lunedì 29 settembre 2014

Il lettore ideale – Scrittevolezze


I bei commenti al post precedente sul narratario ho pensato di dedicare questo a un'altra figura a metà strada tra realtà e narratologia, il LETTORE IDEALE

Per chi scrivo questo post?
Per me, che sono il Lettore Ideale e esisto solo nella testa dell'autore!

Il lettore ideale è in gran parte un'astrazione, è il lettore che l'autore vorrebbe, quello a cui, nelle sue intenzioni, il testo è rivolto.

Spiegato così quello del lettore ideale sembra una pura pippa mentale, una delle tante fisime degli autori con troppo tempo libero. In realtà mi sono resa conto che ragionare sul proprio lettore ideale aiuta e semplifica molto del processo decisionale dell'autore.
Ci sono molti aspetti che cambiano ai nostri occhi se li guardiamo considerando il lettore ideale.

Tematiche e contenuti da approfondire
Inserire o meno scene di sesso esplicite? Violenza più o meno descritta?
Questione di lettore ideale.
Barbablù è a tutti gli effetti una storia di serial killer, anzi, checché ne dica Wikipedia è dimostrato che ha avuto origine dalle vicende di un nobile francese di fine medioevo che aveva ucciso le sue spose. Tuttavia, nella versione che mi è stata raccontata da bambina ci sono sì delle scene macabre, con la scoperta della stanza con le teste delle mogli morte, ma nulla in grado di traumatizzarmi davvero. La stessa vicenda potrebbe diventare vietata ai minori di 14 anni, insistendo di più sui cadaveri delle donne e magari sulle scene di uccisione o addirittura ai minori di 18 anni. Questo senza variare di una virgola la fabula della vicenda.
Allo stesso modo, sempre senza modificare la fabula, ma insistendo su alcune tematiche e diminuendo l'importanza di altre, I Promessi Sposi possono diventare una telenovela.

Particolari da inserire
Ci pensavo l'altra sera leggendo Shadowhunters vi sono riferimenti a mode, musica, videogiochi, modelli di cellulari che strizzano l'occhio all'adolescente di oggi, che si riconosce nei protagonisti. Mi chiedevo se tra dieci o vent'anni gli adolescenti continueranno a leggere questi libri. 
I libri finali di Harry Potter si rivolgono a lettori più o meno della stessa età di quelli di Shadowhunters, ma, anche nelle parti ambientate nel mondo "babbano" i riferimenti a particolari di moda sono assenti. In effetti, Harry Potter sta invecchiando bene. Mi chiedo se già in origine fosse pensato per ragazzi di una determinata età ma non necessariamente per i contemporanei. Quella del maghetto è una saga studiata per durare nel tempo.

Inoltre quanti particolari relativi all'ambientazione vogliamo inserire? Una descrizione veloce che lasci subito spazio all'azione andrà bene per un determinato pubblico, ma non per un altro.
Se citiamo in continuazione brani di musica rock anni '70 (solo per fare un esempio) piaceremo a determinati lettori. Così come uno spiccato citazionismo letterario strizza l'occhio a un pubblico di lettori forti.

Lessico e sintassi
Posto che ogni personaggio deve parlare in modo coerente con la sua personalità, è chiaro che una narrazione infarcita di parolacce e termini volgari non andrà bene per tutti i lettori. 
Un lessico aulico e una sintassi complessa con frasi da 15 righe non ci aprirà certo la strada dello YA.
Se poi scrivo di un argomento/con un'ambientazione di cui so che esiste già un folto pubblico di appassionati e non voglio inimicarmeli, dovrò stare attenta alla terminologia specifica. Molti membri delle forze dell'ordine leggono gialli. Molte persone che provengono da studi storici (come me) apprezzano la narrazione storica. Meglio tenerne conto, piuttosto che inimicarsi un grossa fetta di pubblico potenziale!

Però lettore ideale e lettore reale non sempre coincidono!
Vero!
Harry Potter è stato letto da tantissimi adulti.
U. Eco era convinto che Il nome della rosa sarebbe stato un flop editoriale, apprezzato solo da quel piccolo nucleo di lettori colti per cui era stato pensato. Dante certo non pensava che la sua Commedia a secoli di distanza sarebbe stata letta in tutte le scuole.
Il lettore ideale è un'astrazione che può non coincidere affatto con i lettore reale.
Secondo me, però ci sono degli indubbi vantaggi nel considerarlo che si possono riassumere in un'unica parola COERENZA.
Pensiamo a una storia d'amore il cui lettore ideale è "la donna cattolica di media cultura", non ci saranno troppe parolacce né vi si troverà un lessico aulico. Non ci saranno scene esplicite di sesso o violenza e vi si ritroveranno determinati valori. Questo non toglie che, se il libro è scritto bene, possa piacere anche a degli uomini atei e mangiapreti, ma l'autore sarà stato senza dubbio aiutato nelle sue scelte dall'aver definito il lettore ideale.

Tenar e i suoi lettori ideali
Uno dei (molti) appunti che mi sono stati fatti a un romanzo che, ormai ne sono consapevole, non riuscirò a pubblicare era che non era ben definito il pubblico a cui volevo rivolgermi. Si tratta di un giallo storico con scene troppo esplicite per il giallo classico, ma con tematiche troppo articolate per un pubblico che cerchi un romanzo in cui predomina l'azione. Il romanzo ha ricevuto molti complimenti da varie case editrici, ma al dunque tutti hanno detto di no.
Questo mi ha insegnato a pormi un po' di più il problema del pubblico.

Generalizzando, oggi il mio lettore ideale è un adulto, di cultura medio/alta alla ricerca di un testo di intrattenimento non (troppo) banale. Probabilmente è donna, interessata agli aspetti psicologici della vicenda. Specificando ancora di più, il mio lettore ideale può essere esemplificato da una professoressa in vacanza sopra i 25 anni.

Voi vi ponete il problema del lettore ideale e, se sì, qual è il vostro lettore ideale?

venerdì 26 settembre 2014

Il narratario - Scrittevolezze


Per chi sto scrivendo questo post?
Per me, che sono il narratario e non esisto!

Dato che al PAS sto (ri)facendo narratologia, oggi ho decido di fare la scribacchina seria e di parlare di una categoria un po' più tecnica e delle ricadute che ha su un testo.
Ma di cosa sto blaterando?
Il NARRATARIO è una categoria narratologica interna al testo e indica colui a cui il narratore si rivolge
Essendo una figura interna al testo non è e non va confusa con il LETTORE IDEALE anche se in alcuni casi vi si sovrappone parzialmente.
Del resto, come il narratore non è mai perfettamente sovrapponibile con l'autore, anche il narratario non è del tutto sovrapponibile con il lettore ideale (il target a cui l'autore si rivolge) o con il lettore reale.
Nella pratica della scrittura la figura del narratario cambia sensibilmente a seconda se stiamo usando un narratore interno o un narratore esterno.

Il ruolo del narratario in testi con un narratore interno
Nel caso di testi scritti in prima persona il narratario è spesso un personaggio preciso, la persona per cui il narratore si sta rivolgendo.
Prendiamo l'incipit di Memoria d'Adriano
"Mio caro Marco,
 Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene..."
È chiaro che nella finzione narrativa di questo romanzo il narratore è l'imperatore Adriano e il narratario è un giovane Marco Aurelio. Si tratta quindi di un personaggio molto preciso, che compare molto poco nella narrazione, ma a cui Adriano si rivolge spesso.
Non sempre il narratario è così ben identificabile, ma di solito ha comunque un buon grado di definizione. L'Adso narratore de Il nome della rosa si rivolge a un ipotetico monaco suo contemporaneo.
Quando abbiamo un narratore interno vuol dire che, nella nostra finzione narrativa, un personaggio si è messo a raccontare una storia. C'è sempre un motivo per cui lo fa (dare conto di fatti straordinari, difendersi, portare memoria di qualcosa che potrebbe essere dimenticato, sfogarsi...) e quindi c'è sempre qualcuno per cui scrive. Può essere un narratario generico ("i posteri" che, comunque, il narratore tenderà a immaginare non troppo diversi da sé) o, come nel caso di Memorie d'Adriano, molto specifico. Nel caso limite di un testo scritto sotto forma di diario, narratore e narratario coincidono (salvo casi, come quello di Anna Frank, in cui l'autore inventa, anche all'interno di un diario, un narratario).

Il ruolo del narratario in testi con narratore esterno
Meno il narratore interviene nel testo e meno si sente la presenza del narratario.
Se è evidente che i "25 lettori" di Manzoni non esauriscono certo il pubblico a cui l'autore sperava di arrivare, è molto meno facile identificare il narratario all'interno di un testo in cui la voce del narratore sia più nascosta.
Questo non vuol dire che il narratario smetta di esistere, ma diventa sempre meno influente nel testo fino ad arrivare (quasi) a diventare indistinguibile dal lettore ideale.

Un autore si deve porre il problema del narratario?
In fin dei conti il narratario è una figura creata dai narratologi, generazioni di scrittori sono vissute e hanno scritto immortali capolavori senza ragionare sul narratario, tuttavia ragionare su a chi si rivolge il narratore è sempre utile.

Nel caso di un testo con narratore interno, definire il narratario è indispensabile.
Tornando a Memorie d'Adriano avremmo un testo diverso se Adriano non si rivolgesse a un ragazzino dalla sensibilità molto diversa dalla sua, dal quale, tuttavia, desidera a tutti costi farsi capire e, forse, assolvere. 
Il nome della rosa sarebbe altrettando diverso se Adso si rivolgesse a un pubblico esterno al mondo monanstico e dalla cultura inferiore alla sua. Quasi tutti i lettori de Il nome della rosa saltano a piè pari i passi in latino e le citazioni troppo lontane dalla nostra sensibilità. Il libro è, in effetti, perfettamente comprensibile anche letto in questo modo, perché il lettore ideale per cui è stato pensato non è un monaco medioevale. Ma il fatto che il narratario sia un monaco medioevale intriso di quella cultura fa sì che quelle parti debbano esserci. Anche chi in lettura le ha saltate non le toglierebbe: sono parte integrante del fascino del romanzo.

Nel caso di un testo con narratore esterno la situazione si fa più sfumata, anche perché ormai si utilizza sempre meno il narratore onniscente che interviene pesantemente sul testo. Tuttavia, anche in questo caso, può essere utile pensare a chi si sta rivolgendo il narratore.
Definire età e livello culturale del narratario ci può aiutare a fare scelte lessicali e contenutistiche. Del resto ci possono essere casi in cui è utile separare (mentalmente) narratario e lettore ideale.
Mi viene in mente il caso di un romanzo storico (I favoriti della fortuna) che palesemente si rivolgeva a un pubblico femminile di istruzione media, più interessato ad aspetti che potremmo definire "da telenovela" (lettore ideale). Tuttavia nel narrare i fatti (la trama si svolge alla fine della Repubblica Romana) l'autrice è precisissima nel seguire gli eventi storici fin con un grado di dettagli che certo il suo pubblico ideale non può apprezzare né è interessato a fare. In questo caso il livello culturale del narratario è superiore a quello del lettore ideale.

Io cerco sempre di pormi il problema del narratario. Quando scrivo in prima persona il narratario ha un'importanza primaria perché ci sarà sempre un qualcuno e uno scopo per cui il narratore ha deciso di raccontare la storia (tra qualche mese dovrebbe essere pubblicato un racconto che ho costruito tutto in funzione del narratario e dello scopo comunicativo del narratore). Quando scrivo in terza persona, salvo rari casi, tendo a far coincidere narratario e lettore ideale.
In questo post, il mio narratario è un ipotetico appassionato di scrittura non del tutto digiuno di tecniche narrative in cerca di nuovi spunti. Il lettore ideale è costruito sulla media dei lettori fissi. Il lettore ideale è chiunque, aprendo il post, magari per caso, si riuscito ad arrivare fin qui.
Voi vi ponete il problema del narratario? Influenza la vostra scrittura?
La gatta Inga non è certo narrataria o spettatrice ideale
del documentario sugli ippopotami. Però lo ha apprezzato molto.



martedì 23 settembre 2014

PAScolando - step due


Siamo alla seconda settimana di PAS, il Percorso Abilitante Speciale per l'insegnamento.
Nel frattempo si sono accorti che le scuole sono iniziate. No, non chi di dovere, che sta ancora litigando con l'aggiornamento delle graduatorie (credo che tale pratica sia adempiuta da un singolo impiegato dotato solo di penna bic non cancellabile e pertanto obbligato a ricominciare da capo ad ogni errore), ma dalle segreterie delle scuole. Come ogni primo giorno di scuola si è infatti verificato uno strano e inspiegabile fenomeno: sono arrivati gli alunni.
Questo ha portato a delle nomine temporanee (per gli addetti ai lavori "sull'avente diritto") basate sulle graduatorie vecchie che potranno rimanere tali per 1d20 settimane (per i non giocatori di ruolo, per un tempo non determinabile). 
Sono quindi tornata alla scuola col pontile dell'anno scorso, consapevole di aver così notevolmente diminuito il mio tempo-sonno, ma nella speranza che la vista giornaliera del lago mi salvi dall'esaurimento nervoso.
Quando suona la campanella, con uno scatto degno del più veloce studente all'ultimo giorno di scuola, mi getto fuori da scuola, su per la salita, dritta verso il parcheggio e poi via, una bella ora e un quarto d'auto verso l'università.
Senza addentrami nelle ricadute didattiche del corso, si registrano comunque alcuni effetti:

– Sto diventando più disinvolta alla guida. Quando sono le sette di sera, si è in giro da dodici ore e la fame è tanta, superare il camion diventa un'impresa degna di essere compiuta.

– Il Nik sta imparando a cucinare. Forte del suo (ottimo) salmone, ieri già pianificava un dolce a base di pere (di cui abbiamo sovrabbondanza). Oggi però ho trovato le (altrettanto ottime) arborelle pescate e cucinate da mio suocero. Nik è gatto dentro: sa fare tutto, ma se è qualcun altro a farlo per lui è meglio.

– Invento storie che non avrò mai il tempo di scrivere. Nazisti reincarnatisi in persiani, redivivi conti di Montecristo che vogliono scontrarsi con Sherlock Holmes e demoni egizi evocati per sbaglio stanno andando a intasare il mio personale "Paradiso delle storie possibili" 

– La qualità delle mie letture è in caduta libera. C'è un'orario, verso le 23, in cui sento l'assoluta necessità di stendermi sul divano e regalarmi almeno un quarto d'ora di lettura adatta alle mie facoltà mentali. Che in questi giorni è la saga di Shadowhunters, che ho già ribattezzato "una triste storia di abbandono scolastico" (pare che ammazzare demoni sia un'ottima scusa per non andare a scuola...)

... Ed è solo la seconda settimana.

sabato 20 settembre 2014

Fonti d'ispirazione: serie tv

Ormai da anni la televisione, con i suoi prodotti seriali, ha compiuto un enorme salto qualitativo, passando da essere brutta copia del cinema a laboratorio di sperimentazione, sopratutto dal punto di vista della sceneggiatura (anche se ultimamente è sempre più comune vedere anche in tv grandi regie). Il poter lavorare sui personaggi su un arco narrativo più ampio che non di esaurisce nelle due ore cinematografiche permette, infatti, un approfondimento psicologico e tematico maggiore.
Ho scelto solo tre serie televisive, tra le molte che seguo e (sopratutto) ho seguito, in parte perché tutte e tre si sono presentate, quando le ho viste per la prima volta, come una novità e una folgorazione e in parte perché da tutte e tre ci sono particolari che vorrei rubare. Anche se, magari, non sono quelle caratteristiche che colpiscono a prima visione.




Di tutte le serie che ho scelto, ricordo con precisione quando e dove ho visto il primo episodio.
Ero a casa di un amico, in attesa che arrivassero gli altri della compagnia per uscire. A un certo punto lui si blocca: su Sky avrebbero dato il primo episodio di una nuova serie americana che voleva a tutti i costi vedere. Io e gli altri rimaniamo un po' increduli, però sua era la casa, la tv e la macchina con cui saremmo dovuti uscire e nessuno di noi aveva Sky (era, credo, il 2000). E così eccoci lì, tutti stretti sul divano a vedere la primissima indagine della squadra della scientifica di Las Vegas. Una serata spesa ottimamente. 
A distanza di così tanti anni, adesso che neppure guardo più CSI, ci sono ancora cose che vorrei rubare a quella primissima stagione.
Avere ben chiaro il cuore della narrazione
La scienza può portare alla verità?
Questa è la domanda base che viene analizzata nella serie, caso dopo caso. C'è un'idea precisa su cui poi viene imbastita tutta la narrazione. E io, quando immagino una storia, vorrei avere proprio questa stessa chiarezza d'intenti.
Sfruttare le caratteristiche dell'ambientazione
È stato con CSI che ho iniziato a ragionare sull'ambientazione. La serie originale è ambientata a Las Vegas e metà degli improbabili crimini con cui la squadra si deve confrontare hanno senso solo a Las Vegas. Situazioni improbabili, dal raduno dei nani all'uso criminoso degli scenografici acquari dei casinò, sono plausibili solo lì. E gli sceneggiatori si divertono a usare tutto un arsenale di situazioni specifiche che Las Vegas offre. Non a caso gli spin-off della serie, ambientati altrove hanno atmosfere molto differenti. L'ambientazione determina la narrazione.
Personaggi ben caratterizzati, ciascuno con un suo ruolo
Caratteristica tipica di tutti i serial procedurali, ma che ho iniziato a capire con CSI. Un personaggio ha ragione d'essere solo se è utili alla storia e non sostituibile. Ogni membro della squadra ha delle caratteristiche peculiari e delle capacità specifiche che fanno sì che tutto funzioni come un grande ingranaggio ben oliato. Non è diverso nelle altre forme di narrazione. Il personaggio X a cosa serve nell'economia della storia? È sostituibile? Lo posso confondere con un altro? Sono domande che ho imparato a farmi anche grazie a CSI


Ok, ve ne ho già parlato fino allo sfinimento, tuttavia oggi vorrei analizzare questa serie secondo dei diversi punti di vista.
Anche in questo caso il primo incontro è stato folgorante. Ogni tanto, raramente, mi capitano delle notti in cui non dormo. Non è proprio insonnia, credo, nel senso che, in questi rari casi, non è che desidero dormire e non ci riesco, semplicemente sono sveglia. A quel punto stare a letto non ha senso. E così, alle due del mattino di una notte di alcuni anni fa, mi sono andata a cercare la prima puntata di una serie di cui avevo sentito vagamente parlare. Alle quattro ero ancora attaccata allo schermo.
Al di là degli aspetti puramente sherlockiani, le caratteristiche che mi hanno tenuto alzata anche quando finalmente il sonno si è fatto sentire sono applicabili ogni tipo di narrazione.
Continue variazioni di tono e di ritmo
Anche se ogni episodio di Sherlock ha una sua particolare coloritura emozionale, commedia e dramma si alternano di continuo.
Se prendiamo quel capolavoro del primo episodio, iniziamo con un ex militare all'orlo del suicidio. Nessunissima traccia di commedia. Poi c'è il surreale incontro con Sherlock. E poi avanti. Ridiamo e un attimo dopo la tensione schizza a mille, poi c'è di nuovo una risata liberatoria e poi di nuovo tensione o tristezza.
Commedia e dramma possono benissimo convivere. Non è facile, ma può valerne la pena.
Cura certosina del particolare
Non c'è praticamente cosa, all'interno della serie, che non abbia giustificazione. C'è un oggetto sfocato a lato di un'inquadratura? Ebbene state pur certi che non è lì per caso. C'è un motivo, che può essere metatestuale, funzionale alla narrazione, di approfondimento psicologico, non importa. Il motivo però c'è. Stessa cosa dicasi per le inquadrature. Se vogliamo che la nostra narrazione funzioni, dobbiamo metterci la stessa cura. Tutti gli elementi che inseriamo devono avere senso. Pochi lettori, poi avranno la pazienza di andare ad esaminarli uno per uno, ma tutti ne trarranno la sensazione di un insieme coerente e non casuale.


Questa, che alla buonora sta per approdare su Sky, me la sono andata a cercare con un minimo di consapevolezza. Si è comunque rivelata all'altezza delle aspettative. E ho una bella lista di cose da rubare anche da qui.
È sempre la solita vecchia storia
Alla fine, alcuni spettatori sono rimasti delusi dalla risoluzione. Io no. Sono d'accordo con l'assunto di base. Abbiamo bisogno di sentirci raccontare sempre le solite vecchie storie. Vi sono conflitti di base che nei 30000 anni che, più o meno, abbiamo come sapiens, continuiamo ad analizzare. Non ritengo che sia un male, anzi. C'è chi dice, del resto, che si può parlare solo di amore e di morte.
Raccontare una storia archetipa, quindi, va bene, ma se fatto con consapevolezza. Innanzi tutti bisogna sapere di stare raccontando la solita vecchia storia. Non bisogna illudersi di aver scoperto l'acqua calda. E poi dobbiamo chiederci: "oggi in che modo ha senso raccontare ancora questa vecchia storia?"
Rispondendo con cura a questa domanda può scapparci il capolavoro.
Suggestione e sfumature
True detective è una serie che si nutre di suggestione, utilizzo di particolari, di immagini, suoni. Il tutto crea l'impressione di un mondo vastissimo e oscuro in cui i nostri due detective si muovono. Un mondo altro, in cui camminano re gialli e vecchi dei che non viene mostrato, ma suggerito.
A volte gli autori hanno un po' la tendenza a raccontare tutto in una sorta di horror vacui per cui alla fine tutto deve essere per forza spiegato. Alla fine, True Detective spiega molto poco e lascia questo vasto mondo oscuro ad aleggiare intorno a personaggi e spettatori. 
A volte lasciare una suggestione è meglio che terminare con una dettagliata spiegazione.

Queste sono tre delle serie che vorrei saccheggiare. È curioso come io sia onnivora per letture e visioni cinematografiche e invece guardo solo serie televisive che rientrano nella macro categoria del giallo...
Quali sono le vostre serie televisive preferite e cosa vorreste rubare loro?

giovedì 18 settembre 2014

Letture sherlockiane

L'estate porta più tempo lettura e quindi anche più letture sherlockiane.
Quest'anno, poi, non ho avuto particolari delusioni. L'ordine delle mini recensioni, quindi è puramente casuale.


Luca Martinelli
Dopo molti racconti e il bel romanzo Sherlock Holmes e l'enigma del cadavere scomparso ho recuperato anche questo suo lavoro precedente.
Ambientato durante il periodo in cui Sherlock Holmes, creduto morto, agisce sotto falso nome per conto dei servizi segreti, ci regala un investigatore al massimo della forma. Il bonus, dal mio punto di vista, è l'ambientazione italiana, una Siena ottocentesca colta in prossimità del palio e raccontata da chi ben la conosce. Molto particolare è anche il rapporto che Holmes stringe con un ragazzino italiano, suo temporaneo assistente e aiutante.
Storia, spionaggio e giallo classico si mescolano in un libro che è un piacere leggere, perfetto anche per i non sherlockiani, anzi un bel modo per avvicinare un personaggio presentato in modo assolutamente aderente al canone, ma privo di ogni cliché. 

L. D. Estleman
Ecco, forse la lettura più deludente. I racconti di questa raccolta sono al 100% canonici e ben scritti, ma non è che brillino di originalità. A parte una breve parodia e un'improbabile escursione nel west americano, si lasciano leggere, per carità, però... Ecco, quando in un racconto di Sherlock Holmes arrivo a capire chi è il colpevole a meno di un quinto della narrazione qualche problemuccio c'è.
Conclude la raccolta un saggio su Watson scritto con le migliori intenzioni, ma un po' datato e non sempre condivisibile (sopratutto nella parte in cui si afferma che in tutto il corpus Holmes è sempre uguale a se stesso e non evolve psicologicamente).
Per collezionisti e appassionati.

Racconti di Sherlockiana
Io non voglio apparire campanilista e parlare sempre bene del mio (uno dei a dire il vero) editore. È un fatto, però, che i racconti di Shelockiana, brevi e-book a pubblicazione settimanale editi da Delos hanno un livello medio molto alto con punte di assoluta eccellenza. Ve ne presento uno soltanto che è l'esempio di cosa intendo io per un apocrifo sherlockiano che abbia senso scrivere oggi.

Elena Vesnaver
Questo racconto ha un'ambientazione e delle tematiche che mai Doyle avrebbe potuto affrontare. Certo avrebbe avuto difficoltà a far pubblicare un racconto ambientato in una casa di piacere! Eppure, se Holmes cerca indizi nelle fumerie d'oppio possiamo benissimo immaginarcelo anche in altri ambienti equivoci dove senza dubbio entrava in contatto con tutta una vasta gamma di persone e comportamenti. Ed essendo Sherlock Holmes io proprio non ce lo vedo a fare il moralista bacchettone!
Elena Vesnaver, quindi, ci porta, insieme ad Holmes a indagare in un mondo tutto femminile, che nell'Inghilterra vittoriana doveva pur esistere, ma che raramente è stato oggetto di analisi. Il tutto con una narrazione coinvolgente e dinamica e un Holmes assolutamente credibile e canonico. 
Bonus aggiuntivo, l'autrice è una delle pochissime che mi sia capitato di leggere in grado di imbastire una sottotrama quasi romantica che vede coinvolto il nostro investigatore senza tradire il personaggio.
Quindi se qualcuno si sta chiedendo che senso abbia scrivere oggi apocrifi sherlockiani, può iniziare a trovare la risposta leggendo questo racconto.

Uno studio in smeraldo in Cose Fragili
N. Gaiman
"Uno studio in smeraldo" è solo il primo racconto che compone la raccolta Cose Fragili. Gli altri li sto leggendo ora, è il caso di dirlo, a pezzi e bocconi, per lo più mentre pranzo. Ma "uno studio in smeraldo" è geniale.
Tutta la letteratura di genere dell'epoca sembra essersi data appuntamento tra le pagine di questo raccontino in cui Gaiman mescola, monta e rimonta mitologie e personaggi, creando una narrazione che è fantastica per l'appassionato e allo stesso tempo è creazione di un mondo altro e autonomo. Fosse per me rapirei Gaiman ora e lo chiuderei in una stanzetta con l'obbligo di scriverne il seguito. 

mercoledì 17 settembre 2014

Visioni - Si alza il vento


Chissà poi perché l'Italia, che Miyazaki, è evidente anche il questa pellicola, ama, tratta in questo modo i film del maestro giapponese, concedendoli alle sale solo per pochissimi giorni, cosicché riuscire a vederli in modo legale rasenta l'impresa. Mah... 
Intanto, però, ce l'abbiamo fatta e anche questa volta ne è valsa la pena.

Pare che questo sarà l'ultimo film del maestro, di certo si discosta non poco dai suoi predecessori essendo una pellicola storica, un film biografico dedicato a Jiro Horikoshi, progettista di aerei che finirà per progettare i velivoli delle forze armate giapponesi della seconda guerra mondiale.
Si alza il vento
bisogna tentare di vivere
Sono i versi che più volte (anche troppo) ritornano nella pellicola e il cuore del film, a mio avviso, è tutto in quel tentare.
Miyazaki mette in scena dei tentativi che non hanno alcuna certezza di riuscita e delle dicotomie insanabili. Jiro e il suo onirico mentore, l'ingegner Caproni, tentano di realizzare sogni alati in stati arretrati, la cui tecnologia non sta al passo dei loro progetti. Su entrambi grava il peso della guerra, l'unico modo per costruire aerei è farsi finanziare dalle forze armate, ma in questo modo si finirà inevitabilmente per costruire macchinari bellici portatori di morte. Smettere di sognare, dunque, o tentare di vivere nella realtà, portandone poi il peso?
E a senso cercare di vivere un amore già destinato a finire? Tentare, quando già in partenza si sa che non esiste lieto fine possibile?
Miyazaki stesso non sembra avere una risposta univoca, ma sembra dirci che il tentativo, anche nel suo aspetto puramente estetico ed intenzionale, va comunque giudicato a prescindere dal risultato finale.
Forse anche per questa non risoluzione (che era già presente, anche se meno accentuata, anche in pellicole precedenti) ne risulta un film di cui è più difficile innamorarsi a prima vista.
Si esce dalla sala un po' frastornati dall'abituale magnificenza visiva, che qui si sposa a una rara aderenza storica di cui, da spettatori occidentali, ci si rende conto di non cogliere tutte le sfumature.
Di sicuro si finisce per condividere con Jiro gli splendidi sogni alati e lo sgomento nel vederli trasformati in strumenti di morte, senza capire bene, proprio come lui, se c'è stato un momento in cui sarebbe stato possibile tirarsi indietro.

Personalmente ho un amore speciale per quei film animati che mescolano realtà storiche e inconscio senza soluzione di continuità e quindi un po' mi spiace che questa pellicola il punto di arrivo di un percorso e non inizio.

PROSSIMI APPUNTAMENTI E COMUNICAZIONI DI SERVIZIO
Sabato 20 settembre alle ore 21 sarò a Vercelli in Bionda a parlare de LA ROCCIA NEL CUORE
Sabato 4 ottobre sarò a Grado alla premiazione di GialloGrado

Il PAS al momento si presenta come un confuso delirio e la mia scarsa abitudine alla guida mi restituisce alla sera come relitto su una spiaggia. Vorrei mantenere almeno tre aggiornamenti settimanali al blog, ma non posso garantire alcuna puntualità. Leggo sempre volentieri i blog amici, ma mi rendo conto che a volte sono troppo poco coerente per commentarli, quindi la mia presenza temo diventerà più silenziosa di quanto sia stata fino ad ora.

lunedì 15 settembre 2014

I dieci libri che hanno segnato la mia vita


Ringrazio Bardoscuro che mi ha coinvolto nel gioco, che sposto da fb al blog, dove sono più a mio agio. I dieci libri della mia vita... Che scelta difficile! 
Un libro diventa importante per noi non solo per la sua qualità oggettiva, ma per il momento in cui lo incontriamo, perché, se ogni classico non ha mai smesso di dire quello che ha da dire, c'è un momento in cui quello che ha da dire è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. E allora ecco che un romanzo cambia la nostra visione del mondo, di colpo alziamo gli occhi dalle pagine e ci rendiamo conto che ciò che ci circonda non è cambiato, ma è mutato il nostro modo di guardarlo. Cosa ancora più importante, leggendo, abbiamo scoperto angoli di noi stessi che non avevamo mai incontrato.
Questi, quindi, non sono dieci libri più belli che abbia mai letto, ma, in ordine d'incontro, i dieci libri che hanno cambiato il mio modo di vedere il mondo, perché li ho incontrati proprio quando avevo bisogno di loro.

1- Capitan Tempesta E. Salgari
Uno dei primi libri che abbia letto per piacere e non per dovere. In retrospettiva, uno dei libri che più a plasmato la mia identità. Perché sognare di essere la principessa da salvare, quando puoi sognare di essere la salvatrice?

2 - Il mago di Earthsea U.K. Le Guin
A bordo della Vistacuta ho imparato ad amare il fantasy e ho capito che non c'è nemico più spaventoso da affrontare che noi stessi.

3 - Il signore degli anelli J.R.R Tolkien
Un libro che ha aperto infiniti mondi, più di quanti potessi immaginare mentre mi inoltravo in quelle pagine. Alla fine mi ha portato anche al gioco di ruolo e quindi a molti dei miei amici e a conoscere mio marito. Sarà banale, ma è davvero un libro che mi ha cambiato la vita.

4 - Il segno dei quattro A.C. Doyle
Quando capisci che anche gli eroi possono fare immani idiozie, forse esci un pochino dall'infanzia. Però poi scopri che che un eroe capace quasi di ammazzarsi con la droga è ancora più interessante.

Questo libro mi ha aiutata a scegliere di fare il liceo classico, perché ho sentito il richiamo dei testi antichi proprio come i suoi protagonisti. Mi ha fatto anche capire, però, che sarei sempre stata ben lontana dalla storia medioevale...

6 - Finzioni J. Borges
Se comunque si è portati a perdersi nei labirinti della mente, tanto vale farlo con consapevolezza e seguendo i migliori maestri.

7 - Il club Dumas A. Pérez-Reverte
Con la letteratura bisogna anche sapersi divertire. E ognuno ha il diavolo che si merita.

Saper cambiare punto di vista e attivare la propria intelligenza emotiva come unica strada per la comprensione. Con la consapevolezza che la verità non significa consolazione, ma è pur sempre necessaria.

9 - Memorie di Adriano M. Yourcenar
La prosa più elegante che abbia mai incontrato, che mi fa annuire, come un serpente ammaestrato, anche quando non sono d'accordo.

10 - Trilogia di Adamsberg F. Vargas
Difficilissimo scegliere quest'ultima posizione, dedicata agli anni più recenti. Però, alla fine, sì, i libri che hanno cambiato davvero la mia vita sono stati quelli di Fred Vargas, che mi hanno portato, come autrice, sulla via del giallo (eccentrico).

Dieci libri sono davvero pochissimi per racchiudere una vita di letture, eppure, dovendo scegliere, alla fine i titoli si sono imposti da soli alla mia attenzione. Sono dietro di me, come le briciole di pane o i sassolini bianchi, a segnare il cammino percorso e ognuno ha contribuito a farmi diventare la "me stessa" attuale.

Usando il blog e non fb, non nomino nessuno, ma lascio ciascuno libero di raccontare quali sono i 10 libri che hanno segnato la sua vita.

giovedì 11 settembre 2014

PAScolando


Ecco, ho come l'impressione che da quest'avventura del PAS ne uscirà una storia surreale. Tanto vale raccontarla.

Piccola premessa necessaria
Ma come si diventa prof? Di quelli veri, di ruolo?
Ah, bella domanda!
C'era una volta la SISS, scuola biennale abilitante, che dava accesso alle così dette "graduatorie ad esaurimento (nervoso)" da cui ogni anno alcuni fortunati venivano prelevati e innalzati al rango di professori di ruolo. Ma la SISS è stata chiusa nel 2008 perché "c'è già un sacco di gente in graduatoria ci vorranno anni a smaltirli (come i rifiuti?)". Sta di fatto che per alcune classi di concorso, come Matematica e Scienze alle medie, nella mia provincia quelli delle graduatorie ad esaurimento sono estinti, come i dodo. Altre graduatorie invece sono tutt'ora sovraffollate come la terza classe del Titanic.
Poi c'è il Concorso Ordinario, che viene indetto con regolarità italiana, cioè quando capita, con norme che paiono essere state estratte a caso da una tabella di regole improbabili da gioco di ruolo. L'ultimo, ad esempio, lo si poteva tentare solo se ci si era laureati entro l'anno accademico 2002/2003. Indovinate un po' in che anno mi sono laureata io? 2003/2004! bravissimi.

Adesso come adesso ci sono due percorsi abilitanti attivi.
Il TFA (Tirocinio Formativo Attivo), per i neo laureati e il PAS (Percorso Abilitante Speciale) per noi del limbo, che non abbiamo potuto accedere alla SISS, ma che per delle strane congiunture astrali abbiamo pur sempre lavorato nella scuola per anni. 
Non è ben chiaro quale sarà il nostro destino, è possibile che il prossimo concorso preveda tra i requisiti l'aver conseguito uno dei due titoli (ma anche no, dipende che norma viene estratta) o che una qualche futura riforma ci tenga in qualche modo in considerazione.
Al peggio, contribuiamo a risanare il debito pubblico (oltre 2000€ di tasse universitarie) e facciamo girare l'economia grazie ai viaggi e alle inevitabili spese.

E quindi si parte?
Così parrebbe. 
La procedura d'iscrizione non ha dato particolari problemi, fatto salvo che si faceva a pezzi, ogni pezzo poteva essere fatto dal tal al tal giorno, ad esempio a cavallo di ferragosto.
Tutto doveva essere fatto on-line e solo on-line, perché siamo la scuola del futuro.
Però poi scarico il PDF finale e c'è scritto "da riconsegnare firmato, con allegato bollettino di pagamento e fotocopia di documenti d'identità". Tramite scansione?
Ma no, è tutto on-line, salvo la riconsegna del documento, da farsi a Torino in concomitanza con l'inizio delle lezioni, dalle 9 alle 11, che una bella gita nel capoluogo, come si diceva, fa girare l'economia.
Adesso però ho il mio numero di matricola e lunedì comincio a seguire i corsi, a Vercelli. 
Ora, al di là di tutto il mio sarcasmo, dei corsi di didattica male certo non possono farmi, perché, pur con tutta la mia cultura, nessuno mi ha mai insegnato come insegnare. Non ho neppure mai studiato pedagogia o psicologia e quando mi arriva in classe un alunno straniero che parla un'altra lingua e scrive in un altro alfabeto io non so da che parte girarmi.
Mi sovviene però un dubbio. Io sono iscritta per la sola classe di concorso A043, Lettere alle scuole medie. Ora, il programma di storia delle medie parte dalla caduta dell'impero romano. Perché, quindi, una delle prime materie si chiama "Didattica della storia antica?"

E intanto le scuole, quelle frequentate dai ragazzi?
Non si capisce. Cioè, l'anno scolastico sta iniziando, ci sono alcune cattedre scoperte, ma ancora non si capisce quando, dove e a chi saranno assegnate... 

Rimane quindi la scrittura a regalare un poco di autostima.
Tra l'altro ritrovo il bravo Luca Romanello, terzo a Giallo Stresa.
Il racconto selezionato è Certe Mattine che è in assoluto il più triste che io abbia mai scritto.
Forse perché si parla anche di scuola?

martedì 9 settembre 2014

Presidente di giuria al Premio Letterario di Macugnaga




Forse si inizia davvero ad appartenere a una categoria quando sono gli altri a riconoscerci tali. Non lo so, ma ormai porto il "peso" di due romanzi e non posso più tirarmi indietro quando mi chiamano scrittrice. Se poi è la giuria di un premio letterario nazionale a chiamarmi, in quanto scrittrice, come presidente, posso solo fare del mio meglio per essere all'altezza del compito.

Con questo spirito è iniziata la mia avventura come presidente di giuria del secondo concorso letterario "Raccontando il monte Rosa, montagna del popolo walser".
Il primo impatto è stato di istintiva simpatia. 
Quella verso la montagna è, da parte mia, un amore in gran parte non corrisposto. Mio padre è stato maestro di roccia CAI ad un passo dal diventare un alpinista professionista. Su quell'ultimo passo è caduto, un infortunio che ha messo fine alla sua carriera da rocciatore. Lui mi ha portato in montagna sin da bambina, insegnandomi a riconoscere i fischi delle marmotte e il cozzare delle corna degli stambecchi nei loro combattimenti rituali. Poi, però, mi ha reclamato la corsa e sono diventata una donna di collina, creatura di bosco. A quel punto la scelta se dedicare le domeniche alle vette o alle gare  è diventata obbligata e poi amici e marito di pianura e di collina hanno fatto il resto. Ma il richiamo della montagna continua a esistere. Si è riverberato anche in uno dei racconti che considero migliori, "La Conquista" che l'anno scorso ha vinto il premio speciale Lucca Comics & Games.
Simpatia per le organizzatrici, tutte donne, toste, determinate e disponibilissime (anche a scendere a valle per portarmi gli elaborati finalisti da leggere).
Poi è subentrato il rispetto, per un processo decisionale limpido e di esemplare correttezza. Tutti gli elaborati sono stati letti in forma anonima. Votati in autonomia dai membri della giuria, i 5 testi che hanno avuto un punteggio maggiore sono passati alla fase finale. Anche io, che pure avevo un ruolo di garanzia, più che decisionale, li ho letti in forma anonima. 

Non mi soffermo sulla sezione poesia per il semplice fatto che non sono né poetessa né lettrice abituale di poesia contemporanea, essendo il mio poeta preferito Catullo.
Per quanto riguarda la sezione racconti, tutti i finalisti mi hanno colpito per la qualità della prosa. Sono stati, magari sembrerà banale dirlo, racconti belli da leggere, piacevoli da scorrere frase dopo frase.
Ho cercato di indovinare sesso ed età degli autori e devo dire che ho azzeccato il vincitore, ma sbagliato clamorosamente il secondo classificato!

Alla fine è arrivata anche la cerimonia di premiazione, così strana da guardare dall'altra parte della barricata, rispetto alla finale di domenica scorsa!
Eppure questa doppia prospettiva aumenta la consapevolezza.
Da un lato sono sempre più convinta che in Italia, oggi, i concorsi letterari, quelli seri e ben organizzati, siano una delle poche prospettive concrete per affacciarsi al mondo dell'editoria. Come ho avuto modo di dire anche a Macugnaga, nessuno nasce romanziere, così come nella corsa non si nasce maratoneti. La scrittura di racconti secondo me è una tappa fondamentale per chi voglia, per passione o professione, scrivere. E l'unica possibilità di dare visibilità a un racconto, ma anche di ottenere una lettura da parte di addetti ai lavori, oggi è data dai concorsi.
Dall'altra parte, il concorso è una gara, con tutti gli incerti e le sfalsature del caso. Le leggi della competizione obbligano ad applicare delle regole crudeli per cui ci sono solo un numero definito di finalisti e un unico vincitore. Questo non vuol dire che chi è rimasto fuori, vuoi dalla finale, vuoi dal podio non valga. Per tornare alla metafora atletica, anche a Bolt può capitare una falsa partenza.
Una volta mi è stato detto che una vittoria (o una sconfitta) è come una rondine, non fa primavera. È la somma dei risultati ottenuti su vari fronti, possibilmente con lettori diversi, che può dare l'idea all'autore del proprio valore letterario.
Scrivo questo perché so come ci si sente a non vincere un concorso o a sentirsi persi nel mucchio. So che per ogni sorridente vincitore ci sono decine di non vincitori. Questo, poi, non bisogna dimenticarlo mai. In un concorso letterario la statistica è sempre contro di noi. I partecipanti sono decine, centinaia a volte migliaia.

Quanto a me, non mi resta che ringraziare di cuore le organizzatrici per la serietà del loro lavoro e per il calore umano. Come Presidente di Giuria sono stata più che coccolata e ospitata in una struttura deliziosa, l'Hotel Signal.
Ho potuto rivedere Macugnaga, dove ero stata da bambina, ho imparato qualcosa sugli abiti tradizionali walser e ho costretto il marito a salire fino ai ghiacciai!
Un ringraziamento speciale va a tutti i partecipanti perché sono loro l'anima vera di queste manifestazioni.
I miei complimenti, infine, vanno a tutti i premiati, che possono avere l'orgoglio di sapere che è pesato solo quello che hanno scritto.

Quanto a me, se state pensando che mi stia montando la testa, posso rassicurarvi. Da ieri sono di nuovo una matricola universitaria, iscritta al PAS, Percorso Abilitante Speciale, che si può leggere anche come: Potrò Ancora Sperare (di insegnare)? 
Mi aspettano ore di lezione, esami e una tesina finale (che mi metterà più in crisi di qualsiasi racconto). Il tutto da incastrare con lavoro e scrittura. Quindi, anche volendo, non avrò il tempo per montarmi la testa!



venerdì 5 settembre 2014

Prime anticipazioni - Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico


Eccoci dunque, se lo sono lasciati scappare in questo bell'articolo dedicato alla finale di GialloStresa e alla sua bella (e brava) vincitrice, Rossana Girotto.

E quindi posso confermare le prime notizie ufficiali

Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico
Prossimamente in uscita in formato cartaceo e digitale nella collana

Presto, prestissimo potrò darvi tutte le indicazioni del caso, dalla copertina a dove reperirlo (una qualsiasi libreria andrà benissimo).

Però oggi posso almeno rispondere a una domanda:

Ma com'è nata l'idea di questo romanzo?
È nata in un momento preciso e non ero a Baker Street, non ero neppure a Londra. Ero nella biblioteca della mia Briga Novarese.
Un caro amico, Fabio Valeggia (a cui devo anche la foto di copertina de LA ROCCIA NEL CUORE) stava parlando, tra le altre cose, delle sue ultime ricerche in fatto di storia locale. 
Tira fuori la foto di uno schizzo fatto a mano di qualcosa che è del tutto incongruo con la data a cui viene attribuito. Poi c'è una foto d'epoca che immortala un uomo meccanico, un automa. 
Io non so quasi nulla di automi e questo, detto da me, vuol dire che ho letto di Poe e del giocatore di scacchi e che non ho bisogno di aprire wikipedia per sapere che quell'uomo meccanico è qualcosa di quasi impossibile.
Finisce l'incontro e mi avvicino a Fabio.
– Tu sai che ci scriverò un romanzo, vero? – dico.
Non so che cos'abbia pensato alle mie parole, pronunciate da chi, allora, non aveva neppure una pubblicazione all'attivo, se non qualche racconto qua e là.
Però Fabio mi regala un libro, scritto dagli storici che si occupano delle cose di cui mi ha parlato.
E io inizio a leggere. E più leggo e più mi innamoro.
Perché ci sono storie che semplicemente bisogna raccontare.

Non so quando ho iniziato a pensare di andare a bussare a Baker Street. C'è stato un pensiero preciso, che ancora non era riferito a Holmes, ma che poi sarebbe diventato uno dei cardini del romanzo:
"Ci sarebbe voluto un Boswell".
E intanto pensavo a come rigirare la Storia, quella vera, realmente avvenuta, per trasformarla in narrazione, senza tradirla.
E poi ho trovato una data. Qualcosa che era accaduto in una capitale europea nel 1881.
E, allora sì, potevo andare a Baker Street a chiedere a Holmes proprio quello di cui avevo bisogno: un aiuto in un'indagine.
Solo che, mentre mi avviavo, mi sono resa conto che non sapevo proprio chi mi avrebbe aperto la porta nella tarda primavera del 1881.
L'Holmes che bene o male tutti abbiamo in mente è quello del Mastino, del Segno dei Quattro e delle Avventure. Film e telefilm ce l'hanno spesso mostrato anziano e anche se, grazie al cielo, adesso è stato svecchiato, viene spontaneo immaginarlo come un uomo sopra i trent'anni.
Ma nel 1881 mi avrebbe aperto un ragazzo di 27 anni. E forse avrei incontrato il suo nuovo coinquilino.  Un giovane medico militare convalescente dal fisico indebolito e i nervi scossi. Non un amico, non ancora...
E quindi sono partita per Londra, senza sapere bene cosa avrei trovato...

Mentre tutto questo accadeva nella mia mente, con assoluta e inaspettata sincronia, vengo a sapere che in effetti sì, c'è una casa editrice (e che casa editrice!) che sta per lanciare una collana di apocrifi Sherlockiani e che pertanto sarebbe interessata a leggere il mio.
Quando il destino sorride, si può solo assecondarlo e lasciarsi cullare.

Se me lo avessero detto prima, che avrei pubblicato il mio secondo romanzo con la stessa casa editrice che ha in catalogo la mia autrice preferita, U.K. Le Guin, non ci avrei creduto. È banale, ma, davvero, cosa avrei potuto sognare di più?

E quindi grazie a tutti quelli che stanno aiutando a rendere concreto questo sogno. Non vi nomino tutti, perché davvero siete tanti, grazie a chi mi ha aiutato con la documentazione, grazie all'editore e al curatore, grazie agli altri autori sherlockiani, grazie a chi ha letto le bozze.

Spero di avervi messo l'acquolina in bocca e tanta voglia di leggere.

Nei prossimi giorni sarò a Macugnaga, dove mi aspetta un ruolo davvero inedito: Presidente di Giuria al 2° Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa.  



giovedì 4 settembre 2014

Editoria, miti da analizzare - Praticamente


Sempre più spesso noto nei post dei blog una contrapposizione tra editoria tradizionale e self, come se una strada fosse ab origine migliore dell'altra.
D'altro canto vedo sempre più spesso autori affermati che alternano self e uscite con editori tradizioni a seconda del progetto che hanno in mano. Anche a me è stato consigliato, per un romanzo particolare, una sorta di "self guidato", ipotesi che non ho approfondito perché in contemporanea si sono concretizzate altre cose che richiedevano la mia attenzione, avessi avuto più tempo avrei vagliato anche quell'opzione.
Dunque non credo nella contrapposizione, né in una strada migliore dell'altra. Non sono certo una profonda conoscitrice del mondo editoriale, ma qualcosina ho studiato, qualcosa d'altro l'ho imparato con l'esperienza e quindi su questa base eccomi ad analizzare alcuni luoghi comuni sull'editoria.

UN EDITORE CONSIDERA UN LIBRO SOLO UN PRODOTTO COMMERCIALE
Vero
Un editore serio vive delle vendite, così come fa il panettiere o il fruttivendolo. 
Sappiamo tutti, però, che c'è il panettiere che produce con lievito madre e farine biologiche e quello che vende filoncini prodotti chissà dove con chissà cosa. Allo stesso modo c'è l'editore per cui la qualità letteraria delle sue opere è un valore e quello che ci bada meno. Entrambi, però, vivono del venduto e non pubblicheranno ciò che non ritengano abbia un mercato. Possono sbagliare valutazione, ovvio, ma loro è il rischio e quindi loro la decisione.
Se a un autore non va che il proprio libro venga considerato un prodotto, forse non dovrebbe sottoporlo a un editore. Forse, però, l'alternativa non è una produzione self a pagamento (che offre comunque un prodotto), ma una condivisione gratuita nelle varie forme che oggi il web mette a disposizione.

I CONTRATTI FATTI A DEGLI ESORDIENTI SONO SEMPRE DEI CAPESTRI
Falso
I contratti, sono, appunto, dei contratti.
Se devo affittare casa cosa faccio? Vado a vedere la casa, parlo con il proprietario, leggo il contratto e ne discuto le clausole. Non si possono portare animali? È una regola condominiale o, semplicemente, il proprietario ha avuto una brutta esperienza con un precedente inquilino che teneva un pastore maremmano mordace e abbaione in un monolocale? Se è così, magari vedendo il mio mite carlino muto cambia idea. Insomma prima di firmare si discute. 
Idem per i contratti editoriali. Gli editori, in genere, provano a ottenere le condizioni più vantaggiose per loro (così come fa mio padre con i contratti d'affitto, intendiamoci), ma possono essere ricondotti a ragione (persino mio padre può essere ricondotto a ragione). In rete ci cono molti esempi di contratti con cui confrontare quello che ci viene proposto. Si discute, si valuta e si decide. 
In un caso un contratto che mi è stato sottoposto parlava di prelazione per tutte le mie opere future, cosa che per me non era fattibile, dato che già collaboravo con altri per dei progetti differenti. Ne abbiamo parlato e abbiamo modificato la voce. D'altro canto ho capito che se un romanzo esce in una collana che ha una veste grafica definita e riconoscibile può starci che l'autore non abbia voce in capitolo sulla copertina.

CI SI VINCOLA SEMPRE E PER SEMPRE A QUELLA CASA EDITRICE
Dipende
Da cosa si firma. 
Se si firma un contratto in cui si cedono i diritti per secoli e millenni e si dà all'editore il diritto di leggere in esclusiva per primo ogni nostra futura opera (diritto di prelazione), sì.
Però basta non firmare o comunque discuterne.
E decidere se con quell'editore si vuole ballare un valzer o celebrare un matrimonio indissolubile.

ECONOMICAMENTE, ALL'AUTORE RIMANGONO LE BRICIOLE
Dipende
Da come si guarda la cosa.
I diritti d'autore sono una percentuale piccola del prezzo di copertina, varia dal 5% al 10%, e vengono pagati molto dopo l'uscita del libro.
Un autore autoprodotto prende una percentuale maggiore sul prezzo di copertina e prima.
D'altro canto se lavoro con un editore non avrò nessuna spesa e, magari (se sono bravo, fortunato e so impormi) un anticipo già alla firma del contratto. Se mi autoproduco, se non trovo tutte le risorse di cui ho bisogno tramite famiglia e amici (grafico, editor...) avrò delle spese.
Quindi, se limito le spese e se sono sicuro di vendere molte copie, il self economicamente mi può convenire. Conti della serva in mano, però, mi devo subito chiedere: quante copie devo vendere perché mi convenga davvero? Ci posso arrivare?

GLI EDITORI STRAVOLGONO LE OPERE CON L'EDITING
Falso
Se un romanzo va stravolto in fase di editing non è conveniente per l'editore pubblicarlo, tranne casi rarissimi (personaggi famosi che vendono in base al loro nome, storie oggettivamente fortissime, tipo "unico sopravvissuto a incidente aereo").
Per i comuni mortali l'editing è un lavoro per migliorare la fruibilità di un testo. Si alleggeriscono le parti pesanti, si aggiustano quelle poco chiare, si ripuliscono le frasi venute male. Sono come delle grandi pulizie in casa, ma non un'opera di ristrutturazione. E di solito con l'editor si parla, ci si confronta. 
Ho sentito parlare di romanzi molto lunghi spezzati in più uscite, ma di trame rivoltate come un calzino non ho testimonianze attendibili.

A LIVELLO DI PROMOZIONE TRA IL SELF E LA MICRO EDITORIA NON C'È MOLTA DIFFERENZA
Vero 
Purtroppo sì. Ci sono tante case editrici minuscole che contano di andare in pari vendendo circa 200 copie di ciascun libro. Pare che chiunque, con un po' di pubblicità tra amici e partenti, possa arrivare a vendere 200 copie. E quindi queste case editrici, pur non essendo assolutamente EAP non si occupano di promozione. L'autore è lasciato solo proprio come se si auto producesse.
Il mio consiglio personale è di valutare molto bene gli editori a cui mandare la propria opera. Hanno un distributore? Se sì, quale? Hanno un ufficio stampa? Come sono stati promossi gli altri autori? Sono soddisfatti? 
Io mi sono sempre regolata così: ho mai comprato un libro di quell'editore? Mi è piaciuto? L'ho trovato con facilità (anche considerando che vivo in provincia)? Solo se le risposte erano tutte "sì" ho valutato un pubblicazione. Tra grande editoria e micro editoria ci sono tante oneste case editrici di livello medio che arrivano nelle librerie, promuovono i romanzi e pagano i diritti.

ANCHE PUBBLICANDO CON UN BIG DEVO COMUNQUE SBATTERMI A PROMUOVERE IL ROMANZO
Vero
Chi deve parlare alle presentazioni, se non l'autore? Chi può essere il punto zero del passa parola, se non l'autore?
Quindi, in ogni caso, ci si deve sbattere. Fare presentazioni, organizzarne, creare eventi, parlarne nel blog... Con un buon editore alle spalle si è aiutati, magari scappa la notte pagata in trasferta, si hanno dei contatti in più, si può chiedere consiglio, insomma, non si è soli. Scrivere, però, è un lavoro e prevede anche questa parte, che piaccia o no.

ANCHE PUBBLICARE CON UN BIG NON È GARANZIA DI SUCCESSO
Vero
Il successo letterario è una strana alchimia fatta di uscire col libro giusto al momento giusto, innescare un passaparola positivo e chissà che altro. Pare che nessuno ne conosca la ricetta precisa. Quindi ci sono romanzi self che fanno il botto e pubblicati con grandi case che fanno flop. È vero anche il contrario, self che fanno flop e gradi case che fanno il botto. Il self che fa il botto fa notizia perché è raro.
A volte leggi il caso del momento e proprio non ti capaciti del suo successo, a volte, invece, ti inchini al talento.
C'è una parte di questo mondo che, in ogni caso, è lotteria. 

Vi vengono in mente altri miti da analizzare?
A chiunque sta per firmare un contratto o per lanciare il proprio romanzo self, il mio in bocca al lupo.
Io voglio credere che la qualità paghi in ogni caso.

martedì 2 settembre 2014

Ancora una fine



La mia unica certezza è che la terra non dimentica. Porta memoria, ben oltre il termine di una vita umana.

Questa è la frase con cui si chiude il romanzo a cui sto lavorando.
Da oggi, inizia la fase di revisione, ma non penso che cambierà questa chiusa che, devo ammettere, mi piace.

Arrivata alla fine le sensazioni sono sempre tante, mescolate e magari riuscirò ad analizzarle più avanti. Molto probabilmente ci saranno post su tutte le arrabbiature della revisione. 
Chissà quanti personaggi secondati hanno cambiato nome o fattezze, questa volta?

Intanto, guardo le nubi portate veloci dal forte vento di questi giorni, metafora perfetta della mia vita.
Oggi bollettino di pagamento (1159€ e stava per partire l'embolo) per il famoso/famigerato PAS, corso abilitante obbligatorio che devo seguire per continuare a fare il lavoro che già faccio dal 2007.
Lunedì 15 iniziano i corsi, con un ritmo serrato che porterà inevitabili modifiche al mio modus vivendi e scrivendi. 

Ma oggi è ancora presto, presto per spaventarsi per questa mia sciocca incapacità di essere ubiqua o di dilatare il tempo. Presto per angosciarsi sul destino del romanzo.

Oggi è il giorno di una fine, non di un inizio, e mi prendo tempo ad assaporarne il sapore, mentre piano inizio a prendere le distanze dai personaggi che in questi mesi hanno vissuto con me, condividendo mente e sangue.