giovedì 29 settembre 2016

Rivoluzioni copernicane

Non posso aggiungere molto all'immagine, perché, in effetti, non c'è molto da aggiungere. È evidente a chiunque mi frequenti via web che se domenica mi inerpicavo per i boschi e ieri bevevo il caffè con Sandra non posso aver partorito o essere prossima al parto. 
Si vede una cicogna, ma si legge adozione. 
E in effetti il sistema della cicogna va inteso proprio in senso letterale in questo caso. Una vita a imparare la scienza, per poi scoprire che aveva proprio ragione la nonna...
Non posso diffondere né dati né foto, almeno non a breve, ma potete dedurre più o meno tutto dall'immagine. Aggiungete tanta, tanta, tanta FELICITÀ (e un pizzico di panico).

I giorni scorsi sono stati abbastanza folli, tra l'ansia nostra di sapere qualcosa di più di un generico "c'è un bambino" e l'impossibilità di dirlo in giro, che mi ha portato, a scuola, a dare fondo alla mia creatività per procrastinare qualsiasi decisione/scelta/programmazione. Pare quindi che le alternative per la maternità siano due: partorire con dolore o adottare con terrore. Le mie amiche Ansia e Paranoia, però si stanno riciclando tutto sommato bene come fate madrine.

Non ho idea di che ne sarà del blog. O, meglio, ho idee, ma non so se riuscirò a realizzarle. Mi piacerebbe raccontare un po' attraverso delle vignette (giusto che io non so disegnare) qualcosa sull'adozione. Mi piacerebbe continuare a raccontare le mie storie. Ma ovviamente una rivoluzione va dove vuole lei, non dove chi vi ha dato il via vorrebbe.

UN ABBRACCIO A TUTTI
Spero a presto.

martedì 27 settembre 2016

Impressioni di settembre


A volte non c'è modo più giusto per specchiare il proprio animo che usare parole che qualcun altro ha già scritto per noi. Del resto è questa l'essenza della scrittura: lasciare su carta pensieri, emozioni e sentimenti che un giorno qualcuno leggerà e troverà perfetti per se stesso.
Sarò banale, ma oggi sono così.
 Impressioni di settembre.
Di questo settembre non penso riuscirò mai a fare un racconto coerente, quali siano le cose che ancora mi riserverà, me ne resteranno soltanto impressioni.
La PFM ha già svolto il lavoro per me. E ascoltando la canzone, percepisco ancora una volta il privilegio di potermici rispecchiare per intero e letteralmente, senza dover trovare sostituti per l'odor del grano, il mare d'erba o i cavalli.

Già l'odore della terra 
odor di grano 
sale adagio verso me 
e la vita nel mio petto batte piano 
respiro la nebbia 
penso a te 
Quanto verde tutto intorno 
e ancor più in là  
sembra quasi un mare l'erba
e leggero il mio pensiero vola e va 
ho quasi paura che si perda 


venerdì 23 settembre 2016

Anteprima "La Spada, il Cuore e lo Zaffiro" – I miei tre racconti preferiti


Ormai ci siamo! Tra pochissimo avrò il libro fra le mani, così come chiunque vorrò acquistarlo al prezzo di lancio di 10€.

Intanto mi stanno succedendo tantissime cose, tra cui un super corso di aggiornamento con tanto di esame finale in centro a Torino, trattati per una volta come professionisti veri (palazzo liberty, sala bella e attrezzata, tutti motivati a dirci che insegnare è bello), per cui, complice la stanchezza arretrata, la mia presa sulla realtà inizia a farsi labile. Se penso che solo un mese fa stavo dando l'orale del concorso mi vengono le vertigini.

Avevo promesso però delle anticipazioni.

La Spada, il Cuore e lo Zaffiro è una raccolta di racconti fantastici, in parte già premiati all'interno dei concorsi organizzati da RiLL e in parte inediti o apparsi su riviste.
Non c'è un singolo racconto di cui non sia fiera, sopratutto dopo il lavoro di lima e di cesello di Alberto Panicucci, che ha pesato ogni parola e ogni virgola, costringendomi a penetrare come mai mi era successo nei miei stessi scritti.
Tre di questi racconti, però, sono, a mio avviso, i migliori che abbia scritto. Se dovessi fare (se mai un giorno farò) una sorta di Best of ci andrebbero di sicuro insieme al racconto Come foglie nel vento edito da Giallo Mondadori nel 2012 (a oggi il mio miglior racconto giallo, insieme a un altro ancora inedito).

Sono una pessima pubblicitaria, ma
Se volete leggere i miei racconti migliori leggete questa antologia
E in particolare (in ordine di apparizione nell'antologia):

Ulisse e la tartaruga
Che io adori l'epica classica è risaputo. Così, quando mi è capitato un concorso in cui si doveva scrivere un racconto con alcuni elementi obbligati tra cui: Ulisse, tartaruga, una frase su una profezia e un luogo pieno di neve mi è sembrato che il regolamento fosse scritto apposta per me.
Ne è nato un racconto pratchettiano, ambientato in un'antica Grecia alternativa in cui la Tartaruga, costretta dal Fato a vincere qualsiasi scommessa, è obbligata a sfidare Ulisse a una gara di indovinelli proposti dalla Sfinge.
In ogni riga c'è una citazione e il tono è comico fino al finale. Non fino alla fine, però, solo fino al finale.
Mi piace perché considero il mito classico qualcosa di ancora vivo e in grado di parlare al presente. È il mio miglior gioco metaletterario e non è da tutti giocare con Ulisse e uscirne vivi.
Eccovene un frammento:
... Ricorrere alle profezie per prevedere i risultati delle competizioni era illegale, così come molte altre cose ma, in un mondo dove c’erano più Pizie e Sibille che panettieri, era inevitabile che gli scommettitori si rivolgessero a loro. Del resto erano gli opposti inconciliabili e congruenti di quella terra: assoluto rigore logico e filosofico e incrollabile fiducia nelle profezie.(...)Questo permetteva il proliferare di una quarta figura professionale, oltre a quella degli scommettitori professionisti, dei filosofi e dei profeti, cioè quella degli interpreti dei responsi, anch’essi molto più diffusi dei panettieri.

Notte stellata
Questo è il racconto che considero il mio gioiello stilistico. È uno dei racconti più recenti e ha scalzato dal podio, in questa categoria, un altro dei racconti dell'antologia Anche se ti uccide (il mio unico "racconto quantistitico").
A parlare è un fantasma anomalo. Il fantasma di un politico colluso milanese (che il fantasy non sempre racconta l'altrove). Un uomo dalla squisita formazione umanistica, che ha improntato al propria vita alla ricerca del guadagno personale. Da morto non intente rinnegare se stesso, ma sempre più si insinua in lui la sensazione (per lo più negata) di essersi perso qualcosa.
Mi piace perché è un racconto in bilico tra mero virtuosismo e zuccherosità. Trova un suo equilibrio di malinconia e di luce soffusa.
Eccovene un frammento:
Ho pensato, d’istinto, che la mia dannazione mi riservasse un ultimo, non cercato, piacere. Osservare, non visto, i loro corpi, come un tempo spiavo le voluttuose curve di Samantha. Tuttavia, non so cosa sono, ma non sono più vivo. (...) Nel mio guardare non c’è progettualità, né speranza o sogno d’azione. Non ci sono più centri del piacere da attivare. Nulla più che il vedere senza alcuna reazione una delle ragazze che si toglie il reggiseno mi ricorda che non sono più un uomo.

Come tela di ragno
È il racconto che ha ispirato la copertina. A voler fare l'intellettuale, il mio tentativo di fare un racconto "alla Carver" in ambiente fantasy classico. Un racconto che inizia due pagine dopo la fine di ogni romanzo fantasy che si rispetti. Il legittimo erede ha vinto la guerra e ha raggiunto il trono. E tutti sono felici? Una guerra civile lacera animi e famiglie, lascia solitudini desolate che non fanno che ferirsi a vicenda.
Mi piace perché ritengo che sia il mio miglior racconto di analisi delle relazioni tra i personaggi. 
Eccovene un frammento:

"Uomini, che vi prendete il piacere dove volete, calpestando giuramenti e anime affrante come cavalli al galoppo sui fiordalisi. Credi che non abbia visto il bastardo di tuo padre, nel tuo seguito? E tu? Andavi a conoscere la tua promessa sposa portandoti dietro il tuo amante. Se non vi avessero scoperto glielo avresti mai detto? L’avresti sposata ugualmente, lasciandola sola a disperarsi, a domandarsi cosa ci fosse di sbagliato in lei, per quale suo errore non riuscisse a illuminare lo sguardo del marito. No. Non disprezzare Erya o me, per averle permesso di vivere un frammento di felicità a dispetto delle guerre degli uomini.”

Come vedere ci sono molte cose diverse dentro questi racconti, storie diverse, stili diversi, sperimentazioni diverse. C'è anche, il meglio di me. Che magari non è abbastanza, ma è anche tutto quello che posso regalare al lettore.

L'antologia è in prevendita qui

mercoledì 21 settembre 2016

I misteri di Parigi – Piovono libri


Come raccontavo l'altro giorno, in estate i libri assegnati dal gruppo di lettura sono due, uno breve (Bellezza e Tristezza) e uno lungo, I Misteri di Parigi.
Era un libro che aleggiava da tempo sul gruppo, più volte citato e tirato in causa ed è arrivato a occuparci l'estate come un'ineludibile appuntamento con il destino.
Ne avevo lo ammetto, un sacro terrore, dovuto solo in parte alle 1200 pagine di cui è composto.
Romanzo d'appendice, anzi, IL romanzo d'appendice, papà di tutto il feuilleton francese, edito tra il 1842 e il 1843, all'epoca amatissimo, copiatissimo, saccheggiato più o meno da tutti, da Hugo a Dumas e oggi ignorato dai più mi inquietava assai. I suoi emuli e i suoi eredi quando di valore sono passati alla storia, ancora oggi leggiamo I tre moschettieri, perché quindi non leggiamo più I Misteri di Parigi? Il nome, poi, mi evocava un Dan Brown ante litteram e immaginavo una truculenta e intricata storia di società segrete e cospirazioni che, in quest'estate già intricata di suo, mi attirava ben poco.

Ovviamente ad essere sbagliata era la mia prospettiva. I Misteri di Parigi (di cui, in retrospettiva, si potrebbe criticare il titolo) è una sorta di telenovelas ante litteram, ambientata in una Parigi in cui le classi sociali si mescolano ed entrano in contatto, cosicché è raccontato il nobile quanto l'operaio.

Col senno di poi è abbastanza facile intuire perché oggi sia una lettura di nicchia. I feuilleton francesi passati alla storia si sono abilmente riciclati come romanzi per ragazzi. Spesso le edizioni tagliano o sorvolano su alcuni passaggi (I tre moschettieri ne sono un esempio lampante), cosicché noi professoresse possiamo in tutta tranquillità consigliarne la lettura ai ragazzi delle medie.
Nessun adattamento o velata censura potrebbe mai nascondere il fatto che l'eroina de I Misteri di Parigi entri in scena come prostituta sedicenne, né che parte della vicenda verta su uno stupro, per non parlare poi delle numerose scene ambientate in prigione, comprese la descrizione di una sanguinosa esecuzione. Insomma, no, non è libro per dodicenni e in questo modo I Misteri di Parigi si è vista negata la seconda giovinezza accorsa invece ai romanzi di Dumas padre (immagino però che La signora delle camelie abbia avuto più o meno la stessa sorte).

Col senno di poi è anche facile intuire il perché del travolgente successo d'epoca. L'autore, E. Sue è un genio della serialità. 
Il romanzo è diviso in una miriade di piccoli episodi, come una puntata di telefilm con un loro svolgimento chiuso, una rivelazione finale soddisfacente (nessuno degli interrogativi è tirato troppo per le lunghe) e un aggancio per la prosecuzione delle vicende. Lo stile è dinamico e efficace, sopratutto per l'epoca, e non si perde in troppi spiegoni inutili, relegandoli piuttosto alle note e alcuni momenti riassuntivi ben piazzati permettono di non perdersi tra le centinaia di pagine (anche se uno schema a un certo punto inizia ad essere utile).
Considerato per quello che è, un romanzo d'intrattenimento di inizio '800, svolge ancora egregiamente il proprio lavoro e si lascia leggere con piacere nonostante la mole. Alla fine, si finisce per provare simpatia anche per le assurdità di questo genere di narrazione.

Parigi, per come è descritta nel romanzo, è grossa più o meno come il paese in cui abito io (Briga Novarese, tremila abitanti), poiché in 1200 pagine, le location si contano sulle dita della mano: due dimore nobiliari, un palazzo popolare, una bettola, una fattoria fuori città, una prigione, un covo di delinquenti e un ospedale. Otto ambienti in cui si incrociano e si intersecano le storie e i destini di poco più di una ventina di personaggi.
Rodolphe è un principe ricchissimo, che ha l'abitudine di frequentare i bassifondi, anche per aiutare una serie di persone che ha preso sotto la sua protezione. In una taverna incontra una giovanissima prostituta dalla triste storia e che decide di aiutare. Le attenzioni che il principe riserva alla ragazza, però, finiscono per attirare su di lei anche lo sguardo dei nemici del principe, dando origine a una serie di peripezie, tra rapimenti, riconoscimenti ed equivoci. Intano la storia pian piano si allarga. Rodolphe è anche alla ricerca del figlio scomparso di una sua protetta, cosa che lo porta in un palazzo popolare dove scopre che alcuni antichi nemici che pensava sconfitti sono ancora all'opera. Infine il nostro principe è anche innamorato della moglie del proprio migliore amico, mentre un'altra nobildonna, con cui in gioventù ha avuto una relazione da cui è nata una bambina che entrambi credono morta, è disposta, letteralmente a fare carte false pur di portarlo all'altare.
L'incrocio di queste tre linee narrative (le peripezie di Rigolette, la giovane prostituta dal cuore d'oro, la ricerca del figlio perduto della protetta e i problemi di cuore del principe) si diramano e si intersecano, sempre e solo nelle otto location principali, per tutte le 1200 pagine.

Sue è bravo a giocare con le assurdità di queste premesse e il piacere della lettura sta nel fatto che ogni tre pagine un personaggio ne incontro un altro di conosciuto (o di perduto da lungo tempo) in un luogo improbabile e la situazione viene gestita con una serie di espedienti improbabili, ma non privi di una loro eleganza. La mia scena preferita è ambientata in una stanza di un nobile perdigiorno che ha sperperato il proprio patrimonio. Il padre va da lui (anche per chiedergli conto della propria dissolutezza), attende in un salottino dove spunta, tramite passaggio segreto, l'amante del figlio. I due si incontrano e l'imbarazzo svanisce subito: il vecchio nobile riconosce l'amante del figlio come una bambina a cui un tempo era molto affezionato, lei lo saluta come un vecchio zio. Due pagine dopo sono alleati nel fronteggiare un nemico comune.

All'epoca quello che fece scalpore, in realtà, fu la descrizione trasversale delle società. In un libro che trasuda buoni sentimenti ci sono un medico di colore ex-schiavo (siamo nel 1842), prostitute in odore di santità, delinquenti pronti a cambiare vita alla prima occasione per riscoprirsi eroi. Le riflessioni morali e sociali di Sue hanno la semplicità delle considerazioni di chi guarda il popolo da una posizione comunque privilegiata. Tuttavia nella loro ingenuità le denunce contro un sistema carcerario che lascia ben poche possibilità di redenzione e che, di fatto, condanna i figli dei delinquenti a non poter essere altro che delinquenti, vanno a segno. 
Le pagine che rimangono più impresse sono quelle in cui la Rigolette racconta la sua storia, spiegando come per un'orfana abbandonata a se stessa la prostituzione era di fatto l'unica strada, o le vicende di una famiglia piagata dai debiti o ancora le molte scene ambientate in carcere.
È evidente che Hugo è un'altra cosa (anche se senza questo libro forse avrebbe scritto altre cose), ma con tutta la sua semplicità, I Misteri di Parigi funziona e ci offre comunque uno sguardo non privo di interesse sulla Parigi pre 1848.

Mi ha colpito come almeno parte dell'eredità rivoluzionaria e napoleonica fosse ormai del tutto introiettata, come ad esempio il divorzio sia considerato un dato acquisito, ormai un diritto inalienabile. 
L'attenzione che Sue dà, sia pure semplificandole all'osso, alle questioni sociali e il successo che ebbe il libro all'epoca mi raccontano comunque di una società Parigina che si interrogava su se stessa anche al di fuori dai salotti intellettuali. I ragazzi che divorarono il romanzo di Sue, furono i giovani che andarono in piazza nel 1848 e poi gli uomini che diedero vita (con tutte le tragiche conseguenze del caso) alla Comune. 
È un romanzo popolare che, pur con tutta la goffaggine e l'ingenuità del caso, ha contribuito a formare la coscienza sociale di una generazione.
Alla fine di queste letture mi chiedo sempre non sia più questa "non letteratura" ad influire davvero sulla società piuttosto che altro. È un interrogativo a cui non ho una risposta netta, ma che mi pongo.

Letto oggi, mi chiedo quanto ancora si aspetti a trasformarlo in un serial. I Misteri di Parigi è già una serie tv praticamente pronta, con un minimo di adattamento. Tutto sommato credo che potrebbe oscurare il successo che ebbe qualche tempo fa Elisa di Rivombrosa, esempio lampante di come la narrativa popolare possa essere ancora popolare, anche dopo un invecchiamento di cent'anni e più.
Voi, invece, quale libro di un'altra epoca proporreste subito come serie tv? 

lunedì 19 settembre 2016

Anticipazione "La spada, il cuore e lo zaffiro"


Ecco, non potevo resistere. È arrivato il momento di svelare in cosa consiste la "sorpresa autunnale"

LA SPADA, IL CUORE, LO ZAFFIRO
Antologia di racconti fantasy – Antonella Mecenero

RiLL è l'associazione che ogni anno bandisce un premio letterario dedicato al racconto fantastico tra i più partecipati d'Italia. Ogni anno sceglie anche un autore a cui dedica un'antologia personale. Dopo brillanti autori di fantascienza e di horror è toccato a me l'onore di avere la prima antologia fantasy di RiLL

In un'Italia in cui ancora il fantasy è spesso considerato di serie b e i racconti "non se li fila nessuno" la sola idea di avere un giorno un'antologia personale di racconti fantastici era immediatamente archiviata nel reparto "sogni impossibili", subito di fianco a "cavalcare un Fortunadrago". Forse, bazzicando nel campo del fantastico, avrei dovuto imparare da tempo che nulla davvero è un impossibile.
Un grazie infinito agli amici di RiLL, un abbraccio gioioso e senza fine ad Alberto Panicucci, per mille cose, non ultimo un editing di cesello che è il sogno di ogni autore e a Valeria de Caterini che ha dato sostanza a ciò che viveva solo nella mia testa e ha illustrato questa splendida, splendida, splendida copertina.

Questo non è il fantasy che vi aspettavate di leggere, ma quello che avete bisogno di leggere.
Se dovessi scegliere uno slogan per promuovere quest'antologia, sceglierei questa frase. Non è il fantasy uno si aspetta.
È fantasy alla mia maniera, umanistico, antieroico, intimista e letterario.
Sono dieci racconti, dieci pezzi del mio cuore, ognuno è un frammento della mia anima. Tra questi, tre dei racconti, diversissimi tra loro, sono, a mio avviso, le cose migliori che io abbia mai scritto.
C'è il fantasy-fantasy, ovviamente, anche se non tutti i draghi stanno al loro posto e non tutti gli eroi fanno quello che ci si spetta da loro. C'è il qui ed ora, in cui il fantastico è solo un diverso modo di percepire il reale. C'è l'epica classica, che a suo modo è fantasy, rivista e rivisitata alla mia maniera. C'è il personaggio che vedete qua sopra, che all'inizio non doveva neppure figurare e poi si è rosicchiato un pezzo di attenzione alla volta fino ad arrivare a monopolizzare la copertina e ben tre dei racconti. 
Ci sono storie che vorrei davvero arrivassero al lettore. Più avanti vi racconterò qualcosa di più di questa antologia (dopo tutto al momento è solo in stampa), ma vi lascio con una frase che secondo me descrive tutti e dieci i racconti e racchiude la mia idea di fantasy

È assai più sicuro 
un incontro a mezzanotte
con un fantasma esterno
piuttosto che incontrare
disarmati il proprio io
in un posto desolato
— E. Dickinson –

Il libro attualmente e sarà acquistabile su vari canali. Chi, però, volesse essere sicuro di averne al più presto una copia, può prenotarlo fin da ora al prezzo lancio di 10€ all'indirizzo http://rill.it/?q=node/29

sabato 17 settembre 2016

Bellezza e tristezza – Piovono Libri


Ieri sono riprese le sedute del gruppo di lettura Piovono Libri, dopo una pausa estiva in cui abbiamo letto due romanzi, Bellezza e Tristezza di Kawabata e I Misteri di Parigi di Sue. Trattandosi di libri estremamente diversi, ma entrambi molti dibattuti e non privi di spunti, ho deciso di dedicare a  entrambi il giusto spazio e dedicare a ciascuno un post.

BELLEZZA E TRISTEZZA

Si è trattato del primo impatto, per me, con la letteratura giapponese, apparentemente il migliore possibile, dato che si tratta di un premio nobel. Purtroppo tra me e questo romanzo non è scattato nulla di positivo (parecchio di negativo) e anche se il confronto con altri lettori mi ha aperto nuove prospettive, il mio giudizio finale non cambia.

L'inizio del romanzo è di indubbio fascino. La scrittura è elegante ed evocativa e la vicenda si apre senza inutili preamboli. 
Il viaggio a Kyoto per ascoltare il suono delle campane tradizionali è per l'affermato scrittore di mezza età Oki solo un pretesto. Il suo vero scopo è rivedere Otoko. Con lei, Oki, più dieci anni prima, aveva vissuto una  travolgente e tragica storia d'amore. Mentre l'uomo era già sposato, Otoko era solo un'adolescente. Rimasta incinta, la ragazza aveva avuto poi un crollo nervoso in seguito alla morte della figlia e Oki, all'epoca già sposato e padre, non la rivede da quei giorni.
A Kyoto, però, l'incontro tra Oki e Otoko non va come l'uomo aveva sperato. La donna ora è un'artista affermata e vive con una splendida allieva a cui è legata anche sentimentalmente e non ha alcun interesse a riallacciare un legame con il vecchio amante.

Fino a questo punto, pagina venti, il romanzo mi è piaciuto molto. Purtroppo a oagina venti era già tutto chiaro al punto da rendere inutile il proseguo della lettura.
Chiara la riflessione dell'autore sulla bellezza da ammirare da lontano o da sublimare nell'arte, poiché gli uomini sono capaci solo di distruggere la bellezza che vorrebbero possedere.
Chiare le dinamiche tra i cinque personaggi (Oki, sua mogli e loro figlio, Otoko e l'allieva), francamente troppo pochi per reggere un romanzo.
Chiaro, sopratutto, lo sviluppo che la vicenda avrebbe avuto. Ho sperato fino all'ultimo che l'autore prendesse una strada che non avevo previsto, una svolta inaspettata e invece nulla. Nel momento in cui tutti i personaggi sono in scena è evidente cosa accadrà. È possibile che la sensazione di andare verso un'ovvia e inevitabile tragedia sia voluta dall'autore, tuttavia ha me ha tolto gran parte del piacere della lettura.
Infine, ho avuto l'impressione di assistere a un patinato dramma altoborghese altamente improbabile, ambientato in luoghi splendidi (e ben descritti) ed esclusivi, che dava al tutto un retrogusto di irrealtà, come quei film italiani (l'ultimo che ho visto appartenente a questa categoria, per quanto godibile è Il nome del figlio) in cui tutti sono professori universitari o scrittori, abitano il ville in luoghi incantevoli o in attici lussuosi e sembrano non avere alcuna attinenza con la realtà tangibili del nostro tempo. In particolare irreale mi è sembrata Otoko, il personaggio con cui più avrei potuto empatizzare. La lasciamo in uno clinica psichiatrica dopo un tentato suicidio, con la reputazione rovinata da una gravidanza a 17 anni, sola con una madre povera, in un paese, il Giappone degli anni '60, ancora estremamente classista, dove la rispettabilità è tutto. E la troviamo, con la stessa ingenuità, artista affermata, che posa con le proprie opere su riviste patinate, senza alcuna spiegazione su come ce l'abbia fatta, senza agganci di sorta e con un carattere che definire passivo e arrendevole è un eufemismo.

E dire che i motivi d'interesse non sarebbero mancati. 

Il più ovvio, la descrizione di una relazione lesbica nella società Giapponese degli anni '60, ma la cosa non è per nulla approfondita. Una mattina Otoko si è trovata alla porta una bellissima ragazza che le ha dichiarato il proprio amore e Otoko se l'è presa in casa e nel proprio letto. Fine dell'approfondimento.

Le relazioni diflunzionali che ciascun personaggio ha con gli altri, ma accetta come un dato di fatto, senza provare non solo a modificarle, ma neppure ad analizzarle. 

Più attenzione va alla riflessione sulla scrittura e le sue ripercussioni sulla vita. Oki ottiene fama e denaro raccontando in un romanzo la propria relazione con Otoko, questo, ovviamente, fa si che la moglie ne venga a conoscenza, con tutte le reazioni del caso. E anche Otoko viene individuata come la ragazza del romanzo, vendendosi negare ogni possibilità di rifarsi una vita nell'anonimato. Tuttavia, anni dopo, l'arte vince. Lo scandalo è superato è il romanzo, con la sua bellezza che sembra giustificare tutte le sofferenze passate come se tutti loro avessero agito solo in funzione della nascita di un'opera immortale. Una visione dell'arte totalizzante, sicuramente molto lontana dalla nostra sensibilità, ma non priva di fascino. 

Arrivata in fondo al romanzo, devo ammettere che il mio io di scrittrice era abbastanza in crisi. Se io fossi stata un'editor, ricevuto questo manoscritto avrei detto all'autore:
"Ci sono ottime potenzialità, ma puoi ridurlo a un racconto oppure ampliare la narrazione e approfondire le tematiche accennate per renderlo un romanzo compiuto. Così non va".
Peccato che Kawabata abbia vinto un nobel, quindi sicuramente è a me che qualcosa sfugge e non credo che sia dovuto alla sola distanza culturale (che comunque c'è).
Forse, la cosa che mi è davvero spiaciuta è che io questo romanzo lo volevo amare. Non c'era niente, in teoria, che avrebbe dovuto impedirmelo. Avrei davvero voluto amare la dolce e sfortunata Otoko, invece l'avrei voluta riempire di ceffoni dalla prima all'ultima pagina. Mentre ad Oki avrei dato direttamente fuoco in pubblica piazza. Quanto all'allieva di Otoko, camicia di forza subito. Forse, dopo una buona cura psichiatrica, si potevano salvare la moglie e il figlio di Oki.
Ecco, ci ho provato, ma non ce l'ho fatta, non l'ho amato.

giovedì 15 settembre 2016

Nuovi orizzonti


Non sono morta, sparita o scappata all'estero.
Sono una prof vera! Di quelle proprio serie, con gli occhiali (ok, sempre avuti), la borsa piena di libri e... Il posto di ruolo!

Ho dormito probabilmente 5 ore nelle ultime 5 notti, quindi la lucidità non è proprio la mia qualità migliore, ora.
Principalmente non ci credo ancora. Da un lato ho paura in intoppi burocratici dell'ultimo momento, dall'altro il passaggio da prof precaria che più precaria non si può in mezzo a un concorso dalle tempistiche incerte al ruolo è stato fin troppo repentino. Il 23 agosto mi aggiravo per i corridoi di una scuola di Torino in attesa di dare l'orale e il 13 settembre in un'altra scuola di Torino firmavo piuttosto incredula la mia immissione in ruolo.

In mezzo c'è stato un po' di tutto, graduatorie che non venivano pubblicate, graduatorie pubblicate sbagliate, punteggi che non tornavano, convocazioni la sera alle 18 per il mattino dopo alle 9. Contestazioni alla nomine. Blocco delle nomine stesse. Rifacimento al volo della graduatorie. Ripresa delle nomine. Assegnazione a un ambito territoriale senza sapere dove fossero le cattedre disponibili. Collasso del sistema informatico ministeriale, impossibilità di caricare i materiali on-line per la chiamata diretta dei dirigenti. Indagini per capire dove fossero queste benedette cattedre. Preparazione di altro materiale per la chiamata diretta. Colloqui con i dirigenti. Firma nella scuola.
Questo immagino spieghi la mia assenza dal web negli ultimi giorni.

Non credo che sarei sopravvissuta senza il sostegno di tutta una serie di persone. Marito e amici in primo luogo, ma anche la dirigente e i colleghi degli ultimi tre anni. I colleghi mi hanno supportato tantissimo (al punto che lunedì, ancora da disoccupata senza un apparente futuro ero alla scuola col pontile solo per stare con loro), indirizzata e consigliata. A loro va il mio abbraccio speciale.

Ora si aprono nuovi orizzonti, suppongo.
Al momento ho sogni solo in apparenza semplici. L'armadietto col mio nome a un'altezza accessibile in aula insegnanti (di solito al precario va l'ultimo in basso o il primo in alto, anche se negli ultimi due anni ho avuto fortuna). I libri di testo inviati dalle case editrici con tutti gli optional, dalla guida per gli insegnanti, agli approfondimenti on-line. L'accesso gratuito a quei programmi (come prezi) che offrono pacchetti apposta per gli insegnanti. E sopratutto poter guardare dei ragazzi crescere, non nell'orizzonte ristretto di pochi mesi (che poi magari arriva il mitico "avente diritto"), ma di un anno, più anni addirittura.  Poter dire loro "sì, starò con voi tutto l'anno". Addirittura poterli salutare a giugno dicendo loro "ci vediamo a settembre", sapendo di non mentire. 

venerdì 9 settembre 2016

Elisandre – racconto inedito completo

Lunedì qui in Piemonte iniziano le scuole. Il mio futuro lavorativo è ancora incerto, anzi direi che non si capisce nulla. Per la prima volta c'è la speranza di avere l'ambito ruolo (chi sa dove, però...), ma anche la paura di aver ancora una volta perso il treno giusto. Insomma, c'è più delirio del solito. Quindi, almeno per il fine settimana, spostiamoci in un altrove!
Quello che segue è un mio racconto molto, molto vecchio, sicuramente ingenuo, ma che sento ancora mio. Buona lettura.

ELISANDRE

 Pane, croste di formaggio e, annusò con cura, carne. Sì. Ossa con ancora del buon lesso attaccato.  
 Attese che le luci sparissero, poi si intrufolò nel buco tra le assi della cinta. Cauta, si appiattì dietro una siepe, in attesa di individuare la ciotola. Eccola là, vicino al muro, appena riempita dalla donna grassa. C’era un unico problema, dalle dimensioni della ciotola anche il cane doveva essere grosso, molto grosso.
 - Grrr… Grrrr…
 Appunto.
 Si girò di scatto. L’animale era già lì, tutto denti e bava.
 - Aishante! – disse usando l’unica Parola che conosceva, l’ultima in assoluto che le era stata rivolta.
 Trattenne il fiato, ma anche questa volta funzionò. Il cagnone si afflosciò, addormentandosi all’istante. La ciotola era sua.
***
 - Non riesco proprio a capire. 
 La padrona della locanda, tutta rotondità e sorrisi, era di quelle che non riescono a fare nulla se non accompagnate dal suono della propria voce. Morn se ne era già accorto la sera prima, quando la cena gli era stata servita con contorno di commenti sul clima, i briganti e la politica dell’impero.
 - È la terza volta che trovo Ringhio addormentato – diceva adesso, mentre gli porgeva il pane. –Devo scuoterlo per svegliarlo. A che serve, dico io, un cane da guardia se poi quello dorme?
 Morn prese il pane e non disse nulla, sorridendo alla stanza in generale. La quale, nelle persone di altri sei o sette avventori, non ricambiò. La gente era abituata a diffidare da chi viaggiava armato di tutto punto, con tanto di spada, e, se il simbolo del Tempio sul medaglione che portava al collo poteva essere una vaga rassicurazione, era troppo vaga. Lui scosse il capo e tornò alla colazione.
 Ringhio, però, non aveva pregiudizi: venne a scodinzolargli appena fuori dalla locanda. Del cane da guardia, nonostante la mole, non pareva avere l’indole, placido e ciondolante com’era. Morn aggrottò la fronte. Troppo ciondolante. Sembrava ubriaco, o drogato.
 Mi sono assuefatto all’intrigo. Se qualcuno avesse drogato quella notte il cane per entrare in casa e rubare, la padrona se ne sarebbe già accorta. E lo avrebbe fatto sapere a tutti.

 Il suo cavallo, invece, era in perfetta forma, confermando l’ottima impressione che la stalla gli aveva fatto la sera prima.
 - Ah, signore, siete voi – lo raggiunse il proprietario. – Se non avete fretta, per domattina vi sistemo quel ferro.
 - Sto tornando alla Casa del Tempio, a Tear-Nil, non ho fretta, sarà un piacere fermarsi un giorno - Senza omicidi.
 Poi, per puro riflesso, chiese:
 - Avete subito furti, negli ultimi giorni?
 - Furti? No, grazie al Cielo. Spariscono solo le fragole, nel mio orto. Mia moglie dice che è uno spiritello – rispose l’uomo e subito impallidì.
 Farsi servire da spiritelli era una prova di stregoneria e negli ultimi tempi gli inquisitori si erano fatti un po’ troppo solerti. Negli occhi dello stalliere si leggeva chiaro in dubbio: il paladino non poteva interpretare la sua frase come…
 Morn non era interessato ad interpretare alcunché. Si limitò a ringraziare, dare una pacca al cavallo e uscire.

 Era stanco. Tre settimane di inchiesta sulla morte della duchessa d’Erkos con due inquisitori dal rogo facile lo avevano stremato. Un giorno di riposo sarebbe stato davvero un piacere.
 L’estate si era adagiata placida sul villaggio dai tetti di paglia tra i colli e il torrente. Era la stessa indolenza feconda di api e di frutta delle estati della sua infanzia, lassù alla tenuta.
 Un ragazzetto dai calzoni strappati e una bambinetta immusonita uscirono di corsa da un cortile inseguendo un’oca sfuggita al controllo. Morn rimase ozioso a guardarli, poi, vedendo dove si dirigevano, trattenne il fiato. Non verso il fiume! Riuscì a trattenersi dall’urlare. I bambini avevano agguantato la starnazzante fuggitiva ben prima della riva e il torrente era talmente basso e sonnolento da non costituire alcun pericolo.

***

 Allungò la mano e sfiorò le dita bagnate, ma solo le gocce rimasero chiuse nel suo pugno. 
 - Elisandre!

 Morn si trovò con gli occhi sbarrati nella sua stanza, alla locanda, con tutte le lenzuola buttate per terra. Ricadde sul cuscino, sperando di non aver urlato e strinse il medaglione. 
 Morn Allen d’Alkeidos, paladino del Tempio. Tutto quello che era da pagare è stato pagato, tutto quello da perdonare, perdonato.   
 Cercò di ascoltare dentro di sé la voce del Padre Superiore, ma il suono arrivava confuso, poco confortante.
Sconfitto, si alzò in piedi. Aprì la finestra e lasciò che l’aria della notte gli schiaffeggiasse il viso. 
 Nel cortile sotto di lui, Ringhio pattugliava il territorio. Morn lo intravide correre verso il cespuglio di camelie e poi arretrare, perplesso. Si udì un sibilo e l’animale cadde a terra.  
 Una piccola sagoma nera attraversò il cortile.

 Il cane russava, colando bava dalle fauci semi aperte. Acquattato dietro la camelia, Morn scrutava l’intruso intento al suo pasto furtivo. Poi, mentre la creatura (un demone? Uno spiritello?) spolpava un osso, si mosse per catturarla.
 La sagoma si girò di scatto.
 - Aishante! – gridò una vocetta acuta.
 Rapido, Morn strinse il medaglione. La rosa che vi era incisa brillò per un istante. 
 - Non funzionano i tuoi trucchi con me – commentò l’uomo, brancando la creatura, che, dal canto suo, scalciò e morse tutto ciò che gli capitò a tiro. 
 Almeno non è un demone.
 Se un demone avesse azzannato con tanto impeto il suo bracciale, gli avrebbe spezzato l’osso. Invece l’essere si ritrasse, disgustato dal contatto col metallo. In quel momento la luce crescente dell’aurora illuminò il volto scuro, sporco e contratto di una bambina di forse cinque anni.
 - Aishante? – mormorò il paladino, perplesso, facendo attenzione a non conferire potere alla Parola.
 - Dormi! Perché non dormi? – gridò la bimba, al culmine della frustrazione, con una vocetta roca e incerta.
 Gli occhi azzurri erano carichi di lacrime.

 Alla fine fu Morn a rubare in cucina una fetta di torta che la bambina, legata ad un albero, divorò in un battito di ciglio.
 In tutti i suoi quarant’anni, Morn non aveva mai visto un tale connubio di volontà e disperazione. Né aveva mai incontrato una bambina sotto i dieci anni in grado di usare la Lingua, neppure tra i Coyranà. La piccola, sotto i brandelli di quella che era stata una delle vesti rosse dei nomadi, era di una magrezza estrema. Sotto strati di sporcizia vi erano graffi che si stavano cicatrizzando, ma la rabbia che bruciava negli occhi di zaffiro era lungi dall’essersi calmata.
 Se questa furia conoscesse una parola di morte, potrebbe usarla!
 Ma, evidentemente, conosceva solo quella per addormentare, che tentò un altro paio di volte di scagliare contro il paladino.
 - Come ti chiami? – le chiese Morn, quando lei ebbe finito di spazzettare la torta.
 - Avwiarymel. 
 Sterminatrice, nell’antica lingua Coyranà.
 C’era da aspettarselo.
 In quel momento la porta della locanda si aprì e la padrona uscì ad attingere l’acqua.
 - Ringhio, Ringhio! – chiamò, cercando il cane.
 – Lasci dormire la sua bestia - la fermò Morn. - Ho trovato il colpevole dei suoi sonnellini.
 La donna si girò verso il paladino, poi il suo sguardo cadde sulla figuretta magra legata alla quercia e urlò.
 - Una strega!
 - Una strega?
 Forse una potenziale, la più malmessa che Morn avesse visto.
 - La guardi, pelle e capelli scuri, occhi chiari. È una strega Coyranà, uccidetela subito, finché lo si può fare.
 Morn sbatté gli occhi. Certo, tra i nomadi Coyranà la magia scorreva forte e questo aveva indotto qualcuno ad approfittarne, scatenando la paura della gente. E la campagna contro la stregoneria che gli inquisitori stavano conducendo non era certo un inno alla tolleranza.
 Maledetti inquisitori.
 Alle urla della locandiera, alcuni degli ospiti si erano affacciati dalle finestre e tre vicini facevano capolino dalla recinzione. Tutti guardavano il cucciolo di strega.
 - Vanno uccise da piccole, prima che possano uccidere noi!
 - Signora, è una bambina – ribadì Morn, esasperato.
 - Per ora – commentò un vicino.
 - Hanno fatto bene quelli di Fontescura, gliela hanno proprio fatta vedere ai sudici nomadi che si erano accampati da loro. 
 - Ah. – fece Morn.
 - Bruciamola, è così che vanno trattate le streghe, no?
 La piccola sterminatrice, intanto, se ne stava appiccicata alla quercia, gli occhietti azzurri sbarrati. Morn fece un passo indietro, per mettersi proprio davanti a lei.
 - Bene, signori – disse, con una mano sull’elsa della spada. – Sono un paladino del Tempio e mettersi contro di me è eresia. Qualcuno vuole provare?
***

 - Lasciami andare! – gridò la bambina.
 - Sicuro, appena troviamo un posto per farti il bagno. 
 Dove la corrente non sia forte…
 Quella di Morn era stata una ritirata in piena regola. Con la spada tra lui e i villici era arretrato fino alla bimba, che si era caricato in spalla. Così, con il fagottino scalciante sulla schiena, era riuscito a guadagnare la stalla e il cavallo. Adesso che l’idilliaco villaggio era lontano, alla piccola urgeva un bagno. Nelle leggende, le pulzelle da salvare non puzzavano mai.
 Alla fine trovarono una polla al giusto grado di sonnolenza e la piccola sterminatrice fu inzuppata e strigliata a dovere.
 - Allora, da dove vieni, bonsai di strega? – le chiese, dopo averla asciugata e rabbonita con una striscia di carne secca.
 - Non lo so. Da in giro. Andavamo in giro con le tende.
 - Che ne è stato della tua famiglia? – riprovò Morn.
 La bimba si incupì.
 - Eravamo rimasti in pochi – disse infine. – Solo io, mamma e i nonni. Con gli zii avevano litigato, non erano voluti venire a sud. Ci eravamo accampati nella radura vicino al villaggio, come sempre. Una notte mamma mi ha svegliato. Si sentiva rumore e lei diceva che erano zoccoli. Poi mi ha detto che dovevo nascondermi tra i cespugli. Subito. Io non volevo lasciare Tippy, la mia bambola, e la mamma si è arrabbiata. Mi ha detto la Parola, quella che fa dormire.
 Mi sono svegliata che era giorno ed ero sotto i cespugli. Continuavo a tossire e c’era fumo. Il campo stava bruciando. Credo che siano bruciati tutti, i nonni, la mamma e Tippy. Ho urlato, ma non è venuto nessuno. Sono scappata via, non volevo bruciare.  
 Anche gli altri, prima, mi volevano bruciare. Perché?
 - Nessuno ti brucerà. Non lascerò che lo facciano – disse Morn. 
 Rispondere alla domanda era troppo difficile. 
 La bambina annuì solennemente alla promessa e poi si raggomitolò come un gattino esausto nella coperta che lui le aveva dato.
 Morn rimase a guardarla. Avrebbe dovuto trovarle una bambola. Una casa. Avrebbe dovuto trovarle una casa. E una bambola. Morn ricordava che Elisandre non faceva un passo senza la sua bambola.

 Tre giorni dopo, quando giunsero al monastero, la bambina aveva fatto amicizia col cavallo e sedeva in sella davanti a Morn con in mano Tippy due. Era solo un sasso ricoperto di stoffa su cui erano stati disegnati due occhi e una bocca col carbone, ma se la bambina l’aveva promossa a bambola, bambola era.
 Morn lasciò la Sterminatrice a guardia del cavallo, nel cortile, e andò a parlare con i monaci.
 - Un’orfanella Coyranà, certo che l’accoglieremo, abbiamo già in cura una decina di bambini. – disse il priore, un vecchio incartapecorito come un fico lasciato troppo al sole.
 - Credo abbia una certa predisposizione per la magia. Vorrei che avesse la migliore educazione, vi farò avere i fondi necessari.
 Il fico secco annuì
 - Se è cresciuta con gli eretici, la nostra prima preoccupazione deve essere quella di epurarla di ogni comportamento deviante.
 Epurarla?
 - È una bambina.
 - Per questo confidiamo di riuscire a salvarle l’anima.

 In cortile, la bimba osservava perplessa gli orfanelli dai capelli rasati che, nei loro grembiulini neri, seguivano in fila per due un monaco verso una cappella. Morn le si avvicinò e si abbassò fino ad avere gli occhi alla sua altezza.
 - Questa sarà la tua nuova casa, piccola.
 Lei sbatté gli occhioni.
 - Non ho mai avuto una casa, non la voglio.
 - Ti farai degli amici, qui. Ti tratteranno meglio di quanto potrei fare io.
 Lei gettò un’occhiata agli orfanelli che entravano nella cappella.
 - Amici?
 - Devo andare – disse Morn.
 Si alzò in piedi e, mentre lo faceva, la bimba tese la mano verso di lui, proprio come aveva fatto Elisandre in giorno in cui erano andati a giocare lungo il fiume, nonostante il divieto dei genitori, e lei era scivolata nell’acqua.
 Erano trent’anni che ogni notte Morn cercava di afferrare quella mano e non vi riusciva.
 Senza guardare la bambina, sistemò la sella, salì a cavallo e uscì dal cortile.

 Riuscì a percorrere quasi un miglio.
 Tutto quello che era da pagare era stato pagato. Ah, sì?

 Adottare un’orfanella, scoprì Morn, era più facile che affidarne una ai monaci. Era anche arrivato in tempo per salvarle i riccioli.
 - Mi hanno tolto Tippy! – gridò lei, mentre allungava le braccia e lui gliele afferrava forte con entrambe le mani.
 - Te ne troverò un’altra, più bella – Assicurò il paladino, mentre la issava in sella.

 Quella sera, quando si accamparono, Morn posò le mani sulle spalle della bambina e la guardò dritta negli occhi.
 - Se vuoi stare con me, - disse – devi avere un nome che io possa pronunciare. 
 Elisandre. 

mercoledì 7 settembre 2016

E pur si scrive – Scribacchiando


Quest'estate non è stata molto dedicata al riposo. Tra la maratona burocratica (da cui pensavo di essere definitivamente fuori, invece continua ad avere strascichi, con documenti imprevisti in lingue improbabili che spuntano qua e là sul mio cammino) e il concorso scuola praticamente tutto il mio tempo era preso. Adesso ancora non sto lavorando, perché in tutto questo coloro che si occupano del funzionamento delle scuole sembrano essersi dimenticati che lunedì gli studenti saranno in classe, ma devo fare tutto quello che ho tralasciato ne mesi scorsi. Tutta una marea di piccole incombenze che prese da sole sarebbero niente mi sta cadendo addosso, insieme a una prevedibile stanchezza che fa sì che l'unica cosa di cui ho davvero voglia è starmene sul divano a leggere.
Eppure sto scrivendo.
Non quello che dovrei, probabilmente.
L'idea era che avrei lavorato sulla storia delle streghe scritta l'estate scorsa. La verità è che quella è una storia importante e intensa a cui non si possono dedicare i ritagli di tempo.

La nuova cartella mi segnala che sono arrivata al capitolo 21 di una storia che non avevo nessuna intenzione di scrivere.
Ricordate? Era iniziato da un post sul blog di Michele e un titolo di cui ci invitava a inventare la trama. Piccole nonne
Da lì è venuta un'idea, talmente folle che non valeva la pena di soffermarcisi. Talmente semplice e folle che probabilmente avrebbe funzionato.
E così ho iniziato a scrivere senza pensarci. Senza programmare, progettare e coccolare la storia. Con un'unica regola. Ogni volta che mi ci metto devo scrivere un intero capitolo.
E così, senza pensarci davvero sono al capitolo 21.
Della mia prima storia che non è un fantasy e non è un giallo.
Se vogliamo trovarle un genere, una storia di truffa, diciamo che ha una trama che potrebbe sembrare un episodio di Lupin III. Con una leggere differenza. La banda è formata da tre signore oltre i settanta. Tutta qui l'idea, in fondo. 
Sinceramente non pensavo che sarei arrivata al capitolo 21. Pensavo che mi sarei incagliata prima per mancanza di pianificazione. Il che era già assurdo di per se, raccontare senza pianificazione una storia che ruota intorno a un piano.
Invece tutto sommato, sono arrivata a un punto in cui fiuto con abbastanza sicurezza la fine. Non so ancora con sicurezza come inserire due personaggi, ma so a grandi linee cosa succederà. Senza aver fatto alcuno sforza a riguardo. 
Senza aver fatto alcuno sforzo in generale. Le mie scarse energie scrittoree sono andate tutte nella preparazione della sorpresa autunnale. Per questa storia non mi sono documentata, non mi sono preparata, non ho dedicato energie, non mi sono stressata. Hanno fatto tutte le mie protagoniste. Hanno definito i loro caratteri, direzionato la trama e dato un titolo alla storia che non è quello che mi aspettavo. Non avevo mai creduto, prima, alla "storia che si scrive da sé". Sbagliavo. Questa storia si sta scrivendo da sola. Spero che poi decida anche da sola che cosa vuole fare nella vita, perché io non ho assolutamente idea di dove potrei proporla.
Non che sia perfetta, intendiamoci. Immagino che prima o poi dovrò accendere il cervello e appianare tutte le piccole incongruenze, cambiare qualche nome ai personaggi, aggiungere parti descrittive e cose così. Però, ecco, intanto le mie vecchine tramano da sole.

Immagino di non essere l'unica a cui sia capitato una cosa del genere. Quale delle vostre storie, se c'è, si è scritta da sola? E come vi ci siete rapportati?

lunedì 5 settembre 2016

Anticipazioni – trovare il ritratto del proprio personaggio.


Ieri ho aperto la mail e ho trovato un mio personaggio a fissarmi.
Mi era già capitato di incontrare un mio personaggio. Sono andata ad Aosta a trovare l'Uomo Meccanico del mio romanzo. E qualche volta ho pensato che l'Holmes di questa o quest'altra illustrazione fosse proprio il mio. Infine, come immagino sia capitato quasi a tutti, ogni tanto in una foto o un'illustrazione ho riconosciuto un mio personaggio, pensando che sì, era proprio lui.

Ma nessuno mai aveva disegnato un personaggio nato esclusivamente dalla mia mente, sapendo di disegnare proprio lui. Nessuno mai me ne aveva mandato in ritratto, chiedendo se fosse proprio lui, con i suoi vestiti, la sua pettinatura e tutto quanto (sì, sì, è proprio, proprio lui!).

E poi, quando mi sono ripresa un attimo dall'emozione mi sono quasi messa a ridere: il marpione alla fine si è preso anche la copertina!

E pensare che non era nato per essere protagonista, per niente. 
Oggi ho fatto un po' di mente locale per ricordare esattamente come fosse arrivato a me questo personaggio che ieri mi guardava un po' sfrontato.

Tantissimo tempo fa, sarà stato il 2000 al massimo. All'epoca avevo un sacco di tempo libero e, tra le altre cose, dipingevo personaggi in piombo, ero anche piuttosto brava. Doveva ancora uscire il film de Il signore degli anelli, ma già giravano dei gadget a tema, tra cui, appunto, personaggi in piombo alti due o tre centimetri da dipingere. Uno di essi mi venne particolarmente bene, credo che in origine dovesse rappresentare il marito di Galadriel. Io lo dipinsi come un uomo con i capelli grigi lunghi, che ricadevano su una elegante veste blu e argento. Riuscii persino a dipingergli gli occhi. 
Mi parve subito un tipo interessante. Autorevole, con un che di pericoloso, ma anche una vena di malinconia. 
All'epoca stavo facendo un tentativo di romanzo fantasy. La prima cosa dignitosa che mi uscì, un young adult molto convenzionale, temo, con ragazzina dai capelli rossi innamorata di un giovane mezzo demone. Ebbene, quell'uomo anziano si prese una parte nella storia. Si chiamava Eltnor, era un mago e il mezzo demone era il suo schiavo. Aveva con esso un rapporto complicato e contraddittorio. Eltnor era convinto che il ragazzo, in quanto mezzo demone, si sarebbe votato al male e che avrebbe dovuto un giorno ucciderlo, e tuttavia ci si era affezionato. Il ragazzo odiava essere uno schiavo, ma allo stesso tempo stimava il proprio padrone.
Quel rapporto, più che il resto della storia, mi rimase in mente.

Anni dopo scrissi quello che secondo me è il primo romanzo degno di questo nome che abbia prodotto (e chissà che ora non lo riprenda in mano, ne ho molta voglia). Eltnor non c'era più e allo stesso tempo c'era ancora. C'era un personaggio anziano, con i capelli grigi lunghi, che vestiva con abiti eleganti preferibilmente blu e argento. Non era il protagonista, ma riempiva i capitoli in cui appariva al punto da crearmi qualche problema di gestione. Come quegli attori così carismatici che finiscono per mangiarsi gli altri e a prendersi tutto il film per sé. Quella storia non potevo dargliela. Non era la sua storia, non per intero, quanto meno.

Lui non aveva nessuno intenzione di darmela vinta. Per anni è continuato a tornare, per raccontarmi dei brandelli della sua storia. Di come fosse diventato quell'uomo anziano, duro e malinconico assieme. E così per anni, a pezzi e a bocconi ho scritto a pezzetti la sua storia e quella di altri personaggi che vi ruotavano intorno. Senza molte speranza di far mai vedere la luce a tutto ciò. Storie troppo frammentarie, interconnesse, di una lunghezza poco appetibile per qualsiasi progetto editoriale. Eppure, più o meno a cadenza annuale, ne scrivevo una. E, benché lui non fosse sempre il protagonista, quasi sempre c'era.
Così di quel personaggio nato vecchio ho costruito la storia a ritroso, fino all'adolescenza.
Non credo di aver mai trovato un personaggio così tenace e sfrontato, come quei gatti randagi che iniziano col rasparti sul vetro o col seguirti ostinatamente e alla fine te li trovi sul divano.

Io me lo sono trovato sulla copertina della sorpresa autunnale di cui non vedo l'ora di parlarvi meglio! Anche lì all'inizio non doveva entrarci proprio. Poi fare solo una comparsata. Alla fine si è preso pure la copertina!
E quello sguardo era proprio il suo. E sembrava dirmi: non penserai di aver finito con me!

Spero solo che abbia la stessa presa sui lettori che ha avuto su di me e su chi sta lavorato con così tanto amore a questo progetto.

Di certo questa è l'ennesima prova che sì, ci sono le tecniche di scrittura, sì, alla fine è un'attività come un'altra. C'è chi fa l'uncinetto, io invece invento storie. Ma queste storie e questi personaggi hanno una forza loro che sfugge a qualsiasi regola e pianificazione. E a volte trovano una loro strada per il mondo a dispetto di ogni razionalità. 

Se volete scoprire il nome del personaggio di cui sto parlando, potete rileggere un racconto che ho pubblicato a puntate tempo fa:

venerdì 2 settembre 2016

Non partorire un figlio non è una colpa – Essere generativi è un'altra cosa

Ci si sono dovuti proprio mettere d'impegno, al ministero, per farmi arrabbiare così tanto e spingermi a scrivere questo post, su argomenti così lontani da quelli toccati di solito qui. E dire che, da prof precaria, ho una certa abitudine alle arrabbiature da decisioni ministeriali.
Ok, oggi già un po' si scusano e ritirano alcune delle cartoline di questo maledetto o benedetto fertility day, poiché è di questo che stiamo parlando. Io intanto ci ho anche dormito su una notte, in modo da articolare il mio pensiero in modo intelligibile.

Un po' tutte le persone che conosco hanno trovato questi slogan nel migliore dei casi fastidiosi e nel peggiore offensivi. Io, in particolare, ne ho trovato uno che mi è sembrato un pugno in faccia.

La fertilità è un bene comune.

Come a dire che se non fai di tutto per fare un figlio è come se evadessi le tasse o rubassi. Non adempi a un dovere nei confronti della società. 
Io mi chiedo se al ministero sappiano quanto ci vuole in termini di energia, impegno, lavoro su se stessi a una donna (anche a un uomo, ma a una donna di più) che per un qualsiasi motivo un figlio non ce l'ha o non riesce ad averlo per convivere con questo dato di fatto senza farsene una colpa.
Il contorno già di per sé non aiuta. Se arrivi a una certa età (userò il femminile, perché sono donna e perché la campagna ministeriale sulla fertilità sembra rivolgersi solo alle donne) senza figli, sopratutto se sei fidanzata o sposata, è inevitabile essere bombardata da tutta una serie di commenti del tipo:
– Quand'è che ti decidi, che poi non c'è più tempo (come se bastasse concentrarsi intensamente per rimanere incinta).
– Sono quando si sente una vita crescere nella tua pancia si capisce davvero cosa vuol dire essere donna. 
– Se non rimani incinta magari è perché inconsciamente non lo vuoi (vi prego, assicuratevi di conoscere la storia clinica di una persona prima di un commento simile, perché rischiate un pugno in faccia).
– Perché non hai provato X (dove X sta per una qualsiasi cura casalinga che ha più o meno l'efficacia dello strusciarsi sui nostri tradizionali massi della fertilità).
– Sai, anche i miei amici non avevano figli, poi hanno fatto una bella vacanza a Y e... Miracolo, a volte basta rilassarsi un po' (dove Y sta per un qualsiasi paese dove l'eterologa è più accessibile dell'Italia, basta pagare, ma sembra brutto farlo notare all'interlocutore).
Vivere circondati da questi commenti, sopratutto nel caso in cui tutto sommato uno un figlio lo desideri, non è semplice. Bisogna fare un bel lavoro per arrivare a pensare che no, non è una colpa non partorire un figlio. Che si possono fare un sacco di altre cose (addirittura ci sono altri modi di essere genitori) anche senza partorire un figlio. Che di può persino essere felici, alla faccia di chi dice che la vera felicità è c'è solo quando si ha in braccio il proprio pargolo, sangue del proprio sangue.
E no, questo lavoro che hai fatto su di te è inutile, sbagliato.
La fertilità è un bene comune e se non ce l'hai o non la coltivi come si deve sei come un ladro, una sanguisuga per la società.
Immagino quindi che il messaggio sia rivolto, tra gli altri a:
– voi, suore e preti che avete rinunciato alla vostra fertilità per la preghiera.
– voi single per scelta che non volete figli.
– voi, contronatura che indulgete in legami non fertili.
– voi, affetti da sterilità di coppia, separatevi dai vostri mariti e dalle vostre mogli e andate in cerca di un partner più compatibile!
Ok, ci siamo tutti resi conto dell'assurdità di questa cosa? 
Di solito a questo punto si usa l'aggettivo "medioevale", ma credo che neppure nei più oscuro dei secoli bui si arrivasse a tanto.

Sono sicura che molte persone davanti agli slogan del governo si sono arrabbiati, ma sono altrettanto sicura che qualcuno si sia messo a piangere, perché un figlio lo vorrebbe tanto e non lo può avere, anche se non ha fatto nulla di sbagliato, perché un figlio lo vorrebbe anche, ma non lo può mantenere, perché ha scelto una vocazione differente (intendendo "vocazione" nel senso più largo del termine) e non ne può più del fatto che tutti gliene facciano una colpa.
Ecco, a tutte quelle persone che davanti agli slogan ministeriali hanno provato una sensazione di magone, voglio dire chiaro:
NON GENERARE UN FIGLIO NON È E NON PUÒ ESSERE UNA COLPA
Può essere una scelta o una condizione non cercata, ma non è in nessun caso una colpa. La stessa fertilità, in sé non può essere un valore. Chi genera un figlio e poi non se ne cura è sicuramente fertile, ma non è una bella persona né un aiuto per la società. 

La società non ha bisogno di persone fertili, ma di persone generative. 
Cioè in grado di generare, non necessariamente figli, ma amore e idee costruttive. Giusto per fare un esempio che anche al ministero possano capire: una suora che si occupa di un orfanotrofio non è fertile, ma è generativa (coraggio, fin qui ci arrivavano anche nel medioevo).
Chiunque di noi, senza fare grandi sforzi, può trovare nella propria vita persone che hanno dato un forte contributo sociale pur non avendo avuto figli. Hanno forse agito a discapito del bene comune per essere stati meno fertili del ragazzetto che mette incinta la ragazza e poi sparisce?

Poi, giusto per puntualizzare ancora due cosette banali.
L'uomo non è messo come il panda, non rischia l'estinzione, al massimo l'autodistruzione.
L'homo italicus, geneticamente parlando, non è mai esistito. Forse non sta bene dirlo, ma siamo tutti meticci.
Può non piacere, ma storicamente le migrazioni hanno sempre fornito popolazione alle zone che per vari motivi andavano spopolandosi...