Nel caso specifico, questo sarebbe stato qualcosa di più di un peccato. Sarebbe stato un delitto. La prima domanda che mi sono posta, quando ho terminato Una donna è stata: come è stato possibile che io non l'abbia letto prima?
Ho fatto il liceo classico, ho una laurea che mi permette di insegnare lettere, eppure né nei miei studi, né in nessuna delle antologie scolastiche che ogni anno mi passano per le mani mi sono mai imbattuta in brani tratti da questo romanzo. Credo che nel libro del liceo fosse a malapena citato, all'università è pur vero che portavo un corso monografico sull'epica rinascimentale, ma non ricordo che a Sibilla Aleramo fosse dedicata una particolare attenzione. Nelle antologie scolastiche che mi vengono proposte non l'ho mai trovato. Insomma, tutto fa pensare che sia un'opera minore, superata. Invece la prima cosa che mi è chiara appena chiuso il volume (o, più precisamente, appena finito di ascoltare su Audible) è che merita di stare tra le grandi opere del primo novecento. Subito dopo Una donna ho ascolto Orlando di Virginia Woolf, opera più giovane di poco più di vent'anni. Lo stile e le tematiche sono diversissime, certo. Ma non c'è un valore assoluto per cui il libro della Woolf debba essere ancora universalmente noto, e quello della Aleramo per lo più dimenticato. È uno dei grandi romanzi di inizio novecento, ma, in qualche modo, ce ne siamo dimenticati.
Edito nel 1906, una donna è il racconto autobiografico delle motivazioni che hanno spinto l'autrice a una scelta già difficile oggi, figuriamoci all'epoca, lasciare il marito e il figlio ancora bambino.
C'è quindi, sicuramente, anche un intento apologetico. L'autrice scrive per suo figlio, immaginando che un giorno, da adulto, voglia comprendere le ragioni della madre, e di certo vuole porsi ai suoi occhi nella miglior luce possibile. Tuttavia c'è anche una capacità di analisi acutissima di una società che, ahimè, in alcuni tratti è cambiata meno di quando non mi piacerebbe pensare.
Rina (vero nome di Sibilla Aleramo), si trasferisce con la famiglia in un paese del sud dove il padre sarà il direttore di una fabbrica. Questo, però, è l'inizio della fine della famiglia. Si trovano infatti isolati in un contesto diverso dal loro, che non capisco e non vogliono capire. Mentre il padre cerca consolazione tra le braccia di un'amante, la madre cade in una depressione che la porterà nel giro di breve a tentare il suicidio e poi a essere rinchiusa in una clinica psichiatrica. Abbandonati gli studi, Rina si trova, ragazzina, a tenere la contabilità della fabbrica e ad attirare le attenzioni di un impiegato. Questi, seguendo la consuetudine, per chiedere in moglie la ragazza, la violenta e lei, ritenendo che non vi fosse altra scelta possibile, finisce per sposarlo. Inizia così un piccolo inferno quotidiano da cui la donna saprà sottrarsi solo molti anni dopo, lasciando il marito e il figlio.
Sono moltissimi gli aspetti che mi hanno colpito. In primo luogo la descrizione perfetta dell'ipocrisia borghese, in cui tutto viene sacrificato all'apparenza. È un mondo in cui nessuno è felice. È evidente che nella narrazione il marito è il principale antagonista, la fonte di quasi tutte le sofferenze di Sibilla. Ma se fosse lui a narrare la storia? Avremmo un'analoga infelicità. Un uomo che agisce come gli insegnano le convenzioni e l'opportunità. Che non capisce perché la moglie non tra piacere dalle sue attenzioni sessuali, né dal benessere che comunque le garantisce. Privo di istruzione com'è, non capisce le sue aspirazioni intellettuali, in breve, non sa motivare un'infelicità che finisce per gravare su suo animo. Inizia a farsi strada l'idea, quindi, che l'emancipazione femminile, con tutto quello che ne consegue, a partire dall'abolizione di vecchi tabù sul sesso e l'educazione sessuale andrebbe a giovamento non solo delle donne, da della società intera. Personalmente non riesco a capire come con donne più realizzate e serene gli uomini potrebbero essere meno felici.
Ogni libro, poi risuona diverso a ogni lettore. Alcuni aspetti di questo romanzo hanno toccato in me corde molto personali, altri hanno fatto emergere riflessioni più generali. L'ho letto da mamma in mezzo a una pandemia. A un certo punto della vicenda, il marito, pazzo di gelosia, costringe la protagonista a una vita da reclusa in casa insieme al figlio. E tutti trovano la cosa normale. Non le manca niente, ha persino un aiuto in casa. Una donna non dovrebbe essere felice di potersi dedicare interamente al proprio figlio, senza altre preoccupazioni, reclusa in casa? Ora, durante il lockdown, per motivi diversi, molte donne si sono trovate recluse in casa con i figli, mentre molto più spesso i mariti continuavano a recarsi al lavoro. Appena osavano lamentarsi, magari solo du fb, in sedicenti gruppi di autoaiuto per mamme, era tutto un coro, molto spesso formato da altre donne a ripetere che dovevano essere felici. Una donna reclusa in casa con i figli DEVE essere felice. L'esperienza della pandemia, che ha riportato indietro la condizione della donna italiana di non so di quanti anni, ne sono prova i dati su i posti di lavoro femminili persi, mi ha fatto toccare con mano quanto questa convinzione sia ancora radicata nel nostro paese. Il lavoro femminile dopo la maternità è ancora visto come qualcosa dettato da una pura necessità economica. Qualcosa, come in alcune vecchie battute sul sesso che si fa "non per piace mio, ma perché lo vuole iddio (o, in questo caso, il conto in banca)". Ecco no. Sibilla Aleramo nel 1906 dice qualcosa che ancora oggi non universalmente riconosciuto. Una madre può avere altre ambizioni oltre a quelle di accudire la prole. E una madre soddisfatta della propria vita e del proprio lavoro sarà probabilmente una madre migliore.
Mi rendo conto che ora, nel 2021 abbiamo bisogno di altre Sibille Aleramo che dicano con altrettanta chiarezza che si può amare i propri figli e il proprio lavoro. Non sono cose escludenti. Il lavoro femminile è qualcosa di più di una mera questione economica. È, ancora, un vantaggio per tutta la società. Perché non credo che madri a cui viene proposto come unico modello quello dell'autosacrificio possano essere buone madri. Saranno più facilmente donne frustrate e incattivite che difficilmente cresceranno figli equilibrati. Ovviamente questo non implica che sia sacrosanto il desiderio opposto, quello di rinunciare al lavoro per dedicarsi ai figli, se è un desiderio. Ma in questa maledetta pandemia ho visto con i miei occhi donne bacchettate da altre donne solo per aver detto che a loro mancava il lavoro e non solo per i soldi. Considerate colpevoli per aver osato lamentarsi del fatto di essere bloccate in casa h24 con i figli. Un anno fa mi sarebbe sembrato ridicolo scriverlo, ma oggi scopro che non lo è. Una donna può essere una buona madre anche se non desidera annullarsi totalmente e rinunciare a tutte le proprie ambizioni professionali. Di più, molto figli stanno meglio con madri che lavorano, soddisfatte del proprio impiego, piuttosto che con casalinghe frustrate.
Questo lunghissimo post, in realtà, non fa che raschiare la superficie dei pensieri sorti con la lettura di questo romanzo, infatti la riunione del gruppo di lettura è stata chiusa alla fine più per sfinimento fisico (tutti arriviamo al venerdì sera sfatti) che per esaurimento delle tematiche.
Non a tutti la protagonista è stata simpatica, ad esempio. A tratti neppure a me. Si tratta, ai nostri occhi, quasi di una sposa bambina, rimasta immatura, capricciosa, con a volte una supponenza smisurata. Il libro ha anche una funzione apologetica. Lei vuole mostrarsi nella luce migliore possibile e la sensazione è che ogni tanto ometta, nasconda, giri a sua vantaggio delle situazioni. Durante le terribili scene di violenza domestica mi sono trovata a pensare se fossero vere, se fosse possibile una tale brutalità o non stesse ingigantendo per giustificare la sua fuga. E poi mi sono sentita un mostro. Io, donna del 2021, abituata tutti i santi novembre a sensibilizzare contro la violenza sulle donne leggo una scena di violenza domestica e il mio primo pensiero è "starà esagerando"? Credo che questo, più di ogni altro mi abbia dato la misura di quanto una certa cultura in Italia sia ancora pervasiva, persino dentro di me.
Alla fine l'unica cosa che mi sento di dire per concludere è che è una lettura necessaria. Un romanzo che dovrebbe stare tra quelli imperdibili del primo novecento e che invece in tanti si dimenticano anche di citare in nota.