lunedì 29 ottobre 2018

Colazione da Tiffany – Piovono Libri


Il gruppo di lettura, questa volta, ci ha portati a Colazione da Tiffany di Capote.

La riunione si è svolta venerdì sera, e il venerdì, con l'acquaticità, per me è una giornata campale, quindi mi sono persa la location vercellese della riunione, da cui mi è giunta comunque questa splendida fotografia e metà della discussione, dato che, nonostante la diretta fb, a un certo punto sono crollata.
Grazie, davvero grazie, a tutti coloro che ogni volta si adoperano per farmi sentire parte del gruppo nonostante le difficoltà logistiche.

Di Colazione da Tiffany tutti, bene o male, ricordiamo il film, pochi hanno davvero letto il cortissimo romanzo da cui è tratto, che ha tutt'altro sapore, oltre che una conclusione ben diversa.

Nel pieno della seconda guerra mondiale, Holly è una bellissima e giovanissima ragazza che si aggira per la New York che conta, alla ricerca di un marito (o al peggio anche un amante) ricco che posso mantenerla. Nel mentre si presta ad "accompagnare" ricchi signori o a far "compagnia" a carcerati di dubbia fama.
Proveniente da un passato poverissimo e squallido, con tanto di matrimonio quad'era poco più che bambina, Holly mi è sembrata una sorta di Ruby Rubacuori degli anni '40 a dimostrazione che i ricchi di ogni tempo finiscono per circondarsi di splendide ragazze disperate a cui dimenticano di chiedere l'età.
Agli occhi del narratore/vicino di casa, Holly è uno strano misto di ingenuità e cinismo, determinata a raggiungere il proprio risultato, del tutto incapace di calcolare i rischi a cui si espone e con troppa poco autostima per impegnarsi davvero in quella carriera cinematografica che forse potrebbe svoltarle la vita.
Holly risulta irritante e allo stesso tempo non si può temere per lei, che sembra viaggiare a grande velocità non certo verso un lieto fine, ma verso la tragedia. Il tono, però, rimane comunque leggero e, così come lo squallore della vita di Holly è accennato e mai mostrato, così il finale lascia aperta ogni possibilità, anche la speranza.

Mi ha colpito molto lo sguardo dell'autore, cinico e gentile allo stesso tempo. Cinico, perché ci mostra una società, nel pieno della seconda guerra mondiale, il cui unico interesse è quello di sistemarsi economicamente. A quello mirano Holly e la sua amica, ma anche il narratore, interessato a far carriera con la scrittura e a ben poco altro. Gentile, perché non c'è alcun giudizio morale, anzi, una certa indulgente simpatia per tutti, persino per gli "uomini vermi" di Holly. Non saprei dire se questo mi sia piaciuto del tutto, ma di certo è l'aspetto che più mi ha colpito.
Non è piaciuto per niente a un'altra lettrice, invece, che ci ha visto una sorta di apologia a un mondo maschile che vede la donna solo come un oggettino grazioso.
Non credo di essere del tutto d'accordo con lei, perché trovo Holly un personaggio descritto con rispetto. La cosa squallida, credo, è trovare le stesse dinamiche, le stesse ragazzine perdute nell'Italia di oggi.

Cosa rimane quindi di questo romanzo nel film che conosciamo tutti? In apparenza poco. Holly ha un altro aspetto, un'altra età, un'altra psicologia rispetto al personaggio del libro. Nella pellicola si viaggia diretti verso un consolate lieto fine. Eppure anche la pellicola non rinuncia al sottotesto, a una Holly che è stata una sposa bambina, in fuga da se stessa e che per mantenersi "intrattiene" gli uomini. Il film devia verso la fiaba. Il racconto no, rimane molto più ancorato a una realtà di infinito squallore sotto la sua patina dorata

venerdì 26 ottobre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 5

Dopo dei capitoli fin troppo lunghi, uno più breve in cui ritroviamo il punto di vista di Y. e le sue difficoltà a gestire un ruolo che non sente suo.

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4


Nel tragitto tra casa sua e quella della famiglia di E., Y. diede fondo a tutte le sue imprecazioni, in russo come in tutte le altre lingue che conosceva. E di alcune il suo vocabolario si limitava alle imprecazioni. La prima volta che lasciava uscire il ragazzino alla sera e quello si sentiva male. Sperando che non avesse bevuto. O fumato. Anche se per certi versi, per un atleta era meglio sperare in una sbornia, piuttosto che in un malanno. Magari non a quattordici anni, però.
Trovò V. piegato in due, intento a buttar fuori anche l’anima, sopra un cespuglio sul retro dell’elegante palazzo in cui abitava la famiglia di E. A tenergli la fronte non c’era la pattinatrice, ma un ragazzo alto sui diciotto anni che aveva i suoi stessi occhi blu. Occhi che si sgranarono in un viso che era la maschera dell’innocenza, appena si trovò davanti quello inferocito dell’allenatore.
– Può aver fatto qualche tiro di spinello. Nulla di che – provò a giustificarsi. – Non pensavo di dover fare da balia a mia sorella o ai suoi amici.
Quindi aveva fumato. E bevuto.
– Comunque adesso prende un po’ d’aria e si riprende – continuò il ragazzo. – Vero che va già meglio, V… Attento che quelle una volta erano le mie scarpe preferite.
Il ragazzo provò ad alzare la testa, ma desistette e tornò alle prese con le proteste del suo stomaco. Se quel tipo, come si chiamava…? fosse stato sottoposto in un modo qualsiasi all’autorità di Y. si sarebbe preso un ceffone.
– Tua sorella dov’è? – ringhiò.
– In casa, ha mal di testa.
V. si era inginocchiato a terra. A prescindere dall’età, i fisici dei pattinatori erano delicati, dovevano essere leggeri per saltare, con solo nervi e muscoli attaccati alle ossa. Si chiese se dovesse preoccuparsi sul serio.
– Adesso tu vai a controllare come sta tua sorella. Sono minorenni. Se lei o il ragazzo finiscono al pronto soccorso ti becchi una denuncia.
– No, si calmi… – biascicò il ragazzo. A quanto pareva Y. era ancora bravo a far paura. – Avranno fatto qualche tiro e non sono abituati… Se lo sa mio padre mi ammazza.
– Tuo padre non è un problema mio. Vai da lei. Subito.
Il giovane fece per aggiungere qualcosa, ma in un rigurgito di saggezza ci ripensò e corse via.
Y. rimase a osservare V. che cercava di rimettersi in piedi.
– Credi di riuscire ad arrivare all’auto? – gli chiese.
Il ragazzo alzò il viso stravolto.
– Sì, penso di sì.
Aveva risposto alla stesso modo la prima volta che aveva tentato di fare il triplo Axel e si era quasi ammazzato.

Non ci fu bisogno di portarlo al pronto soccorso. Bastò sbatterlo sotto la doccia e poi trascinarlo in cucina per fargli bere qualcosa di tiepido. Aveva una buona capacità di recupero, ma questo Y. lo sapeva già.
– Quindi, fammi capire, un ragazzo ti offre non sai neppure cosa da fumare e tu accetti? Dopo aver bevuto non si sa cosa che ti hanno messo nel bicchiere? – gli chiese Y.
V. alzò dal tavolo della cucina quei suoi occhi dal colore indefinibile, tra l’azzurro, il verde e il grigio, nella sua migliore interpretazione del cane bastonato.
– Lo stavano facendo tutti… E. voleva insegnarmi a ballare qualcosa di diverso da quello che si fa con L., ma è intervenuto suo fratello, dicendo che eravamo troppo rigidi e qualcun altro ci ha detto che con due tiri ci saremmo sciolti… Poi lei ha finito per ballare con quel ragazzo e io…
E tu per non pensare al fatto che avresti voluto uccidere quel tipo hai finito tutto quello che ti è stato messo in mano, terminò mentalmente Y. Che cazzo si diceva a un ragazzino, in queste situazioni? I. era stato la disciplina in persona e comunque lui ce l’aveva un padre adibito ai cazziatoni. 
– Senti, ragazzino, dovresti averlo già capito da un po’ che nella vita ci vuole un po’ di giudizio – sbuffò. – Non posso portarti in giro per il mondo con l’idea che questa scena patetica si ripeta, magari prima di una gara. Sono stato chiaro?
Sul viso di V. si dipinse un’espressione che Y. non gli aveva mai visto, qualcosa di molto simile al panico. Non piangeva, ma gli tremavano leggermente le labbra.
– Mi stai mandando via? – chiese il ragazzo.
– No, ti porto in pista domani mattina alle otto. Così ti rendi conto da te di quello che ho detto.
Un istante dopo, Y. si trovò stretto in un abbraccio, come non gli capitava… Beh, forse da che aveva l’età del ragazzo. Nell’incapacità di capire come dovesse reagire, si trovò a stringerlo a sua volta tra le braccia.

– Basta così, ragazzino, non è morto nessuno. Fammi sentire come sta quell’altra pazza.

martedì 23 ottobre 2018

Scrivere e riscrivere


Questi sono giorni in cui vivere tra due laghi significa essere privilegiati.
Ieri mattina sono andata a fare una visita oculistica e, appena uscita dalla studio, mi sono trovata davanti a questo panorama. A dire il vero io non vedevo nulla, perché avevo le pupille dilatate, ma ho trascorso l'ora e mezza che mi ha permesso di tornare a guidare in sicurezza in una sorta di quadro impressionistico dal meravigliosi colori. 
E in questi giorni di cieli tersi e foglie dorate mi sono buttata in un'impresa che era l'aria da tempo e che tuttavia un po' mi spaventa, la riscrittura del primo vero romanzo che io abbia portato a termine.

LC (così vive nei file del mio computer) è un fantasy dall'appeal editoriale pari a zero e tuttavia, per certi versi, è il romanzo della mia vita. 
Sono anni che giro attorno alla decisione di riscriverla. Ho scritto decine di racconti sull'ambientazione, che mi hanno permesso di ampliarla, approfondirla, di conoscere meglio i personaggi.
E tuttavia riprendere LC in mano mi faceva paura. Un parte di me era, è tuttora, preoccupata per il tempo e le energie da dedicare a un progetto che di fatto non ha un futuro spendibile. Dall'altro è la trama stessa che mi fa paura. Mi spaventa ciò che accade al protagonista, renderlo bene, con il giusto tono. Ci sono tematiche complesse. È una storia di incontro con il diverso. Due popoli che vengono a contatto e che devono evitare di distruggersi a vicenda, ma anche l'incontro tra persone. Persino l'incontro con quanto di inaspettato ognuno nasconde dentro di sé. Un fantasy, insomma, che non esplode nel classico scontro finale, ma implode.

I mesi di scrittura privata credo che mi abbiano dato una forte spinta in questa decisione. Alla fine chissenefrega della pubblicazione. Voglio che esista. Stampato anche solo dalla mia stampante. Voglio che questa storia esista perché è importante per me. E quindi voglio che esista nella migliore forma possibile.

Ho ripreso in mano la versione del 2005/2006.
Non era pessima. Ma adesso ci sono più di dieci anni di esperienza di scrittura sulle spalle.
La trama quella è e quella rimane, anche se adesso ho la sensazione di capire meglio gli avvenimenti. Come se alcuni passaggi all'epoca mi fossero rimasti oscuri. Insomma permane la sensazione che questo universo esista, da qualche parte e che si tratti solo di capirlo.
Ho aumentato i punti di vista da due a quattro. Di questo sono particolarmente soddisfatta perché per una santa volta ho due punti di vista femminili, molto diversi tra loro. Ho scritto moltissimi racconti su questa ambientazione, ma solo uno con un punto di vista femminile. In generale le donne finivano sempre per latitare. Qui ce ne sono parecchie interessanti, quella che mi sta più simpatica non è neppure tra i punti di vista, e connotano molto al femminile il romanzo. 
Inoltre, forse adesso sono pronta anche ad affrontare la parte più sentimentale della storia, parte che è tutt'altro che secondaria, anzi. L'amore, in effetti, è sempre stato uno dei temi portanti della vicenda e all'epoca della prima stesura la cosa un po' mi metteva a disagio, sopratutto l'amore distorto e possessivo che è la caratterista principale di uno dei più particolari personaggi della vicenda.
Quindi ho iniziato, senza temere l'infausto futuro editoriale.

Come sta andando?
Con fatica.
Sto facendo una fatica immane. Scrivo con una lentezza imbarazzante e i continui errori di battitura tradiscono la mia incertezza.
Ma è la mia storia. E quindi chissenefrega di tutto, la porterò a termine.

Qualcuno si è mai trovato in una situazione simile?

venerdì 19 ottobre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 4

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3


Eccoci alla parte seconda della storia. Pian piano entriamo nel cuore della vicenda, dove tutto si fa più complicato.
Spero che possiate conoscere meglio i miei protagonisti, adolescenti gettati troppo presto in un mondo più grande di loro. Spero che vi possiate affezionare a loro. 
Tengo particolarmente alla seconda parte di questo capitolo. Sia perché è il primo pezzo con il punto di vista di V., sia perché ci si avvicina di più a E., sia perché questo loro sentirsi simili, al di là delle barriere sociali, fondato su un dolore che non hanno mai condiviso con nessun altro è una delle cose a cui tenevo in questa storia.

PARTE SECONDA

San Pietroburgo – Aprile 2002

Y guardò con soddisfazione i suoi atleti che, a turno, provavano le coreografie che stavano preparando per la nuova stagione.
Il primo fu G. 
Il ragazzo se l’era cavata bene, per essere la sua prima stagione da juniores. Terzo al campionato nazionale, sedicesimo agli europei. 
– Un po’ più di grinta, che diamine, è un’aquila quella che stai interpretando, non un piccione! – gli gridò l’allenatore.
G. annuì e riprese da capo i movimenti. No, non aveva il guizzo degli altri, ma sopperiva con l’impegno. Alla lunga, tra talento e impegno, non era detto che fosse il primo a prevalere. Il fatto che ci fossero altri davanti a lui non lo aveva scoraggiato, anzi. Lui era uno che continuava sulla propria strada, leggeva i suoi libri, guardava i suoi film e si innamorava ogni tre mesi di una ragazza nuova, solo per evitare di pensare a E. Rifaceva gli esercizi tutte le volte che gli veniva detto, rispettava con scrupolo fin eccessivo la dieta, ascoltava Y come se fosse un dio sceso in terra. Allenarlo era quasi noioso.
– Avanti K! – l’allenatore chiamò il secondo atleta.
Lui, certo non era noioso da allenare. Era aggressivo, umorale e, almeno per il momento, il migliore. Aveva fatto a pugni due volte con il compagno di stanza, uno nuovo, prima che Y. riuscisse a convincere il direttore del pensionato a metterlo in una singola. Era il campione nazionale juniores ed era arrivato secondo agli europei. Come l’allenatore aveva previsto, l’arrivo di V. in pista gli aveva fatto bene, almeno atleticamente. Forse per la prima volta da che aveva messo i pattini ai piedi, aveva visto la propria supremazia insidiata da vicino e aveva scoperto che le vittorie non erano così scontate. Adesso pattinava con un’espressione corrucciata, adatta al pezzo che stava preparando, in cui interpretava un giovane soldato, e gli occhi castani ardevano in quella particolare luce che ha chi è affamato di vittorie. Bene. Si muoveva con precisione e il pezzo gli cascava a pennello. Quanto al resto, quando vengono messi due atleti di uguale talento a stretto contatto, possono accadere due cose. O diventano grandi amici, o si odiano. E K. odiava V., con tutte le sue forze. Il contrario non era così facile da stabilire, poiché Y., in nove mesi di convivenza, ancora faticava a decriptare il vero carattere del siberiano.
V. era, per certi versi, ancora un enigma.
Nessuna delle fosche previsioni di chi, D. in testa, lo avevano sconsigliato di prenderselo in casa, si erano avverate. Anzi, era come avere un gatto indipendente e pulito. Si alzava alle sei, che ci fosse oppure no allenamento, rassettava la propria camera e prima delle dieci di sera dormiva. Si entusiasmava per ogni sorta di sciocchezza e l’unica cosa che Y. aveva capito che non andava fatta era lasciarlo con del denaro quando c’erano fiere, mercatini o bancarelle di qualsiasi tipo. Era già tornato a casa con un pesce rosso, deceduto in pochi giorni perché poi il ragazzo non si era ricordato di dargli da mangiare, con una collana di plastica per L., dei terribili guanti tigrati che E. gli aveva fatto gettare via il giorno stesso e tre vecchie fotografie ammuffite dei tempi dello zar costatigli tutto il denaro che secondo Y. doveva bastargli per un mese. Si era affezionato al portafazzoletti di peluche a forma di cagnolino che l’allenatore gli aveva fatto trovare in camera, che si portava dietro ovunque come un bambino con la metà dei suoi anni, ma non si era legato allo stesso modo alle persone. Era gentile, sorridente e in sostanza distante. Con un’unica eccezione. Era diventato l’ombra di E. e lei sembrava di aver ricevuto in dono un cucciolo da vezzeggiare.
Nell’impossibilità di recuperare da un giorno all’altro tutto il guardaroba di un adolescente, Y. aveva chiesto alla pattinatrice se per caso non avesse qualcosa di smesso del fratello da prestare. E. era arrivata con valige intere di abiti maschili firmati ed era rimasta tutta una domenica pomeriggio a spiegare a V. come abbinarli e in quali occasioni andassero indossati. Da quel momento, con grande disperazione di G., che in un anno non era mai riuscito a completare un discorso con E., i due erano diventati inseparabili. Lei aveva deciso di trasformare il ragazzetto sperduto in un membro dell’alta società e lui era entusiasta di farsi addestrare. V. ascoltava la musica, guardava i film e quanto meno provava a leggere i libri che lei gli indicava. Da che E. gli aveva detto che sarebbe stato imperdonabile non passare l’anno scolastico si era persino messo a studiare, anche se con risultati alterni.
Sul ghiaccio si era chissà come impadronito della particolare eleganza di E., una cosa che in tutta onestà Y. riteneva impossibile, che univa alla crescente potenza muscolare in un mix che l’allenatore iniziava a sospettare potesse essere unico. Ma con i pattini ai piedi V. era un ribelle. Negli ultimi anni a Salechard doveva necessariamente essere stato allenatore di se stesso e adesso non gli importava quante medaglie avesse vinto o fatto vincere Y. Doveva discutere quali elementi tecnici inserire, come farli, per non parlare del tono paritario che assumeva con L. quando lei vestiva i panni di coreografa. Non c’era nulla da fare, alle nazionali era arrivato secondo, perché aveva a tutti costi voluto inserire una combinazione che ancora non padroneggiava. Era caduto e questo probabilmente aveva evitato che K. si suicidasse in bagno. Y. in tutta onestà non sapeva fino a che punto quell’istinto a superare i propri limiti andasse represso perché quella era la materia di cui erano fatti i record. O i brutti infortuni. Non aveva potuto portarlo agli Europei. All’ultimo momento era mancata una delle infinite firme necessarie per far espatriare un ragazzo in affido o, più probabilmente, era mancata una mazzetta. Ma, almeno, Y. aveva imparato. Nella prossima stagione, se tutto fosse andato bene, con la coreografia che stava provando, il ragazzo avrebbe mostrato la propria esistenza a tutto il mondo.
– Basta, sono stanca – disse E., dopo aver provato un paio di volte il proprio pezzo.
– Come sarebbe a dire “sono stanca”? – chiese Y.
– Questo – replicò la pattinatrice, portandosi al bordo pista e guardando oltre le vetrate gli alberi che iniziavano appena ad aprirsi alla primavera. – Sono stanca. Mi fa male tutto e ho sonno.
Non era da E. lamentarsi così.
– Non abbiamo ancora iniziato la parte seria – replicò il tecnico.
– Mi sono già allenata in palestra questa mattina. Mi fa male tutto.
– Abituati, sono i ritmi dei professionisti – disse Y.
Il salto da juniores a senior era duro per tutti. Sopratutto se ci si portava sulle spalle il peso delle aspettative dovuto a un mondiale vinto di potenza. La vita degli atleti era un susseguirsi di allenamenti e fatica intervallati da fisioterapia, massaggi e dolore. Una volta non era richiesto null’altro. Adesso, nel così detto mondo globalizzato, ci si aspettava anche un atleta indirizzato a una carriera internazionale sapesse come muoversi, parlare quanto meno due lingue, abbozzare una risposta a domande che nulla avevano a che fare con lo sport, non rimaneva molto tempo per il riposo o per qualsiasi altra cosa. Ma era la loro vita.
– E dopo l’allenamento hai ancora danza e… Inglese? – concluse l’allenatore.
– Francese – rispose la ragazza. – Ma non oggi. Basta.
Senza chiedere ulteriori permessi, uscì dalla pista, sotto gli occhi perplessi dei tre ragazzi. Nessuno di loro si era mai neppure sognato di contraddire in quel modo Y. Questi sbuffò indeciso se forzare la situazione o lasciar correre.
– Vai a farti un giro – concesse. – Ma non saltare la danza.
Lei non rispose neppure, già avviata agli spogliatoi.
I tre ragazzi si guardarono. Automaticamente, K. si mise della posizione di partenza, dando per scontato che si ripartisse da lui. V. invece si diresse all’uscita della pista, inseguendo E.
– Ragazzino, per te l’allenamento non è finito – gli gridò Y.
V. scosse il capo, facendo ondeggiare i capelli che gli arrivavano già quasi alle spalle, e proseguì, imperterrito.
– Non sei il suo cagnolino e non puoi saltare tre quarti di allenamento!
V., però, si limitò a girarsi verso di lui, sorridergli quasi a scusarsi, e a proseguire.
Era un ammutinamento bello e buono. Peggio. E. era una ragazza e aveva vinto il mondiale, che gli altri tre la considerassero una creatura diversa da loro, non obbligata a seguire le loro stesse regole poteva starci. K., G. e V., però, dovevano percepirsi come uguali e già non era facile, considerando che uno dei tre viveva nella stessa casa dell’allenatore. 
– Un quarto d’ora di pausa per tutti. – si inserì D., che era in un angolo della pista con il gruppetto di bambine sotto i dieci anni che seguiva. – Ho bisogno di più spazio per le mie principesse.

Y. scosse il capo. D. era troppo tenero con i ragazzi. A neppure trent’anni aveva ancora ricordi troppo vividi di quand’era dall’altra parte della barricata. Se avesse continuato così, non avrebbe mai potuto gestire atleti sopra i dieci anni. Lui, d’altro canto, iniziava a non ricordare più cosa significasse essere adolescente. E, anche se lo faceva, erano ricordi di un’altra epoca. A neppure cinquant’anni a volte si sentiva un residuato di un mondo finito, incapace di adattarsi all’evoluzione troppo rapida dei tempi.


V. trovò E. seduta sulla panchina di pietra del giardinetto di fronte al palaghiaccio.
C’era un sacco di pietra, lì a San Pietroburgo. A Salechard era tutto di cemento o di legno, le strutture delle fabbriche erano di metallo. Non c’era quasi nulla che avesse più di trent’anni. A San Pietroburgo era tutto vecchio, durevole, scolpito. Nessuno si sognava di dipingere i palazzi di rosso o di blu, almeno non lì, o nel centro. Era una città più bella, ma per certi versi più fredda e respingente, di quella da cui proveniva. E. sembrava l’anima della città nel corpo di un’adolescente. Bella di una bellezza antica, che avrebbe incantato in ogni tempo e in ogni luogo, fatta di contrasti, la pelle chiarissima con i capelli neri, il corpo dall’apparenza esile che nascondeva la forza della campionessa. Come la sua città, aveva un’eleganza fredda, un’alterigia un po’ sprezzante che faceva dimenticare il fatto che E. non ridesse quasi mai. 
– Cosa succede? – le chiese, sedendosi al suo fianco.
Lei sobbalzò, ma accettò la sua presenza, come si fa con un cane o un gatto inopportuno.
– Niente. Sono stanca.
– Non ti ho mai sentito lamentarti, prima.
– Aspetta di preparati a passare nei senior – E. sospirò. – Ho scoperto muscoli che neppure sapevo di avere. Ho sempre sonno e ho sempre fame. 
– Anch’io ho sempre sonno e sempre fame. Da sempre.
E. gli passò una mano tra i capelli.
– Sei carino, ragazzino, ma non sai di cosa parli – disse. – Ieri era il compleanno di una mia amica. Alla festa c’erano ragazze che conosco da una vita e quasi non capivo di cosa parlavano. Studio a casa, non esco mai con loro, non conosco nessuno dei loro fidanzati. Non ho potuto mangiare quasi niente di quello che c’era, neppure la torta. A mezzanotte sono venuti a prendermi, mentre loro uscivano per andare in discoteca… Loro pensano che io giri il mondo, che veda chissà cosa, che faccia chissà che, ma vedo solo dei palaghiacci, che sono tutti uguali, in tutto il mondo.
Aveva ragione, lui non sapeva di cosa lei stesse parlando. In quei pochi mesi la sua vita era cambiata come mai prima. Ogni volta che girava un angolo si imbatteva in qualcosa che non conosceva, a cui non sapeva come reagire. Per la maggior parte erano novità meravigliose e non gliene importava molto se rimaneva imbambolato a fissare estasiato cose che per tutti erano scontate. Era bellissimo vivere in un mondo che riservava sorprese ad ogni angolo, fossero anche solo le caramelle alla menta del distributore del palazzetto. Poi c’erano anche le cose come E., del tutto spiazzanti. Finestre socchiuse su mondi splendidi e alieni, come nei fantasy di cui G. parlava sempre, in cui nessuno, però, reagiva come V. si sarebbe aspettato.
– Vorresti vivere come le tue amiche? – provò. – Nessuna di loro ha vinto un campionato mondiale.
– E sai cosa gliene importa, a loro – replicò lei. – Non riescono a capire come ci si possa allenare così tanto, tutti i giorni, per esibizioni che durano pochi minuti. Uno stupido spreco di tempo. E un titolo del mondo dura un anno. 365 giorni dopo è solo una patacca che prende polvere. Tra quattro, cinque anni, magari una delle bimbette che allena D. sarà al posto mio e io sarò zoppa, come I. Pensaci bene, ragazzino, nel letto in cui dormi stava un ragazzo che era bravo quanto te e che adesso controlla macchine che fanno i bulloni alla periferia di Mosca.
V. annuì.
Aveva sentito parlare di I. Aveva dormito nella sua camera e respirato i suoi stessi sogni. Y. aveva commentato anche con lui, alla sera, i filmati appena arrivati da gare o esibizioni sparse per il mondo. Se il tecnico l’aveva ospitato, voleva dire che anche lui non se la passava molto bene, prima. E anche lui si era sentito altrettanto speciale e predestinato. Solo che non era vero. E poteva non rivelarsi vero anche per lui.
– Non importa – disse, per scacciare quel pensiero. – Anche se dovessi ritirarti domani, tra dieci, anche vent’anni la gente guarderà il video del tuo mondiale e ti troverà bellissima. Nessuno nel mondo del pattinaggio ti dimenticherà mai.
– Non esiste solo il mondo del pattinaggio, ragazzino.
– No, ma nessuno può dominare tutti i mondi. Io e te possiamo dominare questo.
– Sei modesto, ultimo arrivato.
– È una delle cose che non dovrei dire, vero? – domandò V., portandosi una mano alla bocca. – Non so mai cosa…
Lei gli passò ancora la mano tra i capelli e poi sulla guancia.
– Non sei modesto per niente, però sei davvero carino, ragazzino.
La mano di E. era ancora sulla sua guancia, leggera, con le unghie blu come i suoi occhi. Occhi che erano troppo vicini, come tutto il suo viso da bambola di porcellana. V. non arrossiva con facilità, ma pensava che, sotto il tocco di E., il suo viso stesse per andare a fuoco.
– Sei così carino che adesso ti darò un bacio – sussurrò la ragazza.
V. pensò per una frazione di secondo che forse era il caso di scappare. Perché lei era troppo bella, troppo diversa, troppo… Troppo tardi.
Si ci avesse pensato, V. si sarebbe aspettato un bacio da ragazzini, uno sfiorarsi appena delle labbra. Invece E. le stava succhiando, le sue labbra, socchiudendole. Ed era morbida e piacevole e non si poteva che lasciarla fare. E sperare che il mondo tornasse in asse. O che tutto continuasse così, per sempre.
Lei staccò le mani dal suo viso, prese le sue e le appoggiò alla panchina di pietra, staccandosi.
V. non aveva idea di quale aspetto avesse, ma era lei ad avere le guance leggermente arrossate.
– Non è il primo bacio che ricevi, ragazzino – disse. – Avrei preferito essere la prima.
Adesso sicuramente V. era arrossito.
– È il primo bacio che sono contento di ricevere – mormorò, arretrando istintivamente verso il bordo della panchina.
Non voleva domande. Ma E. non ne fece. Si limitò ad annuire.
– La prima volta avevo dodici anni – sussurrò la ragazza. – Il socio di mio padre. Eravamo andati via un fine settimana con la sua famiglia. I suoi figli sono più piccoli di me… Come facevo a immaginare che fosse un porco?
V. non disse nulla, continuando a guardare le mani di lei, sopra alle proprie. Lui lo sapeva che era un porco, il dirigente della società sportiva di Salechard. Si era pagato con la propria disponibilità la partecipazione alle nazionali. Ed era andata bene così, visto che ora lui era lì e quell’uomo ancora in Siberia.
E. gli prese il mento con la mano e lo obbligò a incontrare i suoi occhi.
– Non devi dirmi niente, ragazzino. Non importa se veniamo da posti diversi. Noi siamo uguali.
Lo erano? Con tutte le cose di cui E. parlava e che lui non conosceva? Erano cose che avevano importanza?
– Sabato mio fratello fa una festa – proseguì la ragazza. – Ha detto che posso portare chi voglio, immagino speri in belle ragazze, ma vorrei che ci venissi tu.

lunedì 15 ottobre 2018

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte – letture


Ho già raccontato della mia antipatia per quei libri proposti a ciclo continuo alle insegnanti di lettere "per sensibilizzare i ragazzi" verso una qualche tematica.
Libri spesso scritti a tavolino, che trattano inevitabilmente una qualche disgrazia, a volte con una distanza tale da chi tale disgrazia la vive davvero da risultarmi sgradevoli. Poiché Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte è ormai considerato un classico del genere, me ne sono tenuta a lungo lontana.
E mi sbagliavo.

La recensione positiva di un'amica lettrice mi ha per fortuna indotta alla lettura di quello che forse è un libro scritto a tavolino e su commissione, ma con raro tatto.
Mark Haddon è uno scrittore per ragazzi e non è difficile immaginare il suo agente che chiede un romanzo sulla disabilità mentale. "Fai una cosa tipo Ray Man, ma con un adolescente", immagino sia stata la richiesta.
Nell'introduzione alla mia edizione, scritta dallo stesso autore, più o meno lo si legge tra le righe, ma si legge anche la cura che l'autore ci ha messo nell'affrontare un tema che sapeva sensibile e l'amore che ha infuso nel proprio protagonista.

Christopher ha 15 anni e un qualche disturbo dello spettro autistico (l'autore ci tiene a specificare di non incasellarlo in una sindrome specifica, alla faccia della quarta di copertina e di wikipedia). Non riesce a decriptare le emozioni altrui e per questo il mondo gli sembra popolato da alieni potenzialmente ostili. Il suo sogno ricorrente è di isolarsi dal resto dell'umanità, nello spazio o nella profondità degli abissi, dove nessuno lo possa spaventare e lui possa restare solo con le proprie passioni. Perché di passioni Christopher ne ha molte, la matematica, la scienza e l'investigazione. Il suo mito è Sherlock Holmes.
Così, quando trova il cane della vicina ucciso, decide di indagare. Un'indagine che lo porterà a scoprire la verità sui propri genitori.

Il tutto è raccontato da Christopher stesso, con il suo linguaggio acuto e oggettivo, la sua incapacità di capire una metafora e il suo amore per la matematica. Lo stile tutto particolare del romanzo, che l'autore spiega essere stata la sfida più difficile, privo di metafore, senza quasi accenni ai sentimenti e continue digressioni matematiche, è probabilmente la chiava del successo del romanzo. Lo rende semplice e particolare insieme, un raro caso in cui la semplicità linguistica è tutt'altro che assenza di stile.

Devo dire, però, che ciò che davvero mi ha colpito è stata la caratterizzazione dei genitori di Christopher. In questo genere di storie i genitori tendono a essere o demoni o santi. Indifferenti fino alla crudeltà o totalmente dediti alle problematiche del figlio. In questo caso, invece, sono semplicemente umani. Il padre, che abbiamo modo di conoscere meglio, è un genitore sinceramente affezionato, attento, fiero delle capacità del figlio, di cui sostiene a spada tratta il diritto a svolgere l'esame di ammissione all'università. È anche capace, però, di madornali errori, di  scatti d'ira, di comportamenti ambigui. È un uomo logorato dal doversi occupare di un figlio disabile, che, pertanto, non sempre agisce per il meglio. La madre la si scopre a poco a poco, col procedere della trama, ma emerge anche qui una donna profondamente umana, che, nonostante ci provi con tutta se stessa, fatica  a trovare il giusto modo per interagire col figlio.

Una riflessione tutta particolare sorge poi nel lettore italiano, sopratutto se, come me, è un prof. Christopher è un ragazzo con una spiccata intelligenza logico matematica e tuttavia frequenta una scuola differenziata. È evidente che nessuno dei suoi compagni sta al suo livello. In Italia sarebbe inserito in una classe qualsiasi con un insegnante di sostegno e potrebbe riuscire molto bene in molte materie, se non in tutte. Mentre pensavo tra me che il sistema italiano è meglio mi sono imbattuta nel piano orario di Christopher e mi sono resa conto che molte delle cose che gli stavano insegnando avevano senso. Come prendere i mezzi pubblici, come prendersi cura di se stessi... Ora, con un buon insegnante di sostegno le stesse cose un Christopher le imparerebbe comunque e in più potrebbe interagire con compagni "normodotati" che a loro volta imparerebbero ogni giorno qualcosa da lui. Quindi in teoria il sistema italiano è meglio, sopratutto per ragazzi come Christopher che hanno buone o ottime capacità cognitive. Poi però... Però oggi nessuno degli insegnanti di sostegno era in classe, nella mia scuola, perché tanto per cambiare ci sono stati problemi con le graduatorie. Qualcuno è stato riconfermato, qualcuno no. Quindi domani alcuni ragazzi troveranno il loro prof si sostegno e altri no. Molti Christopher soffriranno terribilmente la cosa, perché più di altri hanno bisogno di ritualità e certezze e quindi non so. Forse è meglio un sistema non ottimo ma che funzioni? O forse dovremmo pretendere tutti che il sistema funzioni? Non so, certo è che leggendo questo libro e pensando ai vari Christopher che ci sono nella scuola italiana mi è venuto un po' di magone. Anche se il nostro sistema sulla carta è indubbiamente migliore.

venerdì 12 ottobre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 3




PARTE PRIMA – CAPITOLO TRE

San Pietroburgo – Aprile 2001

– Ti sembra un Axel quella roba lì? – ruggì Y. con il suo miglior tono da mastino infernale.
Vide che K. rabbrividiva sotto la sfuriata e si diede un buon voto.
Dopo un istante, però, il ragazzo si ricompose e alzò il mento in quella che era la sua posa tipica.
– Beh, sono quello che lo fa meglio, qui.
– E., per favore, fai vedere al moccioso come si fa un doppio Axel – replicò Y.
La pattinatrice, che stava già per tornare nello spogliatoio si avviò al centro della pista e, dopo un minimo di riscaldamento, saltò in modo impeccabile. 
Stava diventando divina. Era una ragazza incantevole, con il suo aspetto da principessa Biancaneve, nulla di strano che G. ne fosse ipnotizzato al punto da cadere ogni volta che si rendeva conto che lei lo stava guardando. In quell’ultima stagione, però, aveva sviluppato una grazia quasi ultraterrena e pattinava come nessun’altra al mondo. K., però, non sembrava impressionato.
– Grazie tante, ha quindici anni – sbuffò.
– E alla tua età lo faceva già così – ringhiò Y. – Smetti di blaterare e datti da fare.
K. non migliorava come aveva sperato. 
Migliorava, certo, rimaneva inarrivabile per G. Aveva disputato una competizione tra gli juniores ed era arrivato quinto. Però non era… Non era I., ecco. E forse era ingiusto, nei confronti di entrambi i ragazzi, continuare con quel paragone. Non si può chiedere a un gatto di essere una tigre.
– Non mangiartelo, è stato di nuovo chiuso fuori dal compagno di stanza e ha passato la notte nell’anticamera – disse D., avvicinandosi.
– Perché tu sai sempre queste cose? – chiese Y.
– Perché non li terrorizzo.
– Uff… E sai anche il perché di questo litigio?
– G. ha due versioni. K. sa essere estremamente sgradevole, ma è perché gli mancano casa sua e suoi amici e il compagno di stanza è un vero stronzo. Quest’ultimo, però, ha anche un’altra idea, dice che a K. le ragazze non interessino e lui con un pervertito in camera non ci sta. Diamo atto a G. di averla classificata come pura maldicenza.
Y. si strinse nelle spalle.
– Potrebbero essere vere entrambe – commentò.
Il viso di D. assunse un’espressione disgustata che fece sogghignare il tecnico.
– Non dirmi che quando eri in trasferta in Europa non hai mai ricevuto un invito per andare in certi locali? – chiese.
– Sì e li ho sempre mandati tutti a quel paese! Perché, tu no?
– Non ne avevo bisogno. Avevano tutti troppa paura della mia fidanzata per provarci con me. Ma non ero ne cieco ne sordo.
Aveva partecipato a due olimpiadi e nei villaggi olimpici ne succedevano di cose…
– Il nostro compito è far sì che pattinino bene e non si caccino nei guai – riprese. – Poi il resto a me non interessa. K. non può essere sbattuto fuori dalla stanza. Non lo possono mettere con G.?
Era questa la parte del lavoro che proprio non sopportava. Avrebbe voluto che quei ragazzi prendessero a esistere ai suoi occhi solo all’ingresso del palaghiaccio. E invece no. Doveva occuparsi delle loro beghe sentimentali, persino dei litigi con i compagni di camera…
– G. divide la camera con un ragazzo che viene dalla sua stessa città e ci si trova bene – spiegò D.
Y. annuì.
A vederli così, l’aquilotto e il ragazzino magro con i capelli neri, sembrava senza dubbio G. il più fragile. Arrossiva appena E. lo guardava e gli venivano le lacrime agli occhi quando Yakov gli urlava dietro. Però andava d’accordo con tutti, nel giro di un paio di mesi si era inserito bene sia al pensionato che a scuola, al sabato pomeriggio andava al cinema con degli amici. Era diligente negli allenamenti e migliorava. In tutta onestà Y. non sapeva se potesse fare di lui un campione, ma le basi per diventare un solido atleta c’erano tutte. K. era più forte, sia allo stato attuale, che in potenza. Era un solitario e una certa resistenza alla solitudine è una caratteristica fondamentale per i campioni. Forse, però, non era un solitario per sua scelta. In quel modo arrogante di alzare il mento c’era tanto una sfida verso il mondo quanto verso se stesso. 
Y. scosse il capo. I campioni, quelli veri, sono sempre complicati. Per arrivare a eccellere quasi ai limiti dell’umano ci voleva qualcosa, rabbia, determinazione o desiderio, che le persone appagate e felici non hanno. Lo riconosceva in se stesso, lo vedeva in E., nel modo in cui ogni tanto i suoi occhi blu si rabbuiavano, sebbene, almeno in apparenza, avesse tutto. Lo fiutava in K.. Poteva diventare un campione o spezzarsi e Y. era consapevole che una sua parola, una sua decisione, poteva influire in un senso o nell’altro. Ma non sapeva quale fosse la parola o la decisione.
– Parlerò con il direttore del pensionato – disse. – E avrebbe bisogno di qualcuno al suo livello con cui scornarsi. E. è ancora troppo oltre.
– Stai ancora pensando a V.? – chiese D.
Y. sospirò.
– Sì.
L. non era per nulla entusiasta all’idea di prendersi in casa uno zotico siberiano figlio di un delinquente. O forse persino lei si era affezionata a I. e non era pronta a sostituirlo. In ogni caso non poteva portarsi a casa un ragazzino contro il volere di sua moglie. Una moglie, per altro, a cui non potevi spostare neppure una pianta in vaso senza il suo consenso. 
– L’altro giorno ha chiamato l’assistente sociale – disse D. – Vuoi tutta la lacrimevole storia?
– No – scosse il capo Y. – Solo il riassunto.
– O lo porti qua adesso o non lo fai più. 
Y. grugni qualcosa.
Aggiungere un atleta a un gruppo era come inserire un elemento misterioso in una pozione alchemica. Poteva risultarne un’esplosione come la pietra filosofale. E V. sembrava fatto di un materiale altamente instabile.
– Devo parlarne seriamente con L.
– Sai già come la penso – borbottò D.
– Come no? Continui a nominarlo. Nel profondo pensi anche tu che il suo posto sia qui, a giocarsi le proprie carte con K. e G.




Salechard – Aprile 2001

Y. si guardò intorno sperso, all’uscita dalla stazione.
A quanto pareva la massima attrattiva locale erano due enormi statue, una a forma di mammut e una a forma di renna. Per il resto quella che aveva intorno era una città che stava giusto affacciandosi alla fine dell’inverno, tutta casermoni e industrie, con un sacco di cantieri aperti. Non c’era nessun albero, ma moltissime gru. L’emblema della nuova Russia capitalistica, insomma, con pochi imprenditori ad arricchirsi e una gran massa di poveracci la cui massima aspirazione era lavorare per due soldi ai confini del mondo nell’estrazione del gas. A meno di non essere un appassionato di mammut, pensò, solo la disperazione poteva spingerti lì.
Y. aveva un indirizzo in tasca, ma era metà pomeriggio e chiese al taxista di essere portato al palaghiaccio.
– Ha l’aria di un dirigente sportivo, lei. È per la nostra squadra di hockey, vero? – commentò l’autista, tutto entusiasta. – Abbiamo dei veri campioni, lasci che glielo dica.
– Pattinaggio di figura.
– Eh?
– Sono un dirigente sportivo. E mi occupo di pattinaggio di figura.
– Belle ragazze, allora. Mica male lavorarci. Anche se sono un po’ piattine per i miei gusti… Certo, l’idea che ci siano anche dei ragazzi, con quei costumini…
– Ci ho vinto un’olimpiade, io, con uno di quei costumini.
– Ah…

Il palaghiaccio era decisamente la patria della squadra di hockey, con tanto di foto giganti per festeggiare una recente vittoria, ma la scommessa era giusta. A quell’ora si allenava il pattinaggio artistico. Quasi tutte bambine, qualche bambino, e un ragazzetto più grande dai capelli chiarissimi che provava in disparte i movimenti di una coreografia con delle cuffie nelle orecchie e un vecchio mangiacassette attaccato alla cintura dei pantaloni. 
Si era alzato in quei mesi, il che per un pattinatore poteva non essere necessariamente un bene. Al momento, forse, quello contribuiva a dargli un senso generale di sbilanciamento. Ci si stava mettendo d’impegno, però. Si fermò un istante, attese di avere la pista libera e provò un Axel. Partenza sbagliata, tanto per cambiare. Però l’elevazione… Non mancava di potenza, questo era certo. L’atterraggio fu incerto, salvato da una mano sul ghiaccio…
– Lei è il padre di…? – chiese una voce femminile.
Una donna castana sotto i trent’anni, con i pattini ai piedi, si piazzò davanti a lui. 
L’aveva già vista in gara, anni prima, doveva essere l’allenatrice, quindi, come diavolo si chiamava? Difficilmente chi non arrivava neppure alla decima posizione gli si fissava in testa.
– Nessuno, sono qui per vedere il ragazzo.
– È nei guai? È della polizia?
Inizio promettente…
– Dovrebbe essere nei guai? – chiese. – Certo, che se salta in quel modo…
Il secondo tentativo di Axel lo aveva portato sdraiato sul ghiaccio a faccia in avanti.
– Non è molto concentrato di questi tempi… – commentò la donna. – Lei è?
– Y! – esclamò il ragazzo che si stava rialzando.
Attraversò veloce la pista, andando quasi a sbattere contro un paio di bambine e per un istante il tecnico ebbe il terrore stare per essere abbracciato.
– Ma ti sembrava un Axel, quella roba lì? – ringhiò, a titolo preventivo.
– Non mi hai fatto vedere le foto dell’Axel! Il Loop l’ho imparato bene, A. te lo può confermare.
– Sì – confermò la donna. – Gli è uscito qualche bel triplo.
– Ho fatto anche un quadruplo, una volta – si inserì il ragazzo.
– Scordateli i quadrupli prima dei quindici anni che se cadi male ti spacchi tutto – borbottò Yakov.
Un quadruplo, davvero? Beh, la potenza l’aveva e un colpo di fortuna può capitare a tutti… Un quadruplo Loop a tredici anni? C’era chi non ci riusciva in una vita intera a farlo. E Y. pensava a gente che si qualificava per il mondiale assoluti…
– Quindi è vero – disse A. – È arrivato il principe sul cavallo bianco che ti porta via da qui.
Diede un’occhiata significativa a Y. e il tecnico si sentì dare un voto piuttosto basso come principe. Troppo maturo e stempiato. Proprio una città di gente simpatica, non c’era che dire…
– Non è mica detto – borbottò. – Ci sono un sacco di cose vedere… Un Axel fatto meglio ad esempio.
Il ragazzo si era rabbuiato. Ci sperava davvero. Beh, era ovvio. A quanto pareva lì il pattinaggio di figura era cosa per bambini e qualche ragazzina. Anche senza contare tutto il resto, i pattini che erano gli stessi che gli aveva visto in gara, ad esempio, non è che avesse molta gente con cui parlare, a bordo pista.
Y. sospirò e estrasse un involto dalla sacca che aveva con sé.
– Tieni – disse tirandoglielo. – Tanto ormai ti saranno già stretti.
Il ragazzo tirò fuori i pattini nuovi con una sorta di timore reverenziale.
– Sono quelli standard della nazionale russa – borbottò Y. – Vedi di meritarteli.

Nel posto dove il ragazzo viveva, un casermone in periferia con vista sui cantieri, c’era tutta la parte spiacevole che attendeva Y. C’era la burocrazia, con una serie di complicazioni che andava al di là di quello che il tecnico si era aspettato e c’era la parte di storia lacrimosa a base di padri usciti di galera che non si erano fatti vivi e di amici più grandi che ci erano già entrati. Nessuno, però, gli chiese del denaro aggiuntivo e in generale si respirava un’aria di pulizia. Un posto non allegro, questo era certo, ma forse non il peggiore in cui un bambino potesse finire. E poi per V. avevano tutti una buona parola. Volevano dargli un futuro, ma non erano felici di liberarsene. Non si poteva dire la stessa cosa per tutte le famiglie con cui negli anni aveva parlato. Nessuno dei famigliari gli aveva parlato di E. con lo stesso calore con cui gli stavano raccontando di quanto V. fosse affezionato a Baba Yaga, il cagnone dell’istituto.

Trovò il ragazzo all’esterno, seduto su una panca di cemento a guardare la sera già lunga di aprile, sporcata dai palazzi in costruzione, e il prato ancora macchiato di neve.
– Verrò a San Pietroburgo? – chiese.
– Non subito. Ci sono una marea di carte da fare. A fine estate, forse.
– Va bene.
V. lo stava guardando concentrato, col suo viso ancora da bambino tutto serio e una marea di domande e aspettative dietro gli occhi chiari.
– Mettiamo le cose in chiaro – disse Y. – Vivrai in casa mia, ma io non sarò una sorta di padre o di amico per te. Sono il tuo tecnico. Di più, sono il padrone del tuo destino. Se non stai alle regole che ti imporrò, tornerai qui. Se non sarai all’altezza, tornerai qui. Se ti farai male al punto di non poter più pattinare decentemente, tornerai qui. E non mi importa se non vuoi fare il meccanico o l’elettricista. A me interessi solo per come pattini e per come e quanto vinci. Se non sei in grado di vincere non mi interessi. Quali che siano le cose che tu ti aspetti, io sono solo questo. Intesi?
L’espressione del ragazzo era indecifrabile. Era stato troppo duro? Stava per mettersi a piangere? Era un bambino che lui stava portando via dal mondo che aveva sempre conosciuto, era davvero il caso di ringhiargli contro in quel modo?
Ma il ragazzo sorrise.
– Io, però, ho una richiesta da fare – disse.
– Sarebbe?
– Posso farmi crescere i capelli? Più lunghi di così non me li fanno tenere. – disse, toccandosi le ciocche che gli arrivavano appena sotto le orecchie.
Y. sospirò.
– A me importa solo che tu vinca.

– Allora vincerò.

Il mammut simbolo di Salechar
E con questo abbiamo finito la prima parte del racconto, quella per certi versi più tenera e consolatoria.
Ora la squadra di Y. è al completo. Dalla prossima puntata conosceremo meglio anche E., che fino a questo momento è rimasta un poco nell'ombra.