sabato 12 dicembre 2015

Di come ho iniziato a inventare storie

    La colpa credo sia da attribuirsi a mia madre.
Ogni bambino sa valutare con istinto innato quali regole si possono trasgredire, almeno un pochetto, e quali no.
Per mia madre la televisione era il male assoluto. Mi era concessa mezz'ora alla sera, in un'epoca in cui dalle 20 alle 20,30 su Italia 1 davano i cartoni animati e qualche extra nei periodi di vacanza costituiti esclusivamente da documentari e pochissimi film. A quattro anni sapevo cos'era un ornitorinco, sapevo distinguere un allosauro da un tirannosauro, ma la maggior parte degli idoli degli altri bambini mi erano del tutto sconosciuti.
Ancora oggi guardare la tv di pomeriggio mi dà il gusto dolce del proibito, è l'emblema della trasgressione. Di fatto me lo concedo solo se sono malata o alle feste comandate. E ancora temo di mangiare solo minestra per cena come punizione.

  Ovviamente c'erano dei modi per aggirare il divieto. Due. I nonni, da cui, però, stavo solo d'estate e per brevi periodi. Caldi giorni di maratone televisive pomeridiane. Credo che in realtà mia nonna non mi concedesse mai più di un'ora consecutiva di tv, ma poter guardare ben due puntate di cartoni di seguito, seduta sulla poltrona del nonno era, all'epoca, il massimo della vita. Poi c'erano le amichette. Sono stata una pre adolescente molto sola, ma una bimba socievole. In realtà, le amiche erano sempre loro, salvo il fatto che quando avevo 10 anni mi sono trasferita e ho impiegato circa sei anni a ricostruirmi una rete sociale in loco. Prima dei dieci anni, però, ero spesso a casa di questa o di quell'altra, anzi, il giovedì di fisso si andava a rotazione a casa di una del gruppo. E le altre mamme, per quanto non certo liberali nell'educazione, essendo comunque amiche della mia, lasciavano vedere i cartoni animati durante la merenda. Cartoni animati diversi da quelli della sera.

   Noi siamo una generazione di bambini traumatizzati dai cartoni animati. Le nostre eroine venivano incatenate per giocare a pallavolo, morivano di tisi dopo aver abbracciato il proprio amato morente, vedevano la famiglia andare in pezzi, se proprio erano fortunate finivano solo paralizzate per un periodo limitato. Il lieto fine era tutt'altro che scontato e la fine di una serie veniva attesa con un'ansia che rasentava il panico, perché la tragedia era sempre dietro l'angolo.
Le serie serali e quelle pomeridiane erano diverse. Di quelle pomeridiane io vedevo solo pezzi e bocconi. Se andava bene vedevo diverse puntate del giovedì, saltando tutte quelle intermedie.
Qualche lettrice ricorderà Là sui monti con Annette. In cui a un certo punto un bambino cadeva in un burrone. Per me quella serie esiste in una sola, indelebile puntata. Tutta una comunità alpina crede che un bambino sia morto e invece lui è in fondo a un burrone, con una gamba rotta, che chiede disperatamente aiuto. Non ricordo di aver visto né il prima né il dopo.
Ho nella memoria tragici spezzoni di Candy Candy con un misto di angherie nei confronti di una povera orfanella bionda, cadute da cavallo e l'abbattimento di un aereo durante la prima guerra mondiale (con sopra presumibilmente un ragazzo molto caro alla protagonista).

  Una bambina di sei o sette anni non può vivere con l'angoscia di non sapere se il ragazzino sarà mai salvato dal burrone, se Georgie tornerà mai in Australia, o chi sia il ragazzo che precipita con l'aereo. Una bambina di sei anni si vergogna a rivelare alle amiche che lei quei cartoni non li vede. Vuole far parte del gruppo dei pari, partecipare alle discussioni e agli scambi di figurine. Quindi inizia a raccogliere indizi narrativi. Le figurine, di cui mio papà (credo all'insaputa di mamma) mi comprava qualche pacchetto (senza album, che mi avrebbe quanto meno dato un'infarinatura sulla trama). Trovavo così delle istantanee, dei momenti narrativi che assemblavo a mio piacere. Poi ascoltavo con attenzione i discorsi delle altre bambine, per riuscire ad avere almeno un canovaccio da cui partire.
Riempivo i buchi, come potevo, cercando di immaginare tutte le puntate che non ero riuscita a vedere. 

  Non credo di aver mai ammesso di non vedere i cartoni animati, se non anni dopo, in una memorabile serata in Irlanda quando, proprio da quelle amiche conosciute all'asilo (che sono tutt'ora tra le mie amiche più care) mi sono fatta raccontare tutti i finali originali dei cartoni animati (scoprendo che sì, il bambino era stato salvato dal burrone). Da piccola cercavo di inserirmi nelle conversazioni improvvisando. E se le mie trame presunte erano più interessanti o plausibili o magari meno traumatizzanti di quelle originali, venivo ascoltata. Ben presto i nostri giochi iniziarono a vertere nel proseguire a nostro piacere i cartoni animati.
Credo l'abbiano fatto tutti i bambini della mia generazione, ma per me c'era un fascino diverso. Io non avevo altri finali che i miei. Dovevano essere soddisfacenti al punto da non farmi sentire il rimorso per quelle visioni mancate. Io dovevo essere all'altezza della storia originale, se non meglio.
Sono tutt'ora convinta che se Georgie non fosse mai tornata in Australia sarebbe stato meglio.

  Non ho molte morali da trarre da questo. La mia attitudine a inventare trame nasce paradossalmente dalla tv e dalla sua negazione. Mia madre voleva proteggermi, impedendomi di guardare certe cose, ignorando che, forse, a sei anni, se avessi saputo nel giro di pochi giorni che il bimbo nel burrone era in salvo, avrei avuto molti meno incubi. Eppure, senza il suo divieto non avrei scoperto quale meravigliosa risorsa sia l'inventare storie.

  Adesso, se mi chiedono come e perché scrivo, trovo più naturale trovare altri aneddoti. Mio zio che raccontava storie a noi cugine, mio nonno e mia madre che raccontavano l'Odissea. Cercare dei presupposti più letterari e più alti. Ma, in tutta onestà, non posso assicurare che siano stati più importanti di quei cartoni animati giapponesi monchi. A tutt'oggi ricordo con maggiore intensità quelle puntate rubate delle serie che ho visto dall'inizio alla fine e ho il forte sospetto che, in fin dei conti, la colpa sia loro.

Voi come avete iniziato a inventare storie?

33 commenti:

  1. Alle elementari. Quando la maestra assegnava il tema di classe, la mia fantasia era così esuberante che raccontavo sempre storie parallele. Alla fine mi ha esonerato, unico della classe, a seguire la traccia che lei assegnava. Ero libero di inventarmi le storie che volevo.

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    1. Che bello che ci siano maestre che lasciano questa libertà!

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  2. Bella storia. La mia è molto meno prosaica: semplicemente, sentivo il bisogno di raccontare, di non essere più solo un lettore passivo. Volevo in particolare mettere in mostra il fatto che anche come scrittore potevo valere qualcosa, così mi sono messo a scrivere racconti e a postarli online. I miei primi esperimenti, come quelli di chiunque pensa che scrivere sia solo mettere parole una dietro l'altra, erano delle vere schifezze: quando però ho sbattuto contro questa realtà, invece di demordere come tanti altri, ho cercato di imparare meglio a farlo. Così ho scoperto le tecniche, ho letto tanto in materia, ho sempre cercato di migliorarmi e forse (forse, eh :D !) ora sono uno scrittore semi-decente. La mia storia è tutta qui :) .

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    1. Avrai iniziato a immaginare storie prima di iniziare a scrivere, credo. Come hai iniziato a inventare storie, prima di pensare a scriverle?

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    2. Sicuramente ho cominciato a immaginare prima di scrivere, ma in maniera quasi inconscia. Immaginavo storie e finali alternativi per i libri e i fumetti che leggevo, oppure per i videogiochi a cui giocavo. Erano però semplici fantasie, che mi tenevo esclusivamente per me :) . Più o meno, il processo consapevole di creare una storia è nato proprio quando ho cominciato a scrivere.

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  3. Be' ho cominciato grazie alla mia insegnante delle elementari verso la quale provo un senso di gratitudine profonda: i suoi compiti erano spesso "inventa una storia che inizia con..." oppure "inventa una storia con queste 3 parole" ecc. E via io mi divertivo, le cercavo quelle tracce, finivo per prima e i miei componimenti piacevano a tutti, c'era chi li scopiazzava. Tutto qui. Belli i tuoi cartoni riscritti. Bacione Sandra

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    1. Come Ivano, hai avuto la fortuna di trovar una maestra che sviluppasse, invece che reprimere, la tua creatività. Una gran fortuna!

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    2. In compenso poca grammatica e ancor meno matematica, però Dio ho passato 5 anni da sogno. S.

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    3. Acc... Il problema ulteriore è trovare un bilanciamento!

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  4. Bel post... dolce-amaro, in un certo senso. Io ho qualche anno più di te, però mi ricordo alcune puntate di "Là sui monti con Annette". La mia eroina comunque era "Lady Oscar", proprio in pole position, ma mi piacevano moltissimo anche "Goldrake" e "Capitan Harlock". Non mi catturavano molto né "Heidi" né "Remi" che imperversavano presso le cugine trentine da cui passavo l'estate. Li trovavo troppo zuccherosi.

    Ho incominciato comunque a raccontare storie per solitudine. Come figlia unica dal carattere timido, mi trovavo più a mio agio con i miei amici "immaginari" che con quelli in carne ed ossa.

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    1. Sì. Raccontare storie tiene molta compagnia!
      Lady Oscar piaceva molto anche a me, a dire il vero anche a mia mamma, quindi ho visto la serie completa, senza buchi narrativi da riempire.

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  5. Io pure ho iniziato alle elementari. Mi piaceva l'attività di drammatizzazione, quando si recitava nella sala teatrale della scuola e dovevamo inventare delle storie da mettere in scena. A differenza tua io guardavo molti cartoni e leggevo molti fumetti, questo surplus di fiction nel quale mi immergevo ogni giorno mi faceva venire voglia di creare storie a mia volta.
    I mie genitori gestivano un negozio dove passavo molti pomeriggi, nel soppalco c'era una vecchia Olivetti e tanti fogli bianchi e..., beh, prima per gioco e poi per passione ho inziaito a dattilografare storie inventate che puntualmente davo a mio padre per fargliele leggere. Non ho ancora smesso di farlo (però non uso più l'Olivetti ;-)

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    1. Io ho iniziato a scrivere tantissimo tempo dopo, all'università. Per molto tempo ho pensato che il mio inventare storie avesse poco a che fare con la scrittura in sé...

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  6. Bel post! Mi sono fatta un tuffo nel passato. Io sognavo di essere Lovely Sara, e se mi sentivo giù speravo che arrivasse a rapirmi la Stella della Senna.
    La prima storia che ho provato a scrivere è un memoir della mia famiglia, con gli aneddoti che mia nonna mi raccontava mentre faceva l'uncinetto.
    Prima d'allora non so, ma ricordo che il mio tema per l'esame di quinta elementare aveva fatto successo. Parlava di Pippo, il mio pesce rosso vinto alla sagra d'ottobre. Gli abbiamo preso un acquario ultimo grido e tre pesciolini tropicali per compagnia, ma si li è mangiati tutti e ha vissuto solo e pasciuto per gli anni a venire.

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    1. Bella la storia di Pippo!
      Per molti anni non mi sono divertita a scrivere. Da dislessica e disgrafica l'atto in se di scrittura a mano mi è tutt'ora molto faticoso, quindi scrivevo temi (pieni di errori di ortografia) a detta dei prof molto belli, ma la parte divertente per me era solo la prima, quando me li componevo nella mente. Il momento della scrittura era una sofferenza, con l'ansia continua dell'ortografia.

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  7. Io ho cominciato a raccontare storie credo intorno a sei anni (non le scrivevo ma le raccontavo). Ogni settimana mia madre mi comprava all'edicola una breve favola illustrata e io la imparavo a memoria, poi per giocare mi inventavo dei finali diversi oppure una trama più complicata. La verità è che avevo due sorelle molto più grandi e poche bambine con cui giocare quindi compensavo con la fantasia. Crescendo ho continuato a usare questa fantasia per i temi in classe e poi ho cominciato a scrivere un diario dove mi piaceva raccontare le mie giornate, ma sempre in forma un po' romanzata perché non sembrassero troppo banali.

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    1. Anch'io mi immaginavo le storie, senza scriverle. Non ho mai tenuto un diario, invece. Volevo vivere vite altrui, piuttosto che raccontare la mia.

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  8. Io ho iniziato scrivendo parodie sui miei amici, per fortuna i cartoni potevo vederli... anche se ai miei non andava perché erano "violenti".

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  9. "Là sui monti con Annette" rappresenta uno dei traumi della mia infanzia, insieme al finale di "Lady Oscar". "Georgie" lo consideravo un trauma, poi ho letto il manga quando ero già grandicella... Ed è stato peggio!

    Io non avevo limiti sull'utilizzo della televisione. L'unico vincolo che avevo era che avessi finito i compiti prima di mettermi a vedere i cartoni.
    Nonostante questo, io non sono una persona paziente, per me attendere un giorno intero per vedere la puntata successiva era snervante e così fantasticavo e fantasticavo... Se poi il finale o lo svolgimento non erano di mio gradimento, riscrivevo la storia, dando inconsapevolmente vita a delle fanfiction. "Dragon ball" è stata probabilmente la maggior fonte di idee della mia infanzia. Insomma "il pianeta esploderà tra 5 minuti" e poi passavano 20 puntate (a volte anche 40, perché Italia 1 trasmetteva mezze puntate da 12 minuti, invece di puntate intere).
    Per una bambina impaziente erano un'enormità!
    Poi un bel giorno, complice "Death Note" e la lunga sequela di morti, ho scoperto EFP e da allora non ho più smesso di scrivere ;)

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    1. I cartoni animati serializzati sono stati per tutta la nostra generazione una bella palestra narrativa! Un po' tutti abbiamo inventato le fanfiction senza saperlo.
      Questo post nasce da una sorta di "dolce di Proust" narrativo. Mi sono imbattuta per caso in una nuova serie de "I cavalieri dello zodiaco", cartone che avevo amato tantissimo verso la quinta elementare e che mi aveva portato a uno dei primissimi esperimenti di scrittura.

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  10. Quando ero bambino io, c'erano solo Rai 1 e Rai 2 e i programmi iniziavano intorno alle 16, non duravano 24 ore ininterrotte come oggi. Era decisamente meglio allora.
    Ricordo che prendevamo anche una rete svizzera, in italiano, che pubblicava programmi per bambini.
    Conoscevo i dinosauri e gli altri animali grazie ai Quindici.
    Io riesco a vedere la TV solo la sera dopo cena e solo se c'è un film, altro e in altri orari mi dà davvero fastidio.
    Non so dire quando abbia iniziato a inventare storie, ma da bambino sono sempre stato un sognatore a occhi aperti che inventava altre vite da vivere e per sfuggire alle ire di genitori e insegnanti per ciò che combinavo inventavo fantasiose bugie.

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    1. Gli adulti castigano sempre la bugia, dimenticandosi di quanta inventiva serva per crearle. Di fatto è un ottimo esempio di "applicazione di competenze" (che è poi la cosa che i moderni pedagogisti dicono che dovremmo insegnare a fare ai ragazzi)

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    2. La vendetta è un piatto da servire freddo :D

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  11. Che bello, anche io sono piombata nei ricordi: Candy Candy era il mio cartone preferito, ero innamorata di Terence!
    Ero abbastanza libera di vedere la tv, lo ammetto e il pomeriggio era il mio momento preferito: seguivo Orzowei, le Avventure di Huklebarry Finn e Saturnino Farandola.
    Se devo dire come ho cominciato a scrivere storie, ti rispondo che io non inventavo finali diversi, ma riscrivevo l'intera storia: mi influenzava tutto quello che mi piaceva, così prendevo quei dati personaggi, quelle date ambientazioni e ne facevo un racconto nuovo. La mia creatività originale, però, è nata fra i banchi di scuola, un po' come hanno detto in tanti.

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    1. Io dovevo fare un racconto del tutto nuovo! A tutt'oggi so che Terence è un personaggio di Candy Candy ma non so quale sia! Quindi il mio Candy Candy alternativo doveva per forza avere un Terence, ma si trattava di fatto di un personaggio costruito da zero.
      PS: Orzowei?

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    2. Orzowey era il personaggio di una serie televisiva che traeva spunto dal libro omonimo per ragazzi di Alberto Manzi.
      Era la storia di un ragazzo bianco allevato fin da bambino da una tribù africana. Il telefilm narrava le sue avventure.

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  12. Cara Tenar, io ho vissuto la mia infanzia esattamente in modo opposto. Finivo i compiti attorno alle 17 per non perdermi una puntata che fosse una di Candy o Lady Oscar. Adoravo quegli intrecci spesso tragici. Piansi copiosamente quando André morì falcidiato da un proiettile al cuore durante la Rivoluzione francese, viaggiavo sullo stesso carro di Péline, giocavo assieme a Mimì e vivevo quotidianamente con i piccoli e grandi eroi che la fantasia nipponica sapeva inventare. Proseguivo per conto mio quelle storie, disegnandone il seguito o scrivendone il finale. Quell'epopea mi ha aiutata a sviluppare l'immaginazione.
    Mia madre per fortuna non era così severa. ;-)

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  13. Mi ricordo di Danny che cadeva nel burrone!
    Io ho iniziato a scrivere storie perché mi sentivo sola, e perché lo sapevo fare. Essere la maggiore a volte è deleterio: chiedi attenzione ma non te le danno, perché la piccola piange, la mamma gioca con lei, il papà non c'è mai, e tu ti annoi. La tua unica fortuna è avere una nonna bravissima a raccontare storie. Vai a dormire da lei appena puoi, la ascolti per ore, e poi... inizi a fare altrettanto. :)

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  14. Forse allora è vero che la sovrabbondanza di stimoli uccide la fantasia. La privazione, come la noia, ci aiuta a cercare in noi stessi delle risorse alternative.

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