mercoledì 27 maggio 2015

Riletture – Il club Dumas


Non paga di avere una rubrica, letture, che è tra le meno lette del blog ho deciso di aprirne un'altra che potenzialmente ne potrà avere anche meno! Riletture si occupa di quei libri che rileggo, che mi è venuta voglia di rileggere, che è obbligo rileggere.

Perché rileggo Il club Dumas
Perché nel post scorso parlavo della letteratura di genere e Il club Dumas è il paradigma di come dovrebbe essere un libro di genere. 
Perché per caso sono capitata su un articolo che ne parlava e l'autore aveva dato al finale un'interpretazione opposta alla mia. Ma è uno strano caso in cui non mi importa del destino del protagonista. Amo questo libro in ogni caso.
Vi ho incuriosito? Andiamo avanti, allora.

Il club Dumas in breve
È uno dei primi romanzi scritti da Arturo Pérez-Reverte, reporter di guerra e scrittore spagnolo. Si tratta di un autore che amo e che raramente mi delude, ma questo romanzo è senza dubbio il suo capolavoro.
Il protagonista, Lucas Corso è un solitario e disilluso cacciatore di libri rari. Si occupa di perizie ma anche di scovare libri introvabili dove meno uno se lo aspetterebbe (si occupa anche, se il caso, di imbrogliare il legittimo proprietario). Gli vengono affidati due incarichi: certificare l'autenticità di un capitolo manoscritto dei tre moschettieri e recuperare e confrontare le uniche tre copie esistenti di un libro che, pare, serva ad evocare il diavolo. Da quel momento nella sua vita iniziano ad apparire personaggi che sembrano essere usciti dai romanzi d'appendice ottocenteschi, un tizio che sembra il cattivo dei tre moschettieri, una donna che sembra Milady e una misteriosa ragazza che dice di chiamarsi (e ha documenti che attestano questo nome) Irene Adler.
Realtà e letteratura si fondono, ma l'unica certezza di Lucas Corso è che lui la vita la sta rischiando davvero. E forse anche l'anima.

Da questo libro è stato tratto un film che ci azzecca poco o niente e che per altro ammazza il senso del libro, ma per dovere di cronaca devo citarlo: La nona porta di Polaski. Uno strano caso in cui un regista che sa fare il suo mestiere + un attore che sa fare il suo mestiere + un soggetto fantastico = un film che non funziona per niente.

Il libro di genere sui libri di genere
Peréz-Reverte ha sempre dichiarato il suo amore incondizionato verso la lettura d'appendice ottocentesca, tanto che nell'edizione originale spagnola i libri della serie Capitan Alatriste si presentano in tutto e per tutto come romanzi d'avventura ottocenteschi (carta, formato, illustrazioni, sono MERAVIGLIOSI!!!).
Con Il club Dumas costruisce un thriller che gioca con la letteratura di genere ed è allo stesso tempo una riflessione non banale sul potere (non sempre salvifico) della lettura. Come ne Il pendolo di Foucault c'è chi è talmente immerso nella letteratura e nella finzione narrativa da scatenare nel mondo reale delle reazioni non controllabili. Nel romanzo spagnolo, però, realtà e letteratura si possono mescolare in modi diversi, con esisti differenti. C'è chi crea una propria realtà alternativa che supporta e aiuta quella di tutti i giorni, chi si fa prendere la mano fino a confondere finzione e realtà, chi rischia di scatenare forze fuori controllo. Infine l'amore dell'arte per l'arte, l'amore per l'oggetto libro in sé, può risultare salvifico ben oltre le aspettative.

Perché lo amo
Il questo libro ci sono già tutte le tematiche che poi l'autore svilupperà nei romanzi successivi, ma, curiosamente, gli è uscito al primo colpo un equilibrio ineguagliabile (considerate che io ho amato moltissimi altri romanzi di Pérez-Reverte e in particolare La regina del Sud, La pelle del tamburo, Territorio comanche e Capitan Alatriste).
Lucas Corso è un solitario, un sopravvissuto a guerre solo immaginate, disilluso nostalgico di un'epoca più pura che forse non è mai esistito, riesce a rapportarsi con gli altri solo attraverso i libri. Sono il suo mondo, il suo rifugio, ma anche il suo campo di battaglia.
In altre opere dell'autore torneranno personaggi simili, per certi versi meglio costruiti e giustificati, ma la malinconia senza motivo di Corso, il suo sognarsi (chissà poi perché) ultimo soldato napoleonico, la sua solitudine, il suo essere cinico e indifeso è un mix di fascino indiscutibile. Tutti ricordano questo romanzo per la trama, ma non ho mai trovato un lettore che non abbia amato e parteggiato per Lucas Corso.
La trama e i libri. Il club Dumas è uno di quei romanzi che ti racconta un sacco di cose senza fartele pesare e costringendoti a girare la pagina per scoprire come va a finire. Incisioni, incunaboli, libri rari, minuzie bibliografiche, tutto è descritto con estrema cura e ha il peso di una piuma. Il libro finisce, nulla è stato pesante e si ha una voglia matta di leggere tutti i libri che sono stati citati e che Corso ha amato. E di rileggere I tre moschettieri.
Un libro curato in ogni particolare e interattivo. Altro che La nave di Teseo. Nel romanzo si indaga insieme a Corso, analizzando le tavole dei volumi del libro per evocare il demonio, si cercano risposte insieme a lui nelle illustrazioni de I tre moschettieri. Non c'è nessun particolare fuori posto. 
Ho scelto come immagine la copertina dell'edizione in mio possesso. Era perfetta anche quella (molto più di quella della nuova edizione che, non saprei dire perché, ha la foto di una gargolla di Notre Dame...)

La frase che adoro
È l'ultima in assoluto
E ciascuno ha il diavolo che si merita.

Lo avete letto? Lo amate?
E quali libri state rileggendo/rileggereste?

lunedì 25 maggio 2015

Perché amo la letteratura di genere


Per essere una persona così abitudinaria (sono una di quelle che, andando nel solito bar a far colazione ordina "il solito" e va in panico quando viene cambiato il fornitore dei biscotti) sono una lettrice anarchica. Ci sono periodi in cui leggo tre romanzi alla settimana, altri, come questo faticoso fine anno scolastico, in cui i libri si accumulano in pile, ma non vengono aperti o quasi.
Ho libri ovunque. Ho bonificato giusto pochi giorni fa il bagno, riportando i volumi in sala, per rendere le mensole agli asciugamani che vi erano stati sfrattati.
Eppure la stragrande maggioranza dei miei romanzi sono di genere. C'è il giallo, il thriller, un po' meno il noir, c'è la fantascienza, con i vecchi, bellissimi volumi della serie oro della Nord (chissà perché, però, alcuni tomi di una stessa saga finivano nella serie argento...), c'è fantasy. Poco horror, poco rosa, molta avventura, molto storico, un po' di letteratura di viaggio. Persino quando leggo i classici, tendo a riconoscerli come libri di genere, tanto che fatico a concepire il "non di genere". Li vedo come indecisi, che non vogliono schierarsi.
Anche come autrice non posso vedermi svincolata da un genere. Scrivo prevalentemente giallo o fantastico, ma fatico di più a immaginarmi alle prese con "una storia non di genere" piuttosto che con un rosa.
Perché?

La letteratura di genere crea un patto forte con il lettore
C'è un accordo dichiarato tra autore e lettore.
Giallo? Ci sarà un crimine o un mistero da risolvere.
Fantasy? Ci saranno elementi fantastici.
Fantascienza? Qualcosa di futuribile.
E così via.
Il lettore ha delle aspettative che l'autore deve rispettare. Da un thriller pretendo che non sia noioso. Da un romanzo storico accetto un ritmo più disteso. In un rosa voglio la storia d'amore.
Come lettore posso entrare meno alla cieca nella storia. So se sono nella giusta disposizione d'animo. Non sempre si vuol piangere come non sempre si vuol ridere.
L'autore entro certi limiti mi dà quello che mi aspetto. In cambio può trascinarmi dove vuole. Non avrei mai letto Il nome della rosa se non me lo avessero presentato come un giallo. Di medioevo ed eresie in terza media non me ne importava niente. Poi è capitato che me ne sia innamorata e che abbia anche influito sulla mia scelta di frequentare il liceo classico. Ma senza la promessa di monaci morti Eco non mi avrebbe mai avuta.

La centralità della trama
Ok, sono una lettrice superficiale, forse. Però il "come andrà a finire" è ancora la molla che mi fa girare pagina.
Se devo scegliere un libro alla cieca, al 90% sceglierò un romanzo di genere perché so che avrà una trama. Magari non lineare, magari non immediata, ma l'avrà. Se prendo un libro d'avventura non leggerò, spero, duecento pagine per scoprire che è tutto il delirio di un morente in coma. Se compro un giallo confido che l'assassino non venga preso a pagina tre per dedicarne poi trecento al malinconico invecchiare del fratello della vittima.

La buona letteratura di genere è raffinata
Chi dice che la letteratura di genere non è buona letteratura di solito ne ha una conoscenza superficiale. C'è, senza dubbio, tanta spazzatura, così come in ogni campo. Ma dopo due secoli abbondanti di giallo ci vuole una maestria tecnica tutt'altro che indifferente per scrivere un altro buon giallo. All'interno di un genere ci sono sperimentazioni, innovazioni, giochi stilistici che non hanno nulla da invidiare al mainstream.

La buona letteratura di genere non è disimpegnata
Anzi, spesso è un modo per indagare la realtà secondo un'ottica particolare. Giallo, thriller e noir per loro stessa natura vanno a scavare nelle pieghe della società per raccontarci tutto quello che non va, che siano gli scheletri nascosti dentro i mobili di lusso delle famiglie bene o lo squallore della malavita. Ma un buon libro di genere è sempre una riflessione sull'oggi, sull'umanità. Può essere un confronto con un passato, con un futuro o con un altrove, ma un buon autore non dimentica mai il suo "qui ed ora".

Per tutti questi motivi continuo ad essere un'impenitente lettrice di letteratura di genere e mi piace anche esserne autrice.
Mi piacciono i libri che abbiano una trama ben strutturata, in cui il lettore si chieda cosa accadrà dopo. Mi piacciono i libri che evitano i virtuosismi fini a se stessi. Mi piacciono i libri che giocano con le aspettative dei lettori, rispettandole e stravolgendole insieme. Mi piacciono i libri che ragionano sull'oggi senza fare la paternale, ma mettendo in scena storie che hanno la forma di avventure, di indagini e che si possono ambientare in un altrove.
Mi piacerebbe infinitamente scrivere libri provvisti proprio di queste caratteristiche e quindi sì, non ho altra aspirazione che diventare una brava autrice di letteratura di genere!

E voi leggete letteratura di genere? L'amate o la considerate di serie b? Vorreste scriverne?

mercoledì 20 maggio 2015

Solo le parole necessarie – scrittevolezze


"Nell'aggettivazione si vede l'insicurezza dell'autore. Mette un aggettivo, pensa che non basti, ne aggiunge un altro, non lo convince, ne mette un terzo. Di aggettivi dovrebbero essercene il meno possibile. Se proprio ce n'è bisogno, che ce ne sia uno,  solo quello che serve."

"Se in un dialogo si possono togliere delle battute senza che la comprensibilità venga compromessa, toglietele."

" Che senso ha nella narrazione può fare, deve fare, sembra fare, sta incominciando a fare...? L'azione c'è o non c'è. Se c'è basta il verbo che indica l'azione. Oppure c'è davvero una sfumatura particolare di significato da dare. Ma può capitare una volta ogni quante pagine? Non certo ogni tre righe!"

Non chiedetemi chi esattamente abbia pronunciato queste frasi, ho un'ottima memoria per i contenuti, pessima per le fonti. Si tratta, però di frasi che ho sentito dire da professionisti della scrittura ad incontri, lezioni o presentazioni, che riporto un po' a braccio e senza attribuzione precisa per evitare terribili gaffe.
Sono tutte frasi, però, che mi risuonavano nella testa ieri, quando leggevo il post di Penna Blu sulla cura del testo. Nei commenti, ho cercato malamente di esporre quello che pensavo e cioè che un buon testo dovrebbe contenere solo le parole strettamente necessarie.
Non si tratta di una formula alchemica, né ha che vedere con i buffi esperimenti fatti per determinare matematicamente le caratteristiche formali dei libri di successo, ma di una cosa di cui sono convinta.
In un buon testo nessuna parola può essere superflua. Se è lì è perché ci deve stare, lei e non un'altra, perché svolge una funzione non sostituibile. Questo non vuol dire scrivere in modo asciutto. Vuol dire piuttosto cercare ciò che veicola con precisione chirurgica quello che abbiamo in mente. Possiamo impiegarci una parola per esprimere un concetto, un'emozione, raccontare un'azione, oppure impiegarci una pagina. L'importante è che il risultato finale sia proprio quello che avevamo in mente.

Ultimamente sto ragionando molto sull'aggettivazione e più ci penso e più mi sento in sintonia con la prima delle frasi che ho riportato. Mi suonano nelle orecchie le parole di una delle mie canzoni preferite, Autogrill, di Guccini "... Bella di una sua bellezza acerba, quasi triste, come fiori ed erba di scarpata ferroviaria".
Non sarebbe stato più facile cercare di cavarsela con un ulteriore aggettivo "... una sua bellezza acerba, quasi triste e malinconica"? Ma io trovo meravigliosa l'immagine dei fiori di scarpata ferroviaria, che nessuno ha voluto lì, cresciuti a dispetto di tutto, senza alcuna cura e che ottengono solo le occhiate veloci dei passeggeri, immersi in tutt'altri pensieri. La trovo perfetta, necessaria, per definire la bellezza della ragazza dell'autogrill, che i viaggiatori guardano distrattamente, giusto il tempo di un caffè, immersi in altri pensieri. Nessun aggettivo avrebbe potuto veicolare tutti questi significati.
Per questo mi trovo a pensare sempre più spesso che gli aggettivi siano pericolosi anche più degli avverbi perché spesso, proprio come i temuti avverbi in -mente, non sono necessari. Sono una scelta facile e veloce (come il lato oscuro della forza?), ma non giusta.
Facendoci caso, mi sono accorta che in molti brani che amo gli aggettivi sono pochi e quei pochi folgoranti, perfetti. Necessari.
Non credo che si debba arrivare a imitare Ungaretti, però, in effetti, pensate alla forza che hanno i suoi rarissimi aggettivi nelle sue poesie. Pensate alla famosissima Natale:

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade


Ho tanta
stanchezza
sulle spalle


Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata


Qui
non si sente
altro
che il caldo buono


Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Quanto è forte quel "buono"? È un aggettivo banalissimo, di quelli che ci insegnano a non usare mai perché troppo comune che, però, usato bene, acquisisce una forza impressionante.


Un discorso analogo si può fare nei dialoghi e per ogni altro elemento della narrazione. (Per i dialoghi vi rimando al vecchio post Dialogando ).


La qualità dell'essenzialità, per come la vedo io, ha ben poco a vedere con la concisione. Senza far esempi troppo pomposi, quando ho chiuso l'ultimo libro della Saga dei Mistborn, tre tomoni sulle 800 pagine l'uno, ho pensato che non ci fosse neppure una parola di troppo. Ogni apparente divagazione, ogni minuzia nelle descrizioni, perfino quelle che sulle prime avevo preso per ingenuità stilistiche erano perfettamente giustificate dalla storia. L'autore aveva le idee chiarissime su dove portare la vicenda, su cosa raccontare e perché. Ci ha messo circa 2400 pagine? Ebbene, erano quelle che servivano!


Quindi, per rispondere alla domanda di Daniele di Penna Blu, come mi prendo cura dei miei testi? Cerco di capire se ogni parola è necessaria. Mi chiedo per ogni frase se serva davvero e, se sì, cosa voglio dire esattamente. Non è che ci riesca, sia chiaro. Ci provo, un po' a tentoni,  spesso con molta goffaggine (ad esempio sui verbi d'azione cedo spesso alla tentazione dei servili e delle parafrasi), ma ci provo. Mi piacciono i libri che chiudo pensando "non cambierei neppure una singola parola" e mi piacerebbe che qualcuno pensasse lo stesso dei miei.


Voi cosa ne pensate? Avete mai trovato dei libri di cui non cambiereste neppure una parola perché tutte erano necessarie? Vorreste che le vostre storie fossero così?

lunedì 18 maggio 2015

L'epos dell'uomo comune – scrittevolezze


Ho passato tutto il viaggio in auto da scuola a casa intenta a cercare di ricordarmi se c'è un termine tecnico per l'argomento che avevo intenzione di trattare. Considerato che viviamo in un modo che ha un termine tecnico quasi per tutto immagino di sì, ma io non lo ricordo.

Ricordo invece alla perfezione da dove volevo partire.
Avete mai visto il film I tre giorni del condor? Si tratta di una pellicola del 1975 in cui un analista della CIA per 
puro caso sfugge all'uccisione di tutti i suoi colleghi da parte di un killer. Il sopravvissuto non è un super addestrato agente segreto, per lavoro leggeva giornali e fumetti alla ricerca di parallelismi con eventi realmente accaduti. Adesso, però, qualcuno lo vuole morto e lui deve salvarsi la pelle e capire perché di colpo si è trovato al centro del mirino.

Si tratta di una storia archetipa in cui una persona assolutamente normale si trova improvvisamente nei guai e deve dare fondo a tutte le sue risorse per uscirne viva. 

Al cinema, uno dei maestri nel raccontare questo genere di storie è stato Alfred Hitchcock e il mio film preferito, tra gli appartenenti a questo filone, è senza dubbio Intrigo internazionale. Nella pellicola Cary Grant è un agente pubblicitario che, per uno scambio di persona, si trova al centro, appunto, di un intrigo internazionale e tutti di colpo lo vogliono morto.

A differenziare queste storie da un sacco di altre è l'assoluta normalità del protagonista. Non si trova nei guai per una qualche ragione sensata che lui ignora (è il figlio segreto di un re, possiede un oggetto potentissimo/preziosissimo). Non ha qualità eccezionali che verranno alla luce nel momento del pericolo.Non ha neppure coscientemente scelto di imbarcarsi in una qualche missione (come ad esempio Frodo ne Il signore degli anelli). 
Il protagonista non è un eroe e non lo diventa. L'unico obiettivo è la sopravvivenza.
Il protagonista de I tre giorni del condor è vivo solo perché al momento dell'agguato era a comprare le ciambelle per i colleghi. Cary Grant  in Intrigo internazionale prima è scambiato per un altro, poi è accusato dell'omicidio di una persona che cercava di soccorrere, passa quasi tutta la pellicola a scappare con una faccia tra il sorpreso e il disperato.
Messi alle strette, i protagonisti di entrambi i film, danno prova di risorse che neppure sospettavano di possedere. Si tratta, però, di umanissima tenacia, intelligenza e istinto di sopravvivenza. Nulla di sovrumano.
Tra il sorpreso e il disperato...

La forza di queste storie è che il protagonista è quanto di più simile al lettore/spettatore possiamo trovare, creando un'immediata immedesimazione.
Non è più abile, più intelligente, più istruito o più forte di noi. Ogni volta che si trova nei guai il lettore si domanda come potrebbe cavarsela lui al suo posto. Spesso il lettore ha l'impressione, anzi, di avere idee migliori del protagonista (che, poveretto, deve agire d'impulso) e si preoccupa per i guai in cui finirà.

Quali sono le difficoltà nel costruire una storia del genere?
Per due film rimasti immortali pietre miliari del cinema, ce ne sono mille altri che non hanno raggiunto la sufficienza e la stessa cosa è vera per romanzi e racconti, perché non è così facile creare una storia di questo genere che funzioni. Per come la vedo io, i rischi principali sono due:
– Il protagonista non deve essere una macchietta. Deve essere qualcuno in cui si si possa riconoscere. Abbastanza simpatico perché lo si voglia vedere in salvo. Con quel tanto di goffaggine che faccia scattare il nostro istinto di protezione. Con delle qualità pronte a venire alla luce. Entrambi i protagonisti delle due pellicole hanno fascino da vendere sotto lo sguardo stranito di chi si vede crollare il mondo addosso. Dopo il comprensibile crollo nervoso sanno raccogliere i cocci e ripartire. Non a caso entrambi finiscono tra le braccia di donne bellissime, conquistate da questo mix di fascino, vulnerabilità e tenacia che sembra una ricetta semplice da duplicare, ma che non lo è per niente.
– L'intreccio deve procedere serrato e preciso come il proverbiale "orologio svizzero". Non si può dare l'impressione che sia solo una questione di fortuna/sfortuna. Può essere un caso quello che mette in moto la vicenda, che poi, però, deve avere un ritmo serrato ed eventi ben costruiti. Non è la storia che si costruisce in una sera.

Devo ammettere di non aver utilizzato spesso questo genere di storie, almeno non nella versione dai ritmi serratissimi che ho descritto. Però immagino che rientri nella categoria il povero Jo Museni, sospettato di omicidio solo per aver trovato un cadavere sistemando il giardino dell'hotel per cui lavora, e quindi molto motivato a trovare il vero assassino. Bene o male i miei altri protagonisti i guai se li cercano in maniera più o meno attiva.
Voi invece avete mai scritto storie simili? Come ve la siete cavata?

mercoledì 13 maggio 2015

I confini di una storia – scrittevolezze


Sei andato fuori tema!
Vi è mai capitato di trovare questa frase sul retro di un tema? E poi magari di passare ore a chiedersi dove, come e perché esattamente fossimo incappati in quel giudizio. Noi avevamo scritto solo le frasi necessarie a chiarire il nostro pensiero! Era la traccia, maledetta lei, ad essere ambigua!
Questi traumi giovanili riemergono subdoli quando scrivo. Perché, in fondo, una storia è un organismo, ha cuore e anima, ma ha anche un corpo. Come per qualsiasi corpo, sia l'anoressia che l'obesità sono dannose e, nei casi più gravi, letali.
E quindi cosa inserire di quei tre saggi letti per la documentazione? E tutti gli eventi riassunti nelle sedici pagine della scheda del personaggio? E quel personaggio secondario che però ha una storia così speciale, non è un peccato non metterla dentro? Non approfondiamo l'ambientazione? Il passato del luogo? Le leggende?
Non è solo questione di rischiare l'infodump, l'introduzione di informazioni eccessive e inutili, è proprio una questione di alimentazione della storia. Il rischio è tanto quello di farle soffrire la fame quanto quello di rimpinzarla allo stremo.
La cosa peggiore è che non c'è una regola precisa. Ci sono storie magrissime e scattanti come levrieri e solide, placide, storie san bernardo. Ci sono imponenti storie mastino napoletano, ma funzionano anche minuscole storie pechinese.
Nel panico generale che mi prende in questi casi, mi sovviene un ricordo d'infanzia. La storia infinita, ricordate? Ogni storia ne generava un'altra, da cui il titolo, ma l'autore ci riportava gentilmente sul sentiero principale con la formula "Ma questa è un'altra storia e si dovrà raccontare un'altra volta"

La difficoltà, dunque, sta nel capire quando la NOSTRA storia sta diventando UN'ALTRA storia, da raccontare, se mai, un'altra volta.

Non sempre è facile capirlo perché le sottotrame si intrecciano, si intersecano e ciò che in una narrazione può donare profondità, in un'altra può essere un'inutile lungaggine.

Bisogna porre dei confini, una sorta di arbitrario, ma indispensabile, Vallo di Adriano per distingue l'impero narrativo su cui possiamo governare e gli incogniti territori stranieri, che magari abbiamo esplorato, ma di cui non dobbiamo occuparci in questa sede.

Le mura possono essere alte e soffocanti, oppure lontane, basse e amichevoli, ma in qualche modo CI DEVONO ESSERE.
Il libro che mi ha fatto ragionare di più su questa necessità è IT, del maestro King, romanzo ipertrofico, affascinante e apparentemente anarchico. Sono sempre più convinta che quello che ha trasformato IT in un capolavoro, salvandolo dal disastro che facilmente avrebbe potuto essere, è l'avere dei confini solidi e invalicabili.
Chi l'ha letto sa che all'inizio c'è una barchetta di carta che fugge al controllo di un bambino. King non si accontenta di raccontarci la storia del bambino. Segue la barchetta, ben oltre il destino del bimbo. La vediamo finire in un tombino e da lì in una fogna. Le righe si susseguono nel raccontarci il suo viaggio solitario, nascosto agli occhi umani. E poi, quando ormai eravamo certi che l'avremmo seguita fino al mare, la barchetta esce dai confini della storia. Ci viene detto proprio così, non una, ma più volte nel corso del romanzo. Si seguono oggetti, eventi, personaggi ben oltre i loro rapporti con i protagonisti, finché non varcano un confine invisibile al lettore, ma ben chiaro all'autore. I confini di IT non vengono mai esplicitati, ma coincidono con quelli geografici e psicologici di Derry, la città infestata da IT, a ben vedere la vera protagonista della vicenda. Qualsiasi digressione, deviazione rispetto alla trama principale, apparente allungamento del brodo è permesso finché è connesso a Derry. Anni interi della vita dei protagonisti lontano dalla città  vengono riassunti in poche righe. E la cosa, è innegabile, funziona.

Non ho ancora capito davvero come si tracciano davvero i confini di una storia, ma so che servono. Immagino che tutto stia nel rispondere alla domanda:
Di chi o di che cosa è la storia che voglio raccontare? Quali sono i confini che intendo pormi?
IT ha dei protagonisti ben tratteggiati, ha anche un riconoscibile primo attore che si evidenza all'interno del gruppetto, eppure non è lui e non sono i suoi compagni a determinare i confini della storia. In caso contrario sapremmo ben di più dei loro anni lontano da Derry.

I confini di una storia possono essere legati a un luogo, come per IT.
Posso essere legati a dei fatti precisi, pensiamo a un giallo classico: non ci interessa nulla che non sia strettamente connesso all'indagine.
Possono essere legati a una tematica che vogliamo esplorare.
Possono essere ben definiti, proprio come il vallo costruito dai romani o riconosciuti in modo istintivo.
Non hanno nulla a che fare con quello che noi conosciamo, con la documentazione e la costruzione di eventi, luoghi e personaggi. Dobbiamo, infatti, conoscere cosa c'è oltre i confini. Ha a che fare, però, con l'alimentazione della storia, dobbiamo capire fino a che punto possiamo/dobbiamo nutrirla e come prenderci cura di lei.

Mentre scrivevo Nulla che non sia già mio, ad esempio, mi sono accorta Coy sfiora storie e personaggi interessanti. Ne incontra uno, sopratutto, che in due battute dà l'idea di avere una storia assai interessante dietro (e, vi assicuro, ce l'ha davvero). Ma quella non è la sua storia. È la storia di Coy e, se vogliamo, del suo primo tradimento. Tutto il resto e, a maggior ragione, ciò su cui lui non si sofferma, non fa parte della storia. È oltre i miei confini. Non importa quanto affascinanti fossero quelle possibili digressioni. Erano un'altra storia.

Voi vi siete mai trovati a ragionare sui confini delle vostre storie? La cosa vi ha creato delle difficoltà?   

lunedì 11 maggio 2015

I mille nomi e Il trono d'ombra – letture

Non mi era mai capitato di leggermi in una sorsata due tomoni (rispettivamente quasi 400 e 600 pagine) e avere l'impressione di aver letto un intrigante preludio. Affascinante, scorrevole e ben scritto, ma pur sempre un preludio.

Io ho un'idea precisa su ciò che ricerco in un fantasy moderno: un altrove che tenga desto il mio senso del meraviglioso, dei personaggi a tutto tondo, non privi di zone d'ombre, una vicenda non zuccherosa che mi riservi due o tre colpi di scena. 
Queste caratteristiche erano proprio quelle che tutte le recensioni a i  Mille nomi mettevano in luce.
L'ambientazione, in effetti, è di quelle che abbaglia e conquista in poche righe. I Mille nomi ci porta in un mondo vagamente napoleonico/tardo settecentesco, dove gli eserciti sono armati di moschetti e cannoni. Uno stato di sapore europeo ha colonizzato una nuova terra orientaleggiante, dove, però, l'arrivo di un nuovo credo religioso con conseguente guerra santa ha messo a dura prova i conquistatori. In questo contesto si inserisce pian piano una magia strisciante, fatta di presenze demoniache che si insinuano all'interno di persone più o meno consenzienti.
Poche righe e Wexler ha già solleticato il mio senso del meraviglioso e alzato l'asticella delle mie aspettative proponendomi un mondo polveroso, privo di eroi, dove ci sono sì ideali in conflitto, ma la ragione e il torto sono spesso solo una questione di prospettiva.
Dal punto di vista dell'ambientazione, è vincente anche quella del secondo romanzo, che ci porta in una sorta di Parigi all'alba della rivoluzione (chi ha un po' approfondito il periodo sarà deliziato dal vedere utilizzati in chiave fantasy alcuni elementi non notissimi).
Però...
I protagonisti sono subito simpatici, uomini e donne imperfetti, ma per cui è facile provare empatia. Tuttavia in un totale di quasi 1000 pagine, solo uno risulta davvero ben definito, Winter, donna soldato dal carattere tutt'altro che lineare. Solo in lei avvertiamo un autentico spessore, dei forti conflitti e motivazioni ben costruite. Tutti gli altri sono simpatici, certo, ma rimangono delle conoscenze superficiali, come persone con cui si è andati a cena fuori un paio di volte, ma nulla di più. Terminati i due romanzi ancora non ho capito se si sia trattata di una mancanza o di una scelta. Un autore che riesce a costruire una Winter, uno dei personaggi femminili fantasy più interessanti che abbia trovato negli ultimi anni, di certo sa costruire i personaggi! Particolare perplessità genera  Janus, il perno su cui ruota tutta la vicenda. Già il nome evoca un personaggio ambiguo e bifronte. Si presenta come stregone ed esperto di occultismo, ma lo vediamo agire solo come mago o stratega. La sua posa di serafica ironia è una maschera palese. Che tuttavia in due romanzi non si incrina mai. Da lettrice esperta, fiuto intorno a lui un mistero di cui, però, l'autore sembra essersi dimenticato e, ancora una volta, non saprei dire se è errore o calcolo.
Stessa perplessità la genera l'intreccio, che semina molto e raccoglie poco. Introduce nel primo romanzo personaggi di cui nel secondo sembra che tutti si siano dimenticati, in primis l'autore, allude ad eventi e poteri che il lettore brama di vedere all'opera, ma che non si mostrano. Rimbalza letteralmente i personaggi da una parte all'altra del mondo senza lasciar intuire se fosse davvero necessario. E questo senza che mai, in mille pagine, mi sia sentita davvero in ansia per loro. Non c'è mai una situazione che, per quanto brutta, risulti insostenibile, nessun personaggio davvero portato al livello di rottura. In un romanzo scritto con evidente maestria e cognizione di causa, queste dissonanze tra aspettative e risultati hanno un che di inesplicabile.
Il terzo e conclusivo volume non è ancora uscito neppure in lingua originale e io ancora, in tutta onestà, non so se aspettarmi i fuochi d'artificio o una mezza delusione.

I mille nomi  e Il trono d'ombra sono letture affascinanti, sembrano sempre a un passo dal farmi innamorare, ma poi si tirano indietro. Il rischio è che questi libri vengano ricordati più con perplessità che affetto.

A voi è mai capitato qualcosa di simile, una lettura che vi ha profondamente affascinato per alcuni aspetti, risultando però deludente per altri? Quale libro, più di tutti gli altri, si è distinto in questo senso?

mercoledì 6 maggio 2015

Incipit


Questi ultimi giorni sono stati fondamentali per la definizione del nuovo progetto narrativo.
Avevo tante cose da lasciarmi alle spalle, le ceneri di un progetto che sembrava aver trovato la casa che ogni autore sogna, la delusione mia e dell'agente che ha seguito la trattativa. La necessità, principalmente psicologica, di un nuovo vero inizio, non la riscrittura di qualcosa che ormai era bruciato. Il fine settimana scorso, con la gita all'esposizione vivaistica e l'escursione con l'associazione con cui collaboro, ha sbloccato qualcosa nel profondo. Da qualche parte, mentre avanzavo sotto le nubi basse, circondata da fiori gentili e meravigliosi come quello che mi propongo in fotografia, qualcosa si è mosso. L'entusiasmo tornava a scorrere, mentre il cast dei personaggi si assentava e finalmente iniziavo a vedere le scene e a sentire le voci dei miei protagonisti.
Sono state prese alcune decisioni fondamentali, l'inserimento di un personaggio all'inizio non preventivato e una collocazione temporale precisa, anche se non credo di esplicitarla con le date: l'alluvione di questo novembre. Non tutto è pronto, ma è stata definita la scaletta dei primi capitoli e, a grandi linee, quella di tutta la storia e, sopratutto, l'atmosfera.
Di colpo avevo urgenza di scrivere. Dei tre personaggi principali, solo con la protagonista ho un rapporto consolidato, ma lei in questa fase di costruzione è cambiata molto. Dei due uomini, uno è stato testato in un racconto e l'altro fino ad ora ha solo avuto un ruolo da comparsa. Il primo punto di vista apparteneva al secondo dei tre che, per altro, vive una situazione ben diversa da quella presentata nel racconto in cui l'avevo usato.
Ieri pomeriggio mi sono rifiutata di sistemare i verbali dei consigli di classe durante la giornata di sciopero e ho scritto.
Non so procedere in un romanzo se non, banalmente, dall'inizio alla fine. Rompere il ghiaccio è sempre difficile, ancora di più se è l'inizio di una storia in cui ho investito moltissimo a livello emotivo, con un personaggio nuovo. 
Io odio scrivere a tentoni. Una frase, rileggere, correggere, un'altra frase, pausa, correzione, riscrittura. La scrittura deve fluire, scorrere con naturalezza. Temevo di procedere a scatti, con l'insicurezza di muovermi senza occhiali in un ambiente nuovo.
Quasi senza staccarmi dal computer ho scritto oltre 5000 battute. Quante di queste rimarranno nella versione finale non ne ho idea. Magari tutto il capitolo verrà stralciato, magari verrà stralciato tutto il punto di vista di questo personaggio. Quasi sicuramente verrà preceduto da un prologo che definirò più tardi. Non lo so. So che ho scritto, che R. mi ha fatto spazio nella sua testa e, benché non sia un posto molto allegro, non mi sono trovata affatto male.
Per festeggiare un momento che ho temuto davvero non sarebbe mai arrivato, vi regalo questa versione assolutamente non definitiva del primo paragrafo. Ho solo stralciato il nome del personaggio e dei luoghi

      "I suoni sono onde, atomi che si rincorrono, oscillando, attraverso l’aria. Il suono è movimento.
Osservare un paesaggio senza suoni era osservare un mondo cristallizzato, senza vita. Un poster o una cartolina che qualche burlone, nottetempo, aveva appiccicato alla finestra della camera di R.. Eppure, oltre i vetri, l’uomo vedeva i rami dell’acero del suo piccolo giardino muoversi, scossi dal vento. Seguì le evoluzioni di due foglie, strappate dall’aria violenta di novembre, salire verso il cielo e rincorrersi l’un l’altra come d’estate fanno a volte le farfalle, in quelle che agli uomini sembrano danze e sono in realtà battaglie. Poi le foglie scesero repentine, per finire quasi contro il parabrezza di un’auto che passava senza suono alcuno sulla strada davanti alla casa. Risalirono ancora e poi di nuovo scesero, verso il centro del paese di M., al di sotto della casa di R., aggrappata alle pendici del M.. Più sotto ancora stava il piccolo lago, dove le nubi in corsa di quella mattina ventosa si riflettevano per un istante prima di fuggire verso la pianura. R. immaginò che le due foglie avrebbero finito per posarsi da qualche parte sull’acqua, generando minute increspature, per poi inzupparsi e affondare piano. Sarebbero sparite senza rumore verso le insospettabili profondità che si nascondevano al di sotto della superficie. Là dove il silenzio regnava da sempre e per sempre avrebbe regnato."

lunedì 4 maggio 2015

Fare la scaletta di un romanzo


In questi giorni sono alle prese con la scaletta della riscrittura del romanzo delle streghe. Riscrittura per modo di dire, visto che della versione originale si è salvato un personaggio principale su tre e il nome e la professione di vittima e assassino. Si tratta, insomma, di una storia del tutto nuova.

Non uso nella fase di costruzione alcuna metodologia particolare (ho scoperto che adesso va di moda il metodo fiocco di neve, ho letto qualche articolo, ma in tutta sincerità mi è parso in alcuni passaggi un'inutile complicazione) né programmi ad hoc. Mi limito a mettere uno dopo l'altro gli eventi principali nell'ordine in cui il lettore li incontrerà e, nel caso particolare di un giallo che si svolge in un arco di tempo limitato, suddividerli giorno per giorno.

So che molti autori scrivono a braccio, ma io, almeno per le trame articolate, sento la necessità di definire a monte il susseguirsi degli eventi. Certo, la scaletta non è scritta a lettere di fuoco sulle tavole della legge, ma più riesco a mettere dei punti fissi e più mi sento tranquilla. Se non altro, se mi rendo conto che c'è una svolta di trama che non fila come dovrebbe, so che c'è un problema.

QUALI SONO I VANTAGGI DEL PROCEDERE CON UNA SCALETTA PRIMA DELLA STESURA DI UNA STORIA ARTICOLATA?

– Definire una timeline
Questo bel post di Lisa  spiega bene quali difficoltà ponga la gestione del tempo in un romanzo. In quale giorno della settimana siamo? Meglio evitare che ci siano due domeniche di fila o che i nostri personaggi siano costretti a lavorare ininterrottamente per decine di giorni perché il fine settimana non arriva mai!
Se dobbiamo riferirci ad avvenimenti avvenuti prima dobbiamo sapere quanto tempo prima è avvenuto un fatto.
Se Tizio ha x anni nel momento y, doveva averne x-3 tre anni prima, ovviamente. In una storia con molti personaggi e molti salti/riferimenti a prima e dopo definire x-3 può risultare molto meno ovvio del previsto.
Definire una scaletta con una timeline ben scandita, mi aiuta a non perdermi in questi dettagli che, alla lunga, possono essere snervanti.

– Collocare correttamente i personaggi nello spaziotempo
Ragionare sulla mera struttura mi permette di collocare ciascun personaggi nel giusto luogo e nel giusto tempo e mi fa rendere conto che se Tizio deve andare dal posto A al posto B ci metterà un certo tempo e quindi potrà o non potrà incontra Caio che si trova nel luogo C in un altro momento. 
Mi permette di ragionare cartina alla mano e vedere, nelle varie location, dove sono collocati i luoghi più importanti, chi può incontrare chi per caso andando dove, rendendo più fluide e meno artificiose le interazioni tra i personaggi.

– Concentrarsi su un problema alla volta
Quando scrivo, cerco di immergermi il più possibile nella scena, di sentire le emozioni dei personaggi e di renderle vive sulla carta. Mi è difficile ragionare nello stesso momento anche sulle svolte della trama, perché sono talmente immersa nei personaggi che non ho il giusto distacco.
Ragionando prima sulla scaletta li guardo da fuori e posso analizzare ad una ad una le svolte della trama. Negli ultimi tre giorni sono rimasta ad arrovellarmi su un problema "botanico" che, tuttavia, costituiva una svolta della trama non indifferente. Mi sono documentata, ho chiesto consiglio e alla fine ho trovato una plausibile soluzione. Oggi sono arrivata fino al momento dello "scontro finale" e, immagino, ci passerò su la sera. Con un po' di fortuna domani avrò tutta la trama ben dipanata.

– Preparare la documentazione
In fase di scaletta non mi serve conoscere tutto nei dettagli, mi serve conoscere bene in nucleo del discorso (chiamo questo progetto "le streghe" e ho già acquistato 4 saggi sulla stregoneria e sono andata appositamente a una conferenza), ma inizio anche a rendermi conto di quante altre informazioni avrò bisogno. Posso iniziare a fare un elenco di libri o di siti di cui avrò bisogno, senza leggerli nel dettaglio. In fase di scrittura, poi, andrò sul sicuro a reperire la documentazione necessaria senza doverci perdere giorni. Magari inizio a farmi prestare il libro di cui ho bisogno o a cercare una persona che conosca quella data informazione che mi servirà, magari, al capitolo trenta.

– Guardare la storia senza eccessivo coinvolgimento
Tutte le storie che scrivo le scrivo perché me ne sono innamorata. Questa, in particolare, è in assoluto la più personale che mai mi sia capitata per le mani. Volente o nolente, c'è molto di me nella protagonista, sopratutto in questa nuova versione in cui si è fatta più vicina anche per età. Quando scrivo non riesco ad essere del tutto lucida nei confronti della storia. Scalettare è un lavoro più tecnico, noioso e freddo. Aggiunge distanza.
C'era, nella versione originale una sottotrama tratta da una storia vera che mi aveva molto colpito. Ci tenevo molto e avrei voluto tenerla anche in questa versione, ma in questi giorni mi sono resa conto che non aveva molto senso. Tagliandola avrei dato più spazio alle storie principali senza confondere ulteriormente il lettore. Allo stesso modo ci tenevo a far fare una comparata a padre Marco, il protagonista de La roccia nel cuore, ma non era necessario. Era solo una questione affettiva, non funzionale. L'ho tagliato. Tagliare la sua parte da un testo già scritto sarebbe stato come automutilarmi. Eliminarlo da una scaletta in cui occupava una riga è stato molto meno doloroso.
La scaletta si può modificare, scrivere, rileggere, girare. Se ne possono fare due o più versioni e vedere in quale gli eventi scorrono con più naturalezza. Come un cubo di rubik si può continuare a girare, a provare, fino a che non si trova la giusta collocazione per tutto i tasselli.

Lavorare sulla scaletta non è certo la panacea di tutti i mali né una garanzia di successo. Il Cielo solo sa che ne sarà di almeno due storie scalettate con amore, scritte e al momento arenate nel cassetto. Però è un metodo che mi aiuta e volevo condividere quelli che sono, a mio avviso, i i vantaggi.
Voi come vi regolate?

PS: il primo maggio sono stata a una bellissima manifestazione vivaistica dove i fiori sembravano urlare: "fotografami! Fotografami!". Questa è la prima delle foto scattate.

sabato 2 maggio 2015

La buona scuola siamo noi


Martedì 5 maggio farò sciopero.
Per me è una scelta tutt'altro che usuale, dal momento che creare disagio è del tutto estraneo al mio carattere. 
Come ho già avuto modo di dire ai miei alunni, questa scelta è stata meditata e di certo il mio intento non è quello di danneggiare ragazzi e famiglie. Vorrei però che tutti e in primis proprio coloro che vivono la scuola come studenti o genitori, capiscano la situazione.
Racconterò di me, ma la mia esperienza non è che la fotocopia di mille altre, sostituite i nomi e avrete la storia di migliaia di altri precari.
Mi sono laureata nel febbraio 2005, sessione straordinaria sostitutiva delle sessioni autunnali dell'anno accademico 2003/2004 che l'università, per motivi organizzativi, non aveva attivato. Ho poi frequentato un master biennale di cui ho conseguito il diploma nel giugno 2007.
Sono quindi approdata all'insegnamento nell'autunno 2007, chiamata per una supplenza breve che si è trasformata in sostituzione annuale. L'anno seguente, nell'autunno 2008 ho deciso di conseguire l'abilitazione all'insegnamento ma LA SCUOLA DI ABILITAZIONE SISS HA CHIUSO lasciandomi senza la possibilità di abilitarmi e di iscrivermi nelle graduatorie ad esaurimento.
Sono comunque stata sempre chiamata ad insegnare, quasi sempre su posto vacante e due volte con  contratto al 31 agosto. Questo vuol dire che non stavo sostituendo nessuno, il posto era libero, tutti coloro che avevano più esperienza e più titolo di me già lavoravano.
Nel 2012 è stato indetto un concorso APERTO SOLO AI LAUREATI ENRO L'ANNO ACCADEMICO 2002/2003 per la seconda volta mi è stata negata una possibilità di dimostrarmi idonea al lavoro che già svolgevo.
La scuola ha comunque continuato a chiamarmi, sempre su posto vacante. Avendo maturato 3 anni di servizio ho punto accedere al corso abilitante PAS corso, ricordiamolo, a pagamento. Ho conseguito l'abilitazione, con 100/100 ma non sono stata inserita nelle graduatorie ad esaurimento, riservate agli abilitati SISS.

Adesso che ho 35 anni e lavoro nella scuola da sette anni, mi viene detto che sono un'illusa. La "buona scuola" prevede un piano d'assunzione esclusivamente per gli abilitati SISS e, forse, per gli idonei del concorso del 2012. In alcune province, per alcune classi di concorso, le graduatorie ad esaurimento sono esaurite, ma ci assicurano che con i trasferimenti forzati non ci sarà comunque bisogno di noi.
Vi sono poi tutta un'altra serie di questioni nebulose come le misteriose liste da cui i dirigenti potranno scegliere i loro insegnanti sulla base di non si sa quale criteri.

In questo sette anni alla scuola ho dato energia, entusiasmo e lacrime. Mi sono messa in discussione, ho rivoltato come un calzino il mio modo di stare in classe, di parlare, di pormi. Ho studiato, non per un corso o per un pezzo di carta, ma perché ne sentivo la necessità. Sono diventata un'esperta in materia di Disturbi Specifici dell'Apprendimento e di alunni ad alto potenziale. Passo il mio tempo a inventare nuovi modi per raccontare e far arrivare i valori e le nozioni che amo. Non sempre ci riesco, non sempre i miei alunni ottengono tutto quello che vorrei trasmettono, ma do tutto quello che posso dare.

In questi anni i precari come me hanno accompagnato i ragazzi in gita, hanno coperto supplenze, sono arrivati ad accogliere i ragazzi durante nevicate e alluvioni. Si sono inventati mille modi di fare scuola per cercare di far fronte alle più disparate esigenze dei ragazzi. Sono stati sballottati di anno in anno da una sede all'altra. Hanno lottato contro una burocrazia assurda. Tutto questo non si può liquidare come "illusione".
Sono la prima a dire che gli abilitati SISS e coloro che hanno superato i concorsi hanno diritto in modo prioritario all'assunzione e che in questa riforma ci sono anche delle buone idee. 
Tuttavia non posso semplicemente aspettare di essere lasciata indietro.
La buona scuola siamo noi che la facciamo ogni giorno. Quando rimaniamo lì ben oltre in nostro limite orario per discutere su come aiutare un ragazzo in difficoltà non siamo docenti di ruolo/docenti in Graduatorie ad Esaurimento/docenti di Seconda Fascia/Docenti di Terza Fascia/Supplenti Temporanei. 
Siamo solo professori. Sarebbe bello essere considerati, una volta tanto, come tali.