi la libertà, per quanto a volte eccessiva e inopportuna, non può essere una cosa da poco.

signora libertà signorina fantasia
così preziosa come il vino così gratis come la tristezza
con la tua nuvola di dubbi e di bellezza.
Smisurata preghiera è l'ultima canzone dell'ultimo album di De André (per motivi anagrafici il primo che ho ascoltato), Anime Salve scritto con Ivano Fossati e pubblicato nel 1996.
La definizione "testamento spirituale" è spesso abusata, ma in questo caso è davvero difficile pensare altrimenti. Come è stato detto ieri sera alla conferenza, tutta l'opera di De André è a suo modo una preghiera e il primo e l'ultimo disco hanno al loro interno una canzone che lo è dichiaratamente. Preghiera di gennaio e Smisurata preghiera.
Da una certa data in poi, tutti i dischi di De André sono dei concept album. Questo è dedicato alla solitudine, in tutte le sue forme, sempre raccontata con occhio partecipe e non giudicante. Ogni canzone racconta una particolare solitudine o un'anima solitaria, in quanto controcorrente rispetto alla massa. Smisurata preghiera, poi, le racchiude tutte e tutte le affida alla pietà, oltre che di Qualcuno di più alto, del cuore degli altri uomini.
È ispirata alle poesie di Alvaro Mutis e mostra con una forza che, al primo ascolto, quando avevo, credo, diciassette anni, mi colpì come una fucilata, da una parte la "maggioranza", perbenista e superiore. Dall'altra "chi viaggia in direzione ostinata e contraria, con il suo marchio speciale di speciale disperazione". È una di quelle cose, che, incontrate all'età giusta, chiedono una scelta di campo. Non sono e non sarò mai una rivoluzionaria. Mi piace la comodità e trovo anche una giustificazione nell'ordine costituito. Ma nel fondo della mia anima, nel mio modo di guardare il mondo, da che ho ascoltato questa canzone ho deciso che non sarei mai potuta essere "alta sui nufragi" a guardare il mondo "dal belvedere delle torri". Preferisco chi viaggia in direzione ostinata e contraria, sperando anch'io di portare alla morte una goccia di splendore. 
Di servi disobbedienti alle leggi del branco ce ne sono sempre in quello che scrivo.
Sono fuori dal branco i miei protagonisti, una per scelta, per libertà di pensiero, l'altro perché per cause di forza maggiore si è trovato fuori dal branco. Sono disobbedienti alle leggi sicuramente le vittime, ma anche tanti dei personaggi di contorno. Non so se li ho raccontati bene. Di certo li ho raccontati con affetto, cercando di non giudicarli, anche e sopratutto quando non sono perfetti.

Queste due canzoni, più di qualsiasi altra, sono la colonna sonora di ciò che ho scritto. Se ne avete voglia, seguendo i link potete ascoltarle e dirmi cosa ne pensate.
Potete anche raccontarmi qual è la colonna sonora ideale di ciò che state scrivendo. Non necessariamente ciò che ascoltano i vostri protagonisti, ma la colonna sonora che rappresenta concettualmente la vostra opera.
Oppure potete raccontarmi qual è, secondo voi, la colonna sonora di ciò che state leggendo.

mercoledì 20 gennaio 2016

A cosa serve la letteratura?


Questa era la domanda sottintesa al post su Fahrenheit 451
La domanda principe, secondo me, di chiunque voglia scrivere narrativa o poesia o, perché no, insegnare letteratura, così importante che ho rinunciato persino alla foto col fiore. Avevo già tentato di affrontare il tema qui, ma oggi ho deciso di prendere la questione di petto.

A COSA DIAVOLO SERVE LA LETTERATURA?

Questa cosa che non si mangia, che non ha una spendibilità immediata, che non ci insegna niente di pratico, che costa fatica, attenzione e tempo a cosa diavolo serve?

E, per favore, niente assurdità teoriche, niente vaghi "arricchimenti personali", "aperture mentali" o, peggio ombelicali desideri d'evasione. Siamo gente pratica, oggi, vogliamo risposte spendibili.
Se leggi perché ti piace puoi dedicarti ad altri hobby. 
Se ti diverte immergerti in una storia, in un mondo altro, puoi andare al cinema, ha un indotto più grande, giovi di più all'economia.

PERCHÉ MAI DOVREMMO PERDERE TEMPO CON LA LETTERATURA?

– PER TOCCARE CON MANO LA NOSTRA COMUNE UMANITÀ
Non importa da dove venga un'opera letteraria nel tempo e nello spazio. Basta tradurla nella nostra lingua e la capiremo.
Ci saranno, ovviamente, dei riferimenti culturali oscuri, ma ancora oggi, a millenni di distanza, possiamo sentire la vergogna di Ettore che "ha troppa vergogna dei troiani e delle troiane dal lungo peplo se si ritirasse dalla lotta".
Possiamo capire l'ansia di un nativo americano che invoca una buona caccia per sfamare i suoi figli.
Ci ritroviamo nelle strutture delle fiabe russe.
Ci possiamo commuovere leggendo un salmo dell'Antico Testamento come un haiku giapponese.
Non importa quanto lontano sia un popolo nel tempo e nello spazio, nella sua letteratura ci ritroviamo. Siamo sempre noi. Possiamo capire la follia di Medea come il senso del dovere del paladino Orlando che con le ultime forze spezza la propria spada perché non cada nelle mani del nemico. Abbiamo in comune la stessa umanità, lo stesso sentire.
Chi ha scritto le parole che stiamo leggendo è nostro fratello, è accanto a noi in quel momento, anche se è morto mille anni fa dall'altro capo del mondo.

– È ANCORA IL MEZZO PIÙ EFFICACE DI TELEPATIA, PER TRASMETTERE PENSIERI A DISTANZA
Una canzone, un film trasmettono emozioni.
Un documentario o un libretto di istruzioni trasmettono informazioni.
La scrittura trasmette il pensiero. È a tutti gli effetti telepatia.
Proviamo?

Sono le 15.40, sono seduta sulla mia poltrona preferita. Il sole filtra dalla finestra e noto che sul pavimento di granito che ho lavato subito dopo pranzo ci sono già delle impronte. Le hanno lasciate i gatti, ma anch'io, quando sono uscita sul balcone a stendere. Probabilmente la suola della mia scarpa si è inumidita e ne è rimasto il segno. L'irritazione mi prende dallo stomaco e mi sale su fino alla gola. Di alzarmi e ri lavare non se ne parla. Tecnicamente, il pavimento è pulito e anche disinfettato. E poi senza questo sole diretto non si vedrebbe niente. Ma non è un lavoro ben fatto. Per niente.

Voi siete nelle vostre case, non sono le 15.40, non potete vedere il mio pavimento. Ma scommetto che l'ho trasmesso alla vostra mente. Ed è arrivata anche la sensazione di irritazione che sto provando io adesso. Forse vi riconoscerete in essa, perché anche voi l'avete provata. Forse provate sollievo perché siete più precisi di me, il vostro pavimento è ben pulito, il vostro è un lavoro ben fatto e ne siete gratificati.
Nessun altro mezzo se non la letteratura ha questa precisione nel trasmettere il pensiero. Oltre tutto rapporti logici di causa -effetto e emotività possono essere dosati come più vi piace e convivere pacificamente. La musica strumentale (quella non strumentale è già letteratura) trasmette invece solo la parte emotiva, un'istruzione solo quella logica.

 FORNISCE EDUCAZIONE EMOTIVA
Abbiamo già dimostrato come la letteratura sia trasmissione del pensiero in grado di annullare ogni distanza in fatto di spazio e di tempo. Autore e lettore si incontrano nel testo da fratelli, fianco a fianco, anche se l'autore è morto da millenni. 
Quando leggiamo proviamo delle "emozioni indotte". Accade anche con altre espressioni artistiche, ma con due differenze:
– l'emozione ci arriva mediata da un personaggio (spesso l'autore stesso) che la prova a sua volta. Possiamo vederne in atto gli effetti sul suo modo di agire
– I tempi propri della lettura ci permettono di metabolizzare quell'emozione. Raramente un romanzo lo si legge in una sera. Spesso in più sere, abbiamo il tempo di metabolizzare, ragionare sulle emozioni mentre esse ancora agiscono sulla scena. Ipotizziamo le reazioni che quel personaggio avrà a quelle emozioni e cosa questo comporterà a lui e a chi gli è accanto. Potremo poi verificare le nostre ipotesi.
In altre parole, ci abituiamo a provare emozioni. Sapremo di non essere soli ad amare o a soffrire o a fare idiozie. Vedremo come se la cavano i personaggi. Quando noi ci troveremo in determinate situazione saremo un pochino meno spiazzati. Solo un pochino, ovviamente.
Io da prof vivo ogni giorno i drammi di una generazione con pochissima educazione sentimentale. Gli effetti più eclatanti arrivano alle cronache dei giornali. Ragazzini che tentano il suicidio per il bullismo, convinti di essere gli unici al mondo a trovarsi in quella situazione insostenibile. Senza arrivare a questi estremi, ci sono ragazzini che fino al decesso di un parente non sapevano, di fatto, che la morte esistesse e il lutto ha effetti devastanti su di loro, perché che nessuno mai li aveva preparati ad affrontarlo. 
Proprio ieri una ragazzina mi ha scritto in un lavoro "la lettura di Harry Potter mi ha fatto rendere conto che la morte esiste e che agli amici veri bisogna dire la verità". Magari a un adulto può sembrare banale, ma io invece penso che quella ragazzina sia un po' più pronta di altri suoi coetanei ad affrontare il mondo, un po' più allenata alle emozioni che comunque dovrà affrontare.

– CI PERMETTE DI RICONOSCERCI E DIVENTARE UN PO' PIÙ NOI STESSI
Credo di aver già raccontato la mia più forte "epifania" dovuta a un libro.
Un libro, si badi bene, di consumo, senza alcuna velleità.
La protagonista trentenne si scopriva ingabbiata nel matrimonio con un uomo che a ben vedere non era cattivo, ma non sapeva vedere esigenze di lei e frustrava le sue aspirazioni. Ho visto in quell'uomo il mio fidanzato di allora, con cui negavo la crisi perché "è un bravo ragazzo e mi ama". Vero, verissimo, ma non volevo trovarmi poi frustrata a fargli da balia. Ho visto come sarei stata cinque o dieci anni dopo e ho pensato che no, non mi andava bene. Gli ho spezzato il cuore, suppongo, ma il caso ha voluto che pochi mesi dopo abbia incontrato il Nik.
Quel libro, lo dico senza esagerazioni, mi ha salvato la vita (e pensare che me l'aveva prestato un amico di lui!). Mi ha permesso di riconoscermi e di diventare più consapevole, più me stessa.
Non mi sembra una cosa da poco!

Ogni volta che noi ci riconosciamo in un personaggio o in un'emozione impariamo qualcosa di più su noi stessi.
Troppo spesso la nostra anima è un territorio sconosciuto e spaventoso.
Quante vuole diciamo "quella reazione non è stata da me!" oppure "non mi aspettavo di reagire così!".
A volte la separazione tra ciò che siamo e ciò che pensiamo di essere è così netta da entrare in conflitto, cosa che è ottima per psicologi e psichiatri, un po' meno per noi.
Non dico che delle buone letture rendano inutile la psichiatria, tutt'altro, ma le buone letture ci permettono di conoscerci meglio.
Ci fanno rendere conto, magari di quando rischiamo di finire come quel personaggio (magari come la signora Bovary) e riusciamo a fermarci prima e a chiedere aiuto. 
Spesso leggere ci rende più consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo.
E, di nuovo, non mi sembra una cosa da poco.

A COSA SERVE LA LETTURATURA?
A trasmettere con precisione un pensiero, sia nella sua componente logica sia in quella emotiva, oltre alle barriere spazio temporali.
A farci riconoscere gli uomini come fratelli, uniti da uno stesso sentire.
Ad educarci all'emotività e all'affettività.
A conoscere noi stesse e a renderci più consapevoli.

Queste sono le mie risposte.
Le vostre quali sono?
Mi raccomando, risposte pratiche, legate a un'utilità concreta!

lunedì 18 gennaio 2016

Piovono Libri – Fahrenheit 451


Il libro in lettura questo mese al gruppo di lettura era il celeberrimo Fahrenheit 451, che ha dato origine a una discussione particolarmente interessante (nonché lunghissima, con ritorno a casa alle due di notte, orari che non mi si confanno più, infatti poi mi sono trascinata con la febbriciattola per tutto il fine settimana...).

Ma andiamo con ordine.


Fahrenheit 451 è un reportage sullo stato della società attuale un libro distropico scritto nel 1953.
Nella nostra in tale società i libri sono usciti dall'uso comune senza troppi drammi e, ad ogni buon conto, sono stati anche proibiti. Un apposito corpo di vigili del fuoco è preposto alla distruzione dei libri proibiti. I vigili del fuoco sono anche dotati di un drone "segugio" biomeccanico per l'eliminazione di individui recidivi o particolarmente molesti.
L'attuale questo stato di cose ha portato a una totale mancanza di educazione emotiva. Le persone non sanno più decodificare le proprie emozioni né elaborarle, con inevitabile picco di suicidi. Vivono storditi dai reality e dai social da immersivi programmi televisivi che creano delle relazioni fittizie. Sono inoltre poco in grado di capire l'attualità in cui viviamo vivono, al punto di votare un presidente per l'aspetto e di non essere consapevoli di un'imminente guerra. Inoltre "la realtà" è costantemente mostrata, dando l'impressione di essere perennemente connessi di averne un contatto diretto, quando invece si presta a facili manipolazioni.
Nel nostro  in questo contesto si inserisce la personale rivolta di Montag, vigile del fuoco che ha iniziato a occultare dei volumi.

La più macroscopica evidenza di questo romanzo è che sembra parlare dell'oggi. Quasi tutto il gruppo lo aveva già letto e, come ha fatto notare una lettrice, ogni volta che lo si prende in mano si "riconoscono" delle nuove cose. Io lo avevo letto nel 1999 e tutta la parte dell'inseguimento del segugio con stravolgimento finale da parte dei media mi era sembrata solo una parte d'azione in un libro di fantascienza. Oggi tutti abbiamo associato il segugio ai droni e trovato credibilissimo quello che accade (l'uccisione di un poveretto che passava lì per caso raccontata nei tg come quella del ricercato). Più andiamo avanti e più la società assomiglia a quella descritta nel 1953 da Bradbury.

Fa paura inoltre la descrizione di come i libri siano scomparsi. Non per imposizione, ma perché la gente "non aveva più tempo". Si accontentava di riassunti e poi di riassunti di riassunti. In una società in perenne corsa contro il tempo e dell'immediatezza, il libro, con i suoi tempi lenti e lo sforzo intellettivo, è di per se stesso un nemico.

Gli effetti devastanti che già oggi vediamo in atto sono proprio quelli da lui descritti. I libri allenano l'emotività. Rendono più consapevoli delle proprie emozioni, più pronti ad affrontarle. Quanti di noi sono come la moglie di Montag (un personaggio che mi messo una tristezza infinita), apparentemente felice, tutta concentrata su un ristretto gruppo di amiche e sulla "famiglia" televisiva, ma che la notte tenta il suicidio per un dolore poi subito negato e nascosto.
Quanti di noi sono come le amiche di lei, che votano in base all'estetica, poco preoccupate di una guerra in cui "muoiono solo i mariti delle altre".
Per quanti di noi la mancanza di una sofferenza fisica, il vivere in società sempre più levigata, in cui il diverso e il dissonante viene rimosso e nascosto alla vista, dà un benessere fasullo che non prepara al momento in cui il dolore, nonostante tutto ci raggiunge.

Tutti quanti noi siamo stati colpiti dalla figura di Beatty, il capo di Montag. Un uomo ai limiti della follia, che parla solo per citazioni letterarie (i nostri lettori più acuti hanno riconosciuto le fonti principalmente nella letteratura inglese di XVI e XVII secolo) che porta Montag al punto di rottura e poi poi si mette nelle condizioni di essere ucciso. Una di noi ha recuperato un'intervista all'autore, in cui Bradbury raccontava il passato di Beatty. Un uomo cresciuto in una famiglia di lettori che, a seguito di una serie di lutti, pensava di trovare nei libri le risposte. Ma i libri "sono tutti scritti da gente morta", non hanno salvato i loro autori e non danno risposte, sono inventate. Beatty è un deluso che diventa disperato, un distruttore che ha cercato una consolazioni impossibile, credendo, forse, che i libri potessero sostituire le persone.
Questo è un aspetto che ho molto amato. I libri non sono sacri in sé. Non hanno tutte le risposte. Sono indispensabili per "non parlare delle cose, ma del significato delle cose". 
I libri non ci rendono colti o migliori.
Ci rendono un po' più noi stessi. Un po' più consapevoli.
Hanno un'utilità pratica che non va idealizzata.
Gli uomini libro che Montag incontra alla fine non sono idealisti  fuori dal mondo. Sono persone pratiche, consapevoli che presto il paese cadrà nel caos della guerra e che allora, per la ricostruzione, ci sarà bisogno di loro.

Infine, lo stile, che non ricordavo quasi per nulla, è stato folgorante.
Tanti flash allucinati, che danno sensazioni immediate, ma rendono difficile, a volte, la visione d'insieme. Immagino che siano il riflesso dello stato mentale di Montag, insonne, disperato, arrivato al punto di rottura. Uno scrittura quasi psichedelica (temine assolutamente inadeguato, ma che rende l'idea).
Uno stile che non tutti hanno trovato di facilissima lettura, tanto che non a tutti il libro è piaciuto. A me ha colpito moltissimo, anche perché mi sono resa conto che faticherei a replicarlo anche come semplice esercizio. Una prosa straniante, che però ha una sua estetica netta e dipinge un mondo  asettico, in cui ognuno vive solo il proprio inferno.

Io avevo letto questo romanzo nel 1999, il primo romanzo acquistato al termine dell'esame di maturità. All'epoca mi era piaciuto, ma non alla follia. Forse, come dice la lettrice, alcune cose non le avevo ancora riconosciute. Forse all'epoca, fresca di maturità classica, vivevo in una piccola bolla elitaria dove il problema della non lettura non esisteva, in effetti non frequentavo nessuno che non leggesse o non si interessasse al mondo.
Oggi ritengo che sia uno dei libri che vada letto. Per vedere il riflesso della nostra realtà. Per capire quanto ancora possiamo peggiorare e dove andremo (inconsapevoli alla guerra, temo). 

Un libro da leggere, senza se e senza ma, per non parlare delle cose, ma del significato delle cose.

Qualcun altro l'ha letto? Cose ne pensa, del romanzo o dei suoi temi?

venerdì 15 gennaio 2016

Lo scrittore ruminante – scribacchiando


In uno dei commenti al post sulle storie che verranno, Michele si è definito scrittore ruminante.

Definizione perfetta per come mi sento io adesso.
Non sto rivedendo il romanzo, ormai lo sto ruminando.
Lo sto masticando e rimasticando per trasformare le idee grezze in qualcosa di assai più ragionato e fruibile (digeribile?).
Rumino, cercando di essere placida e riflessiva come una mucca scozzese, anziché scalpitare come un torello, impaziente di avere un'opera finita e passare ad altro.

In passato sono arrivata molto vicina a pubblicare con due romanzi con grossi editori. Entrambe le storie erano state ruminate ben poco. Stesura revisione e via. Mi chiedo, adesso, se non si meritassero quel "quasi". Con questo romanzo, la cui importanza per me è infinitamente maggiore rispetto ai precedenti, non voglio il rimpianto di non averci lavorato abbastanza. Se deve essere un no, che mi arrivi almeno con la coscienza a posto. Con la consapevolezza che ho fatto, a livello di scrittura, tutto il possibile.

Terminato a settembre, il romanzo è stato inviato in lettura valutativa a ottobre. È tornato a casa con delle indicazioni operative prima di Natale. Ho fatto delle modifiche e adesso sto revisionando di nuovo il tutto. La revisione della revisione. Cos'è questo, se non ruminare?

Per quanto riguarda le modifiche ho, in sostanza:
– Inserito un elemento di background di uno dei personaggi principali.
– Ho mostrato degli eventi che accadevano in origine fuori scena, rendendo più evidente il loro scopo di motore per una serie di scelte personali da parte di almeno due dei tre personaggi principali.
– Ho compattato la vicenda a livello temporale, accorciando la sua durata di una giornata.
– Ho tagliato qua e là per arrivare a un ritmo più serrato (per modo di dire, la storia lenta era e lenta resta, diciamo che stiamo passando da lumaca a tartaruga) e evitare ogni ripetizione.

Ovviamente ognuna di queste modifiche porta con sé "l'effetto farfalla" quello per cui una riga modificata al cap.1 ti porta a riscrivere totalmente il cap. 45. Quindi sto rileggendo tutto di nuovo, per uniformare al nuovo ritmo, per cercare tutte le minute incongruenze. Per levigare e lisciare la mia opera, perché diventi il meglio possibile che io possa fare.

Ho scoperto che non è poi così male, quest'attitudine ruminante. Ci sarà un motivo, del resto, perché le mucche lasciate in pace a rimasticare in mezzo a un prato hanno un aspetto così beato.
In parte questa beatitudine non è del tutto sana. Perché rimanda il momento del distacco nei confronti dell'opera e del giudizio. Ci si può cullare un attimo di più in quel momento in cui sì, "è proprio un bel lavoro" (sia chiaro, un attimo dopo l'invio mi sembrerà pessimo e indegno).
Però porta a una confidenza maggiore con il proprio testo e, quindi, con tutto ciò che consapevolmente o no ci si è messo dentro.

Ieri ho scoperto, ad esempio, una cosa a cui non avevo assolutamente pensato. 
Ho inserito una scena che nella prima stesura non c'era, ambientata in un poligono di tiro. Ho dovuto farmi una cultura in fatto di poligoni e armi e spero che ciò sia ripagato da una serie di considerazioni un po' più sensate su un personaggio. Ne è uscito fuori senza che io lo volessi o lo avessi preventivato, un giallo in cui le armi da fuoco non sono mai strumento di morte. Ci sono, sparano, ma  in tutta la vicenda (che conta alla fine 16 morti, 3 feriti gravi e un ferito lieve) le armi non uccidono mai. C'è un'arma, in particolare, che ha una sua storia particolare e che è sempre connessa, se stiamo ben a vedere, a valori positivi di libertà e salvezza.
Com'è possibile che io, una pacifista convinta, abbia scritto una cosa del genere?
Ebbene, credo che sia molto mia la considerazione che il male non ha bisogno di armi particolari per compiersi. 
E che un oggetto può essere più o meno pericoloso, ma è pur sempre uno strumento di per sé neutro.
Lungi da me qualsiasi discorso di liberalizzazione, ma è un fatto che io tenga come fermacarte due riproduzioni di rivoltelle storiche ereditate da mio nonno e che io sia affascinata dalla loro oggettiva bellezza. Si tratta di oggetti ben fatti, premendo il grilletto si mette in moto tutto il meccanismo che porterebbe allo sparo ed è inevitabile che finiscano in mano a qualsiasi curioso giunga a casa mia. Perché no, non credo, suppongo, che siano di per sé un male. Non credo che se uno gioca alla guerra poi diventi violento. Credo che la violenza, quella vera, sia sempre una scelta. 
E quindi sì, sono e rimango una pacifista. No, non voglio che le armi siano liberalizzate, perché sono pericolose. Ma non credo siano un male in sé.
Tutto questo ragionamento è nato rimasticando la mia storia. Rendendomi conto che anche un particolare narrativo non pianificato (presenza di armi da fuoco che, però, non uccidono) aveva dentro qualcosa di profondamente mio.

Di altre cose, invece, mi sono assunta con più sicurezza le responsabilità.
No, non è una storia disimpegnata, questa.
No, non è altro, rispetto alla realtà.
Questo impone l'affrontare di petto alcuni temi e accettare che questa scelta possa avere un peso in fase di valutazione editoriale.
Non è un giallo da ombrellone, ha una sua dimensione sociale e politica (intesa in senso lato), che non ha senso rinnegare, ma che ovviamene mi negherà accesso a tutta una serie di collane dedite al giallo disimpegnato (quando si dice andarsela a cercare...).

Questa è la mia esperienza di scrittrice ruminante. Voi vi siete mai sentiti tali? Qual è la vostra esperienza di rimasticatori di storie?


mercoledì 13 gennaio 2016

Sherlock , l'abominevole sposa – Visioni


Con un certo sforzo di volontà, ho atteso ieri sera per vedere al cinema Sherlock, l'abominevole sposa, episodio speciale della serie Sherlock BBC.

Mi è piaciuto un sacco!

Sherlock riscrive se stesso mentre riscrive Doyle senza cadere nello sterile gioco intellettuale, ma portando anche avanti la storia principale.

Purtroppo è stato impossibile arrivare al cinema senza aver ricevuto lo SPOILER principale: l'episodio è stato presentato come autoconclusivo e ambientato nel 1895, mentre è a tutti gli effetti un tassello non secondario della trama principale. Più Inception che narrazione storica. Questo se non altro mi ha evitato di trascinare come me al cinema persone digiune perché "ma sì, è autoconclusivo, vedrai che ti piace", però mi chiedo tutt'ora che effetto mi avrebbe fatto se non l'avessi saputo.

Invece, dicevamo, Sherlock riscrive se stesso, riscrivendo Doyle mentre cerca due risposte: può Moriarty essere sopravvissuto dopo essersi sparato in bocca? Ha senso ancora andare avanti?

L'episodio parte come se fosse una vera riscrittura, con tanto di sigla retrodatata all'ottocento. Un impatto visivo strabiliante. Cumberbatch è perfetto come Holmes classico quasi più che come Sherlock. Col giusto abito e la giusta pettinatura è una versione appena più giovane di Brett, assolutamente a suo agio in ambito vittoriano. Meno a suo agio mi è parso Freeman che nell'interazione in ambiente ottocentesco perde qualcosa e a volte sembra difettare di carisma, cosa che non avviene mai nella versione contemporanea. Questo non è un fattore meramente ambientale, gli attori modificano, anche solo leggermente, la loro gestualità e la loro recitazione per creare dei personaggi che siano allo stesso tempo riconoscibili e altri.
Immersi nel mondo vittoriano, il gioco metaletterario con Doyle è ancora più stretto. Si criticano con bonario affetto le sue ingenuità e i suoi cliché, mentre si dipingono i tratti di un caso inedito, ma dalle atmosfere davvero simili a quelle di certi passaggi del canone.

Via via che i minuti scorrono, però, emergono delle dissonanze, prima narrative, poi anche visive che segnalano che se il caso è reale ed è reale la determinazione di Sherlock a risolverlo, questo non si sta svolgendo che nella sua mente. Abbiamo quindi la visione di Sherlock su se stesso, non su come vorrebbe essere, ma su come vede se stesso.
Qui sta la maggiore abilità della scrittura dell'episodio, la caratteristica che ho maggiormente apprezzato. Uno Sherlock che racconta se stesso senza svelarsi, senza distruggere il fascino del personaggio, ma mettendone il luce le fragilità. 
Ecco il fratello mastodontico, immancabile pilastro della sua vita, ma enorme, pesante, in senso certo sia fisico che metaforico. Sherlock vede Mycroft come enorme, amovibile e fisicamente opprimente, pur sapendone decriptare perfettamente anche il lato più protettivo e, a suo modo, affettuoso.
Ecco il dubbio costante sulla propria intelligenza, sul proprio valore. Sherlock vede se stesso come un drogato sociopatico e pensa nel profondo che Watson menta per fini letterari e che l'eroe non esista al di fuori dei racconti dell'amico, che lui non sia così brillante e degno di ammirazione.
Ecco i sensi di colpa nei confronti delle donne della sua vita. Ignorate e sottovalutate, con Molly a capo dell'accusa. Curiosamente, Mary non fa parte di quel gruppo, Mary sta con lui e Watson e per tutto l'episodio traspare il profondo rispetto di Sherlock per Mary, forse pure idealizzata come complice e confidente perfetta per Mycroft.
Ecco Moriarty, l'ossessione di Sherlock. È lui che viene definito il granello nell'ingranaggio, è l'ossessione il pericolo che Sherlock corre, il sentimento che può farlo deragliare. Un rapporto che viene racconto sempre più morboso e ambiguo e che può trascinare nell'abisso anche solo col ricordo.
Infine Watson, che trasforma Sherlock in un eroe di cui Sherlock stesso non si sente degno. Che lo costringe a confrontarsi con la propria umanità. Che è deluso da lui, al punto di lasciarlo solo (cosa che invece Mycroft non fa), ma che alla fine torna a salvarlo, permettendo a Sherlock di tornare davvero.
Ho apprezzato davvero tanto tutto il lavoro di scrittura che non ha paura di affrontare di petto il tema dell'ossessione e quello della droga (togliendomi definitivamente il sogno di vedere Sherlock in prima serata e ben promosso sulla tv italiana). 
Infine, la mia paura principale, al termine della terza stagione, era un Moriarty redivivo con un ulteriore salto carpiato narrativo. Come per la sposa, un colpo alla testa è per sempre, il che non vuol dire che non ci siano altri modi per tornare in vita...

C'è una finezza e c'è una cura in questo speciale, in tutti comparti che è davvero difficile non amarlo. L'autoreferenzialità, narrativa e visiva, è innegabile, ma è innegabile che si tratti di un guardare indietro per andare avanti, verso una storia che prosegue. Non c'è un particolare, una battuta o uno sguardo che sia fuori posto.
Forse, dopo cinque anni, è svanito l'effetto novità e l'asticella delle aspettative si è alzata talmente tanto che è difficile che nulla ci deluda. Eppure fatico a pensare a un prodotto televisivo che mantenga un livello qualitativo così alto in tutti i comparti. Visto al cinema se ne apprezzano ancora di più le qualità visive e registiche, il saper colpire pur mantenendosi sempre funzionali alla narrazione.

L'unica cosa che proprio non regge e che al cinema è reso ancora più evidente dalla presenza di (gradevoli) speciali sottotilati è il doppiaggio. In quanto non anglofona io di solito non mi scaglio a priori contro il doppiaggio, ma qui c'è proprio un problema di fondo.
Il doppiatore italiano di Sherlock (che è indubbio bravissimo) dà al personaggio una nota di isteria che in originale non c'è, c'è piuttosto pericolosità controllata.
L'effetto è che visto in italiano si ha l'impressione che Sherlock, se perde il controllo, possa iniziare a spaccare tutto per la rabbia (tipo Kylo Ren con la spada laser). Nell'originale si ha piuttosto l'impressione che possa estrarre la pistola e sparare in testa a chi l'ha scocciato (che poi è ciò che accade alla fine della terza serie). E non è esattamente la stessa cosa.

BONUS FOLLE PER SUPER NERD – DIALOGO ALTERNATIVO

– Tu sei morto!
– No.
– Ho visto la tua testa esplodere!
– Evidentemente no.
–... In effetti mi è giunta voce che, a seguito dei danni celebrali, tu abbia dovuto lavorare sotto padrone per un allevatore di gatti persiani psicotico con un'ossessione morbosa per uno dei sottoposti di mio fratello. Un tipo senza gusto che per torturare le persone ha bisogno di trapanare loro la testa...
– Ehm... Ok. Sono morto.
– Meglio.

martedì 12 gennaio 2016

Le storie che verranno...


Così come non sono stata in grado di stilare un bilancio del 2015, non so fare dei propositi, buoni o meno, per il 2016.
Ci sono molte cose che mi attendono e che mi provocano aspettativa e timore. È imminente il concorso per l'entrata in ruolo, sto terminando un romanzo che in qualche modo vorrei incontrasse i suoi lettori, ci sono altre cose ancor anche più importanti che mi attendono al varco. C'è la voglia e la paura di incontrarmi in un anno che è partito con più dolcezza rispetto al 2015, ma ho paura sappia anche tirar fuori gli artigli.
In questa tempesta di possibilità contrapposte, le storie sono un rifugio in cui rifarsi quando tutto il mondo preme con troppa forza. Al di là di quello che effettivamente scriverò e pubblicherò, le storie sono un angolo di quiete nella mia mente, uno spazio solo mio, da cui tutto il resto è escluso.
Inoltre sto concludendo un progetto, quello del romanzo, che è mi ha accompagnato (e mi accompagnerà ancora per qualche mese) per due anni. Se da un lato c'è un senso quasi di vuoto, dall'altro c'è tutto un universo di possibilità da esplorare.

Quindi quella che segue non è una lista delle cose che scriverò o di cui voglio scrivere, ma delle storie in cui voglio inoltrarmi. Alcune magari daranno origine a qualcosa di tangibile, altre rimarranno magari solo percorsi mentali apparentemente sterili. Sono comunque percorsi che voglio esplorare.

SHERLOCK HOLMES
Il 221b di Baker Street è il mio porto sicuro. Quando proprio sono stressata scappo lì, chiudo la porta, Holmes si mette a suonare il violino e la signora Hudson mette su il the e prepara i biscotti, mentre Watson mi allunga i suoi appunti, perché li possa sbirciare.  Per questo appena finita la revisione del romanzo, indicativamente a fine mese, scapperò di nuovo nella Londra degli anni '80 del XIX secolo. Due sono le storie che ho in mente, anche se a un grado di pre produzione diversa:
– Una storia basata su vere ricerche scientifiche di quegli anni, con una vena quasi horror 
– Una storia in cui Holmes tiri di scherma. Viene detto che è bravo con la scherma, ma l'unica storia che abbia sfruttato questo particolare è, che io sappia, Piramide di paura, il film degli anni '80. Quindi vorrei un Holmes piuttosto giovane che tiri di scherma. Magari un torneo?

GIALLI
Vedo la possibilità di iniziare una nuova storia lunga quest'estate. L'idea è di usare gli stessi personaggi del romanzo che sto sistemando. Ho due idee molto diverse e non so quale prevarrà
– Una storia dai toni molto più leggeri, quasi da commedia sofisticata, rispetto a quelli del romanzo attuale, ambientata in un alpeggio ossolano durante un raduno Rainbow 
– Una storia inevitabilmente più cupa legata alle tradizioni cannibalesche europee. Lo so, suona strano, ma in Europa ci sono tradizione cannibalesche (mi sto documentando ora...)

FANTASTICO
Non escludo un raccontino fantasy o comunque dai toni fantastici, ma c'è un'idea che mi frulla in testa da mesi e che, spero, prima o poi scriverò:
– Una storia fantascientifica ambientata in un futuro lontano, legata però al personaggio di Dante

STORICO
– Mi sono imbattuta in una storia femminile molto bella ambientata nella tarda rivoluzione francese. Ho già provato a scriverla, ma con risultati che non mi hanno soddisfatto. Però è veramente una bella storia, che nessuno ha raccontato in modo degno, quindi mi piacerebbe rimetterci mano.
– Non mi spiacerebbe scrivere un racconto che sia seguito ideale di Come foglie nel vento e quindi ambientato nella Roma tardo repubblicana. Ho già anche due mezze idee, ma entrambe necessiterebbero di un certo lavoro di documentazione, cosa che mi ha fatto, per il momento procrastinare.

Bene, adesso, rispetto ad altri momenti della mia vita, ho poche idee, ma confido di averne abbastanza per non restare disoccupata nel corso del 2016, anche perché le folgorazioni, i sogni e i doni narrativi dal cielo sono sempre ben accetti...

Quali sono le storie che verranno o che vorreste esplorare nel corso del 2016? 

venerdì 8 gennaio 2016

Le ragazze – racconto

     Mia nonna le chiamava “le ragazze”, anche se avevano qualche anno più di lei, perché non si erano mai sposate. Le andava a trovare una volta alla settimana perché non avevano alcun parente stretto; oltre a lei, cugina di quinto o sesto grado, c’era solo un lontano nipote che attendeva che morissero per succhiare l’eredità come il midollo da un osso.
Abitavano, si sarebbe detto da sempre, in un appartamento signorile in un palazzo del centro, pieno di un odore di legno, cera e polvere, quasi quello dell’eternità. 
Una volta che ero lì insieme a mia nonna, tuttavia, mi furono date delle vecchie foto, per intrattenermi, e scoprii che anche loro erano state giovani.

      La Corinna era stata la più bella del paese. Unica figlia di un padre precocemente vedovo era stata viziata con abiti alla moda e aveva ben presto conquistato il fidanzato più ambito. Ma era arrivata la guerra e lui era stato tra i primi a partire, il primo in assoluto di cui era arrivata la notizia che non sarebbe tornato. Anche il padre morì poco dopo e la Corinna si trovò sola, poco più che ventenne, bellissima, in un paese dov’erano rimasti solo le donne e i vecchi. 
Si mise a leggere libri spessi per, diceva, “capire il mondo”. Fumava sigarette e faceva discorsi strani, con parole complicate, sulla guerra, il re e il duce, ma era tempo di guerra e  tutti erano più indulgenti. Dopo l’otto settembre partì per l’Ossola, dove stavano i partigiani, perché non c’era più nessuno che avesse l’autorità per fermarla o farla ragionare. Anche mia nonna ogni tanto faceva avere dei messaggi che, si sapeva, erano per quelli che “stavano nei boschi” e nel negozio di suo zio, dove lavorava, c’era la porta sul retro, da cui ogni tanto un po’ di zucchero o del pane prendevano la via delle montagne. Stava attenta, però, che nessuno mai potesse dire che si fosse sola con quei ragazzi, che a fine guerra voleva sposarsi e sposarsi bene.

        Con la Liberazione la Corinna tornò a casa. A detta di tutti era tornata quella di sempre, di prima della guerra, come se quei discorsi e quella fuga verso la montagna non ci fossero mai stati. E poi tutti avevano solo voglia di dimenticare. Nessuno la vide più fumare, tornarono le gonne al ginocchio e i maglioncini fatti a mano. Il padre doveva averle lasciato qualcosa, oltre la casa, ma lei trovò un impiego come segretaria di un medico, perché, diceva, una donna sola doveva saper badare a se stessa.
Poco dopo la raggiunse la Lena, una cugina lontana, di fuori provincia. Era maestra, al primo incarico, capitata per caso nel paese e, dal momento che non conosceva nessuno, andò a vivere insieme alla Corinna. Erano quelli i giorni in cui si contavano gli assenti, tutti quelli che non sarebbero più tornati, e mia nonna fu felice di avere invece qualcuno in più da annoverare tra i parenti.
Considerata l’evidente sproporzione in quella generazione tra donne e uomini, la Corinna e la Lena sembravano adattarsi senza troppa sofferenza alla prospettiva di una vita da zittelle. La Corinna era sempre bella, ma divenne irreprensibile e distante, sconsigliando con un’occhiata ogni pensiero meno che rispettoso. La Lena si trovò bene nella scuola del paese e decise di fermarsi. Era meno appariscente della cugina, un poco rotondetta ai fianchi, il viso paesano, dal sorriso buono. Eppure fu lei, qualche anno dopo, ad avere uno spasimante, un professore della vicina scuola media. 
Lui la corteggiò con discrezione e per un certo tempo sembrò cosa fatta. La Corinna in quel periodo era spesso via, per stare vicina a certi altri parenti, i genitori del nipote che sarebbe poi stato il loro erede. 
Nessuno seppe con precisione cosa accadde dopo, ma il professore si fece sempre meno vedere all’uscita dalla scuola. La Lena tornò a girare sola in bicicletta per le vie del paese e la Corinna tornò da quei suoi viaggi con un cucciolo di barboncino, il primo dei molti cani che si succedettero nell’appartamento.

        Senza quasi farci caso, gli anni scorsero uno dopo l’altro. La bellezza algida della Corinna sfiorì pian piano, mentre il volto della Lena si disegnò di gentili rughe d’espressione. Rimasero per tutti “le ragazze”. 
Non dettero adito mai a un pettegolezzo o a una parola che non fosse rispettosa.Vestivano eleganti, ma mai appariscenti, si abbonavano alla stagione del teatro di prosa e al cineforum. Quando furono entrambe in pensione a volte in inverno andavano in riviera, per il clima.
Arrivate alla soglia degli ottant’anni vivevano senza che il mondo si accorgesse di loro, dimenticate nel loro appartamento ordinato, profumato di cera e di polvere.
Morirono a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, senza disturbare, com’erano vissute.
Il nipote si appropriò della vecchia casa come un paguro in una conchiglia vuota.
Ma a mia nonna, che era sempre stata loro amica, lasciarono una spilla di inizio novecento, di un’eleganza d’altri tempi.

     L’accompagnai, quando andò a prenderla, nella casa che il nipote stava svuotando con premura. Da uno degli scatoloni spuntavano alcune vecchie foto. Ce n’era una che in quel primo pomeriggio non mi era stata data in mano. Mostrava loro due ai tempi della guerra, giovani, vestite in camicia e in pantaloni. La Lena aveva il viso sorridente appoggiato alla spalla della Corinna, che le accarezzava i capelli. Ero una bambina allora e non capii. 
E non ebbi più occasioni, poi, per chiedere a mia nonna se la Lena fosse davvero cugina della Corinna, se avesse avuto mai il sospetto di aver sfiorato una grande storia d’amore.