giovedì 27 febbraio 2014

Visioni - The following



Io: – Credo di essere ingrassata
Alunni: – Non vogliamo fare la verifica di storia...
Come risolvere questi problemi? Una fatina volenterosa deve essermi passata vicino e zac... Influenza intestinale per me e Nik (grande festa per gli alunni, immagino).

Eccomi dunque qui, quasi cosciente, dopo due giorni di digiuno forzato e essere riuscita a buttar giù quel tanto di riso in bianco da avere l'energia per postare. Nel periodo di coma a farmi compagnia c'è stata la prima stagione di The Following.

A parte l'influenza, ci sono buone ragioni per guardare questa serie?
Una sola, Kevin Bacon.
Kevin Bacon è perfetto, col suo fare da angelo caduto, per dare vita a Ryan Hardy, un agente FBI maledetto (o che si crede tale) convinto di causare la morte di tutti coloro che gli stanno intorno. Non che abbia tutti i torti, dato che Joe Carroll, un serial killer che Ryan ha catturato, è ossessionato da lui al punto tale da mettere su una vera e propria setta al solo scopo di distruggerne definitivamente la vita (e, di conseguenza, anche a tutta una serie di altre persone, tra cui la ex moglie, di cui Ryan è innamorato).
Come si diceva, Kevin Bacon è perfetto per dare credibilità a un personaggio al limite. Purtroppo le buone notizie si fermano qua.
La credibilità è, in effetti, il vero punto dolente della storia.
Con un po' di sforzo si può credere al serial killer dalla personalità magnetica che dal carcere riesce a mettere su una setta di invasati capaci di infiltrarsi più o meno ovunque che ha come unico scopo aiutare il loro capo a scrivere una sorta di "romanzo perfetto" con Ryan nell'involontario ruolo dell'eroe. Quello a cui non si può credere è un FBI che brancola nel buio, si fa mettere nel sacco da ragazzini psicotici, non riesce a localizzare cellulari, né a identificare i sospetti e quando ben li ha identificati, permette che vadano e tornino da casa loro senza problemi. Per non parlare del fatto che un serial killer evade di prigione due volte nel giro di pochi giorni con una semplicità disarmante.
Ryan Hardy è sempre il primo (spesso l'unico) ad arrivare nei luoghi chiave è palese che sia l'unico ad avere delle idee (non sempre buone, ma pur sempre idee) eppure tutti o quasi vogliono estrometterlo dalle indagini per le più svariate ragioni, salvo poi coprirlo quando davvero si mette a torturare i prigionieri.
Ecco The Following è una serie che può essere godibile, a patto di dimenticare la parola credibilità. Le puntate hanno un ritmo serrato e la follia di Carroll e dei suoi seguace è palpabile, tutti possono essere uccisi e nessuno è davvero al sicuro.
Se siete bloccati in casa con la febbre e le capacità mentali ridotte al minimo è l'ideale.
In altre circostanze non saprei. 

PS: nel mentre su Skye sta andando in onda la seconda stagione, ne ho visto qualche puntata e mi sempre persino più improbabile della prima...

lunedì 24 febbraio 2014

Scrittevolezze - La maledizione dell'eroe porta sfiga


Sto recuperando, a pezzi e bocconi, la prima stagione della serie tv The Following.
Ad attirarmi è stato lo scoprire che si tratta di una serie thriller a vocazione metaletteraria. Vi è, infatti, uno scrittore serial killer che, con l'aiuto dei suoi seguaci (i following del titolo), allestisce una sorta di trama allo scopo di torturare psicologicamente la sua nemesi, l'agente (ormai ex) dell'FBI che l'ha catturato, Ryan Hardy.
Non è ancora il momento di recensire la serie. Dopo pochi episodi mi è però chiara una cosa, il protagonista, Ryan Hardy, appartiene di diritto alla schiera degli eroi porta sfiga.

Costruire un eroe porta sfiga è facile. Basta mettere quella che è tutto sommato una brava persona e iniziare a fargli capitare intorno tutta una serie di disgrazie e vedere come reagisce. Il buon Ryan, scopriamo nei primi episodi, è orfano, ha un fratello morto nell'attentato dell'11 settembre e tutte le persone a cui si affeziona tendono a fare una brutta fine.

Quanto è vecchio l'archetipo dell'eroe porta sfiga?
È antico.
Il primo che mi viene in mente è Edipo.
Edipo è un bravo ragazzo, intelligente e sensibile. Quando un oracolo gli rivela che il suo destino è ammazzare suo padre e sposare sua madre, decide di andarsene di casa, per non correre il rischio di compiere una simile empietà, ignorando di essere stato adottato. Poco dopo, in una banale rissa, si trova per caso a uccidere un uomo che, ovviamente, è suo padre, ma Edipo non lo sa. Il ragazzo prosegue il suo viaggio e incontra la Sfinge che sta tormentando la città di Tebe. Edipo è sveglio e ben intenzionato e sconfigge con l'arguzia la Sfinge. I Tebani gli offrono la corona e la mano della regina vedova, che ovviamente è sua madre, ma Edipo non lo sa.
L'uomo a questo punto fa di tutto per governare bene Tebe, ma in città scoppia la peste. La causa? L'empietà (involontaria) di Edipo. Quando la verità viene a galla la moglie/madre di Edipo, sconvolta si uccide. Edipo si acceca, ma questo non basta ad evitare che i suoi due figli maschi si ammazzino a vicenda e che una delle figlie femmine, Antigone, finisca così male da meritarsi una tragedia tutta sua. Tutto questo avviene nonostante il fatto che Edipo sia un personaggio ben intenzionato, la disgrazia, tuttavia lo avvolge come un mantello. Inoltre, come ogni eroe porta sfiga che si rispetti, Edipo sopravvive, sempre più segnato nel corpo e nella mente, fino a che la rovina non raggiunge il suo culmine.

C'è un'altra caratteristica, tuttavia, che accomuna Edipo a Ryan Hardy di The Following. Si tratta in entrambi i casi di eroi porta sfiga usati con consapevolezza. L'Edipo di Sofocle è una tragedia tutta giocata sul confitto volontà/destino. Edipo cerca l'empio che ha portato la rovina sulla sua città, fino a capire che il colpevole è lui stesso, nonostante abbia fatto tutto per cercare di sfuggire al suo fato e comportarsi nel migliore dei modi. Ryan Hardy, senza volerlo paragonare a un eroe greco (che Apollo e Dioniso protettori del teatro mi perdonino), fin dall'inizio dice "chi mi è vicino muore" e si sente vittima di una maledizione.

Il problema nasce quando "la maledizione dell'eroe porta sfiga" viene usata come espediente narrativo a buon mercato, generando effetti paradossali fino alla comicità involontaria.
Tutti abbiamo riso della Signora in Giallo, che ovunque andasse inciampava in un omicidio. Negli anni '90 seguivo il telefilm E.R., ambientato in un pronto soccorso dove accadeva ogni sorta di disgrazia e quasi tutti i medici che ci lavoravano finivano, prima o poi, per fare una pessima fine, tanto da far pensare che quell'ospedale fosse il luogo più maledetto d'America. Mi viene in mente anche l'uomo ragno, che già è orfano, lo zio viene ammazzato dal criminale che lui ha lasciato andare, zia e donna dei suoi sogni vengono più volte rapite senza un motivo particolare, il migliore amico si trasforma in un super criminale e via così. 
Insomma, volendo si può mandare avanti una trama a suon di disgrazie, ma bisogna farlo in modo consapevole, in caso contrario si rischia di scadere nell'inverosimile.

A voi vengono in mente altri "eroi porta sfiga"? Ne avete mai usati?

sabato 22 febbraio 2014

Scrittevolezze - Personaggi dal destino segnato


Con il primo fiore spuntato nel mio giardino possiamo tornare a parlare di Scrittevolezze.

Si sente o si legge, a volte, nelle interviste agli autori, che questo o quel personaggio ha preso una strada che l'autore stesso non si aspettava ed è corso, magari, verso un finale che non era quello che era stato progettato per lui.
Così come lo si sente raccontare è tutto molto romantico, con personaggi dotati quasi di vita propria che fuggono al volere del loro autore per cercasi un destino autonomo.
La verità, temo, è molto meno fiabesca, ma non meno affascinate.
Autori e personaggi sono ugualmente prigionieri dei vincoli narratologici.

Avevamo già discusso qui della frase di Saramago sulla "duplice forza della necessità e della fatalità" che si stringe sul personaggio.
La prima regola a cui autore e personaggi devono sottostare è quella della COERENZA INTERNA
Se ho costruito bene un personaggio, questi ha un suo passato, un suo mondo interiore, un suo modo di vedere la realtà e quindi un suo modo di prendere le proprie decisioni. Posto in determinate circostanze non può imboccare una a caso tra tutte le strade possibili, ma avrà solo un numero limitato di scelte che può compiere in modo coerente. Ho già fatto l'esempio, credo, di Lucia che non avrebbe potuto, per com'era stata costruita, sedurre l'Innominato e neppure tentare di scappare. La buona Lucia non è proprio il tipo di ragazza a cui viene in mente che potrebbe salvarsi da sola..

I vincoli della coerenza interna, però, non sono gli unici che gravano su una storia.
Ci sono anche questioni di tono e di ritmo.
Se scrivo un romanzo per ragazzi, con un pubblico di riferimento di bambini sui 10 anni con come protagonista un orfanello insicuro che pian piano prende coscienza delle proprie possibilità e si affaccia alla vita con maggiore consapevolezza posso alla fine farlo morire tra atroci sofferenze per una mera casualità o perché ha fatto un errore banale? Ovviamente posso, ma probabilmente finirò per traumatizzare il mio pubblico di bambini (e farmi odiare dall'editore).
Sul vecchio blog avevo già fatto questo esempio.
Nella saga di Harry Potter, alla fine del penultimo volume, il professor Piton, personaggio ambiguo, uccide il preside Silente sotto gli occhi di Harry. A ben vedere ci sono indizi sia per credere che Piton sia un traditore bastardo, sia per pensare che abbia solo eseguito gli ordini di Silente stesso.
In ogni caso è un uomo morto.
Nel mondo reale, colpevole o innocente, al buon Piton rimarrebbero un bel numero di opzioni. Scappare ai Caraibi con i risparmi di Silente e godersi la vita, ad esempio. Il poveretto, però, è in una storia che ha un preciso tono e un preciso ritmo. È una storia di formazione che ha per protagonista un adolescente e Piton ha ucciso Silente proprio sotto gli occhi del suddetto adolescente.
Se è colpevole toccherà a Harry vendicare l'amato preside e quindi Piton potrà solo morire per sua mano.
Se è innocente, considerato il suo passato non troppo limpido, sta compiendo un cammino di redenzione. Dopo aver sacrificato il suo buon nome uccidendo una persona per ordine della vittima stessa, potrà completare il suo percorso solo sacrificando la sua stessa vita.
A prescindere da tutto, anche dal carattere del povero Piton, dalla fine del sesto libro, il professore di pozioni è un morto che cammina.

Nella vita le cose sono ben diverse. 
Nel libro Nelle terre estreme (da cui è stato tratto lo splendido film Into the wild) un giornalista ricostruisce la vicenda reale di un ragazzo che, fuggito di casa, è andato a rifugiarsi in mezzo alla natura selvaggia. La cosa più straziante della vicenda è che il ragazzo è morto poco dopo (si presume) aver preso la decisione di tornare a interagire con gli uomini e la sua morte, per di più, è dovuta a una serie di circostanze sfortunate, dal momento che il ragazzo era tutt'altro che sprovveduto.
Se la vicenda fosse stata pura fiction, il protagonista de Nelle terre estreme avrebbe avuto più chance di sopravvivenza o almeno una morte più epica (infatti il film si impegna molto in questo senso).

Vita e letteratura, tuttavia, non sempre coincidono. 
Quando un autore decide tono e ritmo di una storia ne rimane vincolato anche suo malgrado. Dopo aver creato Sherlock Holmes come un eroe quasi indistruttibile (o quantomeno danneggiabile solo da se stesso) Doyle poteva farlo ammazzare davvero da un Moriarty qualsiasi? No, il pubblico ha percepito la cosa come inconcepibile, anche perché contraria al tono, al ritmo e alla coerenza interna delle storie che Doyle stesso aveva creato. E quindi Sherlock Holmes è tornato a Londra, malgrado il proprio autore e nessun lettore se ne è lamentato. A ben vedere, il ritorno di Sherlock Holmes è molto più coerente che l'idea di una sua morte in fondo a una cascata.

Quindi a volte i personaggi ben costruiti (quelli fatti male sono molto più "maneggevoli") sfuggono al controllo dei loro autori e raggiungono finali imprevisti. Non sono davvero dotati di vita propria, ma perché la coerenza con la psicologia del personaggio, il tono e il ritmo di una storia devono prevalere perfino sulla volontà dell'autore

mercoledì 19 febbraio 2014

Aiuto, sono un robot!


Ultimamente ho tirato un sospirone di sollievo. Sono tornata a essere un appartenente al genere umano, ma non so quanto durerà.
Perché, in effetti, potrei essere un robot.
In molti blog o siti per convalidare commenti o l'invio di moduli mi viene chiesto di riscrivere delle serie di lettere o di numeri dalla grafia distorta, i temibili "captcha" per "dimostrare di non essere un robot".
Negli ultimi giorni ho visto più spesso serie numeriche e, in questo caso, nessun problema, la mia umanità è subito lampante a me e alla macchina con la quale devo interfacciarmi.
Con le serie di lettere, invece è un disastro. Ho scoperto che se chiedi per pietà di dartene di più comprensibili per più di un tot di volte, il sistema decide d'ufficio che sei un robot. Fuori. Se sbagli oltre un certo numero di volte non so cosa succeda al sistema. A me è passata la voglia di lasciare il commento e me ne vado mortificata.
Certo, se sono un robot ho seri problemi di progettazione, essendo soggetta a sbalzi d'umore e reazioni emotive con una frequenza davvero imbarazzante per una macchina.
Sono solo dislessica. 
A più di trent'anni, con un romanzo pubblicato e vari racconti all'attivo, le lettere per me sono ancora dei buffi disegnetti senza alcuno significato intrinseco. Buffi disegnetti dalle forme strane che la mia mente non riesce a incasellare. Le parole, nel loro insieme, hanno significato, ma non le singole lettere, dato che le confondo a livello grafico e non le distinguo da quello fonetico (percepisco ogni parola come un suono unico, non frazionabile).
Non è poi un dramma, come a volte ancora si crede. Leggo molto più velocemente di mio marito, che già legge veloce, perché riconosco le parole come insieme e non come somma di parti. Faccio ancora molti più errori di ortografia di quanto sia normale per una mia coetanea, un numero inconcepibile per una classicista laureata che scrive ogni giorno e per di più insegna lettere. In generale, la tecnologia mi aiuta, con correttori ortografici e programmi di scrittura. 
Quando non si convince che io sia un robot!

A questo punto non mi restano che le accorate preghiere.

Non so quanto siano efficaci i captcha contro i veri robot. Da che è nato questo blog non li ho mai attivati e i commenti spam inviati casualmente si contano sulle dita della mano di un monco. E poi, suvvia, il vostro blog non è un incrociatore imperiale con a bordo i piani della Morte Nera. Abbiate pietà!

So che esistente, voi che credete che la dislessia sia la malattia di chi non ha voglia di studiare. Mettete alla prova i sedicenti dislessici con i captcha. Poi potrete, a vostra scelta, o ricredervi o convincervi che c'è un'invasione aliena che usa come testa di ponte dei robot apparentemente indistinguibili dagli esseri umani (eh, sì, allora ne faccio parte).

lunedì 17 febbraio 2014

La fine dell'era glaciale - venerdì 21, Briga Novarese


Sono un'archeologa in disarmo.
Nonostante questo cerco di tenermi aggiornata almeno sugli argomenti che mi sono propri. In particolare il periodo che più ho studiato è stato quello del difficile passaggio tra paleolitico e neolitico, ovvero tra una società di cacciatori/raccoglitori e una di coltivatori/allevatori. In questo passaggio cruciale si inserisce la fine dell'ultima era glaciale, con tutti i suoi perché e i suoi come climatologici e ambientali. È stato il più grande sconvolgimento climatico che l'uomo abbia mai vissuto e se è vero (non è detto che lo sia) che il clima stia cambiando in modo drastico e inarrestabile, forse è il caso di capire cosa è accaduto allora per avere un'idea di quello che potrebbe capitare. Perché di clima non si può parlare con un orizzonte misurato in anni o decenni, ma in secoli e millenni.

Di tutto questo parleremo

VENERDì 21, ORE 21.00
BIBLIOTECA DI BRIGA NOVARESE 
(Presso il nuovo Centro Polifunzionale)
LA FINE DELL'ERA GLACIALE
Dal passato indicazioni per il futuro?

Prometto paleopalinologia a palate, oscillazioni dei livelli marini e una o due cose terrorizzanti a cui si va in contro quando il clima cambia davvero (e a cui di solito si tende a non pensare).

Ma dal momento che mi dicono che oggi è la GIORNATA NAZIONALE DEL GATTO potevo forse lasciarvi senza una foto del Persiano scattata per l'ocasione?


sabato 15 febbraio 2014

Visioni - Monuments Men


Di questo film ho letto che è magniloquente, manicheista e compiaciuto.
Può essere, non lo so.
Il fatto è che a me l'arte commuove. Mettetemi una Madonna di Michelangelo rapita e sarò più in ansia che per un bambino scomparso. Aggiungiamoci che di film che cercano di raccontare il valore dell'arte (non la vita di un'artista o la storia di un'opera, ma proprio il valore universale dell'arte) ce ne sono pochi. Spolveriamo tutto col sorriso del bel George e capirete come io sia stata presa all'amo sin dal primo fotogramma.
La storia è semplice e, per lo più, nota. Hitler vuole far razzia delle migliori opere d'arte d'Europa, ma dà ordine di distruggerle in caso di sconfitta. In più i bombardamenti rischiano di distruggere le bellezze architettoniche. Dato che i "giovani storici dell'arte" sono già al fronte, viene organizzato un manipolo di attempati storici dell'arte che hanno il compito di segnalare quali monumenti non possono essere distrutti (cosa su cui però il film si sofferma poca) e di recuperare le opere "rapite" prima che i nazisti, ormai prossimi alla sconfitta, le distruggano.
Improbabilissimi come soldati, i nostri mettono però in campo tutto il loro amore per l'arte, anche se questo significa rischiare e, eventualmente, perdere la vita.
Poi certo, i bombardamenti distruttivi sono solo quelli dei tedeschi. Un tedesco con un minimo di umanità non si vede neppure con il binocolo. Gli americani sono bravi e buoni e restituiscono tutte le opere d'arte, mentre i russi, cattivoni, se le tengono loro.
Tutto questo è innegabile, così com'è innegabile, però, la simpatia di questi professionisti attempati e panciuti che con divisa e fucile in spalla si improvvisano soldati per salvare quadri e statue.
In un momento in cui il concetto di "bene comune" è così difficile da far passare e l'arte non merita che pochi spiccioli nel bilancio statale, questa storia manicheista e compiaciuta mi ha commosso.


PS: il mio racconto con protagonista femminile è tutt'ora fermo (anche perché non ho avuto il tempo materiale di scrivere). Però me n'è venuto in mente un'altro. Con una bellissima figura femminile. Che però è scomparsa e non appare mai in scena.

mercoledì 12 febbraio 2014

Il protagonista non sono io, però...


Ultimissima foto di fiori (pure un po' sfocata...) per un post che non è tanto una Scrittevolezza, quanto una paranoia personale.

Quando scrivo io mi metto sempre tutta una serie di maschere e mi scelgo sempre dei protagonisti ben diversi da me. Che poi magari diano forma a cose che penso è un altro discorso, ma mi sento sicura se so che tra me e loro c'è una bella distanza. Tutti i protagonisti delle mie storie lunghe sono uomini, tanto per citare il dato più macroscopico. Uno di essi è pure Sherlock Holmes e chi sta scrivendo sabato mattina è rimasta per cinque minuti a fissare un giardino senza riuscire a distinguere un cane da un cespuglio (eppure il fatto che il cespuglio abbaiasse era un buon indizio, credo). Un altro è un prete quarantenne e io non sono neppure praticante. Su Giulio Cesare non c'è neppure bisogno di dire quanto poco mi somigli.
Con loro mi trovo bene, io al mio posto di autrice, loro a quello di protagonisti, per quanto possa emozionarmi e soffrire con loro, mantengo sempre le debite distanze. Però ho sempre avvertito la mancanza di un buon protagonista femminile, una di cui si possa esclamare: "che donna!" 
Dato che i personaggi non si comprano al supermercato ho sempre pensato che le cose stessero così e basta. Avrei incontrato la mia protagonista al momento giusto, come il vero amore.
Ecco adesso è arrivato a bussare alla mia testa un signor personaggio femminile. Una che pretende una parte da protagonista e che sarebbe perfetta per me.
– Bene. – le ho detto. – Vediamo come funzioniamo insieme con un racconto. 
Perché così faccio sempre.
E così adesso ho una trama a me congeniale per un racconto e una signora protagonista e non riesco a scriverlo.
Perché è troppo simile a me. È in sostanza un'archeologa che si è riciclata, più o meno mia coetanea, con un pessimo carattere e una gran voglia di indipendenza che fa fuggire a gambe levate gli uomini (diciamo che ha il carattere che avrei se non avessi incontrato il Nik) e tutta un'altra serie di caratteristiche che mi sono proprie. 
Mi sento nuda davanti alla tastiera e mi trovo in una situazione di imbarazzo immotivato e del tutto irrazionale. 

A qualcuno è mai capitata una cosa simile?

lunedì 10 febbraio 2014

Scrittevolezze - Tutto si può raccontare, però...


Ho ufficialmente finito le foto di fiori per le Scrittevolezze, quindi oggi va il ghiaccio, nella speranza che l'inverno e la pioggia finiscano e spuntino almeno i bucaneve.

Ieri ci sono state le prime quattro ore immersive ne Le trame del lago, con me un po' in panico a parlare di scrittura a un pubblico che contava anche dei giornalisti e il terrore che in fin dei conti ne sapessero più di me. E per capire che qualcuno ha proprio il talento innato per la narrazione è bastato vedere come siamo rimasti tutti incantati a sentire Marco parlare della magia fisica.

Tra le varie cose di cui abbiamo chiacchierato c'è stato il fatto che molte storie, siano esse narrate in romanzi, racconti o film, incantano e emozionano pur infrangendo a una a una tutte le regole della narrazione.

Perché è ovvio, tutto si può raccontare, però...

...Senza farla lunga con lo strutturalismo, intorno agli anni '20 del novecento alcuni studiosi hanno scomposto le trame in elementi narrativi. Questo lavoro è stato fatto sia con il teatro, portando a identificare 36 situazioni drammatiche, sia con le fiabe russe, individuando 31 elementi narrativi.
Questo vuol dire che quasi qualsiasi storia si può raccontare mescolando una trentina di elementi (che a ben vedere sono più delle 7 note che hanno a disposizione i musicisti, quindi non lamentiamoci). 
Andando a fondo nello studio si è visto che tutte le fiabe russe hanno uno schema narrativo comune, chiamato "il cammino dell'eroe" (situazione di partenza - rottura dell'equilibrio - difficoltà iniziale - falso superamento - momento di massima difficoltà - risoluzione - ritorno a casa con l'elisir). Da questa scansione narrativa è poi derivata la famosa "Struttura in Tre Atti" che dagli anni '20 è l'ossatura delle sceneggiature cinematografiche americane. Perché?
Perché si è visto che non solo le fiabe russe, ma tutte le fiabe del mondo hanno la stessa struttura, che è immediatamente riconoscibile da un qualsiasi bambino di qualsivoglia cultura. Se ben ci pensiamo è una scansione assai poco naturalistica. Nella vita non c'è alcun "C'era una volta" immutabile, né c'è un finale categorico (sicuramente non con "Vissero felici e contenti") eppure, per ragioni in cui non mi inoltro, il cervello umano è fatto per recepire storie strutturate in questo modo.
Questo vuol dire che più ci allontaniamo dal modello della Struttura in Tre Atti e più il fruitore faticherà a seguire la storia. 
Questo non vuol dire che non la seguirà, solo che farà fatica e questa fatica deve essere giustificata dalla bravura del narratore.
Il più antico e famoso esempio di narrazione di successo che non segue la Struttura in Tre Atti è l'Iliade. Dell'Iliade ci si innamora, ma è più difficile da seguire dell'Odissea ed è più difficile ricordarne bene la trama, avendo dei passaggi non sequenziali (a che punto devo mettere il Catalogo delle Navi?). Ebbene, Omero o chi per lui è stato abbastanza bravo da tenere l'attenzione e continuare a farsi leggere per migliaia di anni eppure, sin dall'antichità, tutti hanno avuto l'impressione che all'Iliade mancassero l'inizio e, sopratutto, la fine. Ancora oggi gli studiosi si scannano e non è chiaro se quello che abbiamo è un frammento o un tutto, completo così com'è. In ogni caso, possiamo dire che l'Iliade è una narrazione che mette alla prova il fruitore, ma che giustifica la fatica del lettore grazie alla forza e alla bellezza dei suoi versi.
Tutto questo per dire cosa?
In narrazione ci sono delle regole, esiste una grammatica fondamentale che ha a che fare con il funzionamento del cervello umano. Una storia strutturata in un determinato modo viene recepita con più facilità. Una scrittura strutturata in un determinato modo, viene assimilata meglio.
In narrazione, però, le regole sono frangibili.
Io non sono una fan del regista Terrence Malick eppure riconosco che faccia del gran cinema anche fregandosene della Struttura in Tre Atti. Così come ci sono e ci sono stati scrittori che hanno fatto coriandoli delle più elementari regole di scrittura, entrando nella storia della letteratura.
Più ci allontaniamo dalla "norma", però e più poniamo il lettore o lo spettatore in difficoltà, non perché il pubblico è bue e non ci capisce, ma perché il cervello umano è strutturato in un determinato modo e comprende con più facilità determinate storie.
Dobbiamo avere rispetto per questa fatica che imponiamo al lettore e premiarlo con una qualità sopraffina della scrittura. Dobbiamo chiederci: perché dovrebbe andare avanti nella scrittura? E trovare una risposta valida.
In caso contrario il lettore ci abbandonerà entro le dieci pagine.
Omero o chi per lui, frammento oppure no, invece, si fa leggere da più di 2500 anni.

E adesso tutti a rileggere integralmente l'Iliade. Poi potrete ragionare su quanto faticosa sia stata la lettura e se ne sia valsa la pena.

venerdì 7 febbraio 2014

Tutti pazzi per i PAS


Cosa sono i PAS?
PAS sta per Percorsi Abilitanti Speciali, cioè dei corsi abilitanti riservati agli insegnanti che hanno già lavorato per più di tre anni.
Ma come, Tenar, tu insegni da anni senza abilitazione?
Eh, sì. L'anno in cui ho iniziato a insegnare hanno chiuso le SISS, le scuole di specializzazione per l'insegnamento. Dicevano che gli insegnanti specializzati erano già troppi. Così troppi che nella mia provincia ogni anno rimangono decine di cattedre scoperte che vengono assegnate ai non abilitanti. Quindi dal giorno dopo la chiusura delle scuole di abilitazione è iniziato il paradosso. Senza abilitazione non si potrebbe lavorare, ma senza insegnanti la scuola chiude e quindi la scuola assume i non abilitati, che non potrebbero insegnare, ma neppure abilitarsi. 
Tutto molto italiano.
Io non ho seguito molto gli aspetti legislativi della cosa, ma a un certo punto la Comunità Europea ha deciso che nessuno può fare per tre anni un lavoro e non essere considerato abilitato. A quel punto io già insegnavo da tre anni. E quindi che fare? Chi aveva fatto la scuola di specializzazione segnalava di aver studiato, superato esami e pagato tasse e quindi non poteva essere considerato pari nostro. 
Si sono fatti i TFA, Tirocini Formativi Attivi, che erano aperti a tutti i laureati, senza contare il servizio, ma con test d'accesso assurdi (ne raccontai sul vecchio blog, il famoso "test della triglia" in cui si doveva riconoscere l'autore di una poesia da tre versi, conoscere l'anno di edizione di bolle papali e di seconde edizioni di opere minori di D'Annunzio) da cui rimasi fuori per un punto. In ogni caso dai TFA uscirono 45 docenti di lettere abilitati per tutto il Piemonte (di cui forse uno o due della mia provincia).
Quindi si disse che sarebbero stati attivati questi PAS per coloro che avevano più di tre anni di servizio, al modico prezzo di 2500 euro, perché comunque l'abilitazione va sudata e va pagata. Sopratutto pagata.
Dopo un anno d'attesa ad agosto è uscito il modulo di iscrizione, per l'anno accademico 2013/2014
A dicembre è uscito l'elenco dei candidati ammessi.
Durante le vacanze di Natale, ci è stato chiesto di mandare varia e dettagliata documentazione (quando qualsiasi segreteria era rigorosamente chiusa).
Martedì (4 febbraio), durante gli scrutini, una collega mi avvisa che sono usciti gli elenchi definitivi e che bisogna confermare l'iscrizione entro mercoledì
Corro a casa, in una giornata per altro già funestata da altri poco simpatici eventi, e constato che
1) il mio nome è nell'elenco (cosa non scontata)
2) sono iscritta d'ufficio secondo una graduatoria nota solo a chi l'ha stilata (si presume per anzianità) all'anno accademico 2014/2015
Quindi per quest'anno non mi devo iscrivere né frequentare.
Quindi, per oscure leggi di aggiornamento delle graduatorie che non sto qui a spiegare in un post già chilometrico, di fatto sarà come se mi abilitassi nel 2017.
Mi convinco che sia meglio così, finisco tranquilla il mio anno scolastico e poi mi organizzo per l'anno prossimo.
Arrivo a scuola mercoledì e incontro i colleghi inseriti nell'anno scolastico 2013/2014. Hanno scoperto che i corsi inizieranno a fine mese e, essendo già febbraio 2014 (ricordate, l'anno accademico è il 2013/2014!) dovranno sottoporsi a un tour de force di lezioni a frequenza obbligatoria (oltre che a un rapido salasso economico). Ovviamente tutti loro già lavorano, hanno delle classi e quindi un orario. Vedo la Dirigente impallidire alla sola prospettiva di cambiare gli orari a metà febbraio. Pare che le domande dei permessi per il diritto allo studio non siano valide, in quanto presentate a novembre, quando nessuno di loro risultava iscritto.

Siete arrivati in fondo?
Cosa volete che sia inventare romanzi, quando la mia vita abituale è così?

Mi consolo con gli scrutini. Che di solito sono tutto meno che una consolazione. Ma ieri e oggi ero a farli nella Scuola col Pontile. La foto che vedete è stata scattata ieri direttamente dall'aula in cui si svolgevano, durante una pausa.

mercoledì 5 febbraio 2014

Visioni - La fine del mondo


Potrebbe essere il film più assurdo che io abbia mai visto.
Non ne sono sicura, ma potrebbe.

Gary ha ormai 40 anni, ha dipendenza da droga e alcool e vive nel mito del se stesso più giovane, l'adolescente che sembrava avere il mondo in mano. Un'unica impresa non è riuscita al Gary adolescente, portare a termine il "Miglio d'oro", un percorso alcolico che tocca dodici pub della sua città e termina con quello chiamato "La fine del mondo". Disposto a tutto pur di portare a termine l'impresa, riunisce con sotterfugi meschini il suo gruppo di amici, ormai tutti professionisti di mezz'età e li trascina nei luoghi della loro adolescenza per rivivere quell'esperienza interrotta.
Inizia così La fine del mondo, come un film sull'amicizia e i rimpianti girato, scritto e interpretato dannatamente bene. Un film convenzionale, ma prodotto in modo impeccabile. 
Ma La fine del mondo è tutto meno che un film convenzionale. 
L'amicizia? Certo. I ricordi dell'adolescenza. Certo. I conflitti mai affrontati? Certo. Ma La Fine del Mondo siamo certi che sia solo il nome di un pub?
Mentre la trama deraglia verso l'assurdo, tra effetti visivi volutamente da b-movie, i nostri eroi continuano a essere credibili quarantenni inglesi, piccoli e meschini, ed è questo contrasto la forza più grande del film.
Diventa qualcosa di commuovente e epico l'ostinazione di Gary a voler a tutti costi completare la sua impresa, il suo piccolo atto di eroismo personale mentre intorno a lui, letteralmente, il mondo va in pezzi. 
Avrebbe potuto diventare qualsiasi cosa, La fine del mondo, in mano a un altro regista o con altri attori, nella maggior parte dei casi qualcosa di inguardabile.
Invece, pur nell'assurda improbabilità della trama, la storia non si perde e rimane, struggente, il ricordo dell'adolescenza come del momento eroico in cui tutto poteva compiersi, che non tornerà mai più, neppure l'eroismo è davvero a portata di mano o ci viene offerta una nuova giovinezza. Questo, ovviamente, senza negare enormi dosi di assurdo e comicità surreale.
La fine del mondo è un film che può non piacere, ma che mi sento caldamente di consigliare. In primo luogo perché deliziosamente spiazzante, inizia con delle premesse e poi ti porta altrove. E poi perché è la migliore dimostrazione che in narrazione (che sia letteratura o cinema non importa) tutto si può fare a patto di avere le idee chiare e i giusti mezzi tecnici.
Voto: 8

Una piccola nota tecnica. Fate attenzione a tutti i modo che trova il regista per mostrare la birra che viene spillata e quante cose riesce a raccontare con questo semplice gesto.
Seconda nota tecnica. Vorrei subito un sequel a partire dalla scena finale. Ma sopratutto vorrei vedere in una scuola di cinema quanti studenti riescono a indovinare il finale dopo aver visto dieci minuti di pellicola, secondo me nessuno (ed è una delle prime cose che mi è stato insegnato, infatti sono pochissimi ormai i finali che mi spiazzano. Questo sì, decisamente)

lunedì 3 febbraio 2014

In finale allo SherlockMagazine Award 2013


È con molto orgoglio e soddisfazione che segnalo che anche quest'anno un mio apocrifo sherlockiano, Il caso del detective scomparso è in finale allo SherlockMagazine Award e verrà pertanto pubblicato sulla rivista e magari anche in e-book. 
Qui il comunicato ufficiale.
Diverse cose mi hanno reso felice di questo piazzamento. Innanzi tutto il fatto che tifavo per un mio avversario. Samuele Nava, che ha vinto, è tra i giovani autori di apocrifi il mio preferito, quindi non solo mi inchino volentieri davanti a chi stimo, ma questo vuol dire che presto avrò da leggere un suo nuovo racconto, cosa che mi rende stra felice.
Per chi volesse conoscerlo, consiglio caldamente la lettura dei suoi racconti pubblicati in e-book e in particolare Sherlock Holmes e la sfida dell'astrologo.
Ho letto meno di Patrizia Trinchero, ma il suo racconto, sempre reperibile in e-book, Il gioco è cominciato, Holmes mi è piaciuto parecchio.
Essere sul podio con loro, quindi, è davvero un onore.

A questo punto non mi resta che presentare il racconto.

Il caso del detective scomparso
A essere scomparso è niente di meno che Sherlock Holmes stesso, sparito nel nulla durante quella che sembrava essere un'indagine di routine su un marito fedifrago.
Preoccupato per l'assenza del coinquilino, il dottor Watson convince l'ispettore Lestrade ad aiutarlo nelle ricerche. Prima con ironia, poi sempre con più preoccupazione, i due cercano di applicare i metodi  di Holmes e ne farlo si rendono conto che dietro alla "macchina pensante" che conoscono c'è pur sempre un uomo in carne ed ossa, come tale fallibile e di certo non indistruttibile.

A livello tecnico questo racconto mi ha divertito e fatto sudare parecchio, in parte perché è il racconto più lungo che abbia mai scritto, in parte perché è un racconto su Sherlock Holmes in cui Sherlock Holmes entra in scena molto tardi. Osservarlo da fuori, però, mi ha divertito molto e ancora di più mi è piaciuto dare interamente la parte dei protagonisti a Watson e Lestrade a dimostrazione che tenacia e amicizia posso anche più della genialità. In tutto, il solito mix di azione e ironia che tanto mi piace nei racconti di Sherlock Holmes.


Le segnalazioni di oggi non sono finite, perché Tenar è donna dal multiforme ingegno (si fa per dire, oggi ha anche ricevuto due "lettere di rifiuto di qualità superiore" che insieme fanno una bella mazzata) e ogni tanto si ricorda anche di essere archeologa e di aver giocato non poco con l'ecologia preistorica, cioè lo studio della ricostruzione del clima sul lungo periodo. Non fatevi spaventare, è tutto meno astruso di quello che sembra. In concreto, dallo spolvero dei miei vecchi studi ne è uscito un articoletto divulgativo sulla fine dell'era glaciale Non è un paese per vecchi (climatologi)

sabato 1 febbraio 2014

Letture - K


S. Tosaki - J. Taniguchi

Lettrice onnivora, assumo dosi settimanali di fumetti e non disdegno un bel manga.
Se qualche lettore del blog crede ancora che "manga" significhi: fumetto di bassa lega con azione e/o donnine nude, questo è uno dei titoli adatti per cambiare idea.
Il mondo del manga è variegato esattamente come quello del fumetto europeo. Vi si trovano opere del tutto aderenti allo stereotipo, ma anche storie di rara raffinatezza, curate nei disegni quanto nella scrittura e K appartiene a quest'ultimo gruppo.

K vive tra gli sherpa himalayani, anche se molti credono che si tratti di un alpinista giapponese, unico sopravvissuto di una sfortunata spedizione. Profondo conoscitore delle condizioni d'alta quota, pur lavorando spesso come una comune guida, K è specializzato in operazioni di salvataggio estreme, anche se qualcuno sussurra che sia solo il desiderio di denaro a guidarlo.
Il volume ci racconta cinque di queste spedizioni, ciascuna su un diverso gigante asiatico e ciascuna rappresenta, per K, insieme una sfida, una preghiera e un desiderio di espiazione.
Diverse cose rimangono impresse nella lettura del volume. La prima è il realismo con cui è descritta la realtà himalayana, priva di eccessiva poesia. Le scalate sono un business. Arrivare in vetta può essere il capriccio di un ricco o una sfida egoistica tra stati o organizzazioni rivali. Intorno ad esse c'è una variegata economia, non priva di ambiguità e sotterfugi. Arrivare in vetta per gli sherpa non è poesia, è solo lavoro, serve a comprarsi una moglie o a portare avanti una famiglia. Quando il tempo, cambia, però, la natura, gli dei, si riprendono prepotentemente il posto, mostrando all'uomo tutta la sua fragilità.
È in questa cornice che si muove K, figura affascinante e ambigua. Uomo di silenzi, di espressioni enigmatiche e pochi gesti e quindi personaggio particolarmente difficile da trattare in un fumetto. 
Pagina dopo pagina, K si svela pian piano. La fragile serenità conquistata, la continua sfida alle vette, che lo porta a tentare anche imprese che sa, non potranno mai essere conquistate, la consapevolezza della sconfitta, dipingono un ritratto non banale. K non si nasconde per vergogna o per espiare una pena. Il suo rapporto con la montagna è una continua preghiera, la ricerca di una comunione con un divino che si manifesta come natura possente e spietata.
Il contrasto da questo atteggiamento, ostinato e fatalista insieme, con il prosaico affarismo del business delle scalate e ciò che più colpisce di quest'opera, insieme all'astensione dal giudizio. K non è un eroe e non si sente superiore, dal momento che non gli mancano le ombre. Quando arriva il maltempo, quando qualcosa va storto, tuttavia, ogni uomo è solo di fronte a Dio e al destino, che sia un agente segreto, il figlio di un miliardario o un uomo senza nome, poco importa.

Una lettura decisamente atipica, che mi sento di consigliare anche a chi non ha mai preso in mano un manga.