domenica 11 febbraio 2018

NEL REGNO DI SORELLA MORTE –racconto inedito, ultima parte


Parte prima
Parte seconda

Riassunto breve
Nell'Italia devastata dalla peste, Ruggero è in cerca del fratello, scomparso nei pressi di Viterbo. Durante le ricerche, Ruggero si imbatte in due monaci, impegnati nel compito di recuperare i cadaveri degli appestati per dar loro una sepoltura cristiana. Insieme ai monaci, Ruggero raggiunge Viterbo dove spera di trovare notizie del fratello e del misterioso tesoro che aveva trovato a Costantinopoli e che stava portando con sé.
A Viterbo Ruggero scopre che il fratello aveva lasciato la città già una ventina di giorni prima. È probabile, quindi, che gli sia accaduto qualcosa nelle immediate vicinanze della città. Setacciando le campagne circostanti, Ruggero identifica un covo di banditi. Qui trova della refurtiva, tra cui delle monete Veneziane presumibilmente appartenute a suo fratello.

NEL REGNO DI SORELLA MORTE – PARTE TERZA


Quando uscì non avrebbe saputo dire quanto tempo era rimasto nella grotta. Il sole non sembrava essersi troppo spostato nel cielo, ma il suo mondo era cambiato. Se era tutto volere di Dio, pensò, cos’era quello, uno scherzo crudele? Far guarire una persona da un morbo che per quasi tutti era una condanna certa solo per farlo uccidere qualche mese più tardi da volgari banditi. Scosse il capo, pentendosi della propria rabbia blasfema. Ormai, però, quel pensiero era stato formulato. Sentì le parole di suo fratello nella propria mente.
Ci sono cose, basta pensarle e ti ritroverai cambiato, per sempre.
Non c’era null’altro di suo lì. I predoni non erano interessati che alle monete e ai gioielli. Non si erano resi conto di cosa stavano distruggendo. Una delle menti migliori d’Italia. Uno dei medici più capaci, proprio nel mezzo di un’epidemia. Con Giffredo se n’era andata persona buona, un fratello e un figlio affettuoso, ma anche tutta una montagna di conoscenza faticosamente accumulata. Tutto ciò che aveva appreso a Costantinopoli e ancora non aveva messo per iscritto.
Si costrinse a muoversi.
Doveva avvisare le autorità cittadine. Forse sarebbero riuscite a prendere gli assassini. Ruggero ne dubitava. Avrebbero capito che qualcuno era stato lì e avrebbero spostato il proprio rifugio. D’altro canto non poteva rimanere solo ad attenderli. Era un uomo di cultura, difficilmente avrebbe avuto la meglio contro un solo sicario, se fossero stati due sarebbe stata morte certa. La vendetta era un peccato che non gli era concesso. Prese la moneta veneziana. L’unica cosa che gli restava di suo fratello e scese verso la strada principale. Non avrebbe mai saputo cosa Giffredo aveva acquistato a Costantinopoli ed era tanto ansioso di mostrargli, il suo tesoro. Evidentemente i predoni non l’avevano reputato tale. 

  Anche durante il ritorno, non incontrò nessuno. Si chiese cosa ne fosse stato del corpo di suo fratello. Se fosse rimasto insepolto in qualche anfratto tra le colline, o se i frati lo avessero raccolto e fosse finito nelle fosse comuni, insieme ai morti di peste. Almeno avrebbe avuto una preghiera, se non un rito funebre.
Come se il suo pensiero li avesse evocati, vide i due frati, con i loro carro dal macabro carico. Si intravedevano già le case di Viterbo e la campagna era costellata di casolari. I frati avevano abbandonato la strada principale per avvicinarsi a uno di questi, in mezzo a un prato. Non si erano accorti, però, che il terreno, riscaldato dal calore del giorno si era ammorbidito in fango tenace e ora faticavano a liberare le ruote del mezzo. Fra Domenico aveva il saio quasi del tutto ricoperto di fango e fra Ottavio dava l’impressione di un uomo sul punto di imprecare.
Ruggero fece deviare il cavallo, consapevole che presto anche i suoi abiti sarebbero stati nelle stesse condizioni dei sai del monaci. 
– Il Signore ti benedica! – si illuminò fra Domenico. – Fate forza sulla ruota di dietro, insieme ce possiamo fare, a Dio piacendo.
Il prato era ingannevole. Quello era un pantano bello e buono e dopo tre passi Ruggero era già affondata fino al calcagno.
– Non riusciremo a liberarlo! – protestò.
– Con la fede e il favore di Dio nulla è impossibile! – ribatté fra Domenico.
Ruggero sospirò. In ogni caso i clienti di quel carro non si sarebbero lamentati e tra tutte le cose inutili che aveva pensato di fare, molte delle quali avevano a che fare con vendette che non sarebbe stato in grado di portare a termine, cercare di liberare un carro carico di cadaveri sembrava la meno sbagliata.
Con un grugnito si mise a spingere.
– Ce la facciamo! – incoraggiò fra Domenico.
La ruota si era mossa per forse un palmo, ma era qualcosa.
Spinsero di nuovo.
Fra Ottavio, di fianco a lui, grondava sudore, nonostante la fresca aria autunnale. Si era rimboccato le maniche e sul suo braccio spiccava una lunga cicatrice, lasciata senza dubbio da una lama, un colpo di spada che alcuni anni prima doveva avergli spezzato il braccio. C’era anche un graffio più recente, che stava appena guarendo. Ruggero avrebbe giurato che era stato lasciato da un pugnale.
– Ancora uno sforzo! – li incitò di nuovo fra Domenico.
Se fosse stato un capo militare, sarebbe stato il tipo di condottiero da concepire solo vittoria o morte. Fra Ottavio mormorò tra i denti qualcosa che Ruggero sospettò essere assai poco adatta alla vita monastica. Tuttavia si rimise a spingere. Era forte come un toro. Ruggero diede il proprio contributo, ma fu principalmente merito del suo compagno se il carro uscì dalla fossa in cui si era impantanato. Dando l’ultima spinta, il giovane incespicò e cadde, finendo disteso nel fango. Pensò che poteva rimanere lì, lasciarsi avvolgere dall’acqua che trasudava dal terreno e poi dalla notte e raggiungere Giffredo. Accettò, invece, la mano che fra Ottavio gli porgeva.
– Vi siete sporcato per bene – commentò il frate, guardando i suoi vestiti.
Ruggero stava guardando invece la sua mano. Come tutti, vi aveva scritto la sua vita. Niente macchie di inchiostro. Vi erano, invece, i calli tipici dell’uomo d’arme.
– Ottimo lavoro, Dio ne terrà conto! – disse fra Domenico, avvicinandosi.
– Da quanto siete al convento di san Tommaso. fratello Ottavio? – chiese Ruggero.
Fra Ottavio seguì il suo sguardo.
– Dall’inizio della peste – disse. – Sono tra quelli a cui il castigo di Dio ha aperto gli occhi.
– Sì – confermò fra Domenico. – Lui e fratello Alberigo, che il Signore l’abbia in gloria, sono arrivati l’anno scorso, all’inizio dell’epidemia. Hanno servito bene il Signore e nessuno ha fatto domande sulla loro vita precedente.
– Quello, però, è recente – obiettò Ruggero, indicando il braccio ancora scoperto del frate.
– Mi sono graffiato con uno spillone che stava su uno dei cadaveri – rispose questi, aspro.
Ruggero vide che fra Domenico si accigliava, guardando il taglio.
– Non sembra un graffio lasciato da uno spillone. È piuttosto profondo – commentò.
Tuttavia, se fra Ottavio faceva vita di comunità e usciva sempre con fra Domenico… Non poteva guardare tutti con gli occhi del sospetto. A meno che…
– Quando è morto questo fratello Alberigo? – chiese.
– La pestilenza miete vittime anche tra di noi – rispose fra Domenico. – Fratello Alberigo è tornato alla casa del Padre dieci giorni fa, dopo un’agonia di due giorni.
– E voi avete deciso di sostituirlo?
– Siamo rimasti in pochi e molti di noi sono vecchi o malati.
– Che assurdità sono queste? – protestò fra Ottavio.
Ruggero vide che stava sudando e i suoi occhi saettavano a destra e a sinistra come come quelli di un coniglio che abbia fiutato i predatori. Un’anima candida non avrebbe capito dove si voleva andare a parare.
– La pestilenza è un’ottima opportunità per chi abbia la necessità di sparire per un certo tempo, fingersi morto e riapparire poi ad epidemia conclusa con un altro nome – ragionò Ruggero. – Tu e questo compare siete giunti a Viterbo quando i frati di san Tommaso avevano già iniziato a raccogliere i cadaveri, vero? Quale splendida occasione per depredare, velocizzare il trapasso a qualcuno di non così malato e poi nascondere il corpo con gli altri, dentro la fossa comune! Durante una pestilenza è così facile perdere il conto dei morti…
Fra Domenico aveva la fronte aggrottata nello sforzo di accettare il significato di quelle parole. Ruggero stesso si rese conto tardi di essere troppo impegnato a convincere il vero frate per prevedere l’attacco di Ottavio. 
Gli arrivò una gomitata in piena faccia, seguita da una ginocchiata nello stomaco. 
Si trovò in ginocchio nel fango, mentre il finto frate fuggiva con in mano il pugnale che gli aveva sottratto.
Era l’assassino di suo fratello.
Con un grugnito, Ruggero si rimise in piedi, lanciandosi all’inseguimento. Ottavio aveva il fisico robusto del guerriero di professione, ma il giovane era più veloce, inoltre il saio zuppo di fango non era la veste ideale per la corsa. In poche rapide falcate, Ruggero gli fu alle spalle.
Rotolarono insieme a terra.
Morirò qui. Disarmato contro un assassino professionista, morirò da idiota.
Provò a mordere e a calciare alla cieca, ma quel poco di scherma che aveva imparato non aveva nulla a che fare con quella lotta sporca. Sentì le costole incrinarsi sotto i colpi ben piazzati del sicario. Quando vide il bagliore dell’acciaio pensò che non gli restava tempo neppure per una preghiera. Un’altra delusione per fra Domenico.
Ottavio si sollevò un poco per vibrare il colpo e poi ricadde sopra Ruggero, mentre la lama del suo stesso pugnale gli mancava di un soffio la gola.
– Non trovavo un bastone adatto, scusate – disse fra Domenico, apparendo nella visuale di Ruggero con in mano il manico di una vanga.

Il colpo non era stato certo abbastanza forte da ucciderlo, ma pochi istanti dopo la situazione era ribaltata. Era Ruggero che poggiava il pugnale sul collo di Ottavio.
– Non macchiate la vostra anima di un peccato capitale! Lo consegneremo alla giustizia! – disse fra Domenico.
Era l’assassino di suo fratello, pensò Ruggero. Ricordò agli occhi si sua madre. Quando erano arrivati i cacciatori con il corpo di suo padre erano diventati del colore di un cielo che non avesse mai conosciuto il sole. Ci avevano messo anni per tornare a illuminarsi. Affondare il pugnale sembrava giustizia, non peccato. Quale Dio avrebbe salvato Giffredo dalla peste per poi farlo uccidere a quell’uomo? 
– Mio fratello aveva delle cose con sé, libri. Non erano nel vostro covo, cosa ne avete fatto? – ringhiò.
Giffredo avrebbe voluto che si occupasse di quello. Dei libri.
– Troppo riconoscibili per venderli – rispose l’assassino.
Nella frazione di un battito di cuore in cui l’uomo ci mise a riprendere fiato, Ruggero capì che se li aveva distrutti il coltello sarebbe affondato.
– Li abbiamo gettati nella scarpata, dall’altra parte della collina rispetto al nostro covo.
Ruggero affidò il coltello a fra Domenico.
– Portalo tu alla giustizia. O all’inferno, come preferisci.

*

Fra Domenico e Gualtiero Gatti sembravano fatti per intendersi. Il frate era venuto a riferire che Ottavio si trovava ora nelle prigioni cittadine e lui e l’anziano nobiluomo avevano preso a discutere. L’imminente giubileo. La peste come purificazione divina.
– Questo paese rinascerà – stava dicendo Gatti. – Dio non l’ha abbandonato, l’ha purgato, così come un medico per salvare un corpo deve tagliare un arto infetto.
– È tutta volontà del Signore. Il Suo disegno è troppo complicato per i nostri occhi – concordò il frate. – Anche il tuo lutto, messer Malaspina, devi accettarlo come parte del Suo volere e essere felice per l’anima di tuo fratello, che ha abbandonato questa landa di miserie e tentazioni.
– Sì – rispose distrattamente Ruggero. – Questo paese rinascerà.
Giffredo aveva avvolto il suo tesoro in buon tela cerata e imbottito la sacca di stracci, cosicché il libro era arrivato in fondo alla scarpata senza alcun danno e l’umidità non aveva raggiunto le pagine.
Si trattava di un trattato di matematica e geometria che dal greco antico era stato tradotto e ampliato in arabo, tradotto poi il greco moderno a Costantinopoli e poi di nuovo in latino da Giffredo, durante la propria convalescenza a Venezia.
Fra Domenico avrebbe detto che era il disegno di Dio. Giffredo non era morto di peste per poter portare a termine il lavoro. La sua ora era stata posticipata. Ruggero sentiva di non avere una fede abbastanza grande per accettare la perdita di suo fratello. Per le strade di Viterbo, come nel resto dell’Europa intera, la peste continuava a mietere le proprie vittime. I lupi ululavano ogni sera più vicini alle case. Tuttavia, come ogni pestilenza, anche quella sarebbe passata. Grazie al libro che Ruggero aveva tra le mani sarebbero stati possibili nuovi calcoli. Nuove costruzioni. Un mondo nuovo, che forse era nei pensieri di Dio, ma che sarebbero stati gli uomini come suo fratello a realizzare.

L'ANGOLO DELLE CURIOSITÀ
Questo racconto nasce a Viterbo, unico luogo in Italia dove vi è una Piazza della Morte. Il nome deriva dalla presenza di una confraternita che, in occasione delle pestilenze, si occupava di dare degna sepoltura ai morti che rischiavano di rimanere insepolti.
Da questa suggestione non ho saputo fuggire, anche se probabilmente la confraternita è posteriore alla peste del 1348, non ho potuto non immergermi in questo cupo paesaggio medioevale, ossessionato dal castigo di Dio, ma in cui già si respira l'aria del primo umanesimo.
Infine, la famiglia Gatti era una famosa famiglia guelfa di Viterbo che si disputava il controllo della città con altre famiglie. Queste rivalità sfociavano in vere e proprie battaglie per le strade cittadine, che ancora ne portano un'eco nei loro nomi (via del macello, ahimé pare non avere a che fare con i bovini...). Nel 1348, con il papa ad Avignone immagino però Viterbo già in decadenza, in una solitudine aggravata dalla pestilenza e in questa solitudine si insinua l'indagine di Ruggero, con tutte le sue suggestioni proto rinascimentali.
Ed ecco due scatti dalla Viterbo medioevale

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