martedì 30 gennaio 2018

La Spada, il Cuore, lo Zaffiro in ebook!


La mia antologia di racconti La Spada, il Cuore e lo Zaffiro è ora disponibile anche in formato ebook a 3,99 € su Amazon.
L'antologia raccoglie il meglio dei miei racconti fantastici. Alcuni sono stati premiati in diverse edizioni del trofeo Rill e spaziano dal fantasy classico al realismo magico. Gli ultimi racconti, invece, costituiscono i capitoli di un'unica saga fantasy ambientata nel Leynlared. I tre racconti finali, in particolare, si soffermano su tre momenti della vita di uno stesso personaggio, Amord del Leynlared, il biondino che vedete raffigurato in copertina.
Come ho già avuto modo di scrivere, credo che qui ci siano alcuni dei miei racconti migliori in assoluto, di certo alcuni di quelli a cui sono più legata.

Anche se ti uccide, Notte Stellata, Ulisse e la tartaruga e Come tela di ragno in particolare sono racconti in qualche modo speciale. 
Se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo "cosa è meglio che legga di tuo?" credo indicherei questi testi, perché presentano la mia narrazione più intima e meditata. 
Anche se ti uccide, Notte Stellata e Come tela di ragno (Ulisse e la tartaruga è un caso a sé) sono racconti quasi senza azione, dove tutto avviene nel profondo degli animi. Sono diversissimi, uno ambientato in alta montagna, uno a Milano e uno in un mondo fantastico, eppure parlano tutti di ciò che si è e che si vorrebbe essere, delle occasioni perdute, di felicità inafferrabili e di redenzioni imperfette, ma possibili. Hanno protagonisti imperfetti (in un caso addirittura un orribile politico corrotto), ma che pagano fino in fondo il dolore dei propri errori.

Questi racconti sono stati amati, editati e coccolati da Alberto Panicucci e dagli altri amici di Rill che hanno regalato loro un'edizione curatissima.
Per chi se li fosse persi, quindi, ecco un'ottima occasione per averli sempre con sé in ebook.
Trovate tutto qui

lunedì 29 gennaio 2018

Di bizzarrie e di scrittura

 
Chaira Solerio racconta nel suo blog qualcuna delle sue bizzarrie.
Il fatto, o il problema, è che se "bizzarria" fosse una disciplina olimpica io probabilmente sarei in nazionale, con una serie di persone che conosco come compagni di squadra.
Il fatto di essere "strana" è sempre stato parte di me. All'inizio una scelta non esattamente voluta, indossare occhiali da Harry Potter ben prima che il maghetto li sdoganasse, dipendere in fatto di abbigliamento da una madre femminista e priva di ogni gusto estetico, ad esempio, non mi ha certo aiutato a integrami nella "normalità". E tuttavia, crescendo, ho iniziato a considerare la stranezza, la bizzarria, interessante. Molto più divertente una vita da "strana", in cui invece di andare a ballare o al mare potevo fare gare di atletica o scavi archeologici. E molto più interessanti amici "strani" che raccontano di musicisti classici come altri parlerebbero di divi del cinema.
Quindi, ecco, posso evitare di raccontare qualcuna, solo qualcuna, delle mie bizzarrie (ho detto al marito qual era l'argomento del post e lui ha risposto "sarà lungo"...)

Ho una cecità selettiva di fronte a cassetti lasciati aperti e luci accese
Mio marito dice che sono inaddestrabile e che dimostro come l'educazione fallisca sempre. Non so. Io sono assolutamente consapevole della necessità di utilizzare solo l'energia davvero occorrente e sono contraria agli sprechi. È che non vedo le luci accese. Io sono sinceramente convinta di spegnerle sempre uscendo da una stanza.
O forse è colpa del folletti. Gli stessi che riaprono i cassetti che io di certo ho chiuso e che scopro aperti solo quando mio marito mi fa notare che lo sono. Sono senza dubbio i folletti.

Mi affeziono agli oggetti
Nel profondo sono un'animista impenitente. Mi è davvero difficile convincermi che ogni cosa non abbia un suo spirito o una sua personalità.
Per questo, credo, fatico a staccarmi da alcuni oggetti. E non parlo, che so, di gioielli di famiglia. Cose minute, spesso minuscole. Questa estate, quando ho preparato le cose per l'anno scolastico ho buttato con fatica il righello verde che stava nel mio astuccio dalle medie. Un banalissimo righello di plastica, ormai talmente pieno di tacche e così ammaccato che era impossibile usarlo per lo scopo per cui era stato creato. O il mio vecchissimo orologio da corsa nero. Un ritrovato degli anni '90, che rimane, tuttavia, l'unico orologio che io riesca a portare. Credo che negli anni mi siano stati regalati degli orologi eleganti e chissà dove sono finito. L'unico orologio possibile per me è questo.
Un giorno, poi, racconterò anche dei nomi che do agli oggetti. Mi è da poco stato fatto notare dovrei quanto meno evitare che mia figlia vada in giro a dire, che so, che la macchina di papà si chiama Tolva...

Non sono in grado di parlare del più e del meno
Non sono in grado di reggere una conversazione su un argomento che non mi interessa. Non è che non voglia, non sono in grado. Non conosco le più banali regole del gioco, non so parlare del tempo, della moda, del gossip, del cibo. Mi dimentico di informarmi sulla salute di lontani parenti (a meno che non siano persone a cui effettivamente tengo), scordo i più ovvi convenevoli.
Se posso parlare per ore di ciò che mi interessa, mi azzittisco imbarazzata in tutte quelle occasioni che richiedono una conversazione disimpegnata. Negli anni questo, oltre a portarmi parecchio imbarazzo, mi ha fatto passare nel migliore dei casi per timidissima, nei peggiori per gran maleducata o per una bipolare. Di riflesso ho preso ad odiare cordialmente tutte quelle occasioni in cui tale conversazione è richiesta. Rifuggo le cene con i colleghi, i cenoni di capodanno, i pranzi delle cerimonie e in generale tutte quelle condizioni in cui c'è un sacco di gente e si finisce a parlare del più e del meno. Tutte quelle situazioni in cui, insomma (vedasi sotto) trovarsi a dire "sai, ho visto una bellissima mostra sul cannibalismo" possa risultare sconveniente...

Ho un certo gusto per l'orrido, il crimine e l'antropofagia
Ho abitudini di vita banalmente normali. Tuttavia ho se c'è un particolare trucido da qualche parte, ci presto attenzione. Non amo i film horror e mi spavento facilmente, ma non mi perdo un articolo di cronaca nera. In particolare sono terrorizzata, di quel terrore che ti spinge a volerne sapere di più, sull'antropologia. Colpa, temo, di un documentario sull'antropofagia sull'isola di Pasqua. La notte seguente ho sognato di essere la preda e mi sono svegliata con un profondo senso di inquietudine. Cosa che, invece di farmi rifuggire ogni ulteriore accenno all'argomento, mi ha spinto ad approfondirlo. Credo, a questo punto, di essere un'esperta di antropofagia in ambito storico (gente che si mangia altra gente in seguito a tragedie per non soccombere mi intriga invece assai poi, immagino perché lo trovo più comprensibile, così come mi intrigano poco i pazzi serial killer in stile Hannibal Lecter).

Vi sono luoghi fantastici o comunque non più esistenti che conosco meglio del mondo reale
E comunque insegno anche geografia, ho viaggiato, insomma, ho una certa conoscenza del mondo reale. Tuttavia se uno mi chiedesse a bruciapelo le capitali della Terra di Mezzo in un dato periodo forse ci metterei meno ad elencarle di quanto ci posso mettere a riportare a memoria le principali capitali dell'Asia di oggi. Stessa cosa per alcuni mondi fantastici legati a giochi di ruolo praticati per decenni. E sicuramente conosco meglio la mappa della Roma tardo repubblicana che il centro storico della Roma di oggi.
Il fatto è che ho passato in quei mondi quasi altrettanto tempo rispetto a quello passato nel mondo reale. Su alcuni, come la Terra di Mezzo, ho fantasticato fin dall'infanzia. Ho letto Il Signore degli Anelli a undici anni, questo vuol dire che, lo ammetto con imbarazzo da prof, durante la maggior parte delle lezioni delle medie io scorrazzavo beata nella mia testa da qualche parte nell'Eriador. Durante tutti quelle occasioni sociali in cui non sapevo interagire, be', andavo altrove.
La cosa un po' inquietante è che molti dei miei amici sono messi come me, se chiedo in quale quartiere di Waterdeep posso comprare un dato articolo mi rispondono senza alcuna esitazione. Se chiedo di un quartiere di Novara posso invece faticare ad avere risposta (anche da chi abita nei pressi di Novara).

Come influisce tutto questo in quello che scrivo?
Tutto ciò, inevitabilmente, entra in ciò che scrivo.
Sarà difficile che io immagini un protagonista perfettamente inserito nel mondo in cui vive, a suo agio con le convenzioni sociali, senza interessi settoriali o particolari. Insomma, scrivo di Sherlock Holmes, ad esempio, perché è un personaggio perfetto per me.
I miei personaggi sono sempre quanto meno "particolari", hanno interessi curiosi e non sono particolarmente portati alla vita sociale.
Il giallo è un genere che mi viene "più facile" di altri, perché ne maneggio meglio i meccanismi e mi diverto a immaginare il come della parte criminale e del suo svelamento.
Infine, fatico tantissimo a raccontare storie nel "qui ed ora". Lo faccio, naturalmente, ma mi documento quasi di più rispetto a quando ambiento una storia nel passato.

Quali sono le vostre stranezze e come influiscono sulla vostra scrittura?

venerdì 26 gennaio 2018

NEL REGNO DI SORELLA MORTE – racconto inedito, parte 1



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La storia nasce a Viterbo, visitata nell'estate del 2016, durante una colazione in Piazza della Morte, mentre mi si spiegava l'origine del nome.
Ha perso il ballottaggio per essere inviato a un concorso, ma ritengo possa avere un suo fascino, come dire, funereo...
Buona lettura a chi vorrà seguirmi.


NEL REGNO DI SORELLA MORTE
A lato della strada c’era un carro rovesciato. Una pietra sporgente aveva rotto una delle ruote posteriori proprio sulla curva e il mezzo era scivolato oltre la scarpata, nel campo dove la segale che nessuno aveva raccolto stava marcendo. Anche parte del carico stava subendo la stessa sorte. I proprietari avevano staccato i cavalli e recuperato solo alcuni dei sacchi che trasportavano. Uno giaceva ancora nel fango semi aperto, lasciando intravedere delle pelli che andavano imputridendosi. Nessuno le aveva portate vie, come nessuno si muoveva lungo la strada o per i campi, su cui solo i corvi volavano.
Solo un pazzo si sarebbe messo in viaggio nel regno di Sorella Morte, pensò Ruggero, stringendosi nel proprio mantello.
Lanciò un ultimo sguardo al carro abbandonato e poi spronò il cavallo. Il cielo di novembre era carico di nubi e prima di notte forse avrebbe preso a piovere.

Arrivò a un villaggio. Solo un cane smagrito attraversò la sua strada, degnandolo appena di un’occhiata opaca. Una porta era aperta e all’interno si intravedevano dei cadaveri gonfi, che nessuno aveva osato spostare. Ruggero fece aumentare ancora l’andatura al cavallo, mentre si portava alle narici il sacchetto contenente pepe e chiodi di garofano, ammesso che servisse a qualcosa.
La peste era arrivata l’anno precedente, portata dalle navi provenienti dall’Oriente. Non era la prima epidemia che Ruggero aveva visto nei suoi venticinque anni di vita. Non vi era anno in cui sorella Morte non mietesse le sue vittime, ma non aveva mai fatto le cose tanto in grande. Alle prime notizie del diffondersi del morbo, aveva lasciato l’università di Parigi per raggiungere sua madre nella campagna laziale, curando di evitare le città. Ora dei suoi amici e dei suoi maestri un terzo, forse più, era morto. Matematici, letterati, musicisti, persino medici. La peste non si curava di chi portava con sé, assassini, bambini e asceti, l’umanità era stata unita dal lutto. Con l’arrivo della bella stagione le cose erano sembrate migliorare, i decessi erano via via scemati, i contagi diminuiti. I contadini erano tornati ai campi che non era stato possibile arare, i pastori avevano cercato le greggi disperse, chi si era rifugiato in campagna si era timidamente riaffacciato in città, scoprendo interi quartieri spopolati. Ognuno dei medici aveva attribuito il merito della propria sopravvivenza a un qualche ritrovato di sua invenzione, così come i venditori di amuleti, i predicatori, gli astrologi e gli alchimisti. Con l’autunno, però, sorella Morte era tornata, chiedendo il suo tributo a chi era sopravvissuto alla prima ondata e facendosi beffa di ogni medicamento, cianfrusaglia, rito o preghiera. L’unica cosa che sembrava funzionare, come in qualsiasi altra epidemia, era l’isolamento. Partire in fretta, chiudersi in qualche roccaforte isolata e ben rifornita e attendere che la marea cambiasse. L’esatto contrario di quello che stava facendo lui.

Giffredo era convinto di essere ormai immune dal morbo. Di ritorno da Costantinopoli, si era ammalato al suo arrivo a Venezia, uno dei primi a farlo su suolo italiano. Nelle sue lettere aveva attribuito a quello la propria sopravvivenza. Si era ammalato in una città ancora fiorente, non piagata dalla paura. Ora, ai primi sintomi della malattia, tutti i parenti abbandonavano la casa del malato, neppure i preti osavano avvicinarsi ai letti dei moribondi per impartire i sacramenti né si trovavano notai abbastanza coraggiosi da raccoglierne le ultime volontà. Forse, molti di loro avrebbero potuto guarire, ma venivano abbandonati a loro stessi, troppo deboli per alzarsi dal letto e raggiungere acqua e cibo. Giffredo, al contrario, aveva avuto denaro e autorità per soprintendere alle sue stesse cure. Forte della propria autorità di medico erudito, aveva tenuto nascosti i bubboni che avrebbero fatto identificare il morbo, impartendo ordini ben chiari nonostante la febbre e la debolezza. Conoscendo il proprio fratello, Ruggero era convinto che anche sorella Morte, alla fine, si fosse rassegnata ad ubbidire. Se neppure la peste aveva avuto ragione della sua volontà, di certo non sarebbero state le lettere di Ruggero e di sua madre, madonna Giuliana, a convincerlo a desistere dai suoi intenti. Sicuro di essere ormai immune dalla malattia, si era messo in viaggio, ostinato a raggiungere la villa di famiglia prima dell’inverno. Tuttavia non era mai giunto alla tenuta alle porte di Tivoli.
E io, che quanto a idiozia non voglio essere da meno, sto percorrendo la strada a ritroso, senza neppure l’illusione dell’immunità alla malattia.

Dubitava di riuscire a raggiungere Viterbo per la notte. Le strade erano in pessime condizioni. Da che il papa aveva lasciato Roma per Avignone, il Lazio si era trasformato dal centro del mondo a una periferia ignorata dai potenti e la peste non aveva che peggiorato una situazione già precaria. I sentieri erano invasi dal fango. Nei boschi, gli alberi caduti intralciavano il cammino e più di un ponte dall’aspetto instabile aveva convinto Ruggero a lunghe deviazioni per cercare un guado. Il suo cavallo era più esausto di lui e reclamava una pausa. Al prossimo villaggio avrebbe chiesto ospitalità o, forse, si sarebbe limitato a entrare in una delle case spopolate dal morbo, per dividere il proprio riposo con i fantasmi dei proprietari. 
Sospirò, bevendo un sorso dalla borraccia, un preparato di sua madre, a base di latte e spezie, che a suo dire avrebbe rafforzato l’organismo. Da anni madonna Giuliana era consapevole di aver perso il controllo dei propri figli e non aveva obiettato alla sua decisione di partire, ma in ognuna delle piccole cose che aveva preparato, il decotto, l’aceto con cui gli aveva raccomandato di aspergersi le mani prima e dopo essere entrato in un edificio infetto, Ruggero vedeva la sua preoccupazione. Per la prima volta, pensò alla possibilità che rimanesse sola, vedova, con i figli inghiottiti dalla peste, ultima esponente di una famiglia che aveva perso ogni influenza con la partenza del papa, in una tenuta sempre più trascurata, come un bel fiore lasciato ad appassire in un vaso sbeccato.
Il suono di voci umane lo fece sobbalzare. Nella campagna desolata suonava irreale e fuori posto, quanto il canto di una sirena nel deserto. D’istino, proprio come si fosse trattato del canto di sirene, Goffredo si diresse in direzione delle voci. 
Un sentiero che si dipartiva dalla strada principale conduceva a una fattoria isolata davanti a cui sostava un carro. Nell’incerta luce del crepuscolo autunnale, dall’edificio uscirono due figure dagli abiti scuri che reggevano un corpo. Solo in quel momento, Ruggero si rese conto che il carro era già carico di non meno di cinque cadaveri le cui membra pallide si intrecciavano l’una con l’altra.
– Non temete, messere, siamo frati, intenzionati solo a dare cristiana sepoltura a questi fratelli – disse una delle figure.
Ruggero prese un respiro. D’istinto, si era portato la mano al collo dove portava un medaglione raffigurante san Sebastiano. Alla fine persino a lui erano riusciti a vendere un amuleto.
Con uno sforzo, riportò la mano al pomo della sella e si impose di assumere una posa rilassata.
– Che il Cielo vi benedica per la vostra opera, fratelli – disse. – Sono un viaggiatore smarrito, quanto dista Viterbo? O conoscete forse un luogo prima della città in cui possa trovare riparo per la notte?
– Siamo fra Domenico e fra Ottavio del monastero di san Tommaso di Viterbo – disse uno dei religiosi. – Per oggi abbiamo terminato i nostri doveri. Stiamo per fare ritorno in città, anche se arriveremo dopo i vespri. Molte delle strade non sono più percorribili, ma possiamo mostrarvi la migliore, se avete la pazienza di stare al passo del nostro carro.
Ruggero guardò con diffidenza il macabro carico. Nessuno sapeva con certezza come si diffondesse il morbo, ma stare vicino ai malati o ai cadaveri era in cima a tutte le liste delle cose da non fare. D’altro canto era quasi buio e sia lui che il cavallo erano esausti. Passare una notte all’addiaccio poteva avere gli stessi effetti nefasti della peste. 
– Ne sarò felice – disse.

Con la sera che avanzava, se non altro, quasi non si vedeva cosa il carro trasportasse e si poteva quasi immaginare, quasi, che quelli che spuntavano non fossero arti umani irrigiditi, ma rami contorti. Fra Ottavio era un uomo arcigno e taciturno che in altri vesti avrebbe messo soggezione, ma fra Domenico era a suo modo affabile. Ruggero era riuscito a dare uno sguardo alle sue mani, illuminate dalla lanterna che faceva loro luce. Giffredo gli aveva insegnato che si poteva capire tutto di un uomo guardandone le mani. Ogni attività  lasciava il suo segno specifico in fatto di calli o cicatrici. Le mani dei conciatori erano segnate irrimediabilmente dalle sostanze caustiche che utilizzavano, quelle degli artisti mantenevano a dispetto di ogni lavaggio macchie di colore, gli scrivani avevano dei calli dovuti al prolungato utilizzo della penna e tracce ormai indelebili di inchiostro. Le mani di fra Domenico gli dicevano che non disdegnava di usare la zappa, anche se le macchie erano lasciate dall’inchiostro. Tra la zappa e il calamaio, supponeva Ruggero, c’era la preghiera. Tuttavia, nonostante l’istintiva simpatia, il giovane non pensava che si sarebbero trovati d’accordo su molte cose, se avessero approfondito la reciproca conoscenza.
– L’umanità aveva bisogno di una punizione per i propri peccati, anche se piange il cuore sapere che il Signore ha dovuto arrivare a tanto per ricondurci sulla retta via – commentò il frate, mentre passavano accanto a un’altra fattoria abbandonata.
– Quindi pensate che la pestilenza sia un bene? – fece l’errore di chiedere Ruggero.
– Tutto ciò che viene da Dio è un bene e qualsiasi evento naturale, per quanto possa risultarci sgradito, viene da Dio, quindi sì, la peste è un dono. L’umanità aveva bisogno di vedere la potenza del Signore e di toccare con mano la propria fragilità. Da quando l’epidemia è cominciata non si contano le conversioni.
Fra Ottavio non disse nulla, ma annuì convinto. Ruggero preferì non interloquire. La medicina era il campo di suo fratello, ma concordava con lui nella ricerca di una causa più terrena per il morbo. Tutti sapevano che dove l’aria è insalubre, ad esempio vicino alle paludi, ci si ammala di più quindi qualcosa doveva aver liberato il miasma nell’aria, causando l’epidemia. Poco prima che si manifestasse il male, un terremoto aveva scosso l’Europa, dalla longobardia al cuore dell’Impero, la terra di era fratturata in più punti. L’ipotesi di Giffredo era che l’aria malefica racchiusa nel sottosuolo fosse fuoriuscita da quelle crepe. Di certo Ruggero preferiva quest’ipotesi all’idea di un Dio che per provare la propria potenza arrivava a uccidere un terzo e più dei suoi fedeli, senza far distinzione tra il peccatore e il giusto. Meglio cambiare argomento, prima di trovarsi accusato di eresia. Descrisse suo fratello, nella speranza, per quanto labile, che i frati lo avessero incontrato, ma i due non ne avevano notizia. Del resto Giffredo non era famoso per frequentare uomini di chiesa.
– Se la peste lo ha colto durante il viaggio, il suo corpo potrebbe essere ovunque. Anche in una delle nostre fosse, mescolato a decine d’altri – commentò fra Domenico, come se parlasse del tempo. – Vi sono casi in cui la malattia ha un decorso rapidissimo, al mattino si sta bene e alla sera si è il Cielo o all’Inferno.
– Lo so bene, ma aveva indosso documenti sufficienti a identificarlo e una lettera indirizzata a nostra madre, madonna Malaspina.
Ruggero ritenne meglio non esporre la teoria di Giffredo sull’immunità ottenuta dopo la guarigione, né fare parola dell’involto che trasportava.
– Se è volontà di Dio, lo ritroverete vivo. Se è morto cristianamente e voi seguiterete in una retta condotta, lo ritroverete invece nel regno del Signore. Là nessuno vi separerà.

Ruggero represse un grugnito. Se fra Domenico avesse saputo quali erano gli interessi dei fratelli Malaspina, avrebbe di certo detto che si sarebbero riuniti all’Inferno. Per fortuna, erano alle porte di Viterbo.
— Continua  – 

mercoledì 24 gennaio 2018

Grazie per tutto, Ursula K. le Guin

1929 – 2018

Nell'ovest oltre l'ovest
su un vento diverso da questo
la mia gente ancora danza.

Te ne sei andata dopo una vita ben spesa.
Non ho dubbi sul fatto che il tuo spirito stia danzando nel vento, in forma di drago.
Io posso dirti solo GRAZIE.

Grazie per aver scritto.
Grazie per aver lottato per far sentire la tua voce, dall'inizio fino alla fine.
Grazie per esserti fatta amare anche qui e aver fatto in modo che le tue opere giungessero fino a me, dall'altra parte dell'oceano, anche a decenni dal momento in cui le hai scritte.
Grazie per aver segnato la mia vita, con le tue opere arrivate sempre al momento giusto.

Grazie per tutto quello che ho imparato nelle tue opere e che è diventato una parte di me:
Che l'oscurità sta dentro a ciascuno e va accettata più che combattuta.
Che si può essere persone complesse con desideri semplici. 
Che ogni persona, e in special modo ogni donna, può aspirare a diventare ciò che desidera, senza che vi sia un giusto o uno sbagliato.
Che il coraggio non sta nello sconfiggere o dominare i draghi, ma nel sostenerne lo sguardo.

Grazie per avermi accompagnato nell'età adulta.
Grazie per quello che mi hai mostrato:
Che le utopie sono sempre ambigue, eppure vale la pena di combattere per esse.
Che si può combattere disarmati, anche solo scegliendo di cambiare strada.
Che non si può cambiare senza essere cambiati, né apprendere senza coinvolgimento.
Che ogni abbraccio è effimero e si regge sopra abissi di solitudine e disperazione eppure è in grado di dare un senso anche all'abisso.

Grazie per il volo del falco.
Per le mani vuote.
Per tutte le strade che si allontanano da Omelas.

domenica 21 gennaio 2018

Di fumetti e di come raccontare la storia

La premessa a questo post è che partirò da due fumetti che ho terminato da poco per esprimere il mio disappunto al modo in cui si racconta oggi la storia nella narrazione, ma che non ce l'ho in modo particolare con queste due opere.
Anzi. Si tratta di fumetti encomiabili sopratutto da un punto di vista grafico per la cura con cui è stato ricostruito il periodo storico e i luoghi di cui parlano. Si tratta, insomma, di "ottimi prodotti" ma che sono in qualche modo esemplari di due modi oggi molto di moda di trattare la storia nella narrazione.

 I MEDICI – HISTORICA
Per chi non la conoscesse, Historica è una splendida collana di fumetti, per lo più francesi, a tema storico. Sono tutte opere curatissime e, per lo più, disegnate splendidamente. Insomma, un must per gli amanti della storia e del fumetto.
In questo volume vengono presentati tre grandi Medici: Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e Giovanni de'Medici (papa Leone X).
I Medici in questo momento vanno di gran moda. Negli ultimi tempi mi sono capitate tre opere indipendenti tra le mani: la serie tv, un romanzo e questo fumetto. Quest'ultimo è di gran lunga l'opera qualitativamente migliore, ma tutte e tre le opere ripetevano lo stesso concetto: i medici come una grande famiglia mafiosa, il rinascimento come una "Gomorra" più raffinata, Cosimo il Vecchio, il grande protagonista di tutte queste tre opere a scapito del più famoso nipote Lorenzo, come un "Capo dei capi" anti litteram.
Ora, lungi da me dire che non ci sia nulla di vero in questo modo di raccontare la storia e, tuttavia, portato all'eccesso, risulta una terribile mistificazione.
Oggi vanno di moda le storie di mafia con protagonisti spietati e assetati di potere? Ebbene, raccontiamo così anche il rinascimento, raccontiamo così i Medici!
Sicuramente i Medici, Cosimo, Lorenzo e Giovanni in particolare sono stati dei capifamiglia in un sistema di potere che ricorda quello delle cosche.
Sicuramente sono stati disposti a tutti pur di conquistare e mantenere il potere.
Sicuramente non avevano problemi etici a sporcarsi le mani o a ordinare un omicidio.
Sicuramente.
Però...
Innanzi tutti, stando a questo fumetto, non c'è omicidio o morte sospetta del periodo che non avesse dietro i Medici. Dal capo di una famiglia avversaria al papa Borgia, li hanno uccisi tutti loro, persino se sono morti in battaglia. Va bene mostrarli crudeli e inclini a sporcarsi le mani, ma, insomma, non erano certo leoni in un mondo di pecore.
Quello però che mi irrita profondamente di questa narrazione storica tanto di moda è il trascurare completamente l'aspetto filosofico/intellettuale.
Non si può liquidare Cosimo il Vecchio con "da giovane era affascinato dall'arte e poi l'ha usata come strumento di potere".
La cosa più affascinante dei Medici e di questi tre Medici in particolare è il loro rapporto con il mondo intellettuale e artistico, che non è stato di puro utilitarismo. Questi tre medici si sono nutriti della filosofia dei loro filosofi, al punto di sfidare il senso comune e la chiesa. Si sono portati in casa intellettuali in odore di eresia e li hanno difesi quando si sono cacciati nei guai.
Questi tre Medici hanno sicuramente usato l'arte come strumento di potere, ma la consideravano qualcosa di indispensabile alla loro vita, a cui erano intimamente legati. 
Ecco, raccontare i Medici senza neanche nominare molti dei più grandi artisti a cui si sono legati (raccontare Giovanni de' Medici senza mai far apparire in scena Raffaello), senza neanche mai nominare la parola "neoplatonismo" mi sembra un semplificare la storia per seguire la moda.
Oggi vanno di moda le storie di mafia, quindi raccontiamo solo quello del rinascimento, dimenticandoci ciò che ha fatto di questo momento storico e di questi personaggi in particolare qualcosa di unico nella storia mondiale...

Ah, come premesso, questo è un bel fumetto, ben fatto e piacevole. Forse è per questo che ciò che manca mi rattrista di più.

IO SONO CATARO
Secondo fumetto, sempre da un'edizione francese.
Chi mi segue da molto magari ricorderà che per i Catari ho un'antica fascinazione. Sono rimasta stregata da una vacanza nelle terre catare, tra Francia e Spagna, dove sono andata in cerca di castelli in cui gli ultimi Catari hanno cercato di resistere alle truppe cristiane.
Per chi non lo ricordasse i Catari erano una corrente religiosa che, dichiarata eretica, fu completamente sterminata nel corso di una vera e propria crociata.
Di loro si sa oggettivamente poco. Di loro resta il ricordo in una regione che da quei fatti sanguinosi non si è più ripresa e rimane tutt'oggi tra le meno popolate d'Europa, costellata di ruderi che nessuno più a ricostruito.
Questo fumetto è il primo volume di una serie e ha un impianto interessante, quasi da giallo. Un uomo ha perso la memoria e quindi gli vengono presentate nel corso della storia tre versioni di uno stesso fatto cruciale. Il tutto mentre i bravi cristiani cercano gli ultimi catari da sterminare e questi ultimi tentano una strenua resistenza in stile Robin Hood.
Ora la cosa che non mi è piaciuta è che è tutto storicamente attendibile, meno i Catari, a cui vengono attribuiti poteri magici.
Questa è un'altra moda che poco amo nella narrazione della storia: un nome esotico e un po' di esoterismo e la pillola va giù.
Ecco, anche no, almeno per quel che mi riguarda. O, almeno, non se vogliamo raccontare uno sterminio realmente accaduto.
I Catari sono stati una setta misteriosa e interessante e sono stati sterminati. È un fatto poco noto e che val la pena di raccontare, io credo, anche senza ammantarlo di un esoterismo che temo proprio non abbia avuto.

Anche qui, fumetto ben fatto, intrigante e ben disegnato, da cui avrei voluto di più.

mercoledì 17 gennaio 2018

Ha senso insegnare letteratura nella scuola media?


Tra noi docenti di lettere delle medie, sopratutto tra quelli più attenti alle nuove metodologie didattiche, è aperto il dibattito se insegnare oppure no i rudimenti di letteratura nella scuola media.
Mi sono trovata davanti a posizioni piuttosto radicali che dicono che non solo non si dovrebbe, ma bisognerebbe vietarlo espressamente. Dal momento che la letteratura è difficile e la maggior parte degli alunni non è interessata, risulta solo una gran perdita di tempo per tutti, tempo che è meglio utilizzare altrimenti. Del resto chi ha un vero interesse avrà modo di studiare la letteratura.
Ebbene, io voglio usare questo spazio per esprimere la mia opinione. Non sono d'accordo e mi batterò con tutte le mie forze per continuare a insegnare letteratura anche alle medie.

Per una volta rubo le parole a una persona più saggia di me: mio marito. Persona non coinvolta nel dibattito, in quanto farmacista. 
"La scuola dovrebbe insegnare sopratutto tre cose:
la matematica, perché permette di descrivere il mondo
la scienza, perché permette di comprendere il funzionamento del mondo
la letteratura, perché permette di comprendere l'animo umano"

Ecco.
La letteratura permette di comprendere l'animo umano.
Di riconoscersi nell'altro letterario, vivere i suoi drammi, entrare nelle sue scelte.

In questo periodo con la mia prima media stiamo trattando l'Iliade. Mi importa poco che dei ragazzini di undici anni sappiano cos'è la questione omerica o mi recitino a memoria pagine di critica che non possono umanamente capire.
Voglio che si scontrino con una storia di guerra in cui Ettore ha le sue ragioni, Patroclo le sue (siamo freschi di lettura della morte di Patroclo), non c'è un buono assoluto o un cattivo e non c'è lieto fine per nessuno. Già questa per loro è una novità, sono abituati a storie di un manicheismo schiacciante, dove magari i buoni hanno le loro ombre, ma alla fine vincono sempre su cattivi che più cattivi non si può.
Oggi, raccogliendo le idee è emerso che per qualcuno Ettore contro Patroclo è spietato, per altri ha fatto il suo dovere per difendere la città. Patroclo viene colpito alle spalle, per qualcuno è vigliaccheria, per altri è furbizia. Non c'è una risposta giusta. L'unica cosa giusta, per me è che ci abbiano pensato, i primi della classe così come quelli che faticano. Mi interessa che capiscano che nelle guerre, da sempre si muore e si soffre e a morire non è "chi se lo merita". 
Certo, avrei potuto usare un testo più moderno e più facile, ma l'Iliade funziona in questo senso da qualche millennio. Io non mi sento di rottamarla.

È difficile. Certo. Far confrontare i ragazzini con testi vecchi è difficile. Ma mi sento di dire due cose.
– Il nostro dovere specifico di insegnanti è adattare i contenuti alla fascia d'età che abbiamo di fronte, dire "è troppo difficile per loro" mi sembra un voler semplificare la vita a noi prof.
– Non credo che presentare solo insegnamenti facili ai ragazzi sia educativo. Si può anche iniziare una lezione avvisando che sarà difficile e impegnativa e farci tutti insieme un grosso applauso alla fine per avercela fatta. Un professore deve motivare alla difficoltà, non farla aggirare.

Tanto, quelli bravi rifaranno tutto al liceo.
Certo e quello sarà il momento di affrontare i testi in modo meno ludico e emozionale, mettendo tutti i puntini sulle i. Ma come si fa a decidere di andare a fare un liceo che prevede lo studio non solo della letteratura italiana se non ci si è mai confrontati con essa? Come si fa a capire se piace oppure no?
E chi va a fare meccanica o la scuola di parrucchiere? A loro dobbiamo negare il piacere, sì, il piacere, di avere letto che so io, Dante? L'episodio di Paolo e Francesca, tanto per citarne uno, è, secondo me, un patrimonio dell'umanità. Suscita sentimenti così profondi e istintivi che super qualsiasi barriera culturale. Negarne la lettura a qualcuno è come impedirgli di assaggiare un piatto prelibato perché "tanto non lo capiresti".
Lasciamo che siano i ragazzi a scegliere se la letteratura a loro piaccia o no, ma dopo averla provata! E magari il ragazzino turbolento "con poca voglia di studiare" salterà fuori con un'osservazione acuta su Dante, o si riconoscerà nella rabbia di tanti poeti o nello strazio di Leopardi.

Naturalmente questo implica fare letteratura in modo diverso da come l'abbiamo studiata noi all'università. Non possiamo sciorinare vita, opere e critica degli autori. Dobbiamo agire sul piano emozionale. E riscoprire i testi.
I testi, secondo me, una volta resi in un linguaggio comprensibile (leggasi: parafrasati sdrammatizzando un po' e usando un linguaggio vicino a quello dei ragazzi) riservano sempre delle sorprese. Così come delle sorprese riservano i ragazzi.
La mia quest'anno?
"Prof ma lo possiamo fare cantato il Proemio dell'Iliade di Monti?" (e io, fessa, non ho avuto la prontezza di registrarli).
E qualcuno, senza che io neppure mi sia sognata di chiederglielo, lo sa a memoria.


lunedì 15 gennaio 2018

Partita a scacchi con i virus


Non si può dire che non ci avessero avvertito.
Il primo anno di nido sarà terribile, dicevano.
Ma noi confidavamo in una pupattola da combattimento e ci siamo avventurati con coraggio verso l'inverno.
Devo dire che fino alle vacanze di Natale abbiamo più o meno retto. Poi il tracollo.
Dal 24 dicembre non siamo più stati bene tutti e tre assieme, a volte siamo stati male assieme. Al mare, dove dovevamo riprenderci, ho iniziato a tossire io e, come da tradizione, ciò che per la mamma è un malanno da poco si trasforma in ben altro per figlia e marito.
Insomma, l'organizzazione del tempo è una continua partita a scacchi con i virus, giocando d'anticipo, se possibile, facendo il tetris organizzativo nonni/pediatra/permessi per evitare di finire in scacco matto.
Questo anche per scusarmi per un tot di assenze ingiustificate e di mail dei blog amici a cui non ho risposto (Cristina, sto valutando il post, ma richiede una testa che ora non ho...)
In tutto questo mi sono incaponita a partecipare con il romanzo finito in autunno a un concorso. Più che altro perché gli invii spontanei in casa editrici lasciano sempre più il tempo che trovano. Peccato che la consegna sia il 31 gennaio. Nella mia testa avevo tempo. Tutto un programma ben definito. Lettura con commento da parte della nostra Chiara Solerio (super professionale), tre giorni di lavoro intensivo con pupattola al nido e un'altra settimana e mezza per rifinire. Conti fatti senza l'ospite virulento. Ciao ciao tre giorni di lavoro intensivo con bimba al nido (influenza intestinale), ciao ciao lavoro di rifinitura (influenza normale) e scadenza sempre più imminente.
Chiara mi aveva dato tutta una serie di consigli assai sensati. Alla fine ho fatto il minimo sindacale per rendere la storia più scorrevole e più aderente al bando. L'alternativa era rinunciare in partenza, cercare la perfezione con la possibilità di non avere più un bando appetibile di un buon editore. Qui sono già stata una volta il finale, cosa che vuol dire, suppongo che il romanzo è stato letto. L'alternativa, mi pareva, era di avere un testo migliore che rischia però di essere cestinato senza neppure essere aperto. Dire che sono convinta della mia scelta è troppo, ma nella partita a scacchi con i virus non sapevo quale altra mossa fare.
Voi cosa avreste fatto?

giovedì 11 gennaio 2018

Di sogni letterari e di passeggiate con Tolkien



Dal mio punto di vista c'è una sola cosa positiva nel tornare ad alzarsi (troppo) presto al mattino.
Quando la sveglia suona (troppo) presto, sono ancora in piena fase onirica e quindi mi ricordo i sogni. Con fatica. Devo sempre fare uno sforzo di memoria e di concentrazione e spesso comunque non vengo a capo di tutto, ma ne vale comunuqe la pena.
Adesso, non vi immaginate una svolta mistica. Io non cerco l'illuminazione nei miei sogni. Il mio inconscio lo sa e quando proprio deve darmi un messaggio lo fa senza immagini criptiche da interpretare. Quelle due o tre volte che ne ho avuto bisogno ho sognato un tizio che mi diceva paro paro quello che dovevo sapere. Suppongo, giacché si è trattato di informazioni giuste, che il mio inconscio le avesse già elaborate e abbia trovato una strategia a prova di scettico per farle avere alla mia parte cosciente. È capitato, quindi, ma raramente e io non cerco verità dai sogni. O, almeno, non quella verità.
I miei sogni sono sempre, meravigliosamente, narrativi.

A volte sono sogni, come dire, "metaonirici", sogno una storia che so che non mi appartiene, come se fosse un film o un sogno altrui, come se la mia coscienza sapesse di stare sognando.
Sono in generale bei sogni, anche quando si tratta di storie inquietanti, perché so di esserne spettatrice. Da uno di questi sogni, particolarmente articolato e ben ricordato, ho tratto il mio unico racconto genuinamente horror (lo tengo sempre nel cassetto per chissà quale occasione, ma magari conviene che lo posti sul blog).
Martedì notte ho avuto uno di questi sogni. La trama era complicata e non sono riuscita a ricostruirla del tutto, ma c'era almeno un viaggio nel tempo. Nel pezzo di cui mi ricordo si era nel settecento e c'erano due cicisbei tutti cipria e parrucche stratificate che dovevano darsi alla carriera militare. All'inizio sbeffeggiati dalle truppe per i loro modi riuscivano poi a farsi valere, nonostante nastrini e belletti. Tutto sommato anche ricordandone solo un pezzetto potrebbe uscirne un racconto.

Qualche tempo fa, invece, il mio inconscio mi ha fatto davvero un regalo, realizzando un sogno che solo in sogno poteva realizzarsi.
Io sono di quei nerd che non solo hanno letto Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit, ma sanno districarsi tra le genealogie elfiche, hanno un'idea ben precisa della successione dei re di Numenor. La Terra di Mezzo è il mondo in cui ho vissuto almeno metà adolescenza, in alcuni momenti più reale ai miei occhi di quello che mi circondava. Una parte di me ancora passeggia per il Verdecammino. Eppure, per varie ragioni, negli ultimi anni ho potuto dedicare a queste letture molto amate solo dei pensieri distratti e non prendo in mano quei libri da secoli.
Ma eccomi in sogno catapultata nella campagna inglese degli anni '50 o della fine anni '40. Come spesso accade in sogno tutto mi era assolutamente famigliare. Dovevo trovarmi dalle parti di Dover e avevo affittato una casa per passarci l'estate con figlia e nipotino (suppongo il marito al lavoro).
Al ritorno da una passeggiata troviamo un grosso cagnone nero nel giardino e poco dopo ecco arrivare il proprietario, con pipa e cappello, che si scusa per l'irruzione: il professor Tolkien in persona.
Il mio io cosciente lo riconosce subito, perché è paro paro alle foto più famose, l'io del sogno fa la conoscenza con un professore universitario che sta passando l'estate nella casa accanto. Vedendo i libri iniziamo a chiacchierare. Seguono quindi passeggiate sulle scogliere con io e il professor Tolkien a discutere di libri e figlia e nipotino a giocare con il cane.

Al risveglio la cosa che più mi ha colpito è quanto il mio sogno fosse radicato nell'ambientazione, poiché ricordo che io e Tolkien abbiamo parlato solo di libri editi prima degli anni '50 e in particolare di Joyce, della Woolf e di Hemingway e del suo amore per la letteratura inglese antica, imparagonabile con quella contemporanea. Ricordo che mi disse che il suo romanzo (immagino Il Signore degli Anelli) avrebbe potuto essere amato o odiato, ma che pochi avrebbero capito la sua ricerca stilistica (eh, già, io per prima, avendolo letto solo in traduzione) con la riproposizione di alcuni stilemi dell'epoca applicati alla modernità.

Mi sono svegliata del tutto malvolentieri da questo sogno, ma felicissima di essermelo ricordato.
Grande delusione quando mi sono informata con la massima esperta di Tolkien che io conosca (ci ha fatto anche la tesi di laurea) e ho scoperto che il professore non ha mai avuto una grossa cagnona nera. Quindi non ho davvero incontrato lo spirito di Tolkien (il sogno era talmente dettagliato che per un poco il dubbio l'ho avuto), ma era solo una proiezione del mio inconscio. È stata comunque una delle esperienze oniriche e letterarie più particolari che mi sia mai capitata.
Del reso meglio chiacchierare con il proprio idolo letterario in sogno che non farlo mai.

Almeno, quando il lunedì e il mercoledì sera punto la sveglia per l'alzataccia del mattino dopo (che non è neppure così antelucana, sono io che sono un modello obsoleto e ho bisogno di dormire tanto), spero almeno di svegliarmi al mattino con il ricordo di un incontro straordinario.

A voi è mai capitata una cosa del genere?

PS: la foto non ha nulla a che vedere con i miei sogni letterari, ma dimostra come Orlando Calibano Nerone si stia infine adattando. Ieri sera è finalmente salito sul divano a farsi coccolare anche da me.

lunedì 8 gennaio 2018

La svastica sul sole – Piovono libri


Il gruppo di lettura mi ha regalato tanti romanzi inaspettati, letture a cui io mai mi sarei avvicinata e che mi hanno avvinta nelle loro spire, trascinandomi dentro mondi in cui mai mi sarei avventurata.
Prima o poi doveva avvenire anche il contrario, avere grazie al gruppo la spinta a prendere finalmente in mano un libro che mi aspettava sullo scaffale da tempo e uscirne in gran parte delusa.

Non posso dire che non ce ne fossero le premesse. In casa girava una vecchia edizione consunta e palesemente usata.
– Nik, lo hai già letto?
– Sì, ma non mi ricordo quasi niente.
Lapidaria e terribile recensione.

Eppure La svastica sul sole è un libro a suo modo mitico, è l'Ucronia con la U maiuscola, IL libro con i nazisti al potere. Chi non l'ha mai sentito nominare? E, amando la fantascienza, come avrei potuto non amarlo?

– SEGUONO INEVITABILI SPOILER –

Il problema, temo, era tutto nelle aspettative. L'Ucronia. Il libro sul mondo con i nazisti al potere. I nazisti al potere ci sono e quest'ambientazione alternativa è tutto il fascino del romanzo. Un mondo in cui Germania e Giappone si sono spartiti la torta, con la Germania che ha prosciugato il Mediterraneo, distrutto l'Africa e si è affacciata su altri pianeti del sistema solare. Il Giappone ancora radicato al suo senso dell'onore, affascinato dal passato che ha contribuito a distruggere e incapace di progredire. Un'America sottomessa e marginale, sopra cui volano i razzi per altri mondi, ma in cui ci si sposta in risciò, che svende i suoi, veri o falsi cimeli (da cui l'orologio in copertina sul cui senso per anni mi sono interrogata) e vittima di un senso di inferiorità nei confronti dei vincitori.
Il problema è che tutto ciò non è il cuore del romanzo.
L'impressione che ho avuto è che questa visione così lucida e inquietante, alla fin fine interessasse relativamente all'autore.
Il titolo italiano, così bello e così diverso dall'originale, qui trae moltissimo in inganno. Perché La svastica sul sole focalizza tutta l'attenzione sul potere nazista e il mondo alternativo. Ma il titolo originale è un altro e suona più correttamente L'uomo nell'alto castello e pone l'accento sul vero cuore del romanzo.
L'uomo nell'alto castello è l'autore di un libro vietato ma letto da tutti che racconta di un altro mondo ancora, un mondo in cui i nazisti abbiano perso, ma che non è la nostra realtà.
Si insinua quindi il dubbio che quella che stanno vivendo i personaggi, una vita per altro scandita dalle profezie del libro cinese degli oracoli, possa non essere la realtà. Sono forse loro stessi i personaggi di un libro? O, tra tutti gli universi possibili, hanno avuto la sfortuna di vivere in uno particolarmente sfortunato? O forse è solo il sogno di un qualche gerarca nazista in disgrazia a un passo dalla morte?
Forse lo avrebbe saputo nel seguito che Dick non riuscì a terminare, in questo romanzo non lo sapremo mai.
Quindi le mi aspettative andavano in una direzione, l'esplorazione di una realtà parallela, mentre l'autore mi portava sul concetto di realtà e di percezione della realtà. Cosa di per se interessante, se non che a me, vera o falsa che fosse, interessava di più la realtà accennata nel romanzo.
Forse, se ci fossero stati altri personaggi, in grado di prendermi per mano e condurmi nella storia, la cosa non sarebbe stata poi così grave. Per me i romanzi sono sempre la storia di qualcuno. È forse un mio limite di lettrice, ma fatico davvero ad appassionarmi a un libro se dei personaggi non mi importa nulla. E i protagonisti di questo mi lasciano del tutto indifferente, cosa ben peggiore del risultare odiosi. Li ho trovati potenzialmente interessanti, ma alla prova dei fatti insulsi, con lo spessore della carta velina. Che sia voluto, ci siamo chiesti? Può essere. Se non sono altro che proiezioni, sogni o personaggi di un libro altro forse è giusto che che siano così psicologicamente evanescenti. Tuttavia fatico a seguire per centinaia di pagine dei personaggi che hanno meno complessità, per quello che ne ho visto, del mio nuovo gatto. Almeno Orlando Calibano Nerone ha un passato misterioso, un fare schivo e un agire che riserva qualche sorpresa. Questi no, si muovono da A a B e possono essere riassunti con non più di due aggettivi.

Alla fine, dunque, di questo libro mi rimane l'enorme fascino di un'ambientazione inquietante ma assai poco esplorata, qualche domanda sulla realtà e poco altro.
Ho il triste sospetto che tra qualche anno, rivedendo il volume sullo scaffale dirò: "Ah, il libro con i nazisti al potere che forse è solo un'illusione. Ci erano i personaggi? Cosa succedeva? Non me lo ricordo".

Voi lo avete letto?
E quale libro famoso vi ha lasciato un retrogusto di delusione?

sabato 6 gennaio 2018

Mare d'inverno con pupattola


Se devo essere sincera il mare lo preferisco d'inverno.
Mi piace nuotare, ma non rosolarmi al sole, contendermi in mio fazzoletto di spiaggia come fosse un fortino assediato con la sensazione di galleggiare in un brodino di creme abbronzanti altrui.
Il mio mare d'estate ideale o è quello del nord Europa o è quello di spiagge deserte troppo lontane da casa mia.
D'inverno il mare, invece, ha una sua malinconia particolare che fa eco a quella che sta di sottofondo alla mia anima.
Oppure regala tramonti che sono ingorghi di colore.
Meraviglie troppo schive per rivelarsi alla massa del turismo estivo.
Il mare d'inverno è la spiaggia aperta e finalmente di tutti, con le impronte sulla spiaggia che si mescolano a quelle degli uccelli e dei granchietti, mostrando che altri, finalmente, si riappropriano di uno spazio che in definitiva sarebbe loro.

Mare d'inverno con pupattola è godere di temperature che nelle nostre belle colline non sono concesse. Scoprire che il lungo mare è cristallizzato in uno luna park anni '80, in cui, a guardar bene, forse ritrovo quella stessa identica giostra in cui sono salita ia quando avevo le dimensioni della pupa e costatare come questo dia una strana sensazione rassicurante. Tutto sommato diventiamo tutti grandi sullo stesso bruco-mela (speriamo che nel mentre abbiano almeno fatto la dovuta manutenzione).
Mare d'inverno con pupattola è finalmente camminare tutti e tre insieme, a ritmi che il lavoro non permette. 
Ci godiamo i suoi passi, la conquista di parole sempre nuove. Noi che, al contrario di moltissimi genitori non dobbiamo abbassare le nostre aspettative da un idealizzato bimbo ideale a un bimbo reale. A noi il bimbo ideale lo hanno preso a cannonate tempo fa. Ci hanno detto che nostra figlia, se mai fosse arrivata, sarebbe stata traumatizzata e in ritardo sulla vita. Ci troviamo invece con questa frugoletta ricciuta pronta a conquistare il mondo a sorrisoni, a dimostrare che lei è grande, a neppure un anno e mezzo, per fare questo e quello da sola.
Mare d'inverno con la pupattola è godercela appieno, gongolanti e fieri di ogni sua conquista.
Mare d'inverno con la pupattola è anche, non si capisce bene come, tornare a casa con quel raffreddore che si voleva evitare (saranno stati i 15 gradi di sbalzo termico?).