mercoledì 31 maggio 2017

Nei '90 della mia adolescenza


Moz è stato il primo a invitarci a questo viaggio nei ricordi.
Come per Chiara, anche per me, classe 1980, il decennio della mia adolescenza è quello degli anni '90.
Non rimpiango molto la mia adolescenza, le paturnie, l'accettazione di sé e un carico di lavoro, tra liceo classico e atletica a livello agonistico, che neppure nei miei periodi più intensi ho mai più uguagliato. A guardar indietro adesso, però, a parte quella stanchezza terribile della versione di greco da fare nel dopo allenamento, i ricordi piacevoli prevalgono.

La mia non è stata un'adolescenza standard. Ero uno strano esemplare di nerd atleta che univa gli interessi stravaganti dei nerd, quando i nerd non erano di moda, alla vita monacale dell'atleta eppure erano proprio queste mie due identità a darmi maggiori soddisfazioni.
Nell'estate tra la seconda e la terza superiore ho avuto la mia grande crisi d'identità e ho deciso che non me ne importava più niente di nessuno e sarei stata solo ciò che volevo essere. Ho mollato di punto in bianco il bellissimo e fighissimo liceo privato dove giravo come un'aliena in mezzo a figli di papà per lo sgangherato liceo pubblico con l'aula magna che rischiava letteralmente di crollare a ogni assemblea. Non so se sia stato un caso o destino o altro (in quel periodo ho letto un romanzo che usava la suggestiva frase "camminare sulla strada del dio") ma entro la fine dell'anno scolastico sono successe tre cose. Non ho avuto problemi a inserirmi nella nuova scuola e ho trovato persino delle compagne più nerd di me. La società di atletica in cui militavo si è fusa con un'altra che aveva un allenatore specializzato in mezzofondo e una squadra femminile di corsa di resistenza, al di là dei risultati sportivi (di cui, lo ammetto, vado fierissima tutt'oggi, con un ottavo posto agli italiani), venerdì andrò al matrimonio di una di quelle ragazze, giusto per dare un'idea dei legami che si formano correndo. Infine, per una ricerca scolastica sono andata in biblioteca e ho trovato il volantino di un gruppo archeologico. Vi ho trovato Alfa dei Misteri, una delle persone migliori in cui mi sia imbattuta. Lui mi ha subito coinvolta nel mio primo scavo archeologico, dove ho incontrato due ragazzi. Uno è stato il mio primo fidanzato, il secondo lo vedo tutt'ora ogni settimana per la serata gioco di ruolo.
Essere una nerd atleta, da un certo punto in poi, non è stato più un motivo d'esclusione. È stato bellissimo.

Questa lunghissima premessa era necessaria, credo, per raccontare i miei anni '90.

Televisione
Quale televisione? Battute a parte, ne guardavo veramente poca, perché le mie giornate prevedevano un'ora e mezza di allenamento e alle 21.30 crollavo addormentata ovunque fossi. C'è però, un telefilm che una come me non poteva non amare.

X files solleticava in mio senso del mistero e il mio gusto per l'avventura. Dana era un modello di donna in cui potevo riconoscermi, che non abdicava alla propria intelligenza e seguiva fino in fondo la propria vocazione. Inoltre mi è sempre piaciuto il rapporto di complicità e fiducia, prima che di attrazione o amore che aveva con Mulder. Ricordo che riuscivo quasi mai a vedere fino in fondo una puntata e per ricostruire la cronologia precisa degli eventi mi affidato a un'amica che mi riassumeva quanto mi ero persa.

Film
Due film per me sono stati, più di ogni altro, dei cult, negli anni '90.
La leggenda del re pescatore. Questo film sembrava girato per me. Non so quante volte ho riguardato la videocassetta, presa per caso insieme a un giornale, ma ogni volta la ricerca del santo graal a New York mi commuoveva. Ero nel mio pieno periodo medioevale. Mi stavo leggendo tutta l'epica medioevale francese (compresa la versione integrale de la Chanson de Roland in lingua originale). Questo film mi diceva con dolcezza che stavo vivendo in un mondo in cui solo i folli potevano essere ancora puri cavalieri, ma che alla fine non importava e se qualcosa avviene anche solo nella nostra mente, non è detto che non sia importante. Penso ancora che sia un gioiello da riscoprire, con i fazzoletti a portato di mano.
L'ultimo dei Mohicani
Prima che tutte le mie compagne impazzissero per il Leonardo di Caprio di Titanic io avevo dato il mio cuore a un altro personaggio cinematografico e a un'altra idea di storia d'amore. Come solo nell'adolescenza può succedere, L'ultimo dei Mohicani ha segnato il mio immaginario e definito l'estetica del mio uomo ideale. Alto, magro e con i capelli lunghi. Bravissimo a fare il suo lavoro, rude all'occorrenza, ma pronto a stringere con una donna un rapporto paritario, basato sul rispetto e sul riconoscimento del reciproco valore. Ogni volta che lo riguardo un po' torno l'adolescente che ero e un po' mi vergogno di questo mio lato più sfacciatamente romantico.


Libri
Da brava nerd, leggevo tantissimo, sopratutto d'estate. Quindi temo di dover distinguere tra i libri che mi sono portata dentro e hanno contribuito alla mia formazione e quelli che sono stati importanti allora e di cui oggi un po' mi vergogno ma che so di aver letteralmente consumato.
Il decennio, nel '91, si è aperto con la scoperta del fantasy e con l'incontro con Il signore degli anelli, che da un lato mi ha instradato verso altre letture del genere (molto amata allora La grotta di cristallo di Mary Stuart e i primi tre romanzi de La saga di Earthsea della Le Guin), dall'altro mi ha dato la consapevolezza che non si può creare una nuova epica senza delle solide basi. Da qui l'immersione nell'epica medioevale, dalla Chanson fino all'Orlando Furioso, passando per tutte le leggende arturiane, che mi ha tenuto compagnia negli anni delle medie (un pensiero alla mia vita sociale di quel periodo, visualizzatemi intenta a queste letture di fianco a una tredicenne media con in mano Cioè). L'incontro con Il nome della rosa a quel punto sembrava scritto nel destino e quella lettura mi ha traghettato al liceo, dove approfondire i classici e gli antichi, per fortuna, non era cosa strana. Troppo immersa nel passato, negli anni '90 ho ignorato quasi del tutto gli autori del '900, con l'eccezione di Borges, scoperto per caso in solaio, che mi ha dimostrato senza ombra di dubbio che il fantastico può essere alta letteratura.
In mezzo a tutti questi classici, leggevo anche un sacco di libri di consumo, compresi di Harmony di mia mamma. In quel marasma c'è una serie che nella mia adolescenza ha avuto un peso non indifferente. Si tratta della Saga di Darkover di Marion Zimmer Bradley. Ho trovato la mia prima amica nel nuovo liceo proprio grazie a questi libri. L'anno scorso me ne sono ricapitati in mano un paio e ho subito capito perché fossero stati così importanti all'epoca. Ci sono tre caratteristiche essenziali. I personaggi si facevano una quantità di problemi che sono un adolescente può capire. Non importa quanti anni avessero, erano sempre dei sedicenni in preda a quell'ansia esistenziale che solo a sedici anni si vive davvero. I dilemmi etici erano sempre portati all'ennesima potenza, pur in assenza di un assoluto morale. Si parlava di sesso. Con l'eccezione di un unico romanzo che infatti era introvabile e se ne favoleggiava solo, non era descritto in modo esplicito, ma era una presenza costante e approcciata senza tabù. Col senno di poi credo che, anche se all'epoca negavo che fosse quello un motivo d'interesse, per una timida adolescente di provincia fosse un particolare con la sua importanza.

Fumetti

Magico Vento
Nell'estate del 1997 è uscito il primo numero di Magico Vento, acquistato ovviamente (non lo avrei ammesso neppure sotto tortura) perché il protagonista era ricalcato sul Nathan de L'ultimo dei Mohicani, è tutt'ora il mio più grande amore fumettistico. Adesso il fumetto è diventata una passione e posso dire di averne letti abbastanza per capirci qualcosa, ma questa serie continua ad avere nel mio cuore un posto speciale. Vorrei dire recuperatela e leggetela, ma temo sia quasi impossibile. 
Questo fumetto è cresciuto con me, mi ha accompagnato in tutti i miei spostamenti, mi ha aperto a un mondo più vasto e introdotto alla cultura dei nativi americani e convinto. Ci sono alcuni albi che mi hanno seguito in quattro o cinque abitazioni differenti e ora spettano che la pupattola abbia l'età per leggerli.

Oggetti
Salto a pié pari la parte sui vestiti. L'unica cosa che allora per me avesse importanza, in questa categoria, erano le mie scarpe da corsa Adidas, che consumavo a una velocità impressionante.
L'oggetto di quegli anni, per me è questo:
La mitica scatola rossa di D&D, l'introduzione imprescindibile al gioco di ruolo. Ancora oggi i miei dadi sono quelli della scatola rosso (temutissimi, quando masterizzo io). E ancora oggi alcune delle persone al tavolo da gioco sono le stesse degli anni '90.
So che c'è ancora chi dice che siano passatempi che distolgono dalla realtà. Io facendo rotolare i dadi ho cementato molte delle mie amicizie. I draghi, ho scoperto, si affrontano insieme, quelli immaginari  del gioco e i molti reali, senza scaglie né fiamme, della vita vera. Facendo rotolare i dadi ho conosciuto mio marito. 
Faccio davvero fatica a immaginare la mia vita non tanto senza il gioco di ruolo in sé, quanto senza quella rete di rapporti e la valvola di sfogo offerta dalla serata settimanale.
C'è una parte di me che è ancora quell'adolescente degli anni '90. E non me ne pento affatto.

Ecco qua. È stato un lungo (è tardissimo, almeno per il mio presente di risvegli notturni) e bellissimo viaggio.

Nei prossimi giorni sono un po' incasinata tra lavoro, matrimoni, zie in visita ed escursioni programmate (con la bimba in spalla, ce la farò?), quindi non so né se posterò né se leggerò i blog altrui. In generale credo che per tutto giugno il blog andrà avanti un poco a singhiozzo, ma cercherò di esserci il più possibile, perché mi rendo conto che il blog è una cosa che amo.

domenica 28 maggio 2017

Il bacio della vedova – racconto giallo inedito, parte 2

Parte prima

Riassunto breve
Padre Marco, parroco e docente di religione in un liceo, è a Parigi come accompagnatore di alcune classi in gita. In un mattino di pioggia lui e gli altri colleghi si rendono conto che uno degli alunni, Livio Massenzio, è scomparso.

IL BACIO DELLA VEDOVA – PARTE DUE

 Ci volle più di un quarto d’ora per risalire almeno ai pochi dati certi.
 Livio Massenzio divideva la camera con altri quattro ragazzi della classe. Marco calcolò che in cinque facessero più meno metà della dose di buon senso che Dio di solito dava in dotazione ad ogni  individuo. Avevano estratto a sorte e uno, Carlo Macchi, era rimasto in camera. Era lui che aveva aperto la porta, quando verso l’una il professor Ferri era passato per l’ultimo giro di controllo. Gli altri quattro erano usciti dalla finestra per esplorare la Parigi notturna. Dopo aver girovagato un po’ sotto la pioggia, erano finiti in un pub dove avevano incontrato altri ragazzi italiani, anche loro in gita, e provenienti da Novara, una città non lontana dalla loro.
 – Livio sapeva che anche quelli del Carlo Alberto erano qui e aveva messaggiato con un suo amico per trovarsi. Loro per uscire hanno dovuto calarsi dal secondo piano… – commentò Ugo Giambelluca, uno dei fuggitivi.
 – Com’è possibile che un’altra scuola della provincia sia qui proprio in questi giorni? – domandò Ferri.
 – Ehm… Io e la collega del Carlo Alberto abbiamo organizzato assieme la gita – disse Anita. – Domani, per la serata finale, ci saremmo trovati nello stesso ristorante, pensavamo di fare una sorpresa a tutti… 
 In quel momento arrivò la guida. Avrebbe dovuto trovare la truppa a ranghi serrati già schierata al di fuori dell’albergo. Intuendo che qualcosa non andava, indugiava nell’atrio, incerta se raggiungere i docenti oppure no.
 – Cosa facciamo? – disse Ferri – Abbiamo la salita alla Tour Eiffel tra un’ora e mezza.
 – Non possiamo lasciare segregati qui in albergo più di cinquanta adolescenti – disse Marco. Lasciare troppi ragazzi in uno spazio ristretto senza dar loro abbastanza da fare era pericoloso quanto far scontrare atomi di uranio – Vai con loro, Raimondo, io e Anita cercheremo Massenzio.
 Ferri non era contento. Ne avevano già perso uno e se fosse accaduto qualcosa agli altri probabilmente l’assicurazione non avrebbe risposto, dato che mancava il numero minimo di accompagnatori. D’altro canto anche Ferri, che insegnava chimica, sapeva che era meglio evitare le condizioni per una reazione incontrollabile.
 – Perché devo andare io? – protestò debolmente.
 – Tu non parli francese. Forse dovremo cercarlo nelle stazioni di polizia o negli ospedali.
 – E cosa dico loro?
 – Qualcosa di terribile, che li spaventi e li convinca a non fare altre cretinate – disse Marco, sapendo di avergli affidato una missione impossibile.
 Il senso del pericolo, secondo il prete, non si sviluppa nell’uomo se non dopo i vent’anni.
*
 Il Carlo Alberto era il liceo più rinomato della provincia. Infatti, loro alloggiavano in un dignitoso tre stelle con vista sulla Senna, invece che nella bettola asfittica da cui era uscito Massenzio. Loro non si muovevano con i mezzi pubblici, era arrivato un pullman appositamente noleggiato per portarli a Versailles. E a loro nessun alunno era sparito.
 Clara, la collega con cui Anita aveva organizzato la gita, aveva pensato che l’amica le stesse facendo uno scherzo, quando con una telefonata le aveva spiegato la situazione. Adesso però era riuscita a individuare e isolare l’amico di Livio, Massimo Di Cataldo, un diciottenne tutto griffe e gel che guardava con aria strafottente i compagni che salivano sul pullman.
 – Tanto, che me ne frega a me di Versailles… 
 – Ma non avete chiamato la polizia? – stava invece chiedendo Clara, una donnina minuta e ansiosa quasi quanto Anita.
 – Prima cerchiamo di capire almeno quale commissariato chiamare… E poi, magari, Livio Massenzio sta solo smaltendo la sbornia da qualche parte – disse Marco. 
 La gita si stava trasformando in uno psicodramma dai toni foschi e, dato che gli era toccata la parte dell’adulto ragionevole, cercava di interpretarla con coscienza. Qualcuno doveva pur farlo.
 – Pensa che quell’idiota ha lasciato in camera i documenti – stava infatti dicendo Anita. – Se gli fosse successo qualcosa di terribile, non saprebbero neppure chi è.
 – Ho controllato i lanci d’agenzia – replicò Marco. – Nessun adolescente non identificato morto o in coma.
 In quel momento padre Marco sentiva forte il richiamo del darwinismo sociale e del suo pragmatismo. La prematura scomparsa senza eredi di Livio Massenzio sarebbe stata un bene per la genetica e per la società. Lui, però, aveva votato la vita al Dio della misericordia e degli ultimi. Si chiese se il figliol prodigo della parabola fosse sprovveduto come Livio. In ogni caso, il suo compito era farlo tornare all’ovile e poi sacrificare un bue grasso per festeggiare l’evento.
 – Allora, tu cosa ne sai di questa storia? – chiese a Massimo, l’amico strafottente di Livio.
 Chissà se gli era concesso fargli interpretare la parte del bue grasso?
 – Niente, don. Non ci lasciano neanche uscire la sera, siamo il gita, non in carcere.
 – Così sei evaso rischiando di romperti l’osso del collo e sei andato in un pub del lungo Senna per incontrare Livio e i suoi compagni. Dimmi qualcosa che ancora non so.
 – Abbiamo bevuto una birra, lei cosa ci va a fare in un pub?… Ah, già, è un prete, glielo devo spiegare cosa si va a fare in pub?… Avevano uno di quei vecchi giochi… Come si chiama? Un flipper. Abbiamo giocato un po’
 – Una serata da oratorio. E perché Livio non è tornato e tu puzzi ancora di canna?
 – Puzzo di che? 
 Marco iniziava ad irritarsi. Era abituato al fatto che i ragazzi sul momento lo prendessero per cretino. Dopo tutto era un prete e di solito aveva modi placidi, da confessionale, più che da pulpito. Prima di essere chiamato a reggere una parrocchia era stato docente universitario di Storia del Vicino Oriente Antico e il fatto che conoscesse l’aramaico non giovava alla sua fama. Di solito, però, i ragazzi erano più svelti a rendersi conto dell’errore.
 – Anita, scusa, vai a controllare la sua camera. Vediamo se è il caso di fare una telefonatina a casa, o magari direttamente alla polizia.
 Essere parroco, aveva scoperto con un certo meschino piacere, gli dava dei poteri. Se dava un ordine era difficile che venisse contraddetto e nessuno metteva in dubbio il suo diritto a ficcare il naso nei fatti altrui. Senza fiatare, Anita e Clara si fecero dare le chiavi.
 Intanto lui e Massimo erano rimasti soli nella hall. 
 – Dimmi un po’, tu e Livio decidete di starvene da soli ancora un po’ nel pub. Livio frequenta il liceo sperimentale, ma di francese ha quattro, non credo sia in grado neppure di ordinarsi una birra. Tu non lo studi neanche, il francese.
 – Io so ordinare una birra in tutte le lingue del mondo e mia mamma è francese.
 – Ah, ecco. Senti un po’, il tuo compagno di camera ha detto che sei tornato alle sei, il pub, però, ha chiuso un po’ prima…
 – Sto’ stronzo… Pure giuda. E pensare che gli ho trovato i biglietti dello stadio…
 – So io cos’ha fatto… Anche se non so con chi!
 Anita e Clara erano tornate nella hall con sguardo da Erinni. Clara teneva in mano una scatoletta di cartone che passò a padre Marco.
 Hot Love. Il prete la osservò con una certa curiosità, non era il genere di articolo che gli capitasse spesso in mano. Poi lanciò uno sguardo alle colleghe.
 Niente da fare. Il ruolo da inquisitore era stato affidato a lui. Agli occhi delle due donne, la categoria a cui apparteneva gli dava una speciale qualifica per sostenerlo.
 Sospirò.
 – La marca è francese e mancano due preservativi. O hai avuto una notte ancora più movimentata di quanto pensassi, o uno l’hai dato a Livio.
 – Che ne sa lei che è un frocio represso?
 La tentazione di dargli un manrovescio fu fortissima. Marco si girò verso le colleghe, alla ricerca di un sostegno per la sua pazienza. Clara sembrava essere diventata di colpo favorevole alla tortura, probabilmente, se glielo avesse chiesto, avrebbe anche tenuto fermo il ragazzo.
 – Adesso basta. Io vado a telefonare alla polizia. Non reggo più – sbottò Anita e, preso, il cellulare, si diresse verso l’esterno, dove prendeva meglio.
 E dell’interrogatorio di Massimo se ne lavava le mani meglio di Ponzio Pilato.
 – Non prendermi per fesso. Allora, difficile che abbiate fatto colpo in così poco tempo sulle raffinate parigine. Per cui o erano altre ragazzine in gita…
 Sguardo strafottente. Non erano altre ragazzine in gita. Per fortuna?
 – Allora… Soldi non ti mancano, parli francese… Prostitute?  
 Così giovane e già così poco buon gusto?
 – Guardi che adesso si dice escort.
 – Certo, escort. Idiota, invece, continua a dirsi idiota. Va’ avanti.
 Massimo si strinse nelle spalle.
 – Sono un buon amico, io. L’ho fatto per Livio. Non l’aveva mai fatto, capisce? Ma è un prete, non può capire. L’ho trovata su internet e le ho dato appuntamento al pub.
 – Hai organizzato tutto da casa?
 – Don, guardi che siamo nel 2015, c’ho l’iphone, vado in internet quando voglio.
 Intanto Anita era tornata. 
 – Il commissariato della zona del pub non sa niente. Devo chiamare il consolato per farmi aiutare?
 – Aspetta. Vieni qui, che la storia si fa appassionate. Anzi, fai che requisirgli l’iphone, sono sicuro che ci troviamo cose interessanti.
 – Ehi, non potete…
 – Stai tranquillo che me ne assumo io la colpa con i tuoi, vai avanti.
 – La tipa si chiama Amelie, come quella del film, ma più topa, se sa cosa intendo. Ci ha portato a casa sua con la macchina.
 – Casa che sta?
 – E che ne so? Dall’altra parte del fiume. Per tornare qui ci ho messo tre ore.
 Dall’altra parte del fiume. Questo escludeva giusto metà della città.
 – Vai avanti.
 – Amelie voleva fare con noi due insieme. In realtà abbiamo invitato anche gli altri che erano con noi al pub, ma sti’ ricchioni non se la sono sentita. Comunque, Livio era alla prima volta e si vergognava. Così sono andato io per primo, lui ha aspettato in salotto. Secondo me sentiva tutto, da lì, così gli veniva più voglia. Io ho finito per primo e me ne sono tornato indietro. Cosa lo aspettavo a fare? Tanto stavamo in due hotel diversi.
 – E per tornare come hai fatto? Hai chiamato un taxi?
 – Don, siamo nel 2015, c’ho il navigatore e google maps sull’iphone. Sono tornato a piedi.



venerdì 26 maggio 2017

Effetti collaterali della maternità.


Ultimissimi giorni di maternità. Del resto la pupattola è arrivata in autunno e adesso intorno al paese si taglia già il fieno. Non si può fare un bilancio o un racconto coerente, solo una manciata di flash di vita da mamma.

Branduardi salva la vita
Non so come se la cavino le altre mamme con l'addormentamento. Ho sentito storie da film horror e ho visto neo genitori girare con facce che sembravano uscite da film horror. La pupattola spesso si sveglia in preda alla fame. Il terrore dell'inedia la perseguita ed è l'unica cosa che la spaventi. Quando dormirebbe beata o suonano tutti gli allarmi del vicinato o i cani decidono di cantare serenate alla luna. Insomma, anche per me le canoniche otto ore di sonno sono un po' una reliquia del passato. Sei mi sembrano già un traguardo ragguardevole di cui godere.
Tuttavia, rispetto ad altri bimbi, la pupattola dorme. Serena, nel suo lettino. 21.30, 22 solo in casi eccezionali e già ronfa. Merito mio? Tutt'altro.
Ora, dubito che il maestro Branduardi legga il mio blog, ma, se sì, lo dico a chiare lettere avrà la mia sempiterna gratitudine. Non so se sia corretto elogiare una canzone perché "fa dormire", ma io a La fiera dell'est farei un monumento. Un'enorme statura con tutto, Angelo della morte, toro, macellaio, bastone, fuoco, cane, gatto e topolino. Una Fiera dell'est e un Il signore di Beaux e la pupattola dorme. Grande panico la sera in cui il lettore cd si è guastato e anche internet non andava. Ora abbiamo uno stereo in prestito che sta erodendo pian piano il cd. Credo di averlo acquistato in offerta per pochi euro e dubito di aver mai fatto in vita mia un affare migliore.
Mio marito ha solo un dubbio. Non è che un domani, quando la pupattola guiderà, per caso una di queste canzoni verrà passata per radio causandole un colpo di sonno al volante?

Con la pioggia vai di lirica
Né io né il marito siamo teledipendenti. Però amiamo guardare film e documentari senza interruzioni pubblicitarie e nei tempi precedenti all'avvento di Netflix per questo ci abbonammo a Sky. Sia sempre lode, dopo a Branduardi, al canale 138, Classica, di cui ignoravo persino l'esistenza.
Com'è cambiata la mia vita da mamma? La mia cultura in fatto di musica classica e di lirica in particolare è aumentata in modo esponenziale.
Non so se sia una prerogativa di tutti i pupattoli o sia la mia in particolare, ma non c'è quasi disperazione, giornata uggiosa, attacco di noia o malessere lieve che un'opera lirica non possa curare. Alcune arie la ipnotizzano del tutto, come i serpenti col flauto, per lo più però continua i suoi giochi, ma più tranquilla, fermandosi di tanto in tanto ad ascoltare. Preferisce i compositori dalla metà ottocento in poi e al momento la sua opera preferita è la Carmen di Bizet.
Ho ascoltato in questi mesi, tra le altre: L'elisir d'amore, Le nozze di Figaro, Così fan Tutte, Don Carlos, Aida, Ballo in maschera, Flauto magico, Madama Butterfly, Tosca, Boheme, I maestri cantori di Nodimberga, più tutta una serie di spezzoni e di improbabili cose cantate in russo che sono gravate su di noi come una maledizione (guai a girare o a spegnere...).
Ho visto ogni sorta di improbabile adattamento. Ora, io mi chiedo, sono d'accordo che un cantante va scelto per la voce, ma un minimo, dicasi un minimo, di fisico del ruolo? Aida è una schiava per cui il probabile futuro faraone si rovina la vita, può essere vicina ai cinquanta con nasone che altro che Cleopatra? Un eroe combattente può essere praticamente sferico? Per non parlare di certi adattamenti. Non so il titolo di un'opera credo cecoslovacca che in teoria, secondo la tramina che il canale elargisce all'inizio di ogni atto, doveva essere una storia mitologica e che si è trasformata in una torbida vicenda di pedofilia ambientata in un orfanatrofio (decisamente non adatta ai minori)... E un Giulio Cesare  trasformato in un improbabile dramma lesbo con un Cesare donna... Perché?

Per chi sveglia la pupa dalla nanna la pena di morte
La nanna è una cosa a cui le mamme tengono molto. Per due motivi. Perché è l'unico momento della giornata per fare tutto, compreso aggiornare il blog e perché la nanna interrotta causa cattivo umore e irritabilità (e quindi condanna a ore di lirica). 
Ebbene, ci sono due possibilità.
La nanna avviene in casa. Allora arriva il corriere, il testimone di Geova e l'omino che vende scope porta a porta che non si è visto per dieci anni e ora suona ogni due giorni. Parte l'allarme del vicino, ti suona il telefono perché vogliono offrirti mirabolanti promozioni in cui se ti abboni a internet ti regalano in caffé e sei una brutta persona se dici no. I cani prendono ad abbaiare in coro e i tuoi elettrodomestici iniziano a fare i più improbabili rumori anche se sono spenti.
La nanna avviene fuori casa, sul passeggino. Incontri un passante che ti saluta urlando. Incontri un passante che vuole a tutti i costi salutare la bambina e non importa se sta dormendo. Passi davanti a un molosso che prende ad abbaiare selvaggiamente. Passi davanti a un gallo con problemi di orologio interiore che decide che l'alba è adesso (ah, la vita di campagna). Arriva la moto da cross rombando. Passano gli invitati a un matrimonio suonando in allegria il clacson. Passi davanti a una casa in cui abita uno studente di di tromba o batteria che inizia ad esercitarsi in quel momento.

La pupattola ha una vita sociale più intensa della mia
La conoscono tutti. Lei ha questa capacità di sorridere facendoti sentire la persona più importante e felice dell'universo. La ruffianona lo fa con chiunque abbia un minimo di confidenza, ma ci cascano tutti. In paese la chiamano "la bimba felice" e tutti, ma proprio tutti, si fermano a salutarla, a chiedermi come sta. Mi fermano preoccupati se mi vedono da sola paventando un malanno  (invece di solito in questi casi sono in giro per commissioni). Tutte queste persone sanno come si chiama la pupa. Non so se sappiano come mi chiamo io. Di certo io non ho idea di chi sia la maggior parte di loro.

Da grande farà l'addestratrice di leoni
"Da grande farà.." è un gioco che diverte molto gli adulti, deliziati all'idea di fare previsioni basate sulle supposte doti degli infanti, sapendo che ci vorranno almeno vent'anni per vedere se saranno realizzate. Di solito si scelgono professioni gentili per le bambine, la ballerina, la maestra, la cantante e ben remunerate per i maschietti, l'inventore, l'ingegnere o il calciatore. Queste previsioni non costano nulla e ciascuno cerca di vedere nel pupo ciò che i genitore desiderano per lui, sapendo che sarà poi la vita a smentirli. La pupattola mette d'accordo tutti. Sarà cacciatrice o addestratrice di leoni.  Nessuno l'ha mai vista spaventata, si avventa su qualsiasi bestia dotato di pelo con grida gioiose che fanno scappare qualsiasi animale dotato di buon senso (compresa una povera leonessa al parco zoologico) e ha una spiccata propensione all'esplorazione. Da grande cacciatrice o addestratrice di leoni...

Il reparto trame della mia mente si è ammutinato
L'ultimo effetto collaterale, in ordine di tempo, è piuttosto particolare. Ho sempre pensato che per pensare a un racconto, per non dire un romanzo, sia necessario un minimo di tempo libero da altri pensieri. Un minimo sindacale fatto anche di poche decine di minuti, ma non interrotto da continue preoccupazione pratiche del tipo "sta per mangiarsi il telecomando!" o "sta per strozzare il gatto", quindi incompatibile con questo momento della mia vita. Pace, pensavo, tornerò a scrivere quando potrò. Poi è successo che mi sia arrivato l'invito a un concorso a tema e io non avessi la più pallida voglia di provarci. Il tema non mi intrigava e comunque non avevo tempo. 
Il reparto trame, che credo stia nelle profondità del mio palazzo mentale, con strani e rumorosi macchinari, non è stato d'accordo. A un certo punto è emerso uno degli gnomi inventori tutto sporco di grasso che ci lavora portandomi il racconto a cui io non avevo pensato. Già pronto, parola per parola. Non ho avuto scelta e lo sto finendo in questi giorni. Non avendolo pensato in maniera cosciente ho questa strana sensazione di scriverlo sotto dettatura. Di solito apro il file e devo rileggere quanto scritto, raccogliere le idee, pensare a cosa viene dopo e a come dirlo. In questo strano caso no. Inizio da dove mi ero interrotta e vado avanti, così il lavoro procede anche a due righe per volta.
La cosa davvero davvero inquietante, però, è che questo racconto, che parla dell'uomo e della felicità, arriva a delle conclusioni che non sono del tutto certa di condividere...

martedì 23 maggio 2017

Nella testa di un serial killer



A volte gli esperimenti creativi nascono dalle situazioni più comuni.
Un autore, si sa, deve riuscire a mettersi nella testa di qualsiasi personaggio. Non è obbligato a scrivere 1000 pagine dal punto di vista di qualcuno che odia, ci mancherebbe (e chi ci riuscirebbe?). Tuttavia secondo me nella cassetta degli attrezzi di uno scrittore deve esserci proprio questo, la capacità di vedere il mondo dagli occhi altrui. Anche da quelli più lontani e scomodi.

Partendo dal presupposto che nessuno di voi sia un serial killer oggi vi propongo una sfida: riuscita a mettervi nella testa di un serial killer, almeno per una decina di righe?
Io ci ho provato per caso, cogliendo la sfida del Miniplot di Michele. Devo dire che è stato strano e inquietante. Non mi ci sono divertita, ma ho trovato tecnicamente utile togliere per un istante qualsiasi giudizio morale per un esercizio di immedesimazione. Non è detto che non riutilizzi questo abbozzo di personaggio per un racconto (in cui, sia chiaro, trionferà il bene).

Quindi oggi vi sfido a calarvi per una decina di righe nella testa di un serial killer. Vediamo cosa ne esce e raccontatemi come vi siete sentiti!

Ecco quello che è uscito a me (rielaborato rispetto alla versione originale):

Della bambina di dieci anni prima – mi chiedevo disperato – che cosa era rimasto? Qualche ciocca di capelli scolorita, che ancora mi rigiravo tra le dita. Era impossibile ormai definirne il colore. Il castano ramato che mi aveva incantato era scomparso del tutto. 
Rimaneva una foto ingiallita che ero riuscito a scattare mentre la studiavo all’uscita della scuola. Anche in quella il colore di capelli si era ormai perduto e anche la memoria faticava ormai a focalizzarne la tonalità esatta.
Rimaneva la catenina d’oro, che portavo ancora al polso, nascosta sotto l’orologio. Dieci anni e nessuno se n’era mai accorto…
Avevo giurato che non sarebbe mai più successo. Troppo il rischio per un piacere così effimero. E per dieci anni ero vissuto ricordando la sensazione di quell’uccisione, il sale dei miei giorni.
Ma il ricordo svaniva e ogni giorno, rincasando dal lavoro, mi fermavo sempre più a lungo davanti alla scuola…

domenica 21 maggio 2017

Il bacio della vedova – racconto giallo inedito, parte 1

Non ho mai avuto un calendario editoriale, al massimo una bozza in mente, ma anche quella in questi giorni è andata a ramengo, come si dice da noi, per una serie di eventi assulutamente non eclatanti, quali una riunione del gruppo di lettura saltata, il marito che è stato rapito dal lavoro, vecchie amiche da reincontrare dopo eoni.
Quindi inizio oggi un racconto a puntate che, poi, tornerà a farci compagnia il fine settimana.
Mi sono resa conto che sul blog di quella che è, comunque, prima di tutto una giallista, non è presente un racconto giallo lungo. Pongo rimedio ora, con un giallo anomalo. Quanto anomalo, sta a voi deciderlo, se vorrete accompagnarmi in una Parigi un po' folle da esplorare al fianco del mio improbabile detective, il prete insegnante padre Marco alla ricerca di un alunno scomparso...

IL BACIO DELLA VEDOVA – parte prima

Livio Massenzio era cresciuto sentendosi addosso una maledizione. 
 Il nome stesso lo era per quel suono possente da gladiatore istruito. Stava appiccicato in modo incongruo al suo corpo di diciassettenne tutto ossa, naso e brufoli. Gli sguardi delle ragazze scivolavano veloci via dal viso spigoloso, mentre quelli dei professori si soffermavano giusto il tempo di notificargli le insufficienze con un sarcasmo velenoso. Solo i suoi genitori sembravano pienamente consapevoli della sua esistenza e non perdevano occasione per renderla più sgradevole.
 Per la prima volta, però, era lontano da loro. La prima gita di più giorni, a Parigi, dove tutto poteva succedere. Il vento della fortuna era girato quando era stata assegnata a lui e ai suoi quattro compagni una camera al piano terreno. Solo una finestra tra loro e il mondo.
 Pioveva e il lampione gettava al marciapiede una luce asfittica. Ma cosa importa, quando si ha diciassette anni, si è liberi e a Parigi? 
*
 – Strane letture, per un prete.
 Padre Marco alzò lo sguardo dal romanzo, contrariato. 
 La professoressa Anita Sacchi, però, con il suo tono dimesso, stava solo cercando di fare conversazione. Padre Marco si costrinse ad un sorriso. 
 La sua vita di parroco insegnante lo aveva abituato a vizi che faticava ad abbandonare, sia pure per i pochi giorni della gita. Colazioni silenziose dove il sapore del caffè si mescolava al gusto dell’inchiostro in un nero interludio di letteratura. Ma era stato scortese, ovviamente, a portarsi il libro anche al bar dell’albergo per cercare di dimenticare l’annacquato caffè d’oltralpe. Anita, la collega di francese, era stata l’organizzatrice della gita e non era un mistero per nessuno il fatto che avesse atteso con ansia quei giorni per poter tornare, sia pure solo per cinque giorni, a Parigi, magari accompagnata da un qualche collega che si accorgesse che era ancora una bella donna. Peccato che gli unici docenti disponibili si fossero rivelati il prete e il professor Raimondo Ferri, sessantacinquenne e sposatissimo. Si meritava almeno un po’ di gentilezza. Quanto al libro, poi, su quello Anita aveva ragione. Il romanzo di André Héléna non solo portava in copertina il disegno di una donna dalla generosa scollatura, ma come titolo faceva Il bacio della vedova.
 – Non si parla di una donna – disse. - È un noir francese: la “vedova” è la ghigliottina.
 – Ma quando è ambientato? – si sporse Ferri, liberando i baffi dagli ultimi residui di croissant.
 – Fine anni ’40, credo – risponde il prete.
 – E usavano ancora la ghigliottina? E poi diciamo che la Francia è il paese dei lumi… 
 – Ogni cosa ha i suoi lati oscuri – Anita si sentiva in dovere di difendere il paese di cui insegnava la lingua. 
 – Qual è il programma, oggi? – cambiò argomento padre Marco.
 – Tour Eiffel al mattino e Louvre al pomeriggio. Facciamo prima una bella passeggiata, così entriamo quando c’è meno gente e possiamo girare meglio.
 – Ma diluvia! Dobbiamo proprio farla la passeggiata? 
 Con i baffoni e il fisico imponente, Ferri aveva un’aria da tricheco pigro.
 – Secondo Woody Allen, Parigi è bellissima sotto la pioggia – disse Marco.
 – Ma io non sono Woody Allen e ho i reumatismi – sbuffò Ferri, alzandosi. – Vado a vedere se ci siamo tutti.
 I cinquantasette ragazzi del quarto anno del liceo scientifico formavano una temibile e variopinta armata d’invasione, perfettamente in grado, se lasciata libera, di mettere a ferro e fuoco una città come Parigi. I tre accompagnatori, più che i generali dell’esercito, si sentivano come stanchi cani da pastore sempre intenti a mordere i calcagni del loro recalcitrante gregge per smuoverlo, indirizzarlo e limitare i danni. Prima di entrare nella sala che l’albergo aveva interamente riservato a loro, Ferri prese un bel respiro, come per una lunga apnea.

 Ne riemerse circa un quarto d’ora dopo, lo sguardo vacuo e i baffoni incerti.
 – Abbiamo un problema – disse, avvicinandosi ai colleghi.
 Marco se l’era aspettato. Era già il terzo giorno di gita e tutto era stato, fino ad allora, perfetto. Neppure con dei seminaristi si poteva sperare in quattro giorni senza imprevisti. Con quel branco di ormoni di provincia allo sbaraglio sarebbe stato più di un miracolo.
 – Cos’è successo?
 – Massenzio è sparito.
 Marco insegnava religione a diciotto classi e gli ci volle qualche secondo per visualizzare lo scomparso. Livio Massenzio, quarta C, naso imponente e storto, disinteressato a tutto, meno che al suo iphone e alle foto di ragazze nude che regolarmente vi venivano trovate. Genitori istruiti e rigidi che ad ogni colloquio venivano queruli a chiedere dove stessero sbagliando.
 – Come sarebbe a dire “sparito”?


mercoledì 17 maggio 2017

Ognuno ha il proprio Ulisse (chiacchierando con i ragazzi di Arona su La spada, il cuore e lo zaffiro)


Non sono una fan delle presentazioni tradizionali dei libri, lo ammetto. Mi è difficile parlare a una platea che, il più delle volte, perché così vuole l'etichetta, interloquisce solo nei momenti finali dell'incontro. Mi piace farlo qualche volta, ma sono sempre in imbarazzo.
Quando incontro i ragazzi, sopratutto se posso avere una classe o due alla volta, invece, ne risulta sempre un dialogo e ho sempre l'impressione di uscirne più arricchita io di loro (loro spero sempre di non averli annoiati a morte).
Questa volta è toccato a una classe seconda del Turistico di Arona. Ragazzi coraggiosi, che hanno letto la mi antologia.
Dovevo fare un'incontro di un'oretta, siamo andati avanti due ore a parlare di mitologia.
Tutto è partito dal fatto che loro, senza saperlo, sono dei grandi fruitori di mitologia classica. Quasi tutti avevano visto come ultimo film una pellicola di super eroi, I guardiani della galassia e Logan andavano per la maggiore. Il nuovo Alien era il prossimo della lista.
Per un'oretta buona abbiamo chiacchierato di eroi e super eroi, perché tra gli eroi omerici e i super eroi Marvel non c'è alcuna differenza. L'essenza è sempre quella, esseri che sono più di uomini e meno di dei, condannati dal fato. Ammirati per capacità che non hanno scelto e che spesso creano loro più dolore che gioia.

La prima riflessione uscita è che queste storie ce le raccontiamo da millenni, sempre più o meno uguali e ci affascinano sempre. Non importa da dove veniamo, qual è il colore della nostra pelle, la nostra cultura di riferimento, nell'essere affascinati dalle storie siamo sempre uguali.

La seconda riflessione è che le storie che amiamo, ci pongono sempre dei quesiti etici e ognuno, mentre fruisce la storia, si mette alla prova, dando una propria risposta. Non ha importanza quanto vecchia sia la storia o quanto fantastica, una storia mitologica ci mette sempre alla prova. Oggi.
Già che bazzicavamo di eroi abbiamo fatto una digressione omerica e ci siamo messi per un attimo nei panni di Ettore. È un uomo che deve sfidare un eroe. Achille ha sangue divino è ovvio che vincerà e lo ucciderà. Andromaca glielo dice. Perderai, morirai, io verrò fatta schiava, tuo figlio verrà ucciso, lo sai che ho ragione. Ma Ettore si vergogna della figura che farebbe di fronte ai concittadini fuggendo dal combattimento e va lo stesso.
Nel dilemma di Ettore ci siamo riconosciuti tutti, trasposto nelle situazioni più diverse. Quella che mi è piaciuta di più è l'interrogazione programmata per cui so che non ho studiato. Andrà malissimo e i genitori si arrabbieranno, ma non andando deluderei i compagni e qualcun altro verrà interrogato al posto mio. Che faccio?
Ognuno ha dato la propria risposta sulla scelta di Ettore, ognuno, immagino, trovando una risonanza, millenni dopo, con la propria vita.

La terza riflessione è che il mito, non importa quanto sia fantastico, parla sempre del nostro presente. I nostri super eroi oggi sono gli sportivi, che fanno cose impensabili per noi, vengono osannati dalla folla, se vincono, ma a che prezzo? E se non vincono quando tutti se lo aspettano? Dalla Marvel da cui eravamo partiti ci siamo trovati a parlare di doping e di Roberto Baggio. Il peso della pressione per un rigore non deve essere diverso da quello sentito da Ettore prima di andare a combattere Achille.

Tutto questo perché c'è un racconto nella mia antologia, Ulisse e la tartaruga, in cui c'è Ulisse.
Ulisse, come tutti i personaggi mitologici, è patrimonio dell'umanità e ognuno può trovare il suo. Nella carrellata di rivisitazioni di Ulisse, da Dante, a Foscolo fino a Guccini e a Star Trek abbiamo ragionato insieme sul perché questi autori abbiamo sentito la necessità di reinventare un loro Ulisse. Perché ognuno ha il suo, ma anche perché ognuno si è sentito Ulisse.
Dante lo condanna e lo ammira, lo caccia all'inferno, ne condanna "il folle volo", ma sotto sotto, tra le righe, sentiamo che Dante vorrebbe essere Ulisse e come lui andare là "nel mondo sanza gente" (dove nessun uomo è mai stato prima, come dice la sigla di Star Trek).
Foscolo si sente affine a lui per la terra d'origine da cui è separato, la sua Zacinto è come l'Itaca di Ulisse. Abbiamo malignato sul fatto che sia Foscolo che Ulisse un po', a volte, i loro guai se li sono andati a cercare ed è per questo che, anche che Foscolo si sente come Ulisse (un ligio primo della classe dubito che sceglierebbe Ulisse come alter ego). Ma Ulisse torna nella sua Itaca, mentre Foscolo non lo sarà, la vita reale è sempre più dura del mito.
Infine, dopo aver discusso sul fatto che senza Odissea non avremmo fantascienza (del resto 2001, Odissea nello spazio non è un titolo dato a caso) e aver toccato Joyce di striscio, abbiamo ascoltato Guccini:
Solo un uomo ormai anziano (e che nella vita deve aver fatto le sue idiozie) può scrivere una canzone di questo tipo ed essere in tutto e per tutto lo stanco Ulisse che va perdendo la memoria di cui racconta.

Mi ha colpito il fatto che alla fine la letteratura "pesante" non lo sia poi così tanto. Ridendo e scherzando questi poveretti si sono beccati in un colpo Iliade, Odissea, Divina Commedia e Foscolo, cioè cose considerate la crème de la crème della noiosità e ci hanno riconosciuto i film che loro guardano, i loro eroi sportivi e loro stessi (ognuno ha le proprie Colonne d'Ercole, da superare a rischio e pericolo, ci siamo detti).
Il commento finale?
"Ci sta".

In tutto questo non vi ho detto una parola sul mio Ulisse. Essendo il mio, ha a che fare con le mie paure, che sono assai poco mitologiche e molto reali, ma mi serviva Ulisse per metterle in scena. La mia storia, quella di Ulisse e la tartaruga, ha una forma leggera, quasi comica, ma il finale non lo è. Perché così, spesso, è la vita.
Se volete scoprire il mio Ulisse, lo dovete cercare qui

domenica 14 maggio 2017

I libri che amo

Oggi ho deciso di raccontare i libri che amo, non per il loro contenuto, ma in quanto oggetti.
Non entro qua nella disputa, che sta diventato eterna, tra digitale e cartaceo. Posso amare il contenuto di un e-book, ma posso amare un e-book? Leggo volentieri in digitale, ma non ho mai di aver tra le mani un libro mio, ma qualcosa che maneggio solo in via temporanea, un po' come i libri presi a prestito alla biblioteca.

Ma com'è il mio libro ideale?

Meglio tascabile che rilegato
Avete in mente i vestiti delle grandi occasioni che vi facevano mettere da bambini, alle cerimonie o alle feste? Quelli con cui non potevate correre, inginocchiarvi e giocare, con cui magari era bello pavoneggiarsi un poco allo specchio e posare per le foto, ma che poi, con le continue raccomandazioni dei genitori a non rovinarli, diventavano un peso? Ecco le belle edizioni rilegate per me sono così. Sono belle da vedere, meravigliose da tenere in biblioteca, ma scomode da leggere. Idealmente comprerei libri rilegati solo di opere che ho già letto, edizioni sontuose, con tavole a colori, da consultare e sfogliare ogni tanto. Per leggere, leggere davvero, tascabile tutta la vita. Comodo, trasportabile ed economico. Se gli succede qualcosa mi posso sempre consolare col pensiero che lo posso ricomprare senza andare in bancarotta. Io leggo mentre mangio, molto spesso, e a volte mentre cucino. Ho pagine molto amate macchiate di sugo o di olio, proprio come le comode tute, compagne di gioco nella mia infanzia.

Meglio carta non troppo bianca
Non mi piace la carta patinata, né quella troppo sbiancata che, all'aperto riflette troppo la luce. Ho la sensazione che mi affatichi la vista, ma probabilmente è solo una questione estetica. Preferisco una tinta tra il giallino e l'avorio. La mia preferita era quella delle vecchie edizioni tascabili BUR, ma trovo anche che i tascabili Einaiudi o Adelphi non siano male, quanto a tonalità della carta.

Meglio usato che nuovo
Adoro i libri usati, mi piace aprirli e scoprire magari gli ex libris dei vecchi proprietari. Recentemente, ne ho trovato uno bellissimo, con una pantera nera, sulla prima pagina dell'edizione usata de Il tormento e l'estasi di cui ho parlato qualche post fa. Qualche volta ho trovato dei fiori secchi, trifogli o quadrifogli. Le sottolineature e le annotazioni (se a matita) dei vecchi proprietari non mi disturbano, ma anzi, mi aprono una piccola finestra su di loro. Amo i libri più vecchi di me, mi danno una sensazione di solidità, c'erano prima e ci saranno dopo la mia dipartita. Alla pupattola lascerò montagne di libri carichi di vita vissuta.
Allo stesso modo amo i libri che sono invecchiati con me. Per vari motivi ho cambiato relativamente spesso casa, credo di averne abitate otto. Escludiamo la prima, da cui mi sono trasferita da piccola, rimangono sette abitazioni e alcuni volumi sono venuti con me in tutti e sette. Sono libri che ho amato da ragazzina e magari non riprendo in mano da moltissimo, ma per il solo fatto di essere parte della mia storia sono tra gli oggetti che amo di più.
Infine, ho ereditato da mio nonno montagne di libri ormai definibili antichi, qualche volume risale al '700, uno al '600, ma per la maggior parte sono ottocenteschi. Anche se rimangono per lo più a casa dei miei è inteso che, per l'amore per la carta stampata che ho ereditato dal nonno materno, essi mi appartengano. Tra di loro ho i miei preferiti, che non sono i più pregiati o quelli in migliori condizioni, ma, al contrario, i più usati e vissuti. C'è ad esempio un'edizione dei Promessi Sposi (quella, per intenderci, con le illustrazioni "classiche") che deve essere stata usata a scuola da svariati studenti e a lato delle pagine di sono appunti e scarabocchi. Alcuni, probabilmente, fatti da qualche fratellino più piccolo dello studente. Per quegli scarabocchi, io lo amo di più.

In copertina meglio un disegno che una fotografia
Non saprei dire perché, ma preferisco i libri che in copertina hanno un disegno piuttosto che una foto. Mi sembra un trattamento più personale. Un disegnatore deve averlo letto e dalla proprie sensazioni ha tratto un'opera unica, adatta solo a quel libro. La fotografia, anche se so per esperienza personale che può non essere così, mi dà l'impressione del freddo lavoro di un grafico, che magari non ha idea di quale sia il contenuto dell'opera per cui sta lavorando.

Ecco dunque l'identikit del mio libro ideale. Qual è il vostro?

venerdì 12 maggio 2017

mercoledì 10 maggio 2017

Le cose che non so

I miei giorni di maternità scivolano inesorabili verso la fine, ma in questi ultimi scampoli, in un maggio pazzerello che sembra marzo, la vita di paese mi riserva svolte inaspettate.
L'altro giorno non sono riuscita a rispondere a una telefonata e, nell'imbarazzo di spiegarne il motivo, mi sono trincerata dietro un neutro "momento concitato" che poteva voler dire tutto o niente. In realtà stavo inseguendo, insieme a mia suocera, una gallina in fuga per le vie del paese. La poveretta aveva visto la propria dimora invasa dal cocker di casa, la creatura più innocua del mondo, ma che tale non deve essere parsa alla gallina. Essendo un esemplare nano dotato di folto piumaggio è riuscita, sia pure con la grazia propria dei polli a spiccare un volo sufficiente per uscire non solo dalla propria dimora, ma anche dalla recinzione del giardino. Non c'è stata altra soluzione che rincorrerla, prima che finisse sotto un'auto o nelle fauci di un altro, ben più feroce, cane. Il fatto è che, nel momento culminante dell'inseguimento, mi sono resa conto di non sapere, o non saper più (perché nella mia infanzia le galline c'erano) come afferrare la fuggitiva senza farle male e senza farmi beccare. Quindi mi sono limitata a trattenerla, mettendola all'angolo fino a che mia suocera, con gesti esperti, non l'ha recuperata.
In questi giorni il risveglio della campagna mi mostra di continuo tutta la mia ignoranza. Ieri lo zio spiegava quale fosse la tecnica più adatta per pulire gli zoccoli agli asini. Io e la pupattola siamo state estasiate di poter approfittare dell'occasione per un incontro ravvicinato, ma mi sono resa conto che io, al posto dello zio, sarei riuscita solo a farmi calciare via. 
Intanto si raccolgono i fiori acacia per farne frittelle e ogni sorta di erba selvatica commestibile. Io ricordo vagamente un tempo in cui andavo con la nonna a raccogliere il tarassaco nei prati, ma non credo di ricordarne i tempi di cottura o la ricetta. Di certo non avevo mai sospettato che dai fiori di acacia si potessero fare frittelle.

Ho sempre sorriso delle paure di mio padre, convinto che prima o dopo la nostra società collasserà di colpo. Per prepararsi ha calcolato quanta terra serve per sostenere mucche a sufficienza per il fabbisogno della famiglia (suppongo che abbia un accordo con qualche stalla per l'acquisto delle mucche in caso di inizio di guerra atomica, pandemia o apocalisse zombie) e ha in solaio legna per scaldare la casa per cinque anni. Ieri ho pensato che se quello che lui chiama "medioevo prossimo venturo" giungesse davvero io non saprei che farmene delle sue precauzioni perché non so mungere una mucca, figuriamoci macellarla, non so conservare la carne, fare il formaggio e probabilmente non riuscirei neppure a coltivare le patate nel campo appositamente predisposto.
Ero molto fiera di me per essere riuscita a far funzionare il sito della Carta Docente e compiere i miei acquisti con il buono, vincendo la lotta con la burocrazia che, informatizzandosi, ha trovato nuove vette di complicazioni. Però tra un anno o due il sito sarà cambiato, l'informatica sarà progredita e il mio risultato odierno sarà obsoleto come il Turbo Pascal che mi insegnarono (poco) alle superiori. Invece una mucca, suppongo, si potrà mungere sempre allo stesso modo.
Con i miei  nuovi pensieri da mamma, a cui non mi sono ancora abituata, ho pensato che tutto sommato non mi spiacerebbe se la pupattola imparasse qualcosa di più stabile della nuova cultura liquida di un mondo post moderno in continua evoluzione. Questo mondo, fatto di prati, di asini, mucche ed erbe commestibili, rimarrà vero oltre la fine di ogni realtà virtuale. Non mi spiacerebbe se mia figlia sapesse muoverci meglio di me (che vi sono comunque più a mio agio di molti miei coetanei).

Poi però mi sono consolata e sentita un po' meno inetta.
Non importa quanto cambi o imploda la tecnologia e quante cose cose io non sappia. Da prima che l'uomo iniziasse a mungere le mucche già raccontava storie. Credo ne avrà sempre bisogno.
Se mio padre dovesse aver ragione, mi riciclerò come raccontastorie itinerante, barattando trame in cambio di cibo.

venerdì 5 maggio 2017

La parete di fronte – racconto inedito completo

Era inevitabile che le mie scorribande nelle storie della storie dell'arte avessero uno sbocco narrativo. Con un certo imbarazzo per il divario tra realizzazione e soggetto, ecco cosa ne è uscito.


LA PARETE DI FRONTE

Firenze – 1503

Si erano incontrati quel giorno nella piazza. 
Leonardo osservava il volo di un piccione, stentato all’apparenza, eppure efficace nel far giungere l’animale a un rimasuglio di cibo a terra. Intanto ascoltava a mezzo i discorsi degli amici. Si accorse all’ultimo dell’avvicinarsi dell’uomo sgraziato, dal naso storto e le sopracciglia cispose che era difficile immaginare come creatore di bellezza. L’inevitabile alterco fu breve, ma senza dubbio registrato dai fin troppo avidi cronachisti, sempre in cerca di particolari con cui arricchire le loro storie.  Due accenni derisori al suo dipinto e poi l’altro si allontanò in fretta, lasciandosi dietro l’eco di un litigio in cui Leonardo si era trovato dentro quasi senza accorgersene. Il piccione  ormai se ne era andato, portando altrove i suoi modi accattoni e le sue ali perfette e gli amici gli chiedevano conto di quanto accaduto. Quell’uomo, rozzo e muscolare come le proprie opere, spiegò Leonardo, era Michelangelo, l’artista che doveva affrescare la parete di fronte a quella che stava dipingendo lui.

Copia di Rubens della parte centrale della
Battaglia di Anghiari di Leonardo
Fonte: Wikipedia

Nella notte, tuttavia, esiste un’ora in cui ciascuno è solo con se stesso. In quei pensieri, non del tutto disgiunti dai sogni, vi è una sincerità che il giorno ignora.
In sogno Leonardo cercava il volo che non aveva visto, il momento in cui il piccione si alzava da terra, proprio quando Michelangelo aveva fatto irruzione. Cercava di figurarselo, il movimento della zampa che si staccava in concomitanza con il dispiegarsi dell’ala, ma gli sfuggiva, così come scivolavano, inesorabili, i pigmenti del dipinto del palazzo, che non riusciva a fissare. Anche in quello stato di quasi sonno, una parte della sua mente riesaminava il problema. Far trattenere alla parete i colori col calore, nella stanza troppo grande, la pittura che scivolava, piangeva, come se il muro esprimesse un dolore fisico per quella battaglia che non voleva impressa. La sua mente inseguiva l’arte e la natura, ma il tutto gli sfuggiva, come i contorni di un paesaggio troppo lontano, sfumati nella nebbia. C’era sempre un non conosciuto, un particolare che restava in ombra o fuori fuoco, il levarsi del piccione, il segreto dell’encausto. E non si può volare senza sapere come staccarsi da terra. 
Pensò a quell’uomo brutto, dalle vesti trasandate e lo sguardo acceso. Due sole cose conosceva, ma le conosceva intere, il corpo dell’uomo e il marmo. Pensò alla grande statua che stava rifinendo. Dal blocco che nessuno aveva voluto era sorto un’eroe antico, come se fosse sempre stato lì, nascosto appena dentro il marmo, in attesa. Pensò all’impalpabile panneggio, che non aveva visto, ma che riusciva a immaginare, della pietà di Roma, pietra fatta seta, della lucentezza delle perle. Pensò al cartone che andava producendo per il dipinto che sarebbe stato di fronte al suo. Solo uomini nudi nel furore della battaglia, corpi avvinghiati, privi di un retroterra mitico o esoterici segreti, solo una perfezione di muscoli, torsi e arti. 
Non cercare di comprendere tutto il mondo, ma due cose soltanto. Non vedersi sfuggire la propria arte dalle mani, rigettata dal muro stesso su cui la si stava creando. Plasmare la materia senza incertezze e senza ripensamenti, con la sicurezza di fare ciò che si era nati per fare, covando persino l’illusione che ci fosse, da qualche parte, un Dio che proprio questo aveva predisposto.
Se nella notte qualcuno gli avesse chiesto quale altra vita avrebbe voluto vivere, Leonardo avrebbe risposto quella di Michelangelo.

Copia del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo
Fonte: Wikipedia


Quello che proprio Michelangelo non riusciva a spiegarsi era come un uomo che aveva portato a termine poche opere e più che altro aveva lasciato abbozzi e aborti fosse già asceso all’olimpo dell’arte. Che si ammirassero quadri dipinti senza una goccia di sudore nel tempo in cui lui terminava in solitudine statue colossali. Che persino accorressero spettatori estasiati per un dipinto che non voleva fissarsi al muro, un monumento non all’arte, ma alla propria superbia e ai propri errori. Quei cavalli che appassivano prima ancora di essere terminati rischiavano di lasciare un ricordo perenne, regalando al proprio autore un’immortalità immeritata. Nel giudizio dello scultore c’era, in fondo, il rammarico per un talento sprecato da una mente ondivaga, che prendeva a noia i suoi stessi capolavori per lasciarsi estasiare, come quella di un bimbo, dal volo di un falcone o dallo scorrere delle acque. 
Eppure i cavalli della battaglia di Anghiari facevano rimbombare con i loro zoccoli frementi i sogni di roccia di Michelangelo. Cavalli che percorrevano territori sconosciuti a chi non aveva dimestichezza se non con la polvere e il pigmento, talmente incerto del mondo da non avere amici sicuri che non fossero pietre o strumenti di metallo. Lo sguardo che l’artista più anziano gli aveva rivolto nella piazza aveva un sottofondo di tedio, ma era privo d’astio e di paura. Era il modo con cui Leonardo guardava il mondo, con la noia come unica nemica, senza il peso sulle spalle di uno sguardo giudicante, neppure quello di Dio. Aveva dei bambini l’innocenza malevola che non riconosce il bene dal male, né comprende il significato del proibito e trovava lo stesso piacere nel progettare un dipinto o una macchina da guerra. Michelangelo non riusciva a immaginare come fosse guardare il mondo comprendendo l’istinto del gatto in caccia, il volo dell’airone, l’andamento di una guerra o il sorriso malizioso di un fanciullo. Conosceva solo la roccia che non tradisce, lo strumento che la mano può controllare, i muscoli che aveva contato uno ad uno addosso ai morti. La ricerca del corpo perfetto era un’ossessione che non tollerava distrazioni, il marmo un amante che non perdonava tradimenti. C’erano sorrisi, nei dipinti di Leonardo, che le sue statue non avrebbero avuto mai. Mondi celati dietro ad occhi che guardavano paesaggi che alla sua mano non sarebbe stato concesso di riprodurre. Tutto nella pittura di Leonardo gli parlava di ciò che non conosceva, dei desideri che non osava formulare. Levarsi, anche solo col pensiero, concedendosi il piacere di un sogno sterile, sopra il marmo, la polvere e la fatica e immaginarsi volare con ali d’uccello. Chissà se da lassù avrebbe visto anche lui quei paesaggi sfumati, se persino i suoi dubbi, sul mondo e su Dio, si sarebbero ricoperti di nebbia, fino a fargli apparire in viso quello stesso sorriso accennato, di chi tutto comprende e nulla rivela?
Nella notte, i sogni di roccia di Michelangelo erano percorsi dagli scalpitanti zoccoli dei cavalli della battaglia di Anghiari, di cui non riusciva a catturare l’essenza.

Ma giorno riporta la luce e acuisce le ombre, rifluiscono i pensieri della notte col loro carico di dubbi e verità. 
Uno tornava ai suoi cavalli che non volevano acquisire colore, l’altro ai suoi studi di battaglia primordiale, corpi nudi contro corpi nudi, ciascuno con parole di disprezzo per l’artista della parete di fronte.