lunedì 27 marzo 2017

La mia vita da dislessica


Le mille e passa visualizzazioni che il post sulla dislessia ha raccolto in poche ore mi hanno convinta che forse vale la pena di raccontare qualcosa di più di cosa significhi essere uno strano esemplare di letterato dislessico, perché in fondo è curioso, da prof, leggere moltissima letteratura in merito, scritta da qualcuno che ha studiato moltissimo la questione, sa esattamente quali neuroni si attivino a lui mentre legge e quali a me, ma non abbia mai provato che cosa significhi davvero questo.

Piccola premessa noiosa da prof
Innanzi tutto un'infarinatura di neuroscienze. La dislessia è un diverso funzionamento del cervello. Nel riconoscimento delle immagini e nell'associazione tra queste e la loro concettualizzazione lavorano aree del cervello diverse da quelle dalla maggioranza. Questo accade più o meno a una fetta della popolazione stimabile tra il 2% e il 5%. Perché? Non si sa, ma si presume che sia vantaggioso avere una fetta di popolazione con percorsi mentali differenti (giuro che questa spiegazione l'ho letta e mi è piaciuta, ma magari è solo un caso). Questi percorsi mentali differenti di solito interferiscono poco nella vita spiccia, se non nell'apprendimento delle lingue scritte perché per il dislessico è più difficile associare il suono al simbolo e quindi a riconoscere una parola e a ricordarne la grafia. Più difficile ma non impossibile. Per questo si parla di DISTURBO SPECIFICO DELL'APPRENDIMENTO. Disturbo, perché ostacola ma non impedisce, specifico perché è una difficoltà circoscritta. L'intelligenza non ha nulla a che vedere con i disturbi specifici dell'apprendimento (che oltre alla dislessia, sono disgrafia e discalculia), tanto che possono essere diagnosticati solo in presenza di un quoziente intellettivo pari o superiore alla norma.
Fine premessa noiosa.

La mia vita da dislessica
La mia vita da studentessa ha avuto tre fasi.

Fase uno – La negazione, leggere non mi interessa.
Non c'era nessun motivo per cui io non imparassi a leggere. Avevo iniziato a parlare molto presto ed ero figlia e nipote da insegnante. Giusto per darvi un'idea, mio nonno ci ha lasciato qualcosa di più di cinquemila volumi, tra cui alcuni esemplari antichi. A casa nostra di libri ce n'erano meno, forse all'epoca neppure mille, ma una volta ne ho contati cinquanta solo in bagno. Mia mamma, come ho già raccontato, era una convinta femminista e come tale più che convinta dell'importanza della cultura. Ogni sera mi leggeva pagine di libri, mi mostrava fumetti, mi raccontava storie. Tutte le mie amiche erano bimbe prodigio che ben prima delle elementari leggevano, chi a tre, chi a quattro anni. Io no. Guardavo le parole e quegli assurdi segnetti non mi dicevano nulla.
Ora, io non mi ricordo esattamente cosa provassi, ma so che in prima elementare, superata la fase della sillabazione, leggere mi sembrava uno sforzo insostenibile. Per un po' mi la sono cavata perché in qualche modo convincevo qualcuno a leggere ad alta voce le frasi che poi io avrei dovuto leggere e le ripetevo a memoria, ma con l'allungarsi dei testi la cosa non è stata più sostenibile. Quindi mia madre si è dovuta arrendere all'evidenza. Non leggevo. O, meglio, dal suo punto di vista "non volevo leggere". Probabilmente pur di non ammettere di non riuscire lo dicevo anch'io. Ricordo di aver pronunciato frasi come "leggere è inutile". Credo che mia madre ci fece un mezzo esaurimento nervoso. Comunque alla fine sfoderò un'arma pedagogica imbattibile: il taglio della televisione. Non avrei più guardato nulla fino a che non avessi imparato a leggere. Ho imparato a leggere.
Non so dire quali risorse intellettive abbia sfoderato, ma è chiaro che se a un bambino degli anni '80 tagli i cartoni animati questo farà di tutto per riaverli. Era molto di più che non poter guardare la televisione, era la morte sociale, l'impossibilità di partecipare a una cultura comune. Per dare un'idea del trauma culturale, posso dire che moltissimo tempo dopo, all'università ho passato una sera intera a farmi raccontare come finivano le varie serie che avevo abbandonato forzatamente e i pezzi mancanti. Il mio premio fu guardare l'ultima l'ultima puntata di Georgie, ci ho poi messo, appunto, decenni per sapere cos'era accaduto nel mentre, perché nel momento del veto la protagonista stava andando in Europa vestita da uomo e la ritrovai poi di nuovo in Australia.
Comunque ero uscita dalla fase uno.

Fase due – la bambina distratta
Negli anni ottanta non c'erano bambini dislessici, c'erano bambini distratti. Il fatto è che io sono davvero distratta, ma non era la distrazione il mio problema. Ma non puoi convincere la maestra che, davvero, davvero, il testo lo hai riletto cinque volte, se poi devi ammettere di aver dimenticato il libro di matematica. Avevo un serio problema di credibilità. Aggravato e non mitigato dal fatto di aver trovato delle strategie per la lettura. Un po' avevo imparato a leggere e un po' avevo imparato a barare. Mai, mai alzare la mano per proporsi di leggere dal libro di testo. Proporsi di leggere dai compiti. Perché? Perché non leggevo, re inventavo di sana pianta cercando di ricordare cosa avessi scritto davvero. Abitudine pericolosa che in anni successivi mi ha portato a non fare proprio i compiti per inventare al momento. Memorabile la volta (alle medie) in cui la prof si è distratta e mi ha chiesto di rileggere un compito che in realtà non avevo mai scritto (ripetuto parola per parola, ma sudando freddo). 
Il fatto di cavarmela con la lettura ad alta voce non mi rendeva più facile la scrittura. Il dettato era il mio incubo costante. Il giorno del dettato speravo sempre di stare male. Invocavo l'esame del sangue per saltare le prime ore, le più a rischio perché "meglio farlo quando si è freschi". Per il tema rileggevo un'infinità di volte. Usavo meno della metà del tempo per scrivere e tutto il resto per correggere. Perdevo comunque una quantità di errori, ma era sempre meglio del dettato. Questo gettava davvero nello sconforto la maestra (che per altro ho come amica di fb e forse mi legge pure, nel caso sappi che davvero non te ne voglio, sei stata una gran maestra e ti devo moltissimo, tra cui l'amore per la storia) perché, come disse a un colloquio, ero sveglia, volenterosa, interessata e questo neo dell'ortografia proprio non si spiegava. Oggi sappiamo che questo è proprio il classico sintomo di dislessia, ma allora era sintomo di una strana distrazione a fasi alterne, perché invece in matematica non avevo alcun problema. Ovviamente io ero la prima a credere alla storia della distrazione e non mi spiegavo la cosa. Perché la matematica mi annoiava assai di più, ero consapevole di distrarmi mille volte di più mentre facevo esercizi di matematica eppure niente, lì non sbagliavo.
All'inizio della quarta elementare la mia famiglia si è trasferita e io sono entrata nella terza e definitiva fase della mia vita da studentessa.

Fase tre – la studentessa dall'oscuro segreto
Nella nuova classe non mi sono fatta amici. In effetti non me li sono fatta sul serio fino alle superiori. Quindi è iniziata una lunga fase di deserto affettivo mitigata dalle amiche di prima che ancora frequentavo (e che sono tutt'ora tali) e dalla lettura. Essendoci trasferiti vicino ai nonni ho impattato con i famosi cinquemila volumi. Nei primi tempi abitavamo da loro e io non avevo amici, non avevo posti in cui andare, non avevo i miei giochi, dispersi nel trasloco, ma avevo libero accesso ai libri. Come ho già raccontato, mi sono imbattuta in una prima edizione illustrata di Capitan Tempesta di Salgari. Una meraviglia per gli occhi, con la copertina liberty e tavole dai tratti fiabeschi. Noi degli anni ottanta, cresciuti con cartoni animati come, appunto, Georgie e Lady Oscar avevamo un'idea tutta nostra di cosa fosse adatto a noi e quella storia piena di ammazzamenti in cui era la fanciulla ad andare a salvare il suo bello aveva per me un fascino tale da farmi superare la fatica che ancora provavo per la lettura. E ovviamente finito un libro ne volli un altro e un altro ancora.
Ecco, c'è una differenza enorme tra saper leggere e leggere per ore e ore al giorno. Si acquisisce una famigliarità con la parola scritta che non può avere in altro modo.
A pochi mesi dal cambio scuola ero completamente trasformata. Da alunna titubante a prima della classe, pur con un oscuro segreto.
Il fatto è che la lettura compulsiva dell'opera omnia di Salgari e Verne mi aveva fatto fare il salto di qualità. Ora leggevo, anche se, appunto riconoscendo le parole e non scomponendole. Cioè a una velocità da studente universitario e non da bambina di nove anni. In più la mia strategia di sopravvivenza fino ad allora era basata sulla memoria. Quindi di colpo ero una bambina dalla lettura veloce e la memoria di ferro. Con una certa attitudine a improvvisare compiti non fatti. Le mie pagelle sono state del tutto rivoluzionate. Come se appartenessero a un'altra persona. Credo che i miei siano ancora convinti che quel trasferimento che mi ha distrutto emotivamente sia stato un bene per me, perché "mi ha sbloccata". Sinceramente stavo meglio con meno libri e più amici, ma almeno i miei erano contenti ed era qualcosa.
Il problema era che io sapevo che quello era un inganno. Che io non ero davvero così brava e non sarei potuta andare avanti senza in qualche modo barare. 
Innanzi tutto pur con tutto il mio impegno l'ortografia è sempre stata ed è tutt'ora un problema. Ho imbroccato una serie di prof illuminati che prendevano la cosa con filosofia. Sul liceo c'è stata una profezia del mio prof di prima media "per forza andrà al classico. Al primo tema prenderà quattro, poi o smetterà di fare errori o smetteranno di valutarli". Quel "per forza andrà al classico" mi ha forse cambiato la vita. Perché voleva dire che potevo farcela
Lingue straniere sono e sempre saranno un incubo. Di fatto si tratta di rifare il folle lavoro di memorizzazione fatto per l'italiano. Imparare a memoria la grafia di ogni singola parola senza che questa abbia senso. Per ogni lingua. E si arriva al punto in cui imparare a memoria è più facile di fare un altro sforzo di apprendimento. Sono sopravvissuta al classico e al greco in università imparando a memoria la letteratura greca e fingendo di tradurre. Una particolare memoria a medio termine che ora forse non saprei più neppure attivare. Ecco quello che mi sono detta "La letteratura greca è un numero finito di testi, il programma ne prevede ancora meno e fai prima a impararli a memoria". Lo so che è una follia, ma tra l'otto/nove di letteratura e il quattro nei test di grammatica me la sono sempre cavata senza debiti. Non ho idea di cosa pensasse la prof di una studentessa che non sapeva scrivere correttamente un paradigma che fosse uno, ma poi sembrava arrabattarsi a tradurre e conosceva benissimo la letteratura. Certo, ho ancora degli incubi sull'esame di greco all'università. Ma appurato che il prof faceva sempre tradurre un pezzo da una tragedia e sempre dai primi duecento versi, si è poi trattato di imparare a memoria qualche migliaio di versi greci e fingerli di tradurli. Ho persino preso 28.
Per tutto il liceo, però, ho avuto la sensazione avere un oscuro segreto, di giocare sempre sul filo di un rasoio. Non solo per la dislessia, un po' era caratteriale, il mio ostinarmi a fare i compiti di matematica solo in bus andando a scuola era puro amore per il rischio, tanto per dirne una. Ma non mi tornava il fatto che materie che non mi piacevano e in cui non mi applicavo, come matematica, mi riuscissero semplici, mentre in altre a cui dedicavo quasi tutto il mio tempo, come le lingue straniere, era tanto se ottenevo un sei stiracchiato. C'era la costante sensazione di innaffiare alcuni campi con acqua di mare, con una sproporzione tra sforzo e risultato ai limiti del paradosso e che non poteva risolversi con un semplice "non sono portata". Una sgradevole consapevolezza di non essere pienamente padrona dei miei mezzi, con qualcosa che sfuggiva allo studio, all'impegno e alla volontà. Il tutto unito a una testardaggine che mi portava ad incaponirmi e tutto sommato a trovare più interessanti proprio quelle materie il cui controllo continuava a sfuggirmi. C'è stato del masochismo, suppongo, nel perseverare col greco e col latino anche all'università.

Cosa resta di tutto questo
Questo lunghissimo post è stato un parto, perché non è poi così facile parlare di se stessi. Però ho pensato che c'è interesse per l'argomento, ci sono migliaia di esperti, ma magari un occhio interno aiuta. Può aiutare gli studenti che pensando di non potercela fare e i professori che non sanno che pesci pigliare. In realtà non c'è nulla nello studio per cui la dislessia sia un impedimento. Però, c'è un però. Rimane indelebile un'insicurezza di fondo. Pensate di passare tutta la vita senza saper dire se avete consegnato il compito in classe, il curriculum o l'inedito da valutare con o senza qualche terribile strafalcione. Senza saperlo dire neppure con il testo davanti. Non si è mai, mai sicuri di se stessi e del proprio operato. Incaponirsi per notti intere a ricopiare i verbi irregolari francesi e poi prendere l'insufficienza a fronte magari di un dieci in matematica senza aver mai fatto un esercizio. Mi sarebbe piaciuto, davvero, che qualcuno mi avesse detto che non era colpa mia. 
Essere terrorizzati, tutt'ora, dal leggere in pubblico, dover arrivare sempre preparati. Mi è capitato di reinventare sul momento il pezzo di un mio racconto che dovevo leggere in pubblico per paura di impapinarmi sulle mie stesse parole. 
Sbagliare, costantemente, queste maledette password, anche con qualcuno di fianco che te le detta (io odio, odio, odio le password).
Tutto questo non è un dramma, attenzione. Non lo è per niente, se non solo gli altri a fartelo pesare come un dramma. Mi pesa molto di più essere miope come una talpa. Quella è una limitazione. Oltre tutto il computer non annulla il problema, ma lo semplifica moltissimo, anche solo perché scrivendo a computer si associa ad ogni parola anche un movimento delle dita e su quello paiono non esserci problemi di automatismi. Essere dislessici vuol dire avere un modo di pensare alternativo, se c'è più di una strada per arrivare a una soluzione state certi che scelgo la meno battuta, sulle mia strade scendono obelischi e si si aprono inaspettati scorci narrativi. 
Pero, prof che passate di qui, genitori di dislessici, non ponete freni alle possibilità dei vostri figli/alunni, ma cercate anche di capire quel surplus di insicurezza che deriva dal non sapere cosa si ha davvero scritto su un foglio.

24 commenti:

  1. Beh. però è bello vedere che alla fine ce l'hai fatta e sei riuscita a diventare un'insegnante. Ciò significa che se ti dovessero capitare degli studenti dislessici saprai sicuramente come motivarli e aiutarli a superare il loro disagio che un tempo è stato anche il tuo.

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    1. Ma infatti non è un dramma, per certi versi oggi alcune cose vengono anche ingigantite, quasi a dire che questi studenti non ce la possono fare. È per questo che alla fine ho deciso di scrivere questo post, che, appunto, non è stato facilissimo.

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  2. Questo post mi ha seriamente commossa.
    Sandra

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  3. ...superare i propri limiti, facendo una cosa che la natura ti aveva impedito ai blocchi di partenza...
    hai tutta la mia stima, un rispetto totale e profondo, ed un'affinità che sento similare alla tua... sai perché?
    perché io sono affetta da fibrosi cistica, teoricamente non dovrei e potrei correre, ma ora lo voglio fare, ed un giorno ci riuscirò... grazie mille per la testimonianza (bellissima) che hai postato

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    1. Mi sembra che tu stia superando difficoltà ben maggiori e hai tutta la mia stima. La dislessia, se presa con la giusta filosofia è solo una scocciatura in determinati ambiti e una marcia in più in altri. È solo che quando ne parlo vedo ancora tanta confusione anche negli addetti ai lavori e quindi, visto l'interesse suscitato dallo scorso post mi sono lanciata, anche se andare così nell'autobiografico non è il mio forte.

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  4. Ti contatterò presto in privato, ok?
    In ogni caso, sei una grandissima persona: hai fatto uno sforzo abnorme, hai rischiato (e lo capisco: anche io amo il rischio) e hai vinto.

    Moz-

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    1. Non è così abnorme, lo compie una buona fetta della popolazione. Certo è un bene che ora venga riconosciuto e ci siano alcune misure dispensative (la qualità della mia vita sarebbe migliorata enormemente con a disposizione delle tabelle per i verbi irregolari delle lingue straniere, ad esempio). Però il concetto è proprio che ce la si fa.

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  5. A posteriori pensi che questa fatica supplementare e queste strategie che hai sviluppato ti abbiano arricchita, oppure ti rammarichi che non esistesse una strategia didattica per i DSA?

    Se hai dovuto gestire degli allievi con DSA, in che misura hai applicato le disposizioni attuali, come compiti e verifiche personalizzati?

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    1. Mi sarebbe piaciuto sapere che non era colpa mia. In generale tendo a compensare molto e a dispensare poco. Cioè via libera al tempo aggiuntivo (io mi riducevo a scrivere super in fretta per avere il tempo di rileggere venti volte), alle tabelle che evitino uno sforzo di memorizzazione folle (sopratutto le grafie dei verbi irregolari che ancora mi perseguitano nei miei incubi) e ovviamente la non valutazione di alcuni errori ortografici. Però non amo le verifiche diverse. Scritte con caratteri ingranditi, sì, con più tempo a disposizione, sì, ma diverse? Perché mai? Io per me le avrei considerate un insulto.
      Mi sembra folle, poi, l'idea che un dislessico, in assenza di altre problematiche, possa passare la sua carriera scolastica senza leggere e senza scrivere (eppure ci sono linee di pensiero che vanno in questa direzione). E poi come se la caverà in un mondo del lavoro sempre più competitivo?
      Come sempre la linea di demarcazione tra riconoscere la difficoltà ed evitare l'eccesso di protezione è sottile e va visto caso per caso. Nell'ultimo ciclo scolastico ho avuto due alunni dislessici completamente diversi, sia per difficoltà che per strategie, arrivavano magari allo stesso risultato per vie completamente diverse. Come sempre ci vuole tempo da dedicare al singolo alunno per capire, provare, parlare. Ci vorrebbero classi poco numerose e una buona dose di volontà di dialogo, che spesso manca.
      PS: al PAS ho preteso di usare il computer per lo svolgimento di alcune prove, perché il tempo era troppo limitato per permettermi di scrivere e ricontrollare su carta, dopo il primo esame non esaltante mi sono impuntata, perché un conto è cercare di cavarsela da soli, un altro è rischiare di buttare via una carriera perché si scrive lentamente a mano (e poi non volevo certo consegnare prove con orrori ortografici a un corso per diventare insegnante di lettere!)

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    3. Grazie di questo mini-post di approfondimento.
      Lo trovo interessante =)

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    4. Non escludo un terzo post a tema, più tecnico/didattico, in futuro.

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  6. Grandissima. Dovrebbero esserci più persone come te, che tirano fuori tutto, che si aprono su un percorso fatto per dire, urlare, o raccontare che è vita. Cavolo, vorrei farlo anch'io. Uso i libri, ma non è la stessa cosa. ;)
    Bello!

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  7. Bellissimo sentirti raccontare questa sperienza che non è affatto facile immaginare, anche adesso che di dislessia si parla spesso. Grazie! :)

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  8. Premetto che io non conosco la dislessia, quindi il mio ragionamento è generalizzato e basato sulla mia esperienza personale. Ho notato che la generazione dei miei genitori (e suppongo anche dei tuoi) tenda a negare l'esistenza nei figli di qualunque problema non-fisico, vuoi per attenuare il senso di colpa, vuoi perché cresciuti da genitori appartenenti a una generazione che nulla sapeva di psicologia e dinamiche mentali. Quindi, tutto per loro dipendeva dalla volontà, dalla capacità di reagire e far fronte alle problematiche a testa alta, con tanto giudizio e pochissima comprensione. Da qui, appellativi come: "svogliato", "pigro", "distratto", "indisciplinato" ecc, perché se dici che tuo figlio va male a scuola perché depresso (magari in seguito a una separazione) sei tu a fare brutta figura davanti alla società, quindi meglio spostare le colpe all'esterno. Questo avveniva anche quando l'atteggiamento del figlio dipende da pregi e non da difetti. Ora, per contro, siamo scivolati nell'eccesso opposto, ovvero un giustificazionismo totalizzante...

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    1. C'è da dire che non c'erano alcune basi teoriche. Alcuni problemi di apprendimento sono stati studiati solo a partire dagli anni '80. Personalmente non posso lamentarmi dei miei che le hanno provate davvero tutte. Se nonostante la fatica di leggere mi è stato trasmesso anche l'amore per i libri lo devo a mia mamma che ha passato ore a leggermi romanzi, fumetti, per spingermi a superare la mia ritrosia. Certo, all'inizio erano spiazzati e, appunto, il fatto che io sia distratta non mi aiutata.
      Poi è vero quello che dici, negli anni '80 non si cercavano le cause dei malesseri dei bambini e vi era una forte etica del dovere per i più vari motivi (i miei erano degli anticonformisti, quindi della società non gliene importava molto, ma il dovere era un valore supremo. Oggi siamo scivolati, come tu dici, nell'eccesso opposto e come sempre il buon senso e la giusta via di mezzo sono difficilissimi da perseguire.

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    2. I miei invece sono persone molto conformiste, specialmente mio padre. Quando da adolescente ho avuto dei disturbi alimentari (causati in parte da problemi con lui) se avesse potuto mi avrebbe rinchiuso in casa affinché non si spargesse la voce, come se avessi iniziato a drogarmi o a prostituirmi.
      Ancora oggi, che come sai ho avuto difficoltà serie sul lavoro, è convinto che sia tutta colpa mia, perché sono una debole di carattere e non mi so adattare.

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    3. L'dea che "devi imparare a cavartela da sola" è tipico della loro generazione, temo. Io ho vissuto anche aspetti positivi, sono ad esempio stata invitata a viaggiare "senza reti" molto presto, anche se a volte avrei voluto qualcosa di più di un "devi cavartela" di fronte a paure o difficoltà. Di loro, però, non posso lamentarmi perché ho sempre percepito il loro amore e il loro impegno a fare del loro meglio.
      Un padre come il tuo è assai pesante, è un modello che ancora esiste e ogni tanto li incontro come padri di alunni e vedo i danni che fanno (oddio, anche i "mio figlio ha sempre ragione" fanno un sacco di danni).

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    4. Beh, sul fronte del "movimento", non mi posso lamentare. Anch'io ho viaggiato molto (a 17 anni ho passato un mese negli USA da sola), ho potuto studiare fuori sede e non ho mai avuto restrizioni, pur senza bruciare le tappe. Tuttavia, la pretesa di controllo emotivo mi ha creato grossi danni. Sono cresciuta a suon di "non piangere!", "non arrabbiarti!" e non credo che reprimere le emozioni renda persone migliori: occorre, invece, prenderne coscienza e impararle a gestire. Per anni sono stata convinta di aver qualcosa di sbagliato, nel mio modo di essere. Poi ho capito che se non fossi così non sarei una scrittrice, e ho imparato ad accettarmi, con tutti i miei difetti.

      Giusto per dirne una: quando gli ho detto che in questo ufficio mi sento sprecata, mi ha dato dell'arrogante. Poi ho scoperto, tramite mia sorella, che non sa nemmeno che lavoro faccio. E quando, lo scorso novembre, sono stata due mesi in mutua per un crollo nervoso, si preoccupava che potessi rimanere "fuori dai giochi aziendali", senza rendersi conto che io non vedo l'ora che questo avvenga. Tant'è che entro ottobre chiederò il part-time.

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  9. Profonda stima. Non posso dire di capirti, ma io combatto con la DSA tutti i giorni e posso dire di avere almeno un'idea vaga...

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