mercoledì 23 luglio 2014

Verso la Barriera


Vi sono tre luoghi al mondo che adoro quasi quanto il mio lago, Parigi, la Corsica e la Scozia.
Questo 2014 mi ha già regalato una Corsica primaverile di abbagliante bellezza e ora mi appresto a migrare a nord, oltre la Barriera.
Del resto, ogni volta che vado in Scozia mi vengono in mente le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. Dato che ormai abbiamo fatto amicizia con i famosi mostri lacustri, di Edimburgo conosciamo festival e ostelli (compreso quello ricavato dalla chiesa sconsacrata), io e Nik ci stiamo per buttare verso itinerari meno comuni. Tappa ad Aberdeen - Castel Granito e poi via verso le Orcadi - Isole di Ferro. Sperando di non incappare in imprevisti o Estranei.
Considerando che il cielo, qua, continua ad assomigliare molto a quello che vedete nella foto, scattata sull'isola di Lewis, nelle Ebridi Esterne, se non altro il cambio di clima non dovrebbe essere traumatico.
In valigia It e Le intermittenze della morte si faranno guerra per capire chi sia il diavolo e chi l'acqua santa. Messi uno di fianco all'altro i due volumi fanno un po' ridere. Uno espanso fino al limite fisico della rilegatura, l'antro esilissimo, ma con la densità del plutonio.
In valigia ci sarà spazio anche per il computer, perché il romanzo dovrà comunque proseguire, sia pure a ritmi più blandi, ma rifuggirò da ogni connessione. Sarò on-line ancora per qualche giorno e poi mi godrò la mia irreperibilità. Del resto non ha senso fuggire fino alle Orcadi per poi passare il tempo a rispondere alle mail come se fossi a casa.
Per motivi romanzeschi non ho avuto tempo di preparare un racconto estivo come si deve per salutarvi tutti. Ho solo un incipit, ispiratomi da IT, che ho già intaccato.

"La vedova Storti era una donna che sapeva convivere con i propri demoni. 
In casa ne aveva tre, ma preparava ogni sera una ciotola in giardino per quelli randagi.
L'ultimo che aveva preso era il Demone dell'Alcool, una creaturina magra e glabra che stava tutto il giorno appollaiata allo schienale della sua sedia preferita. Gli artigli delle quattro zampette squamate da gallina avevano ormai segnato il legno ma, se non altro, non le aveva rovinato il divano.
La vedova aveva trovato il demone di fianco a un accattone che sostava quasi ogni giorno all'ingresso del supermercato con in mano un cartello sgramamticato in cui implorava denaro per poter mangiare. La donna, anziché dargli una moneta che sarebbe stata subito spesa in vino, aveva preso tra le mani il demone e se lo era messo in borsa. L'uomo, oltre tutto, non lo curava a dovere: un demone dovrebbe avere un aspetto quanto meno inquietante, non sembrare un gatto con la scabbia.
All'inizio la vedova si era preoccupata un poco per il costo del suo mantenimento, ma poi si era resa conto che una ciotola sempre piena di alcool etilico gli era sufficiente..."

Buone vacanze e buone storie a tutti!

lunedì 21 luglio 2014

Fonti d'ispirazione: Fumetti

Penultima puntata per il post a puntate dedicato alle fonti d'ispirazione non letterarie.
Dopo aver parlato di cinema, di canzoni e di saggi, oggi parliamo di fumetti.
Io sono una lettrice compulsiva di fumetti. Un po' perché mi affascina l'aspetto grafico, un po' perché non è vero che i fumetti siano più leggeri dei romanzi, ma è vero che si leggono con più facilità. In certe sere, rintronata dal lavoro e da mille altri pensieri, un libro non mi sento di affrontarlo, mentre un fumetto lo leggo sempre volentieri, che sia un fumetto d'autore europeo, un Bonelli preso in edicola, un manga o, più raramente, un prodotto americano.
Come sempre, in questo post non parlo dei fumetti che in assoluto mi sono piaciuti di più (mancano, ad esempio pietre miliari come Corto Maltese o quella meraviglia di Persepolis), ma quelli che mi hanno più fatto ragionare a livello narrativo. Si tratta in tutti e tre i casi di fumetti seriali, forse perché lo svilupparsi della trama in un tempo lungo mi ha permesso di ragionarci con più calma. Titoli che ho già tirato in ballo in questo o in quell'altro post, ma che affronto ora con più sistematicità.

MAGICO VENTO
Edito da Bonelli tra 2007 e 2010, attualmente in ristampa presso Panini Comis
La documentazione è una risorsa e non un peso
Ci sarebbero molti aspetti di quello che è senza dubbio il mio fumetto seriale preferito, di cui mi piacerebbe parlare, ma mi limiterò solo a uno.
La documentazione.
Al contrario di Tex, che si muove in un western dai confini labili, in un eterno presente, immutabile nei decenni, le storie di Magico Vento hanno una localizzazione ben definita: le guerre indiane che videro opporsi all'esercito statunitense agli indiani di Toro Seduto e Cavallo Pazzo.
Nonostante molte trame non disdegnino, anzi, toni horror, Magico Vento è una narrazione storica che non nasconde mai la sua vocazione. Ogni numero è preceduto da un dettagliato articolo che spiega le fonti utilizzate e suggerisce approfondimenti. E questa è proprio la sua forza. L'accuratezza del dettaglio, il particolare ignoto ai più da cui parte la narrazione.
A parte i protagonisti, i personaggi storici sono tra i più riusciti.
Dato che l'ottica è quella dei nativi americani, mi sarei aspettata un Custer odioso. E invece il "generale" è un personaggio controverso, facilone, arrogante, ma anche tenero con la moglie, affascinato dalla cultura che contribuisce a distruggere, capace di riconoscere i meriti altrui. Infine, pedina nelle mani di politici ben più spietati di lui. Si vorrebbe odiarlo, Custer. Ned e Poe, i protagonisti, vorrebbero odiarlo, ma risulta simpatico. Alla fine, si piange per lui tanto quanto per Cavallo Pazzo. L'autore, Gianfranco Manfredi, spiega bene come questo ritratto sia stato basato sullo studio approfondito delle fonti. 
Sarebbe stato facile fare di Custer un semplice cattivo, ma le fonti non parlavano di un uomo senza cuore. L'autore ha provato ha raccontare quell'uomo, non lo stereotipo che già avevamo in mente. Ed è stato molto meglio così.

FULL METAL ALCHEMIST
Panini Comics
Si tratta forse della più bella storia per ragazzi che mi sia capitato di leggere, con buona pace anche di Harry Potter, con una trama che non perde un colpo, neppure nel finalone, quando tutti i nodi vengono al pettine, con dei personaggi memorabili. Ci sono parecchie cose che vorrei rubare a questo fumetto, ne scelgo solo alcune.
Non ci sono argomenti tabù – Bisogna scrivere con coraggio
Questa è la cosa che più mi ha colpito del fumetto, credo. Affronta temi tostissimi. Tutto parte da una domanda centrale: "cosa sei disposto a dare per avere ciò che desideri?", ma le risposte vengono indagate in ambiti inaspettati, almeno per un racconto per ragazzi. Quasi tutti i personaggi appartengono a uno stato chiaramente ispirato alla Germania nazista e sono militari. Gente che ha commesso genocidio, che ha fatto esperimenti su esseri umani. E no, non sono i cattivi. Sono esseri umani, soldati finiti al fronte troppo giovani, troppo deboli per ribellarsi al sistema o anche consapevoli che una defezione individuale sarebbe servita a poco. Il tutto affrontato con un tono che è adatta a un ragazzo di terza media. Full Metal Alchemist è una storia in cui non ci sono innocenti. Tutti hanno le loro colpe da scontare, compresi i ragazzini protagonisti. Ed e Al hanno tentato di riportare in vita la propria madre con un esperimento alchemico proibito e ne hanno pagato terribili conseguenze. In Full Metal Alchemist non solo non ci sono innocenti, ma nessun errore viene perdonato. Si paga tutto, si va avanti portandone il peso. "Non perdonare, ma sopportare" è un'altra delle frasi chiave.
Ci vuole un coraggio enorme a creare una storia del genere che abbia come target i ragazzi (e riuscirci). Forse anche un incrollabile ottimismo. Alla fine, in questo fumetto traspare un'enorme fiducia nell'umanità, che sbaglia, si sporca le mani, ma può andare avanti e diventare migliore.
Quello che voglio portare a casa da questo fumetto è l'idea che sia necessario scrivere con coraggio.
Non ci sono temi tabù.
Non ci sono innocenti.
Il finalone con battaglia finale non può risolvere tutti i problemi.
L'ottimismo può esistere senza essere zuccheroso, solo se si guarda il mondo senza addolcirlo.

WILD ADAPTER
Edizioni J-Pop
Tutt'altri adolescenti, quelli di Wild Adapter, adolescenti perduti, abbandonati in un mondo violento e senza regole in cui gli adulti sono tutti pericolosi, assenti o, nel migliore dei casi, impotenti.
Non c'è alternativa alla criminalità e alla violenza. In Wild Adapter c'è appena una spolverata di fantascientifico (una droga che uccide e trasforma in animali) in una storia di ragazzi di mafia in cui sembra che non ci sia alternativa al finire a spacciare droga o a uccidere. Eppure...
...Anche le storie più violente possono essere raccontate con delicatezza
Questo fumetto mi ha conquistato per il tono con cui è raccontato. Struggente. Poetico.
L'autrice delinea i suoi ragazzi destinati all'abisso con estrema delicatezza. Che siano prostitute o giovani assassini hanno un carico di sensibilità e dolcezza che non può non commuovere. Di pallottole ne volano tantissime nella saga di Wild Adapter e gli schizzi  di sangue bagnano le tavole, poi però ci si prende tutto il tempo necessario per raccontare un bambino che non riesce a capire i genitori, l'incredulità che hanno i ragazzi, che si pensavano invincibili, davanti alla morte o la difficoltà di certe scelte. L'autrice non prende mai la strada più semplice. Niente scene di sesso esplicito, niente indugiare sulla violenza, nessun buono e nessun innocente (però qui senza ottimismo o speranza di redenzione). Ma molto onore viene dato ai tentativi falliti, ai drammi oscuri, al coraggio solitario di chi cerca, senza illusioni, di andare avanti.
Vorrei avere lo stesso tocco. Riuscire a far sentire umani e vicini anche gli assassini.

Voi leggete fumetti? Sono stati fonte d'ispirazione?

sabato 19 luglio 2014

Letture di luglio

Il messaggero dell'alba
Francesca Battistella
Francesca è un'amica e una risorsa, dato che non è da tutti avere una buona giallista a pochi chilometri da casa. Cerco, però, di pensare al libro dimenticandomi di conoscere l'autrice (tanto il conflitto d'interessi l'ho già dichiarato e lo conoscete).
C'è un serial killer che ha come vittime scrittori e critici affermati e si sposta da Roma alla provincia di Napoli, dove si sta svolgendo un festival letterario. Qui, però, si trova in vacanza anche la profiler Costanza Ravizza, ospite dell'amico Alfredo.
La prosa di Francesca scorre con piacere e, come sua abitudine, dipinge un giallo in cui si sorride senza dimenticare, però, tensione e intelligenza. Descrive il sottobosco editoriale con preciso cinismo, un mondo di trappole editoriali che noi aspiranti scrittori conosciamo anche troppo bene (mio sospetto: l'autrice ha sublimato sulla carta omicidi che avrebbe davvero voluto commettere?). Le vittime, poi, sono di rara antipatia, per cui non tifare per il killer a un certo punto diventa difficile.
Unico appunto: troppi personaggi. Tutti ben delineati, ma alcuni avrebbero meritato più spazio, sopratutto i membri del team di esperti. Anche gli stessi protagonisti, Costanza e Alfredo,
sono un po' costretti in un numero di pagine troppo ridotto perché possano esprimersi al meglio.

Il mio amato brontosauro
Brian Switek
Non ci sono più i dinosauri di una volta.
Alcuni, letteralmente, non ci sono più, come i brontosauri, perché la classificazione è stata aggiornata, cambiando i nomi, accorpando o dividendo specie. 
Altri sono cambiati.
Toglietevi dalla mente i placidi giganti grigini delle vecchie ricostruzioni. Il Tirannosauro era con ogni probabilità un enorme gallinone piumato, agile, che non disdegnava il cannibalismo e poteva essere ucciso dal mal di denti. E vogliamo parlare dei velocitaptor, confusi in Jurassic Park con parenti di tutt'altro nome, che erano delle sorta di voraci tacchini?
Un saggio agile che aggiorna sulle ultime ricerca sui dinosauri, alternando precisi riferimenti scientifici (molto ricco l'apparato di note) al racconto personale di un appassionato di dinosauri che si rende conto che l'amato brontosauro della sua infanzia in realtà non è mai esistito.

Steelhearth
Brandon Sanderson
Ecco, io spero che Sanderson goda di ottima salute. Davvero. Perché il ragazzo (per fortuna è poco più che un ragazzo) inizia saghe con la facilità con cui io decido di mangiarmi un gelato. Se dovesse dipartire lasciandole incompiute potrei decidermi a un viaggio negli inferi per riportarlo quassù e obbligarlo a finire il lavoro.
Ricapitoliamo, ha iniziato una saga che si prospetta biblica con La via dei re, il romanzo che mi ha fatto abbandonare la scrittura di fantasy per ko tecnico. Con La legge delle lande ha preso una sua vecchia ambientazione, ne ha implementato la tecnologia e ha dato vita a qualcosa di ancora più interessante rispetto al materiale di partenza. Ogni tanto scrive opere autoconclusive, così, per svagarsi. E poi inizia a parlare di supereroi. Supereroi supercattivi, però.
In questo Steelhaert si racconta di una qualche catastrofe ancora non ben chiarita, che ha trasformato alcune persone in supereroi, con superpoteri e strani punti deboli. Peccato che tutti i supereroi siano psicotici e non pensano neppure lontanamente di ergersi a paladini dell'umanità, anzi.
In una Chicago che è diventata la signoria privata di uno di questi, però, arrivano gli Eliminatori, un gruppetto normali esseri umani che dedica la propria esistenza a tentare di eliminare i supereroi. A loro vuole unirsi David, giovane voce narrante della storia.
Ecco, questo volume è una semplice storia di resistenza, con il capo dei cattivi da una parte e i ribelli dall'altro, il tutto raccontato dalla voce un po' ingenua del diciottenne David. È un romanzo scorrevole, piacevole, ma non epocale. Però l'ha scritto Sanderson. Quindi mi aspetto che tutti gli interrogativi seminati qua e là debbano avere una risposta. E che questa non sarà quella che il lettore si aspetta.
Attendo i prossimi volumi (sperando che l'autore non inizi altre saghe).
Per fortuna non ho mai desiderato scrivere una storia di supereroi.

giovedì 17 luglio 2014

Scrittrice stagionale


Potrei definirmi così in un ipotetico biglietto da visita "prof precaria e scrittrice stagionale".
Del resto c'è chi d'estate va a cogliere i mirtilli o i pomodori, chi fa il barista, o passa la stagione turistica a lavorare in albergo, in rifugio o in ostello.
Io, a dire il vero, scrivo in estate e in inverno, ma è diverso.
In inverno un'ora di scrittura è un'ora tutta per me, guadagnata con le unghie e con i denti. Me la godo appieno, anche se magari di fondo c'è la televisione che sta guardando il Nik o gli occhietti si chiudono e Morfeo mi chiama con voce suadente.
Non ha troppo senso darsi scadenze, d'inverno, tanto basta una coda sulla via di casa, una cassa che si inceppa al supermercato (e la cassa che ho scelto è sempre quella che si inceppa) e il tempo scrittura se ne va. È inutile fingersi scrittori, d'inverno, è un hobby, gestito come tale e come tale fa piacere praticarlo.

D'estate, dopo aver salutato i non più colleghi, mi scopro scrittrice. Potrei parimenti definirmi disoccupata o casalinga. E, ecco, non so se sono o no brava a scrivere, ma è un fatto che mi vengano meglio i racconti delle pulizie. Ci sono più aloni sui vetri e i pavimenti dopo che li ho lavati che sbavature nelle mie storie (non sono le storie a essere impeccabili, sono i pavimenti che fanno schifo, specie se il gatto ci passeggia quando hai appena finito di passare lo straccio).
Come sempre accade, se cambia la prospettiva, cambia tutto.
Cambia il tempo scrittura. Posso scegliere quando e dove scrivere. 
Oggi, ad esempio, colazione con il Nik alle sette, lavaggio bagni, tempo blog e poi tutto un pomeriggio di scrittura. 
Mi viene naturale darmi scadenze. Voglio finire la stesura del romanzo che sto scrivendo per fine agosto.  Questo vuole dire che oggi è il 17, dal primo di luglio a oggi ho scritto dodici capitoli (dieci erano già pronti), il che vuol dire circa 5 capitoli a settimana, svariate migliaia di battute al giorno.
Arrivo alla sera un po' frastornata. Non è tanto il fatto di aver passato quasi tutta la giornata da sola. È il fatto di aver passato tutta la giornata, e non solo le ore al computer, a pensare al romanzo. 
In qualsiasi storia accadono fatti spiacevoli ai protagonisti. Io poi scrivo gialli. Ci sono morti, assassini. Menti di assassini. Motivazioni di assassini.
In uno degli scavi archeologici a cui ho partecipato ero l'addetta alla setacciatura. A quanto pareva, riuscivo a mantenere per ore l'attenzione sui particolari minuti e così passavo le mie ore a setacciare con l'acqua secchiate di terra alla ricerca di scarti di lavorazione in selce o cristallo di rocca o manufatti sfuggiti ai miei colleghi. Rimestavo fango tutto il giorno.
Ecco, la scrittura intensiva di un giallo assomiglia a quell'esperienza. Rimestare nel fango degli animi umani. Magari le parti più sporche poi le lascio fuori dal romanzo, ma devo comunque indagarle.
La notizia buona è che comunque non sto impazzendo. Non sono impazzita quando ho scritto il thriller storico, il romanzo che mi ha fatto rimestare più fango, perché c'erano angoli della mente del protagonista davvero spaventosi e di certo non impazzirò per questo.
Però arrivo alla sera un po' stranita. Con tanta voglia di un contatto col mondo reale. Peccato che il marito stia attraversando un periodo di lavoro particolarmente faticoso e lui, invece, vuole solo spiaggiarsi sul divano.
Poi ci sono altri aspetti.
Il senso del ridicolo.
– Cosa stai facendo?
– Scrivo.
– E quando uscirà questo romanzo?
– Forse mai.
– E continui a scrivere?
 – Già...
Per fortuna ci sono i lettori fissi, che leggono la storia a cinque capitoli alla volta e non mi abbandonano (un grazie a tutti, a chi legge e a chi leggerà, e uno speciale a Chiara e Mist che mi stanno aiutando parecchio).

Poi ci sono le risposte degli editori per "Una storia piena di struzzi". Si possono riassumente tutte con "ni". A parte a un editor a cui proprio il romanzo non è piaciuto, gli altri scrivono più o meno tutti "bello, scorrevole, interessante, però..."
La parte dopo il però cambia ("però ci è sembrato troppo" vince per ora il premio simpatia), ma il succo è che il romanzo non è ben inquadrabile all'interno del genere e quindi o non se la sentono di pubblicarlo o vogliono comunque leggere anche il seguito (quello che sto scrivendo e da qui l'esigenza della scadenza) per "capirmi meglio".
La mia agente, che ringrazio, riesce sempre a mettere in luce la parte positiva del giudizio e mi evita pensieri troppo disfattisti. Il tutto amplifica la sensazione, già insita nell'estate, di tempo sospeso.
Quindi scrivo, rimescolo il fango cercando di non esserne risucchiata. Sperando di trovare qualche arma  in cristallo di rocca, come accadeva in quello scavo di un'estate lontana (undici anni fa... ), un momento in cui tutto, di colpo, acquisiva senso.

martedì 15 luglio 2014

Distributore editoriale, cos'è e cosa fa - Praticamente



Torna Praticamente la rubrica dedicata ai problemi pratici degli aspiranti scrittori, le cosa da sapere e da considerare prima, dopo e durante la firma di un contratto editoriale.
Oggi parliamo di un tassello fondamentale per il successo del vostro libro: il distributore editoriale.

Quando ho iniziato a scrivere non avevo idea di cosa fosse e neppure me ne ponevo il problema. Pensavo che, una volta stampato da un serio editore, un libro apparisse più o meno per magia in tutte le librerie d'Italia. È vero che all'epoca stavo leggendo la saga di Harry Potter, ma questa può essere una scusante solo fino a un certo punto.

Come chiunque può capire, un libro arriva in libreria solo se qualcuno ce lo porta. Questo qualcuno è il distributore editoriale. Non solo. Saranno, molto spesso, i rappresentati dei distributori editoriali quelli ad avere un contatto diretto con i librai e quindi a far sì che il librario decida di prendere qualche copia del libro e, magari, di esporla in vetrina. Non si tratta quindi di un passaggio di poco conto.

Le grandi case editrici, molto spesso, fanno parte di gruppi proprietari anche di un distributore. Questo contribuisce, ovviamente, al fatto che la maggior parte dei libri venduti in Italia appartenga alla solita manciata di editori. Non solo sono quelli con più risorse e più organizzati, ma hanno un controllo totale anche sulla distribuzione e un risparmio sui costi. 
Se state per pubblicare con Mondadori o Newton o con una delle case editrici del gruppo Mauri Spagnol potete anche interrompere qui la lettura: per voi la distribuzione è assicurata e il vostro libro sarà facilmente reperibile ovunque.

Gli editori più piccoli, quindi, si devono invece appoggiare a un distributore esterno e lo devono pagare. Il prezzo della distribuzione incide enormemente su quello di copertina, pare per circa il 60%. Questo fatto porta con sé subito tutta una serie di conseguenze:
- aumento dei prezzo per i libri dei piccoli editori. A parità di carta e di pagine con un tascabile di un big è difficile che un libro di un piccolo editore costi meno di 15€, cosa che, in tempi di vacche magre, non invoglia all'acquisto.
- diminuzione dei guadagni degli editori che, di conseguenza, oseranno di meno. Se non sono sicuri che il libro possa vendere, non lo pubblicano.
- tentativi più o meno riusciti di bypassare i distributori.

Se trovate un piccolo editore che ha un rapporto di amore con il proprio distributore, fatemelo sapere. Per quel che ho potuto constatare io, spesso il rapporto è di odio, magari a ragione, visti i problemi di cui sopra.
È possibile fare a meno di un distributore editoriale?
Ovviamente il mio punto di vista è quello dell'autore, che vuole vedere il suo libro letto, cambiando prospettiva magari tutto cambia. 
Ho visto all'opera diversi sistemi per bypassare il distributore, ciascuno con pro e contro.
Puntare sul digitale. Si taglia la testa al toro e si pubblica solo e-book. Campo per me nuovo, mi sto documentando e quindi poco posso dire. Immagino che possa funzionare con una strategia promozionale mirata. Ricordiamo comunque che le vendite di e-book in Italia sono al momento pari al 5% del totale (e che il totale non è ricco...)
Vendita diretta da parte di editore e scrittore a fiere, eventi, presentazioni. Bisogna essere, però, quasi ubiqui, avere un sacco di tempo da dedicare alla vendita, essere bravi non solo a presentare il libro, ma anche a spingere all'acquisto (ad esempio a me piace fare presentazioni, ma sono una pessima venditrice). Può funzionare se si ha un target preciso di riferimento (es: libri di fantascienza venduti a tutte le fiere e i raduni a tema) e le giuste qualità umane. Se si ha comunque anche un distributore, è meglio
Vendita su abbonamento. Può funzionare solo per collane di libri molto specifici che abbiano già un loro pubblico di riferimento e solo con una qualche garanzia per il lettore (un esempio che conosco: collana di apocrifi sherlockiani curata da un noto esperto a cui ci si può abbonare). Si può fare solo in casi rari e, anche qui, se c'è anche la vendita in libreria tramite distributore è meglio.
Sistema delle librerie amiche bisogna creare un forte legame di fiducia tra editore e alcune librerie. A queste librerie l'editore spedirà direttamente i libri. Sia l'editore che la libreria avranno margini di guadagno maggiori per copia venduta, dato che non c'è da pagare il distributore. Quindi i librai sono incentivati a promuovere questi libri.
In alcune librerie della mia zona stanno apparendo gli scaffali "a km zero", dedicati ai libri di editori locali distribuiti con questo sistema e devo dire che funziona. Noto che i librai sono molto disponibili, se si organizza una presentazione sono pronti a portare copie e a occuparsi della vendita, anche se vuol dire, magari, stare in giro una sera per poche copie vendute.
Il contro, ovviamente, è che tanto lontano non si può andare. Un libro distribuito in questo modo può essere ben esposto in 10/15 librerie, ma se lo cercano dall'altra parte d'Italia son dolori. Anche qui avere anche un distributore è meglio.

Il consiglio di Tenar
Se siete nella fortunata condizione di essere in procinto di firmare un contratto editoriale che prevede la stampa in formato cartaceo, il mio consiglio è di informarvi bene sulla politica distributiva dell'editore.
Ci sono editori NON EAP (quindi che non chiedono contributi) che non prevedono un distributore né una seria politica alternativa. Semplicemente contano sul fatto che più o meno tutti noi possiamo riuscire a convincere 200/250 persone a comprare il nostro libro (magari ordinandolo direttamente sul sito dell'editore). Loro non diventeranno ricchi, ma neppure falliranno. Noi non avremo pagato per pubblicare, ma neppure allargheremo il nostro parco lettori.
Quindi pensateci su. 
Non sto dicendo che un editore senza distribuzione è un cattivo editore, anzi, solo che ci vuole comunque una chiara politica di distribuzione. 
Io ho simpatia per tutti i sistemi alternativi, mi piace in particolar modo il sistema delle librerie amiche, che mi sembra virtuoso e riconsegna al libraio il suo ruolo centrale nella promozione di un testo e leggo volentieri i "libri a km 0".
Se però c'è anche un buon distributore è meglio.


domenica 13 luglio 2014

Fonti d'ispirazione: saggi

Terza puntata del post dedicato alle fonti d'ispirazione non letteraria. Il primo post, dedicato al cinema, lo trovate qui, mentre il secondo, sulle canzoni, qui. Oggi si parla di saggi.
Penso che la lettura di saggi sia indispensabile allo scrittore e all'aspirante tale. Non solo per una questione di documentazione, ma proprio per un'attitudine mentale. Se lo scrittore è un creatore di mondi, intendendo questo nel senso più lato possibile (mondi interiori, altri mondi, altri tempi, microcosmi...) non può che essere per natura curioso. Soffermarsi, imparare, andare a fondo alle cose sono attitudini mentali di cui difficilmente si può fare a meno. Del resto si può descrivere la giungla senza esserci mai stati, ma non senza aver mai letto qualcosa in proposito.
Al momento ci sono diversi saggi sul tavolino del salotto. Oltre a quelli che servono per la documentazione al romanzo in scrittura l'altra sera mi ha fatto tirare tardi uno che mi parlava del piumaggio dei dinosauri (eh, sì, il T. Rex coperto di piumino è davvero un po' imbarazzante...). 
Come per le altre Fonti d'Ispirazione, i tre saggi che vado a presentare non sono i più belli o i più importanti che io abbia mai letto, ma quelli che hanno avuto un effetto più diretto sulle mie storie.

CESARE,  IL DITTATORE DEMOCRATICO
Luciano Canfora
Luciano Canfora mi incanta sempre quando mi racconta il mondo antico, persino quando dissento da lui.
Questo saggio in particolare, però, ha avuto un effetto epocale sulle mie storie. Ha avuto un'influenza diretta, liberando le idee che hanno dato vita al racconto Come foglie nel vento, pubblicato su Giallo Mondadori nel novembre 2012 e al giallo/noir storico arrivato in finale al Premio Tedeschi nel 2013. 
Ha portato, però, anche a ragionamenti più universali.
Imparare a vedere i personaggi come universi complessi
Canfora indaga la storia e la personalità di Giulio Cesare cercando di tenerne presente i molteplici aspetti. Da un lato riesce a descriverlo con frasi brevi e icastiche: "un impasto di meschinità e grandezza", dall'altro tiene in considerazione tutte le tessere del puzzle. Un politico pragmatico, un amante del rischio, uno che non ha paura di sporcarsi le mani, ma che tuttavia spende fortune in lussi, ma anche un intellettuale. Un uomo, come tutti, formato dalla sua storia famigliare, dal contesto politico,  ma anche privato in cui è cresciuto e dal substrato culturale in cui si muoveva. 
Al di là del ritratto del singolo uomo, Giulio Cesare, talmente vivo e intrigante da non convincermi al 100% come storica, ma capace di farmi innamorare come narratrice, questo saggio mi ha fatto capire che ogni personaggi è un universo altrettanto complesso. Ogni personaggio porta su di sé le tracce del contesto in cui è vissuto, sia sociale, che culturale che personale e ogni personaggio è fatto di infinite sfaccettature e sconcertanti contrasti. Non tutti, ovviamente, finiranno come Cesare a conquistare le Gallie, distruggendo un popolo intero, ma, contemporaneamente, scrivendo il libro che permetterà anche al suo nemico di diventare un eroe dal nome immortale. Tutti però sono, nel loro piccolo, un impasto insieme folle e coerente che va analizzato prima di essere raccontato.

GEOGRAFIA DEL CINEMA
Bruno Fornara
Lo "zio Bruno" è stato mio prof di cinema al master che ho seguito dopo l'università e ha plasmato in modo irrimediabile in mio modo di fruire e di costruire una storia. Anche se non lo avessi conosciuto di persona, solo la lettura del suo saggio sarebbe bastata ad incantarmi.
In Geografia del cinema i film vengono analizzati e spezzettati per carpirne i loro segreti, ma sopratutto per rendere il lettore uno spettatore più attendo, in grado di apprezzare con somma goduria una pellicola ben girata. Alcuni concetti, tuttavia, possono essere applicati anche alla narrativa.
Una storia è fatta di diversi elementi e tutti devono convergere verso un unico scopo
Trama, ritmo, sviluppo dei personaggi, ma anche punto di vista, gestione delle linee temporali etc. etc. sono tutti gli elementi che vanno a formare un romanzo. Tutti vanno conosciuti, analizzati e utilizzati con consapevolezza  in modo che tutti siano coerenti con ciò che l'autore vuole dire. Cosa l'autore voglia dire non ha importanza, può anche essere "nulla ha un senso", ma una storia funziona se:
a) l'autore ha ben chiaro in mente qual è il nocciolo del suo discorso
b) ogni elemento contribuisce a formare questo nocciolo.
Va da sé che cinema e letteratura, mezzi differenti, con una fruizione differente, non siano sovrapponibili. Un romanzo può essere multifocale, avere cioè più "noccioli del discorso" e avere un fascino dovuto anche a un controllo non ferreo sulla materia. Tuttavia, almeno per me, che non ho mai avuto velleità da grande letteratura, l'idea che ci sia un centro verso cui tutto va a convergere ha molto fascino.

SCRIVO DUNQUE SONO
Elisabetta Bucciarelli
Ho già avuto modo di dire altrove che trovo la prosa di Elisabetta Bucciarelli di rara eleganza. Così quando è uscito questo libro, sono subito corsa a prenderlo. E ne avevo bisogno.
Un po' manuale e un po' meditazione sulla scrittura, il testo non offre alcuna ricetta per sfornare best seller, anzi sono del tutto assenti molti concetti base presenti in quasi tutti i manuali di scrittura creativa. Questo perché il centro del libro non è pubblicare, ma, appunto, scrivere. 
Due cose mi ha ricordato la Bucciarelli
Il valore personale della scrittura
"Scrivere è anche un modo per prendere possesso del mondo che abbiamo intorno. Un atto di appropriazione indebita, una forma di bracconaggio (...) che in modo più o meno catartico ci rende proprietari di oggetti, luoghi, fantasie, sogni e anche persone" recita la quarta di copertina.
Nel nostro mondo di aspiranti, tutti tesi alla pubblicazione, alla recensione, al risultato, a volte si rischia di dimenticare il perché abbiamo iniziato a scrivere, allora, quando pubblicare non era neppure nei nostri sogni. Ebbene, per me era proprio quello, un atto di appropriazione indebita, un rendere mio e solo mio, in quanto filtrato dal mio modo di vedere, quello che mi colpiva. O, al contrario, un dono non richiesto, un dare all'altro, un altro solo potenziale, un sogno o un incubo, un parto della mia mente che sarebbe svanito all'alba. Fermarlo su carta. Renderlo vero.
Alla fine, scriviamo per provare a noi stessi di esistere. 
Questo resta vero al di là di ogni fortuna editoriale.
Prendersi cura della prosa
Io spesso finisco per essere molto concentrata sulla trama. Penso a quello che deve accadere, penso al personaggio, visualizzo la scena. E poi mi metto al computer e la scrivo, così, un po' di getto, cercando di ricreare con le parole le sensazione che provavo nell'immaginare i fatti. Era da molto tempo che non mi concentravo più esclusivamente sulla prosa. Sulla scrittura sensoriale. Che non perdevo tempo a esercitarmi con l'aggettivazione. 
Questo saggio mi ha ricordato che devo prendermi cura delle parole. Sempre.
Per una che scrive, non mi sembra una cosa da poco.

Per voi quali saggi sono stati fonte d'ispirazione?

venerdì 11 luglio 2014

LA ROCCIA NEL CUORE: un libro per l'estate

In estate si sa, si ha più tempo, si legge di più, c'è l'opportunità di recuperare tutti quei libri che per un motivo o per l'altro ci siamo lasciati sfuggire.
Per chi non l'avesse ancora fatto, c'è sempre la possibilità di recuperare il mio romanzo LA ROCCIA NEL CUORE.
È un libro breve, un giallo che si può leggere in un paio di sere o in un pigro pomeriggio in spiaggia.
La storia, è ovvio, è racchiusa dalla cornice del mio lago. 
Nel paesino di Pella il nuovo parroco, padre Marco, ha, proprio nel giorno del suo arrivo, una triste incombenza: celebrare il funerale di un ragazzo che forse è caduto o forse si è buttato dalla rupe della Madonna del Sasso (il santuario che vedete in copertina). Un compagno del ragazzo morto, però, non è affatto convinto che si sia trattato di un incidente o di un suicidio e anche a padre Marco le cose iniziano ben presto a non tornare. Iniziano così due indagini parallele, condotte da due investigatori per caso del tutto antitetici che si scopriranno, però, complementari.

La giornalista Annarita Briganti ha avuto la bontà di citare me e il romanzo proprio all'inizio del suo elenco di eredi di Chiara e Vitali, sulle pagine milanesi di La Repubblica del 10 giugno 2014. 

La stessa giornalista l'anno scorso mi aveva anche dedicato un articolo a tutta pagina.

Tra le varie recensioni uscite ne cito una soltanto, a cui sono particolarmente affezionata, quella di Alessandra Bucchieri, che ha dedicato al mio romanzo un bel post nel suo blog, lo trovate qui 

I miei personaggi, poi, sono capacissimi di presentarsi da soli.
Qui trovate l'intervista a Padre Marco
Qui, invece, quella a Gabriele
Infine, vi segnalo un post speciale sui Luoghi della Roccia nel cuore con le foto delle location e dei brani dal romanzo.

Incuriositi? Non resta che leggere
La roccia nel cuore
Interlinea editore
15 €
È facilmente ordinabile in tutte le librerie e negli store on-line.
È immediatamente disponibile nella libreria E.P. Book di Borgomanero
Questa la pagina dell'editore, con la possibilità di ordinarlo direttamente.

E se poi non foste, ancora sazi, ricordo che padre Marco è presente con dei racconti anche nelle antologie:
Eclissi editrice
12€
Lampi di stampa editore
15,90 €

Buona lettura a tutti

mercoledì 9 luglio 2014

Fonti d'ispirazione: canzoni

Ecco la seconda puntata del post dedicato alle opere non letterarie che hanno cambiato il mio modo di vedere e di raccontare una storia. Qui trovate la prima puntata, dedicata al cinema.
Oggi musica!
Per vari motivi questo è sinonimo di cantautori italiani. Da non anglofona è ben difficile, infatti, che mi innamori di una canzone in inglese per il testo e che siano le parole in prima istanza a farmi scattare delle riflessioni.
Come per il cinema, quelle segnalate sono canzoni che ho amato, ma non necessariamente quelle che ho amato di più, diciamo quelle "ascoltate con l'orecchio del ladro".

DE ANDRÈ 
Non c'è bisogno che ve lo presenti, vero? Passiamo al furto.
La letteratura del passato (anche lontano) può parlare di attualità al presente
Ascoltando le canzoni di De André è impressionante notare quanta letteratura vi sia dentro, in particolare quanta poesia medioevale vi sia dentro. Eppure siamo tutti concordi nel dire che si è trattato di un autore impegnato, attento ai problemi del suo tempo. Non è questo un magnifico paradosso? La poesia medioevale non è esattamente la cosa più immediata e attuale che possa venire in mente. Di solito al solo nominarla fa venire il latte alle ginocchia. Invece Fabrizio De André vi nuotava letteralmente dentro. A volte si è limitato a cantare delle poesie messe in musica (S'i fossi foco di Cecco Angiolieri), a volte ha tradotto testi antichi per creare nuovi brani di sapore medioevaleggiante (Geordie). Tutti morimmo a stento, l'album di cui vedete la copertina, contiene La ballata degli impiccati, una stana operazione di riscrittura/attualizzazione/meditazione sulla base di una poesia di Francois Villon, autore francese del quattrocento che De André sentiva particolarmente suo.
Potete anche divertirvi a cercare i rimandi e le assonanze tra poesie medioevali e testi di canzoni che non hanno con loro un legame diretto. Echi di Jacopone da Todi emergono quasi a tradimento (Ottocento - Si chiamava Gesù).
La cosa che più mi colpisce è che, a differenza di quanto avviene con altri autori altrettanto colti, le canzoni di De André sono immediate. Il suo medioevo (come i suoi vangeli apocrifi o la sua versione dell'Antologia di Spoon River) parla direttamente al presente. La cultura viene presa e rielaborata per creare qualcosa che è tutt'altro che distante dall'attualità. Il citazionismo colto non ha spazio qui, c'è piuttosto un senso di comunanza rispetto a determinati autori che avevano (hanno) ancora tanto da dire.

FRANCESCO GUCCINI - AUTOGRILL

... Bella, d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria
quasi triste, come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria

Guccini è forse il più narrativo dei cantautori italiani e pertanto mi ha insegnato un piccolo trucco stilistico.
La metafora è efficace quando è precisa
La metafora serve per far capire al lettore cosa intenda davvero lo scrittore, evocare una sensazione, un'atmosfera, un'emozione che non può davvero essere spiegato in modo lineare.
Questa metafora non è di una precisione chirurgica? Non abbiamo tutti immediatamente la sensazione di vederla, questa ragazza dietro al banco dell'autogrill, come un papavero aggrappato alla verticale della scarpata ferroviaria sotto un cielo plumbeo? 
Tutta la canzone è una perfetta descrizione d'atmosfera.

... Il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere
che tracciavo con un dito dentro al cerchio del bicchiere.

Ho deciso di scrivere in un giorno d'autunno mentre, sotto la pioggia, mio padre mi accompagnava a Pisa, dove stavo iniziando il primo anno d'università. Ascoltavamo un cd di Guccini. Di colpo ho pensato che potevo farlo, se avessi imparato a usare le parole con questa stessa precisione.

Legata a questa canzone, c'è anche una dichiarazione di Guccini che dà proprio l'idea del lavoro che è necessario fare con le parole. Si ha un'immagine, un'idea in testa, ma poi bisogna tradurle in parole e queste devono essere poche ed efficaci. In un testo di canzone, ovviamente, le parole saranno meno, ma anche in narrativa, secondo me, l'economia paga.
Ecco il racconto dell'autore:
"... A un certo punto volevo dire: mi sono messo distrattamente a tamburellare su una scatola di latta di té su cui era disegnato un indiano. Non mi veniva..." (F. Guccini, Stagioni, Einaudi)
Il risultato:
... Ma per non gettarle in faccia qualche inutile cliché
picchiettavo un indù in latta di una scatola di tè...

Quali canzoni sono state per voi fonti d'ispirazione?

lunedì 7 luglio 2014

Visioni - Dallas Buyers Club


Fine settimana di clima autunnale, dedicato al recupero die film persi durante l'anno scolastico. Dopo A proposito di Davis, ieri sera è stata la volta di Dallas Buyers Club, pellicola per certi versi antitetica. Il primo era registicamente raffinato, concentrato nel ricreare un'atmosfera, ma con un protagonista di rara antipatia, questo punta invece tutto sul carisma del personaggio principale e sulla forza della storia in sé, senza curarsi troppo di qualche sbavatura qua e là.
Io ammetto la mia colpa, tra forma e storia scelgo la storia e quindi Dallas Buyers Club.
Ron, vero macho americano tutto rodeo, omofobia e belle donne, scopre di avere l'AIDS. Dopo l'incredulità iniziale e la difficile accettazione di una diagnosi che gli lascia 30 giorni di vita, si mette a studiare per cercare una cura. Prima ruba in qualche modo un farmaco in sperimentazione, che quasi lo ammazza, ma poi, in Messico trova qualcosa che sembra funzionare. Un po' per senso degli affari, un po' per empatia verso i disperati come lui, inizia a importare negli USA in modi più o meno legali tutto ciò che sembra avere un effetto, mentre le case farmaceutiche americane gli fanno guerra.
Vi sono, ovviamente, nella storia di Ron due aspetti che colpiscono. Su quello prettamente medico/farmaceutico i miei sentimenti sono contrastanti. Il sistema medico americano è descritto come un mostro, e con ogni probabilità lo è, ma il buon senso suggerisce che il "metodo Ron" funziona solo con un solido studio e serie consulenze mediche. Per ogni malato/famigliare di malato che ha trovato da solo una cura efficace ce ne sono altri mille che hanno solo finito per arricchire loschi giri, animando false speranze.
Quello che funziona senza se e senza ma, invece, è la parabola umana di Ron, omofobo che bolla l'AIDS come "malattia per checche" che finisce per trovare solidarietà proprio dalla comunità gay. Mentre gli amici di sempre lo abbandonano, è un transessuale a diventare suo socio e amico.
Se cercate la perfezione formale, dicevo, guardate piuttosto i Coen, qui le ingenuità non mancano sia a livello di regia (la scena delle farfalle sulla morte di Rayon, dal retrogusto stucchevole) sia di sceneggiatura (se un medico trova dopo anni un paziente a cui aveva dato 30 giorni di vita come può non esserne quanto meno incuriosito?), la sua forza e la sua intensità poggia interamente su personaggi e interpretazioni.
Sia McConaughey che Leto hanno vinto, strameritatamente, l'oscar. Per McConaughey (con l'augurio che non ci abbia lasciato anche la salute, oltre i 20 kg) credo che si parlerà sempre di un prima e dopo Dallas Buyers Club. Se il dopo è rappresentato dalla sua interpretazione in True Dedective allora, forse, ne è valsa davvero la pena.

Voto: 7 (8 alle interpretazioni)

domenica 6 luglio 2014

Visioni - A proposito di Davis


A intervalli più o meno regolari i fratelli Coen sentono l'esigenza di girare film di rara tristezza.  A volte, come nel caso di A serious man, riescono a descrivere tutto l'abisso di precarietà su cui si fonda, con esili basi, l'esistenza umana. Altre volte, come in questo caso, rimane solo la tristezza.
Davis vorrebbe sfondare come cantante folk. Non ha nulla, sulla carta, che gli manchi, sono gli anni giusti, i primi anni '60, suona nei locali giusti, ha la giusta mestizia nell'anima e nella voce. Ma non c'è volta che azzecchi una mossa. Se viene ospitato a dormire a casa di amici ricchi farà scappare l'amato gatto, se viene chiamato all'ultimo momento come voce di supporto per incidere una canzone sceglie di rinunciare al diritto d'autore, mette incinta le ragazze con cui va a letto, poi si arrabatta per trovare i soldi per farle abortire, salvo poi non avere il coraggio di tornare da loro quando scopre che non hanno abortito. Tratta male tutte le persone che vorrebbero aiutarlo e non riesce ad imparare dai suoi errori.
Si muove in un mondo crepuscolare e grigio, dove tutti vorrebbero elevarsi, e non "limitarsi a esistere" e quasi nessuno ce la fa.
Come non vedere un parallelismo con il mondo della scrittura?
Non posso dire, in tutta onestà che questo film mi sia piaciuto, nonostante l'indubbia maestria con cui è girato. Rimane impressa l'atmosfera, questo inverno cittadino che sembra non potersi trasformare in primavera, ma poco altro. All'inizio empatizzavo col protagonista, ma di fronte al suo fare sempre, con matematica precisione, la scelta sbagliata ho iniziato a pensare che si meritasse anche di peggio e ad augurami una sua violenta dipartita.
Sopratutto non ho capito cosa i fratelli volessero comunicarmi. Se Davis si autocondanni all'oblio per questo suo non riuscire a spezzare un ciclico ripetersi di errori, o se tutto il film volesse solo ricordarmi che per un Bob Dylan che ce la fa ci sono mille altri Davis per cui l'inverno non è mai finito.

Voto: 6 e mezzo.

Fortemente sconsigliato ad aspiranti scrittori depressi che non riescono a sfondare.

giovedì 3 luglio 2014

Fonti d'ispirazione: cinema

Fonti d'ispirazione è un post a puntate (ce ne sarà una sul fumetto, una sulle canzoni e forse una sulle serie tv e sui saggi) in cui provo a raccontare le opere non letterarie che hanno rivoluzionato il mio modo di vedere e di raccontare una storia. Parlerò ovviamente di opere che mi sono piaciute, con l'intento di essere anche un invito alla visione o alla lettura, ma non tratterò necessariamente delle mie preferite. Piuttosto di quelle che mi hanno folgorato per uno o più aspetti che ho poi tentato di applicare alle mie storie. Cerco, insomma di mettere in pratica quanto dicevo in questo post "leggere con l'occhio del ladro"
Quindi, partiamo con il cinema

GRAN TORINO (C. Eastwood, 2008)
Dico Gran Torino, ma potrei citare parecchi dei film precedenti di Eastwood, uno dei miei registi preferiti. Vi sono infinite cose che vorrei rubare da un regista del genere, ma mi accontento di tre:
Raccontare con i silenzi e il non detto
Che cosa tormenta davvero il protagonista di Gran Torino? Qualcosa di accaduto in Corea, sicuramente. Qualcosa che "non gli era stato ordinato". Presumibilmente l'uccisione di un ragazzo molto giovane dettata dalla paura. Presumibilmente, perché non viene mai esplicitata del tutto. Eppure è il nucleo della psicologia del protagonista, è il peso che si porta dentro e che ha condizionato la sua visione del mondo e le sue difficoltà nei rapporti. È qualcosa che viene raccontato col silenzio e col non detto. C'è, ha un peso enorme nella vicenda, ma non viene esplicitato.
Il letteratura trovo che sia molto difficile raccontare col non detto, ma penso che valga la pena trovarci. Non tutto ciò che è importante va esplicitato o spiegato.
Avere ben chiaro che cosa si vuole raccontare
Di cosa parla Gran Torino? Ci viene detto chiaramente, all'inizio del film. È così in molte pellicole di Eastwood, la prima battuta è una sorta di dichiarazione d'intenti su quello che si andrà poi a raccontare ("Non si rimargina" - Million Dollar Baby; "Continuate a scavare" - Lettere da Iwo Jima). Una delle prime frasi del film parla "Delle cose da sapere sulla vita e sulla morte". Poco ambizioso il nostro Clint, vero? Ma è proprio di questo che parla il film, delle cose da capire prima di morire o prima di andare avanti nella vita. Il regista ha ben chiaro il suo obiettivo e lo persegue poi attraverso la narrazione e declinandolo tra i diversi personaggi. Ognuno di loro, alla fine, saprà più cose sulla vita e sulla morte, compreso il prete che ha pronunciato la frase.
L'importanza dei piccoli gesti
Il gesto più importante del film è quello di accendersi una sigaretta. Un gesto semplicissimo, raccontato con calma durante il film (in cui scopriamo anche la storia dell'accendino) e che alla fine ha un'importanza enorme. Un'importanza che sarebbe stata sminuita se quel gesto non ci fosse stato narrato così bene in precedenza. Ecco, prendersi del tempo a raccontare gesti minimi per poi attribuire loro una grande importanza è decisamente una cosa che voglio imparare.

A HISTORY OF VIOLENCE (D. Cronemberg 2005)
In un tranquillo borgo americano fa irruzione per caso un gruppo di assassini. L'inaspettata reazione di un (in apparenza) mite barista mette in crisi lui e la sua famiglia. Cronemberg prende un fumetto che alla fine era una "normale" storia con un personaggio che doveva fare i conti con il proprio passato e ne fa un discorso quasi filosofico sull'origine della violenza. Pur sapendo di essere di parte per motivi personali (questo romanticissimo film ha dato l'occasione a mio marito per il primo appuntamento) è oggettivo che sia girato con una maestria tecnica tale da farne una piccola lezione di cinema, infatti quello che voglio rubare è puramente tecnico.
Lo stile cambia a seconda del soggetto
Nella prima parte del film si seguono le vicende del barista e quelle degli assassini. Fino a che le due linee narrative non vanno a convergere le due storie sono raccontate con tecniche diverse. Montaggio classico per il barista, piano sequenza per gli assassini. Due mondi apparentemente diversi = due stili diversi. Quando le storie si mescolano anche le tecniche usate si mescolano. Quindi lo stile può essere portatore di significato e può (deve?) modificarsi a seconda di cosa si sta raccontando e dell'effetto che si vuole ottenere.

VALZER CON BASHIR (A. Folman 2008)
Valzer con Bashir (bellerrimo, da vedere assolutamente!) è una sorta di reportage a cartone animato. Un ex soldato israeliano si rende conto di non ricordare parte dei momenti trascorsi in guerra e inizia a cercare i propri commilitoni per ricostruire quanto era accaduto, fino a rendersi conto che aveva assistito ai massacri di Sabra e Shatila di cui il suo esercito era stato in qualche modo complice. La forma del cartone animato è dovuta a motivi sia pratici che estetici. Pratici perché non tutti gli intervistati volevano essere ripresi, mentre avevano dato l'autorizzazione all'utilizzo di voce e testimonianze. Estetici perché l'inconscio ha un enorme valore nella narrazione. Il film si apre con dei cani neri dagli occhi infuocati che corrono per una città, seminando distruzione. È un incubo, naturalmente, ma è anche il segnale di un malessere reale, è ciò che porta il protagonista a iniziare il suo viaggio. Allo stesso modo vi è il racconto di un soldato salvatosi nuotando per molti chilometri, il suo delirio è rappresentato da una sorta di madre marina che lo accoglie e lo sostiene. È allucinazione, ma è anche il modo per mostrare uno stato mentale particolare che di fatto ha salvato la vita a quell'uomo.
L'inconscio va trattato come un elemento reale
Questo è quello che voglio rubare a Valzer con Bashir. Dato che ogni percezione è soggettiva non dobbiamo pensare che ciò che è inconscio, incubo, immaginazione non sia importante. Un incubo, una fantasia o un'ossessione ha ripercussioni tangibili sulla vita reale.

LA FINE DEL MONDO (E. Wright, 2013)
Termino la carrellata con qualcosa di più leggero, considerando i film che ho citato prima.
La fine del mondo è un film folle, divertente, ma non è una parodia. Ha personaggi solidi e ben costruiti che si trovano a fronteggiare una situazione improbabile (un'invasione aliena) in un momento improbabile (mentre uno di loro li ha convinti a rifare il giro dei pub della loro cittadina natale) mentre sono ubriachi fradici.
A leggere la trama (e a non conoscere il regista) sembra impossibile che ne sia uscito qualcosa di guardabile. Il film, invece, è fantastico riesce ad essere assolutamente comico, ma anche, a suo modo, un solido film di fantascienza. Questo perché:
Tanto più ciò che si racconta è improbabile e tanto più deve essere sorretto da solidi mezzi tecnici
La fine del mondo è un film girato benissimo. Non c'è battuta o inquadratura che non abbia senso all'interno dell'opera complessiva. Ogni particolare è lì dove deve essere, ogni inquadratura è portatrice di significato.
Anche in letteratura tutto si può fare, ma più ci allontaniamo dalla "storia standard", vuoi per personaggi  estremi, vuoi per una struttura diversa da quella in tre atti, e più abbiamo bisogno di mezzi tecnici solidi per renderla fruibile. In caso contrario avremo solo il delirio di un pazzo.

Questi sono (alcuni) dei film che per me sono fonte d'ispirazione. Quali sono i vostri?

martedì 1 luglio 2014

Da dove viene la mia scrittura?


Colgo lo spunto da questo post di Grazia, ripreso a sua volta da quest'altro  di Daniele di Penna Blu e da questo di Chiara per provare anch'io a rispondere alla tutt'altro che semplice domanda:

Da dove nasce la mia scrittura?

Potrei dire che la mia scrittura è nata dalla noia, ma sarebbe una risposta vera solo in parte.
Dopo il liceo ho frequentato l'università lontano da casa, a Pisa. Ero già d'accordo con una mia compagna per dividere con lei l'appartamento, ma per vari motivi la mia coinquilina arrivò qualche mese dopo di me. Mi trovai quindi sola, senza televisione, radio e connessione internet, con del tempo per me e un sacco di storie che mi frullavano in testa. Iniziai a scriverle.

Se fosse stato solo un passatempo, però, non avrei poi scelto di frequentare un master incentrato sulle tecniche di narrazione né mi sarei incaponita così a lungo sulla strada della pubblicazione. A nessun altro dei miei interessi, atletica compresa, ho dedicato così tanto in termini di energia e tempo. Quindi la Noia è stata levatrice di qualcosa che già stava crescendo dentro di me da tempo.

La scrittura è comunicazione. Un'altra risposta vera solo in parte è quindi che scrivo per comunicare.
Negli anni del liceo ho avuto modo di mettermi alla prova e di testare la mia totale inettitudine in campo artistico e musicale. Sentivo di avere qualcosa dentro, ma non trovavo una forma per regalarlo al mondo. La narrativa, quindi, è la misura della mia comunicazione. Ma, scavando ancora più a fondo, cos'è che voglio comunicare?

Nelle storie di chi si è dedicato alla scrittura, ritorna spesso la solitudine, la difficoltà di integrarsi e l'attitudine a fuggire nel proprio mondo mentale. Tutto questo è vero anche per me. Quando avevo nove anni mi trasferii con i miei genitori e per alcuni anni, fino al liceo, non riuscii a farmi dei nuovi amici. Adesso vedo la cosa in modo molto diverso. Ero stata molto fortunata quand'ero molto piccola, tanto che due delle mie più care amiche sono proprio le mie migliori amiche di quella prima infanzia. Per me "amicizia" voleva dire affinità spirituale e condivisione in una forma che, oggettivamente, non si incontra dietro ogni angolo. Le mie nascenti amicizie erano frustrate dai miei altissimi standard. Allora, però, ne soffrivo e spesso avevo la sensazione di capire a livello empatico gli altri, ma di non saperlo comunicare.
Ecco, se dovessi scavare fino in fondo, posso trovare questo.
Una bambina che avrebbe voluto dire: "lo so come ti senti, anche se sei diverso da me."

Scrivere per me è gettare dei ponti. Ponti che mi portano in altre vite. 
Per questo per me i personaggi vengono sempre prima delle storie.

"So come vi sentite, al punto di voler vivere le vostre vite e raccontarlo agli altri."

Per questo, credo, i miei personaggi sono sempre degli introversi, dei trattenuti, spesso degli incompresi.

Grazia, Daniele e Chiara si chiedono poi da quale parte del corpo nasce la loro scrittura. Grazia risponde Gola, Daniele Cervello e Chiara Cuore.
Io ci ho pensato e non ho trovato una risposta precisa.
Ho pensato però al corso sulla personalità e la comunicazione seguito l'anno scorso. Ho già avuto modo di raccontare che ci fecero fare diversi test per conoscerci meglio. Uno diede, nel mio caso, risultati peculiari. Uscì (unica nel gruppo) che la componente principale della mia personalità è il carattere intuitivo. In pratica è risultato che sono abbastanza equilibrata sul rispetto delle regole, sull'essere istintiva o pianificatrice, ma ho sviluppato moltissimo il pensiero laterale tanto che interpreto la realtà attraverso di esso. È, almeno in parte, vero. Posso non notare particolari lampanti (sempre secondo il test ho soffocato la mia parte sensoriale), se devo ricostruire un ricordo posso mescolare colori e proporzioni, ma ricorderò sensazioni e strane associazioni. Questo mio modo un po' surreale di vedere il mondo è la parte di me da cui nasce la mia scrittura. Le costanti libere associazioni mi regalano storie o brandelli narrativi quasi costantemente, ma sopratutto cerco di mettere il mio modo di guardare la realtà in quello che racconto.
Eccone un assaggio:

"...Si accumulano i piatti utilizzati, macerie di un pasto consumato.
Dovrebbero inventare anche detersivi per le anime, lavatrici di sentimenti, che portino via i rimpianti come briciole. Come le briciole che cadono dalla tovaglia che Carlo scuote oltre la finestra. Qualche passero domattina le troverà. Qualche uccello dovrebbe venire a mangiare anche i rimasugli di un amore finito, portarne via i segni e lasciare il mondo pulito…"

E da dove viene la vostra scrittura?