domenica 30 dicembre 2018

I libri del 2018


Questo 2018 è stato duro per la maggior parte delle persone che conosco. Un anno esigente, che ha richiesto forse più di quanto abbia dato. Eppure sta finendo con giornate dalle bellezza dorata, come se volesse farsi perdonare tutto. Quello sopra è uno scorcio del mio paesello, appena a cinque minuti da casa mia, eppure sembra uscito da una fiaba.

Non ho letto molto quest'anno. Il tempo si riduce e a volte, quest'anno, ho preferito usarlo per scrivere, fosse pure solo per me stessa. Vi sono state comunque delle letture sorprendenti, di quelle che resteranno con me ben più di un anno, da traghettare verso il futuro e da consigliare per un prossimo anno.

1 – Mattatoio n°5
Serve la follia per descrivere la follia e l'immaginazione per raggiungere la verità. Kurt Vonnegut durante la seconda guerra mondiale è fotunosamente sopravvissuto al bombardamento di Dresda. Per raccontarne l'orrore si immerge in una fantascienza da ghigno amarissimo. Un uomo che vive la propria vita in modo non sequenziale, passando da un istante all'altro della propria esistenza e ne constata in ogni momento l'assoluta mancanza di senso. Una prospettiva agghiacciante e rassegnata e che, pure, fa toccare con mano la desolazione di chi è sopravvissuto a un orrore che non riesce in alcun modo a giustificare.




2 – Il porto proibito
Il porto proibito è quasi l'opposto del mio consiglio precedente. Una storia triste e buona, che fa piangere, come certi film di un tempo, in cui alla fine ci si commuove e quelle lacrime fanno bene.
È un romanzo a fumetti ambientato nel prima ottocento inglese, tra terra e mare, che strizza l'occhio ad almeno una cinquantina di opere, di cui nasconde o mostra con sapienza le citazioni. È un'opera volutamente colta, ma non è in questo la sua essenza.
È la storia di anime buone, troppo buone per non commuovere persino il destino. Un ragazzo senza passato, una prostituta innamorata, un capitano giusto, le tre figlie di un traditore, anime unite da qualcosa che va oltre i vincoli del tempo del destino. 
Una storia da leggere con il fazzoletto in mano, perché, a volte, persino adesso, abbiamo bisogno di favole.

3 – Perduto e ritrovato
Vero regalo di Natale, di quest'antologia della mia autrice preferita riparlerò con più calma a inizio 2019. Per il momento basti dire che si tratta di un librone che raccoglie racconti lunghi e romanzi brevi in modo forse un po' arbitrario, ma che ha per questo il merito di dare una panoramica completa degli stili e dei generi letterari frequentati da Ursula Le Guin. Si va dalle saghe famigliari alla fantascienza sociale, passando per il fantasy classico.
Quella che emerge più di ogni altra, è la matrice femminista dell'opera della Le Guin, dal momento che non c'è storia, neppure quelle con protagonisti maschili in mondi per lo più maschili hanno sempre nelle donne il motore del cambiamento, la chiave di volta della vicenda. A volte donne dall'apparenza insignificante, che con il loro agire quotidiano finiscono comunque per spingere gli eventi in una direzione e non nell'altra. Un ottimo libro, quindi, sia che vogliate approfondire un'autrice amata, sia per dare un primo sguardo a una che non conoscete per nulla, senza lasciarsi spaventare dal "ma a me non piace la fantascienza (o il fantasy...)" perché comunque ce n'è per tutti i gusti.

UN CARO AUGURIO DI BUON ANNO E DI BUONE LETTURE A TUTTI

venerdì 28 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 13

A Natale sta diventando, ahimé, tradizionale a casa mia l'influenza. Almeno quest'anno eravamo preparati e abbiamo evitato di progettare trasferte da rimandare all'ultimo momento...
Con questo ospite non invitato ho saltato il post degli auguri natalizi, ma non volevo saltare anche il capitolo di Padrone del tuo destino, anche se, più ci si avvicina al finale, e meno festivo diventa... 
Spero comunque di riuscire prima del 31 (al peggio nei primissimi giorni dell'anno) a fare il tradizionale post sulle folgorazioni librarie dell'anno, anche perché ce n'è una dell'ultimissimo minuto che va assolutamente segnalata.
Per intanto, per chi lo desidera, buona lettura (preparare fazzoletti...)

Capitolo 12

San Pietroburgo – Settembre 2002

Erano rientrati dalla Francia da una settimana, quando il telefono suonò alle due di notte.
– Arrivo subito – mormorò Y., mettendo fine alla chiamata.
Alzò gli occhi e si trovò gli sguardi assonnati in attesa di L. e di V., più indietro, sulla soglia del salotto, come se non sapesse se aveva diritto oppure no di partecipare a quell’emergenza.
– K. sta male – disse. – Lo hanno portato in ospedale. Raggiungo D.
L. annuì e V. fece lo stesso. Nessuno dei due chiese che cosa avesse.
Trovò D. davanti al pronto soccorso, senza giacca, nonostante le notti fossero già fredde, con i capelli che fuggivano alla coda in cui li legava e il maglione al contrario.
– Non era il caso che venissi, tanto non ci lasciano salire da lui – disse l’uomo più giovane. – Non è brutta come sembrava. Mi hanno detto che domani già lo possono fare uscire, per l’aspetto medico… Mi hanno fatto un sacco di domande, però, sul perché stava con me… Domani devo vedere anche dei poliziotti…
Y. annuì.
– K. starà bene – disse. – Il nostro medico ha chiamato il primario. Adesso tu vieni a bere qualcosa e mi racconti tutto.
Aveva visto solo una volta D. in quello stato, completamente annientato, quando aveva provato a tornare a gareggiare, dopo l’operazione e aveva capito davvero che la propria carriera era finita, a un passo dalle olimpiadi. Solo che questa volta la colpa era sua, che gli aveva scaricato il ragazzo in casa, senza capire quanto seria fosse la situazione, solo perché… Beh, perché K. aveva ragione e lui tra i due preferiva V.

– Dio, non faccio che chiedermi se non sia colpa mia, se non abbia fatto una battuta di troppo. Sicuramente ne ho fatte…
Dopo una vodka e un caffè lungo, nel primo bar aperto che Y. aveva visto, D. faticava ancora a ritrovare un minimo di coerenza.
– Non è colpa tua, quello che è successo – disse l’allenatore più anziano. – Ma è grazie a te che è arrivato in ospedale in tempo utile.
D. scosse il capo.
– No… Gli deve essere tremata la mano… Cazzo, però… Per fortuna lei non ha voluto salire da me… Non avrei mai pensato di poter dire una cosa simile… La vasca era tutta rossa. Lui era ancora semi cosciente e io, cretino, per prima cosa ho chiamato l’ambulanza. Così mentre ero al telefono è svenuto e la testa gli è finita sott’acqua…
Y. gli poggiò una mano sulla spalla.
– Lo hai salvato. È questo che hai fatto. 
D. bevve quello che rimaneva del caffè.
– Tu lo sapevi che era messo così male? – chiese poi.
– Avrei dovuto – replicò Y. – Pensavo che toglierlo dal pensionato avrebbe migliorato le cose, ma…
K. si sentiva marcio dentro e la gara in Francia gli aveva tolto l’ultimo orgoglio che avesse. Avrebbe dovuto capirlo, quel giorno all’hotel, quanto vicino fosse al limite. Avrebbe dovuto capire quanto soffocata si sentisse E. Avrebbe dovuto…
– Dici che è colpa mia, per tutte quelle frasi sui froci…
– D., te l’ho già detto, tu sei quello che gli ha salvato la pelle.
Anche se supponeva che quelle frasi d’aiuto non fossero state. Ma se c’era qualcuno che poteva essere identificato, se così si poteva dire, come la causa scatenante, era V. I due ragazzi erano stati piuttosto cauti uno verso l’altro, negli ultimi giorni. K. sembrava aver optato per un atteggiamento meno ostile, ma il siberiano non si era scostato da sua gentile indifferenza che solo E. era riuscita davvero a scalfire. 
– Ha scritto delle lettere – disse D., a bassa voce. – Le ho messe in tasca all’ultimo momento e ho dato una scorsa mentre ti aspettavo… Ce n’era una per me e una per te, oltre che per la famiglia. A leggerlo non è proprio il ragazzo che abbiamo in mente, che prenderemmo a ceffoni un giorno sì e l’altro anche. Ha solo parole gentili per noi. A quanto pare il padre, un ex militare, ha preso il fatto che abbia chiesto di andarsene dal pensionato come una prova di debolezza. Avrebbe dovuto farsi valere, come se… Beh, se c’è una rissa di qualche tipo, noi pattinatori siamo sempre quelli che le le prendiamo. Ovviamente si fa schifo per… Beh, per quello che gli piace. Si scusa con entrambi noi, per non essere stato all’altezza delle nostre aspettative. Dice che non è colpa mia o tua, che lo abbiamo aiutato e non gli abbiamo fatto pesare le sue debolezze, solo non sopportava di essere mediocre… Ne ha iniziata anche una per V., ma non è andato oltre l’intestazione.
– Perché non sapeva se scrivere un’invettiva o una dichiarazione – commentò Y., con voce stanca.
– Già… Che vita d’inferno che faceva, sotto i nostri occhi.
Y. sospirò.
– Sì, ma non gli sarebbe andata meglio altrove. Deve far pace con se stesso, K., prima di poter vivere una qualsiasi vita.
– E adesso che si fa con lui?
Y. si strinse nelle spalle.
– Quello che ci dicono i medici. Poi lo mandiamo a casa per una bella vacanza, dopo esserci assicurati che il padre militare non finisca il lavoro, con buona pace della stagione agonistica. E speriamo che torni. Ma se fossi un padre ci penserei due volte prima di rimandare mio figlio dove ha cercato di tagliarsi le vene.
– … E. tornerà?
– Io non credo. E così ne abbiamo persi due. Quelli che sembravano gli acquisti più sicuri…
Adesso era Y. che sentiva il bisogno di una vodka.
– Ti ricordi cosa ci ha detto quell’assistente sociale, la prima volta che ci siamo interessati a V? – disse Dimitri. – Che ne salvavano la metà e si sentivano bravi per quello.
Y. emise un sospiro stanco.
– Noi non siamo assistenti sociali.
– No, siamo allenatori di uno sport in cui si arriva ai vertici mondiali quando si è ancora poco più che ragazzini e nessuno, a quell’età, se un minimo sano di mente, si butta in questa vita. Forse dovremmo sentirci bravi anche noi, se riusciamo a portarne avanti la metà.

– Forse… – mormorò Yakov, poco convinto.

venerdì 21 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 12

Capitolo 11

V. si preparò ad entrare in camera, rassegnato alla fine della propria giornata perfetta.
Quindi vincere voleva dire quello. Essere al centro degli sguardi, del flash delle fotografie, delle domande. Gli avevano persino lanciato dei fiori sulla pista, al termine dell’esibizione. Pensava capitasse solo alle ragazze. E invece si era ritrovato a raccogliere una rosa e aveva trovato la cosa un po’ assurda. Che cosa se ne faceva di una rosa che sarebbe appassita prima ancora del proprio ritorno in Russia? Eppure era così bella, del rosso intenso del sangue, e aveva pensato che era un fiore che a Salechard non viveva e che non gli sarebbe mai capitato in mano, se fosse rimasto là. Di certo non avrebbe mai avuto i soldi per comprare rose da regalare a qualcuno, per San Valentino. Lì invece ne avevano tirata una ai suoi piedi, poteva persino calpestarla, o ignorarla, invece che raccoglierla. Più tardi aveva chiesto a Y come dovesse fare per farla seccare e conservarla, per ricordarsi di tutto quello che poteva raggiungere. Y aveva borbottato qualcosa sull’appenderla a testa in giù e sul fatto che forse c’erano degli sponsor che magari gli avrebbero passato dei vestiti. L’allenatore era stato un bel miscuglio di rimbrotti e orgoglio, ma più tentava di fare la voce grossa e più lasciava in realtà trapelare la soddisfazione. Poi c’era stata ancora la cena con gli altri ragazzi, non solo l’inglese e la polacca e lui si era trovato a offrire le bevande a tutti, capendo perché Y gli aveva infilato nella tasca della giacca due banconote da cinquanta euro. A quanto pareva anche le vittorie avevano dei costi. C’era stato un velo di imbarazzo, al momento di scambiarsi i numeri di cellulare con gli altri, quando aveva ammesso di non averne uno, ma nessuno aveva approfondito l’argomento. Ci si poteva dare semplicemente appuntamento alla prossima gara o alla finale.
Ormai era quasi mezzanotte e la stanchezza iniziava a pensare, non c’erano più scuse per non rientrare in camera, dove c’era K.
Non che V. avesse pensato davvero a lui nel corso della giornata, anzi. Ma era un fatto che avesse pattinato malissimo, cadendo proprio sul triplo Axel e finendo quarto. Poi si era eclissato. V. era stato trascinato via dal flusso degli eventi, ma non ricordava di aver visto il connazionale da nessuna parte. Quasi sicuramente, però, lo avrebbe trovato in camera e di certo di pessimo umore. Sperare che già dormisse era pura utopia.
– Perché cazzo l’hai fatta, la mia combinazione?
Eh no, non dormiva. V. non era neppure riuscito a richiudersi alle spalle la porta della camera. 
La stanza, tutta arredata in legno, come del resto l’intero albergo, aveva la luce spenta, filtrava appena quella del corridoio, da sotto la porta, eppure V. intravedeva gli occhi di K., come quelli di una tigre in agguato.
– Per vincere. E non mi sembra che salti e trottole possano diventare proprietà privata – disse, gettando la giacca dove sperava ci fosse il proprio letto.
– Era la mia combinazione! Tu avevi il tuo cavolo di Luzt, non avevi il diritto di portarmela via!
– Dovevo rimontare. Se tu l’avessi fatta meglio di me avresti vinto e io sarei arrivato secondo. Ero convinto che sarebbe andata così.
Iniziava a essere un po’ eccessivo per i suoi gusti. Dove cavolo era l’interruttore?
– È da quando sei arrivato che non fai che portarmi via tutto!
– Eh?
Davvero eccessivo. V. finalmente riuscì ad accendere la luce.
K. aveva pianto. Forse, dalla faccia, aveva pianto dal termine della gara. Il suo letto era disfatto e sembrava fosse esplosa una bomba tra le sue cose.
– Tu non hai idea della vita che ho fatto per arrivare qui! – stava gridando il ragazzo. – Delle cose che ho sopportato! Io sono il Campione di Russia, lo ero da novice, lo sono da juniores, io devo diventare il più grande! Ma tutti hanno sempre e solo occhi per te. Sei il favorito di Y., ci vivi in casa, avevi la tua bella camera spaziosa mentre la mia testa veniva infilata nei water del pensionato. Non c’è un cazzo di giorno in cui G. o D. o persino una delle bambine non mi dica quanto hai fatto bene questo o quello, quanto sei bello o gentile o dolce! Sei pazzo, cazzo, ti sei portato dietro un peluche tutto il giorno eppure vedono tutti solo te.
V. aveva fatto d’istinto un passo indietro, investito da quel fiume di parole gridate tra i singhiozzi e le lacrime. K. aveva le mani strette a pugno, ma sembrava pronto a colpire piuttosto se stesso. 
– Dobbiamo fare a gara a chi ha avuto la vita più schifosa? – domandò, freddo.
– Certo, come no! Tu sei quello che non ha nessuno, quello che «chissà cos’ha passato?», con lo sguardo da cucciolo. Te li rigiri tutti. Y, D, E. Scommetto che è sempre stato così. Ovunque tu sia stato, ti è sempre bastato guardare qualcuno con quei tuoi occhioni per averlo dalla tua parte.
– Sì, è andata proprio così – replicò V, con tono neutro.
Era vero. 
Aveva pensato più di una volta negli ultimi mesi che, al netto delle cose possedute, lui era sempre stato più felice di E. Forse gli era persino stato voluto più bene. E di certo non era mai stato pestato come era successo a K, né gli era mai stata infilata la testa nel water. Tutti pensavano che dovesse aver vissuto chissà cosa in istituto. Non era vero. Lì era stato protetto, aveva avuto degli amici. Solo che poi c’era il resto, il mondo di fuori. E l’ufficio soffocante nella palazzina accanto al palaghiaccio di Salechard e quei ricordi con cui non era ancora venuto a patti. Quello che ho fatto per arrivare qui…
– Hai finito? – domandò, togliendosi la felpa.
Voleva che il rancore di K. gli scivolasse addosso, insieme ai ricordi che aveva riportato in superficie, voleva spegnere ancora la luce, buttarsi nel letto e sognare il colore delle rose o le risate in pizzeria.
– No, non ho finito! Vorrei che tu sparissi. O che almeno mi guardassi con qualcosa di diverso da questa indifferenza. Andrebbe bene anche l’odio, sarebbe comunque qualcosa! Vorrei che te ne andassi dalla mia testa e dai miei sogni!
Detto questo, K. fuggì in bagno. 
Chiuse la porta sbattendola e un attimo dopo si udì il rumore dell’acqua che scorreva.
V. rimase un istante a guardare la porta chiusa del bagno e poi si lasciò cadere sul proprio letto. Tirò fuori il cagnolino peluche dalla tasca della giacca e lo tenne tra le mani. Si era aspettato rabbia da K. Ma non aveva immaginato di rappresentare un’ossessione per lui. La rabbia poteva capirla, a ruoli invertiti l’avrebbe provata lui stesso. Le ultime parole invece… Quanti pensieri, e di che genere, K. gli aveva dedicato? Era persino possibile che nessuno, certo non E, avesse pensato così tanto a lui… 
Guardò il peluche, mentre in bagno l’acqua scorreva, di certo per coprire i singhiozzi.
– Sarebbe molto più facile, K, se anche tu fossi entrato almeno una volta nei miei sogni – sospirò.



– Certo che è snervate vederti sempre con un atleta sul gradino più alto del podio… Deve essere facile la vita, quando hai tutta la Russa per andare a caccia di talenti.
– Taci, tu. Hai uno stato che è grosso come un francobollo, ma sei sempre tra i piedi.
K, l’allenatore svizzero, rise, sistemandosi a fianco del russo al bancone bar dell’hotel. Y notò con piacere che ormai era più grasso e stempiato di lui. Questo, però, gli ricordava anche quanto fosse passato dai tempi in cui l’avversario poteva permettersi di fare il cretino con L, le rare volte in cui lei veniva a vedere una gara.
– Si chiama “solida tradizione sportiva”… E comunque dove l’hai scovato uno che ti piazza due combinazioni così in sequenza? Non mi sembra di averlo mai sentito, prima.
– Beh, adesso diventerà una spina nel fianco per tutti, te lo assicuro.
Anche per Y. stesso.
L’allenatore lanciò uno sguardo al proprio atleta, che stava valutando il buffet della colazione, per essere sicuro di non andarsene senza aver assaggiato tutto. Bisognava in qualche modo che imparasse a gestirlo, o quella sua propensione a esagerare in gara lo avrebbe rovinato…
– Ma tanto adesso ti sei dato alle coppie, niente scontri diretti tra noi, non più – disse, per cambiare discorso.
– Non cantare vittoria troppo presto. Ho per le mani un novice che promette benissimo, ha solo undici anni, certo…
– E sappiamo benissimo quante cose possono succedere
Il collega però scosse il capo. Aveva un’aria svagata e il suo viso tondo e sorridente era facile da sottovalutare, ma tutte le volte che Y. l’aveva fatto se n’era pentito amaramente.
– Devi crescerli tu – disse lo svizzero. – Prenderli il prima possibile, evitare che finiscano in cattive mani… Le cose possono andare storte anche così, certo. Mi è spiaciuto per quell’altro tuo ragazzo. Contro certi infortuni siamo disarmati, per altre cose, invece, possiamo attrezzarci.
Y. grugnì qualcosa, poco convinto, anche se sapeva che l’altro aveva ragione. 
V. e K. usavano schermi diversi, il sorriso il primo, l’ostilità il secondo, per nascondere il loro vero io e le ferite ricevute dalla vita, non solo, ma anche, sospettava Y, nell’ambiente del pattinaggio. 
– E invece all’altro che cos’è successo? – chiese ancora K. – Sembrava che dovesse spaccare il mondo e poi si è afflosciato come un soufflé cotto male.
– Giornata storta. Capita a tutti – tagliò corto Y.
Crollo emotivo bello e buono. Di quello si trattava. V, probabilmente senza rendersene conto fino in fondo, ne aveva triturato l’ego con i pattini, scippandogli il privilegio di essere l’unico atleta in tutto il Grand Prix Juniores a portare una combinazione con un triplo dopo il triplo Axel. Adesso K sedeva a un tavolino, il capo chinato su un libro di scuola. Rispondeva a monosillabi, privo persino delle sue battutine acide e più di ogni altra cosa evitava di incrociare lo sguardo di V. 
Quando l’allenatore svizzero si fu allontanato per recuperare i suoi due atleti, Yakov fece lo sforzo di andare a sedersi di fianco al ragazzo.
– Vengono a prenderci tra mezz’ora, hai già portato giù la valigia? – chiese, per rompere il ghiaccio.
Ghiaccio che rimase intatto, dato che K si limitò a stringersi nelle spalle e ad annuire.
– Ragazzo, dopo una sconfitta non ci si rintana come un orso in letargo – borbottò Y, che già sentiva di stare per perdere la pazienza. – Che poi, sconfitta… Un quarto posto alla gara d’esordio al Grand Prix… G. neppure se lo può sognare.
– Io non sono G.
– No. E neppure V. Sei K. e puoi cavartela benissimo in quanto te stesso.
Il ragazzo gli lanciò uno sguardo tutt’altro che convinto.
– Non ti senti bello o spigliato? Chisseneffotte. Percorri la tua strada, pattina i tuoi programmi. Non vincerai tutto? Chissenefotte. Vinci abbastanza. Sarai rispettato. Il rispetto, alla lunga, conta, in questo ambiente più di qualsiasi altra cosa.
K. si limitò a sbuffare.
– Sei arrabbiato con V. e invidioso di lui? Bene. Mi sembra appropriato. Rendigli il favore. Rubagli tutti i salti.
– Tu lo sapevi che avrebbe fatto anche la mia combinazione? – chiese il ragazzo, aspro.
Ah, c’era anche questo. Beh, come dargli torto?
– No. Non l’ho allenato in segreto per sfavoriti, se è quello che hai pensato – disse, cercando di mantenere un tono neutro. –  Non l’ha provata neppure una volta. L’ha imparata solo vedendotela fare.
Y. sospirò. Non ci avrebbe creduto neppure lui se non glielo avesse già visto fare la primissima volta, con il Loop.
K. annuì.
– Se lo odiassi davvero sarebbe più facile, perché potrei trasformale l’odio in determinazione – disse, dopo un certo tempo. – Ma c’è qualcosa che si è inceppato in me e non funziono nel modo giusto.
Quello che non funziona, pensò Y, è che sei stato pestato e costretto a fuggire per qualcosa di cui non hai nessunissima colpa. È che hai l’autostima di un gatto investito in autostrada e tutto quello a cui ti aggrappavi era il fatto di essere il più bravo sul ghiaccio. Solo che hai trovato sulla tua strada qualcuno che è più bravo di te.

– Non c’è nulla che non vada, in te. Sei quello che sei. Potenzialmente un atleta da podio olimpico. Ed è l’unica cosa che a me interessa.

SULLE LAME DELLA STORIA.
Capitolo non troppo natalizio, questo, ma vi avevo avvertito sin dall'inizio che non sarebbe stata una storia disneyana di sport e riscatto (o, quanto meno, non solo).
Per alleggerire l'atmosfera, vi presento uno degli altri elementi scenici che ho rubato, il peluche-portafazzoletti a forma di cagnolino di V. Nella realtà è famoso quello a forma di orsetto del campione olimpico Hanyu, che lo accompagna a tutte le gare e viene custodito con cura (e sguardo un po' esasperato) dall'allenatore durante le esibizioni. C'è, inoltre, una giovanissima atleta russa che è evidentemente convinta di essere la versione femminile di V (e forse ha le carte per esserlo). Non lo dico a caso. Guardate bene l'esibizione (fa cose spaventose a livello tecnico), ma anche il peluche che abbraccia nell'attesa del punteggio.


lunedì 17 dicembre 2018

I dubbi della mamma socratica – i buoni propositi



Medicinali
Ah, questi genitori smidollati, che cedono ad ogni capriccio dei figli. Noi non saremo mai cosi! Mai! Le regole sono regole e le cose che vanno fatte vanno fatte!
Un proposito draconiano sopravvissuto più di due anni. Fino al primo malanno un po' più serio, con antibiotico.
La medicina si deve prendere. Con le buone o con le cattive.
Due ore dopo:
– Dottoressa, la prego, non c'è un altro antibiotico? Siamo disperati, non sappiamo più come fare! La prego!
La mattina dopo:
– Amore, tesoro, vuoi guardare i cartoni animati per prendere lo sciroppino? Da che poi c'è il cioccolatino...
Due anni di educazione alimentare e televisione contingentata buttati al vento.
Ma poi, questi maledetti antibiotici, proprio rosa fosforescente? È finito ovunque. Allegre macchie rosa anche sul soffitto. Potranno passare per decorazioni natalizie? Macchie rosa sul maglione bello messo per i colloqui con i genitori.
Alla fine, però, l'antibiotico è stato preso. Quello nuovo, alla fragola. Solo se glielo dà il papà. Da me non prende più nulla da un cucchiaio.
– Amore vuoi assaggiare la cioccolata?
– Da te no!

Televisione
Io sono stata cresciuta con regole ferree. Mezz'ora al giorno di televisione e non di più. Tutt'oggi per me guardare la televisione di pomeriggio è sinonimo di grande trasgressione. Lo si può fare se si è malati o alle feste comandate. E comunque se si tratta di un documentario mi sento meno in colpa.
Quindi perché non replicare lo stesso metodo con la pupattola?
Al netto dei traumi infantili dovuti a drammatici cartoni animati di cui non ho mai visto la fine (il fratellino di Annette per me è sempre rimasto in fondo al burrone) e dell'isolamento sociale causato dal fatto che ero esclusa dalle conversazioni con i coetanei, non aveva dato ottimi frutti?
Televisione solo mezz'ora dopo cena per dare tempo a mamma e papà di sparecchiare.
Non avevamo fatto i conti, però, con le energie della pupattola, che salta, corre, si arrampica. Tutto, però, rigorosamente con genitore al seguito. E quindi sollevarla su e giù da scivoli altissimi, inseguirla in lungo e in largo per i parchi o il cortile di casa, fare gare di salti in cui non la fai vincere perché e piccola, perdi tu per sfinimento.
E quindi, nel tardo pomeriggio dei fine settimana è sempre più comune che accada questo:
– Amore, guardiamo un po' di tv? Mamma è stanca, vuole vedere Masha e Orso...
– No, mamma, giochiamo! Palla? Salti? Balliamo? Girotondo?

Babbo Natale
Qui si scontrano in famiglia due scuole di pensiero, ognuna ricca di contraddizioni.
IL MARITO
Dobbiamo proprio fare l'albero? Non prima dell'otto dicembre! Non vorrai mica addobbare anche lì!
Eh, però dobbiamo prepararla all'arrivo di Babbo Natale. Mettiamo le carote per le renne, il latte per lui, nascondiamo i regali nel sacchettone... Babbo Natale è l'essenza della magia del Natale!
IO
No, davvero non possiamo mettere delle renne vere in giardino? Sarebbero fantastiche! Ho comprato solo 1200 decorazioni nuove (tutte infrangibili), ma non credo bastino...
Però sono contraria alla storia di Babbo Natale! Non si può mentire ai bambini.

Babbo Natale è l'unico punto pedagogico su cui non abbiamo trovato un accordo. Per me raccontare una menzogna è fuori discussione e da che ho scoperto che anche i pedagogisti montessoriani seguono questa linea difendo la mia idea e la mia lotta alla menzogna di Babbo Natale è senza quartiere. Mio marito, creatura refrattaria a ogni addobbo e smanceria natalizia, crede sia invece un delitto negare la favola alla pupattola.
Che quindi ha preparato gli addobbi sotto la mia supervisione. Ha preparato i pacchetti perché "a Natale si scambiano i regali". Però pensa anche che un vecchietto con la barba e la slitta trainata da renne passerà da casa nostra. E bisogna preparargli un rinfresco. Non perché porti i regali. Ma per gentilezza.

venerdì 14 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 11

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10


Courchevel – Agosto 2002
– Sono meravigliose! Guarda quanta neve… Sono come la Siberia, ma in verticale!
– Non siamo un po’ troppo bassi? Non è che rischiamo…?
– No, K., goditi il panorama, una buona volta – disse Y.
Sorrideva ed erano giorni che non lo faceva.
Ma l’emozione dei due ragazzi, la prima volta che sorvolavano le Alpi era una cosa che andava vista. Non avevano alcuna esperienza di montagne e in quel momento sembrava che si potesse mettere una mano fuori dal finestrino e sfiorare una vetta o raccogliere una manciata di neve da un ghiacciaio. Il suo lavoro, dopo tutto, era anche questo, accompagnare dei ragazzi in giro per il mondo, far vedere loro cose che senza il pattinaggio non avrebbero mai potuto neppure immaginare. E a volte il loro viso in quelle occasioni ripagava di tutto. Y. si lamentava moltissimo delle continue trasferte, dei fusi orari, della scomodità dei voli e degli alberghi, ma in realtà era una delle cose che preferiva. Quando gli capitava di vedere immagini come quella della faccia di V. praticamente schiacciata contro il finestrino dell’aereo, gli occhi enormi nel tentativo di assorbire tutto, era difficile dire che non ne valesse la pena. Cosa che, invece, aveva pensato di continuo nel mese precedente.
Le cose erano andate esattamente come L. aveva predetto. Maledetta donna che aveva quasi sempre ragione. Il ragazzo che aveva messo incinta E. si era dileguato appena saputa la notizia, a diciannove anni si era trincerato dietro la famiglia, a un padre che giurava che non fosse stato il suo figlio, che non avrebbe mai fatto alcun test per sincerarsene e che comunque lei era una poco di buono. Una facile, che andava con tutti, compreso un ragazzetto figlio di un delinquente. Queste cose Y. le aveva sapute in prima persona perché i genitori di E. erano interessati solo al fatto che non si sapesse niente e quindi erano stati ben disposti a mascherare il tutto come un infortunio sportivo e lasciare nelle sue mani l’intera gestione della cosa. E con quello, la voglia di schiaffeggiare E. gli era passata del tutto. 
La ragazza non aveva mai pianto, tra tutti, sembrava l’unica ad aver mantenuto intatta la propria dignità. Una volta Y. aveva visto un film su Anna Bolena. Ekaterina si era avviata a tutte le visite mediche e anche alla clinica privata e di comprovata discrezione esattamente con lo sguardo che aveva Anna Bolena in quel film quando saliva sul patibolo. Ma, dopo tutto, E. era una regina. Lo era sempre stata e avrebbe continuato ad esserlo. Per certi versi, Y. non era mai stato tanto orgoglioso di lei, anche se era quasi certo di averla persa. Erano stati i suoi genitori a spingerla a pattinare, era stato il loro sogno vederla diventare una campionessa. Non c’era nulla di male in questo, la maggior parte dei ragazzini iniziava uno sport per gli stessi motivi. Ma di certo Y. al posto suo non avrebbe più fatto nulla per compiacerli. In altri tempi, quando era lui a pattinare, una ragazza di quel talento non sarebbe stata lasciata andare. A costo di ricorrere alle minacce o ai ricatti. Lo aveva visto succedere. Un talento doveva per forza servire alla causa sovietica. Adesso, però, vivevano nel tempo della libertà. E, forse, anche quello di non sviluppare il proprio talento era un diritto.
– Allacciatevi le cinture, stiamo per atterrare – disse ai ragazzi.
Intercettò i loro sguardi di colpo ansiosi. Per K. era la seconda gara internazionale, per V. era tutto nuovo.
– Oh, certo, qualcuno riderà di voi – disse. – Perché siete impacciati e il vostro inglese, sopratutto quello di V., è tutt’altro che perfetto. Ma solo fino a che non sarete scesi in pista. E in ogni caso la maggior parte dei ragazzi che incontrerete è esattamente come voi, si sentono stranieri, sono in ansia per la gara e non sanno come comportarsi. Siete qui per vincere, questo è certo, ma anche per imparare a gestirvi nel mondo. Ed è una buona occasione per iniziare a fare amicizia con altri atleti che magari pattineranno con voi per anni.
– Io non ci faccio amicizia con i nemici – ribatté K.
– E quando mai tu fai amicizia? – sospirò Y. – Comunque non devi per forza legare con gli avversari diretti, ci sono le ragazze e i ragazzi delle coppie di artistico e di danza. Magari succede un miracolo e trovi qualcuno che non ti è insopportabile.
Quello che pensava davvero era del tutto censurabile. Qualcuno che ti cacci la lingua in bocca e migliori un po’ il tuo umore. Y. aveva seguito per quattro anni un atleta che aveva una relazione segreta con un pattinatore canadese che faceva danza su ghiaccio. Mai avuto un ragazzo così desideroso qualificarsi per le competizioni internazionali. Per D., all’epoca, era stato un avversario quasi imbattibile. Y. era diventato amico del tecnico canadese ed entrambi avevano convenuto che era una delle situazioni più facili che a un allenatore potesse capitare. Atleti motivati che avrebbero fatto qualsiasi cosa per evitare che la notizia trapelasse.
K., però, si limitò a sbuffare, guardando con malcelata preoccupazione la pista che si avvicinava.



Bene, o, almeno, meglio del previsto.
Alla mattina dell’ultimo giorno di gara, K. guidava la classifica e V. era al terzo posto. Il siberiano il primo giorno era parso ancora un po’ frastornato dalle troppe novità, dagli gli annunci di gara in inglese che non sempre capiva agli gli avversari che avevano tutti più esperienza, anche quelli più giovani, e sapevano come intimidire. Si era adattato in fretta, però. La malinconia che lo avvolgeva da che E. non veniva più in pista non era sparita, ma la sua innata curiosità lo aveva portato già quel pomeriggio a esplorare il paesino francese, che poi era una manciata di case di legno circondate dai monti, ed era tornato in compagnia di un inglese e una polacca con cui comunicava con un misto di russo, inglese e gesti. Courchevel era infinitamente più sicuro di una qualsiasi festa a casa di E. e i ragazzi erano tutti atleti con le stesse esigenze e responsabilità e Y. era stato ben felice di lasciarlo alla trasgressione di una pizza senza adulti alle calcagna. 
K., ovviamente, era più ombroso ma le cose non giravano così male. Divideva la camera con V., ma a quanto pareva non si erano ancora azzuffati e il fatto di dominare la gara aiutava. Aveva persino scambiato due parole con un ragazzo americano. Nulla di più che informazioni banali sulla provenienza e la specialità di gara, il ragazzo faceva coppia di figura e a quanto pareva era in fuga dalle crisi d’ansia della propria partner, ma, dato che si trattava di K., era un successo non da poco.
Adesso, durante l’allenamento pre gara, si muoveva sicuro, con la convinzione di non poter che confermare le prestazioni precedenti. Quello che invece andò ad abbracciare il ghiaccio fu V., nel tentativo di provare la sua sempre incerta combinazione.
– Vieni qui, ragazzo – lo chiamò, a fine allenamento.
– Ho fatto schifo, vero? – disse V., con uno di quei sorrisi che ormai il tecnico riconosceva come “schermo anti sfuriata”.
– Abbastanza. Quindi non strafare. Fai il doppio dopo il Lutz. Se cadi sulla prima combinazione non ne esci più. 
– Sì, ma vincere sarebbe impossibile.
– Mantieni la terza posizione. È la tua prima gara internazionale. Se vai a podio in tutte e due le qualificazioni entri di sicuro in finale.
L’espressione del ragazzo non era affatto convinta.
– Che cosa c’è?
V. si guardò intorno, riluttante a parlare.
– Non pensavo che fosse così, una gara internazionale.
– Così come?
– Diversa dalle nostre… Piena di cose, di persone… Io vorrei… Conquistarmi il diritto di restare in questo mondo?
– Allora vedi di mantenere la posizione e non fare idiozie.
Eppure stava pensando qualcosa e Y. non sapeva se fosse un bene o un male. Per i ragazzi era la prima partecipazione al Grand Prix e quindi era un po’ la prima volta anche per lui, dato che, pur conoscendoli, non sapeva come avrebbero reagito alla tensione. K. era ringhioso e concentrato, come i giorni precedenti e come all’europeo, l’anno prima. Quindi Y. supponeva che andasse tutto bene. V. sembrava… Un segugio in un bosco troppo pieno di selvaggina. Attento ad ogni stimolo, teso e con un sottofondo d’inquietudine. Dal momento che non l’aveva mai visto così, Y. non aveva idea neppure di cosa fare o se aspettarsi un disastro o un miracolo. E un disastro andava evitato a tutti costi. Meglio una prestazione mediocre che una caduta rovinosa nella propria gara d’esordio.
Stavano pattinando tutti bene, maledizione a loro. L’inglese, che era quinto, piazzò anche lui una combinazione con due tripli, Loop e Toe Loop, che fece digrignare i denti a K., ma applaudire di cuore V. e si guadagnò un punteggio da podio sicuro.
Anche il quarto il classifica, un giapponese, gli asiatici stavano iniziando a diventare un problema, se la cavò in modo più che dignitoso.
V. si tolse la felpa, rivelando il costume bianco e grigio, e assestò un carezza al proprio peluche, come se fosse un cane vero.
– Tutte le ragazze sono già innamorate di te – gli disse Y., sperando di far leva sulla sua vanità. – Adesso vai a far vedere chi sei e ricordati che cosa ti ho detto.
V. annuì.
– Sì – sembrava che stesse per buttarsi nel vuoto. – I diritti qui si conquistano sul ghiaccio e se posso fare una cosa la devo fare.
Non erano le frasi che Y. aveva in mente, ma lo sguardo del ragazzo era cambiato del tutto. Sembrava ancora un segugio, ma che avesse trovato la sua preda.
Gli altoparlanti annunciarono il suo nome e Y. si godette lo sguardo degli altri tecnici quando il nome fu ripetuto anche come quello del coreografo del pezzo, insieme a quello di L. Le altre esibizioni erano state prove generali, la gara di V. era quella.
Il ragazzo partì benissimo. Lui, beh, Y. se n’era accorto subito. Ci sono atleti che sanno attirare gli sguardi, hanno un’eleganza innata. V., con i capelli lunghi e il costume chiaro sembrava un cigno o un angelo e nessuno poteva togliergli gli occhi di dosso. Questo, però, voleva dire che ogni sbavatura tecnica sarebbe stata notata. In una prestazione mediocre, un buon salto veniva apprezzato dai giudici. In una sublime una sbavatura poteva essere penalizzata moltissimo da una giuria esigente. E il sistema di valutazione era tale che l’umore dei giudici diventava un elemento determinante.
Ecco la combinazione… Y. ebbe la tentazione di chiudere gli occhi.
Triplo Luzt, perfetto. Triplo Toe Loop, atterraggio non meraviglioso, ma senza bisogno di appoggiare una mano. Altro che non strafare. Subito di seguito aveva un’altra combinazione, triplo Axel e doppio Toe Loop, la versione più facile di quella di K… No. Non la versione più facile. Triplo Axel, il triplo Axel ormai perfetto di V., e triplo Toe Loop. Maledetto siberiano. Ecco perché aveva insistito tanto per quella combinazione che non gli usciva così bene. Testa dura e ribelle. Avrebbe dovuto dirgli cos’aveva in mente! Quella era una cosa da far vedere in finale o ai mondiali, non alla prima gara. Ora tutti gli atleti avrebbero alzato l’asticella della difficoltà, rendendo le gare successive un incubo… Ma Y. non ci pensava davvero. Come tutti era ipnotizzato dalla piuma, l’angelo o quel che era e la sua caduta verso la dannazione. Finché non intercettò lo sguardo di K. Era come se qualcuno gli avesse sparato a tradimento nella schiena.

SULLE LAME DELLA STORIA.
E finalmente siamo arrivati alla gara!
Nel mondo reale V. e K. in Francia avrebbero incontrato la nostra Carolina Kostern, che è più o meno loro coetanea (ed è ancora competitiva, quasi l'ultima sopravvissuta di un'epoca passata).
In questi 16 anni in pattinaggio è cambiato parecchio. Il sistema di giudizio è cambiato, pesa molto di più l'aspetto tecnico e meno l'umore dei giudici di cui tanto si lamenta Y. Di conseguenza le combinazioni presentate dai miei personaggi oggi non sono più il top di gamma, come lo erano invece nel 2002.
Il vincitore del Grand Prix Juniores di quest'anno, però, è simile  come ci immaginiamo V. Ha 13 anni ed è un canadese di origine russa (lo sguardo finale di K. è più o meno lo stesso del  russo sedicenne campione del mondo in carica che si è visto portar via la vittoria da un ragazzetto...).
Gli manca ancora un po' di espressività, ma godetevi la sua esibizione nel corto.