domenica 4 marzo 2018

La fontana della felicità – parte seconda, racconto inedito


Qui la prima parte

Benché la felicità fosse appannaggio di molte bestie e di pochi uomini, la città aveva un suo fascino magico. Tutti i forestieri ne erano incantati, ascoltavano i concerti improvvisati dagli anziani ai margini delle piazze, accarezzavano i lupi e osservano i merli accoppiarsi con i parrocchetti e gli strani uccelli meticci e silenziosi che popolavano la città. 
Solo Horace Saltarospo sembrava del tutto immune dall’incantesimo. Faceva notare come le produzioni artistiche degli anziani felici fossero quasi tutte di dubbio gusto. I famosi concerti erano pieni di note stonate e anche i lupi mansueti non avevano un bell’aspetto. Mangiavano qualsiasi cosa fosse loro offerto, con effetti deleteri sulla loro salute.
Melagro, intanto, non faceva che osservare la differenza tra lo zio e il suo vecchio amico. Prunus era un uomo gioioso, con gli occhi che luccicavano di contentezza, sempre con una parola gentile per tutti e un fascino che l’età non aveva intaccato. Sapeva ancora far arrossire una donna con un apprezzamento ben piazzato e un mezzo sorriso malizioso. Inoltre Melagro era terrorizzato dall’idea che lo zio si tirasse indietro all’ultimo momento. Stava andando tutto troppo liscio, il vecchio si lamentava, obiettava, dubitava, ma di fatto non poneva ostacoli all’organizzazione del suo percorso verso la felicità.

Uno degli spettacoli più straordinari a cui Melagro assistette fu vedere gli uomini e le donne bere alla fontana. Il tutto ormai era rodato da una perfetta macchina organizzativa. Il permesso per accedere alla pozione andava inviato con anticipo, veniva vagliato dalla commissione, confermato o respinto a norma di legge. Ognuno vedeva quindi fissato il giorno e l’ora in cui, scortati da due ufficiali della città, poteva superare le transenne, immergersi con i piedi nella fontana, fino ad arrivare a alla bocca di uno dei cavalli di Nettuno e suggere da essa il portentoso liquido.
Molti ancora un attimo prima di bere erano scettici, altri sofferenti, qualcuno era in lacrime, altri ancora rosi dal dubbio di aver ben speso tutti i risparmi di una vita per quel viaggio. Ma appena bevevano i volti si rasserenavano, le fisionomie risultavano del tutto trasfigurate da sorrisi distesi che magari mancavano da quei visi da decenni.
Giunse anche il turno di Horace Saltarospo. L’uomo avanzò verso la fontana con un viso da esattore delle tasse. Melagro aveva visto condannati a morte con occhi più allegri di quelli con cui lo zio fissava Nettuno.
– Eh, alla fine è venuto anche il suo turno, lo dicevo io che avrebbe capitolato! – commentò Prunus, tutto gioioso, a fianco di Melagro.
Il giovane non era mai stato così teso, si aspettava che da un momento all’altro lo zio avrebbe scartato di lato e, gotta o non gotta, avrebbe preso a correre per la pizza zigzagando come un coniglio terrorizzato, di tutto il mondo l’unico che rifuggisse la felicità. Il cuore di Melagro perse un colpo, quando il vecchio avvicinò le labbra alla pozione. Quello, pensò, era capace di morire adesso per dispetto. Invece Horace Saltarospo bevve.
Come coloro che erano venuti prima di lui, alzò il viso rasserenato e per la prima volta il nipote notò l’azzurro dei suoi occhi, che ora brillava di un’inesauribile gioia interiore.

Per festeggiare, Melagro, Horace e il professor Prunus andarono a pranzo in una delle osterie che si affacciavano sulla piazza.
Il giovane non poteva crederci, lo zio e il vecchio amico non facevano che brindare e ridere, ricordando vecchi eventi dei tempi della scuola, marachelle infantili rievocate ora con gioia. Quando arrivò il dolce intonarono persino una canzone goliardica, cantata con voci stonate.
Toccare subito la questione dell’eredità pareva a Melagro indelicato e quindi estrasse dal panciotto una lettera che le famiglie dei minatore avevano scritto in previsione di questo momento. Elencavano le malattie a cui i lavorati erano sottoposti, le condizioni in cui versavano i bambini, la denutrizione e l’analfabetismo che dilagavano tra i minatori. In breve, chiedevano un aumento dei salari e una diminuzione dei turni di lavoro.
– Non ci penso nemmeno – fu la lapidaria risposta di Horace Saltarospo.

Melagro rimase immobile, con un’espressione inebetita, mentre il professor Prunus rideva di gusto.
– Inoltre, caro nipote, tutta questa storia di bere alla fontana è stata una tua idea, ma sono stato io a pagare viaggio, vitto e alloggio – aggiunse soave Horace. – Quindi mi sembra equo che tu debba lavorare per me come segretario e assistente fino ad aver ripagato il tuo debito.
– Ma sono il tuo unico nipote!
– Il Cielo ha avuto la bontà di risparmiarmi il tedio di averne altri – replicò il vecchio.
– Ma tu hai bevuto la pozione, sei felice! – esclamò Melagro, ormai in preda al panico.
Horace Saltarospo puntò lo sguardo dei suoi ridenti occhi azzurri sul viso del nipote.
– Sono felice. E hai mai avuto il dubbio che anche prima lo fossi? Mi hai mai sentito piangere, mi hai mai visto in preda allo sconforto o anche solo al dubbio?
– Ma… La paura della malattia…
– Simulata, esattamente come la vostra preoccupazione. E lasciami ammettere, caro nipote, che sono un attore assai migliore di te.
– Credo che il povero Melagro si meriti una spiegazione – intervenne il professor Prunus. 
Più che di una spiegazione, Melagro sentiva la necessità di un intervento medico. Stava iperventilando e sentiva la tachicardia galoppare. Anche una spiegazione, però, sarebbe stata gradita.
– Sei un oratore migliore di me – sorrise Horace al vecchio amico.
– Sta bene – accettò Prunus. – C’erano una volta, quindi, mio caro Melagro, cinque studenti dell’università assai indispettiti per le regole che normavano l’accesso alla felicità. Erano brillanti e pieni di iniziativa, al punto da non volersi negare una vita felice. Uno di loro, io, era già un alchimista esperto, in grado di preparare un olio simile a quello usato durante le partite di calcio invisibile. Un altro era appassionato di mitologia e ci consigliò di fare come Ulisse con Polifemo. Scoprimmo che un pastore aveva avuto il permesso di portare la sua nuova mandria di mucche ad abbeverarsi alla fontana. Queste cose si fanno di notte, per non disturbare il flusso diurno di anziani e malati. Riuscimmo quindi ad avvicinarci alle mucche e ad attaccarci, con legacci invisibili, alle loro pance. Nella notte, le vacche ci condussero fino alla fontana e ciascuno di noi riuscì a bere un sorso e a essere ricondotto via prima dell’alba.
Melagro continuava a passare lo sguardo da Prunus a suo zio, senza voler accettare ciò che gli veniva detto.
– Ma zio, tu sei sempre stato felice…
– Sì – sorrise Horace. – E pertanto ho sempre fatto ciò che più mi piace, accumular denaro e vessare le persone. Non so da dove venga questa convinzione che le persone felici siano per loro natura migliori.
– Non lo sono – convenne Prunus.
– Ma voi siete un luminare benemerito!
– Sì, perché ho sempre amato studiare e insegnare. Ho anche avuto otto figli da otto donne diverse e non ho mai voluto sapere nulla di loro. Ho settantaquattro anni e credo sia ragionevole dedurre che i miei genitori siano morti, ma non ho memoria dell’evento. Mi è stato certo riferito, ma non ha per nulla intaccato la mia felicità. Se fosse stato necessario fare qualcosa per loro, cure medice, assistenza, dubito che lo avrei fatto. Ricordo in modo vago una delle mie ex amanti che mi chiedeva in lacrime del denaro per il figlio malato, penso di aver comprato invece una bottiglia di champagne, per brindare con lei ai vecchi tempi, ma ho supposto dalla sua espressione che non abbia gradito. 
Prunus aveva parlato con quella sua voce gentile e il sorriso aperto, elencando fatti di cui era del tutto consapevole, ma che non avevano una reale importanza per la sua vita.
– Forse è il caso di ricordare anche i nostri compagni – sorrise Horace. – Eravamo tutti studenti brillanti. Alboino, che progettava macchine volanti, si schiantò tre giorni dopo aver bevuto, provando un prototipo che era certo avrebbe funzionato. Quando si è felici si tende a non curarsi troppo delle norme di sicurezza.
– Tancredi è stato condannato a morte – ricordò Prunus, con voce trasognata. – Era il mio più brillante compagno di studi. Quando si è felici si pensa alla bellezza di ciò che si fa, non all’etica. La sperimentazione sull’uomo non è vista molto bene, specie se causa un certo numero di morti, una quarantina, credo. Io dovevo testimoniare al processo in suo favore, ma quel giorno mi è venuta in mente una nuova formula da sviluppare e non sono mai andato. Non sono andato neppure all’esecuzione. Pare sorridesse, mentre gli sparavano.
– Adalgiso, invece, studiava per dovere, non per piacere, anche se era una mente fina – riprese Horace. – Quando l’ho visto l’ultima volta era un senzatetto. Vestito di stracci, suonava a lato di una strada un flauto di pan senza azzeccare una nota. Dimostrava il doppio dei suoi anni. Suppongo sia già morto da un pezzo. Nessuno di noi è diventato migliore o ha fatto del bene al prossimo, anche se la nostra è stata una vita estremamente piacevole. Simulare l’infelicità per tutto questo tempo è stata una deliziosa sfida intellettuale.
Prunus bevve un sorso di vino.

– Io ho pensato, in via teorica, a un’umanità del tutto felice. Saremmo dei gioiosi animali promiscui, come gli uccelli della città, incuranti del nostro futuro, intenti a fare solo ciò che ci piace fare. In definitiva, suppongo, destinati all’estinzione. Molto tempo fa i nostri antenati, nel giardino dell’Eden, barattarono la felicità con la conoscenza del bene e del male. Non mi sento di dire che abbiano sbagliato.

2 commenti:

  1. Ciao Tenar, nel mio blog ti ho passato la palla per il gioco delle 25 domande cinematografiche!

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