venerdì 5 ottobre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 2

Eccoci di nuovo con la mia "storia particolare".
Il capitolo è lungo, ma a spezzarlo mi pareva di fare più male che bene.

Capitolo 1


PADRONE DEL TUO DESTINO – PARTE PRIMA, CAPITOLO 2

Y. si era ripromesso, non più tardi di due mesi prima, di non prendere in considerazione atleti che non avessero alle spalle famiglie in grado di riprenderseli, nel caso qualcosa fosse andato storto. Non che potessero essere tutti ricchi come E., certo, ma con le storie lacrimose di gente disastrata aveva chiuso. Chiuso. Con questo pensiero si trovò, senza ben sapere come, davanti al ragazzo, che si stava togliendo i pattini.
Aveva i calzini macchiati di sangue, ma se li tolse senza smorfie.
– Non sono della tua misura – grugnì Y.
Il ragazzo alzò lo sguardo e sorrise.
– Fanno il loro lavoro – disse.
Aveva un bel visetto pulito e occhi chiarissimi, color dell’acqua.
– Ho pattinato bene? – chiese.
Y. sbuffò.
– La coreografia non era male, ma gli elementi tecnici erano un disastro.
Il ragazzo si passò una mano nei capelli, senza smettere di sorridere, ma con un certo imbarazzo.
– Qual è il tuo salto preferito? – chiese Y., addolcendo appena il tono.
– Il Loop.
– Il Loop? La partenza è del tutto sbagliata!
– Fammi vedere come si fa!
Non era una domanda, neppure un’implorazione. Era quasi un ordine, impartito da quel bimbetto che adesso aveva un’espressione ostinata.
– Qui? – chiese Y.
C’era un bel caratterino sotto quella faccia d’angelo, questo era sicuro.
– Qui – confermò, infatti, stringendosi nelle spalle.
L’allenatore sospirò. 
Aveva con sé la propria valigetta, chissà poi perché, poi. Ne estrasse il portatile e proiettò sullo schermo una sequenza di foto.
– Questa è la partenza del Loop – disse.
Il ragazzo annuì, concentrato.
– Lei chi è? – chiese, indicando la ragazza che era ritratta nelle fotografie.
– E., vice campionessa europea juniores.
– La alleni tu?
– Naturalmente.
– V! – esclamò una voce femminile. – Non crederai mai a chi è venuto a complimentarsi per la tua coreografia!
Il ragazzo e l’allenatore si voltarono all’unisono.
– Y. F., che ha vinto tre medaglie olimpiche e tre titoli del mondo – disse V., come se fosse la cosa più normale del mondo discutere con lui.
– Quattro titoli del mondo – ringhiò sottovoce Y.
– Ah… – la donna si bloccò, interdetta.
– Era una bella coreografia – disse Y., richiudendo il computer. – Domani me ne farai vedere un’altra?
– Certo! – replicò il ragazzo. – Domani sarò una goccia d’acqua.
L’umiltà non sembrava proprio il suo forte.
– Lasciami indovinare, tuta blu? 
– Eh… Sì.
– Allora ci si vede domani, V.
– Ehm… A domani, allora.


– Dov’eri finito? – chiese D. – I migliori stanno per iniziare.
– Uff…
– Dal ragazzo? Lascialo perdere, sarà già un mezzo delinquente.
Vero, quasi sicuramente.
– Vediamo come pattina domani, oggi può aver avuto fortuna – concesse Y.
Si sforzò di concentrarsi sul gruppo che iniziava in quel momento il riscaldamento.
Pattinavano bene, alcuni molto bene. Avevano tutti pattini della giusta misura, costumi di discreto gusto, allenatori che avevano dietro uno staff tecnico almeno elementare. Non che fosse colpa loro, certo, ma il suo compito, constatò Y., era valutare le potenzialità di quei ragazzi, non il valore assoluto in quel momento. Nessuno di loro avrebbe partecipato a un’olimpiade il giorno seguente. E nessuno di loro, ne era certo, si era preparato la coreografia da solo.
Però pattinavano bene. Sopratutto G. e K. 
G. era diligente e preciso. Ascoltò con attenzione il proprio allenatore prima dell’esibizione e poi eseguì il proprio programma senza sbavature. Anche senza guizzi, certo, ma per un dodicenne non era male. Anche passando agli juniores se la sarebbe cavata bene, tra i primi dieci nel campionato nazionale.
K. era ancora meglio. Si muoveva con grazia e si intuiva uno sforzo interpretativo, oltre a una tecnica impeccabile. Avrebbe vinto lui, a meno di crolli clamorosi nel libero. Non era E., però, o I. Era un giovane campione, questo era sicuro. Ed era consapevole di esserlo. A quanto pareva, il suo attuale allenatore continuava a ripeterglielo. Fin dove si poteva spingerlo? Beh, si sarebbe visto.
Eppure continuava a pensare al ragazzino con la tuta malamente smacchiata. Come avrebbe pattinato, con i giusti mezzi a disposizione? 
E a I., che a tredici anni si sarebbe mangiato K. a colazione, togliendogli in un istante il sorrisetto tronfio con cui il ragazzo prese atto del proprio primo posto. Lui non se ne sarebbe andato con quel passo sicuro, ma sarebbe corso a complimentarsi con il secondo e il terzo. Adesso, però, I. avrebbe dovuto imparare a caricare pezzi di metallo nelle stampatrici e sarebbe stato meglio per tutti, sopratutto per lui, se si fosse dimenticato nel più breve tempo possibile cosa significava salire sul gradino più alto di un podio.


Tuta blu. Di seconda mano anche quella. Probabilmente, pensò Y., mentre osservava il ragazzo durante i minuti di riscaldamento, era partito da quello, da ciò che aveva a disposizione, per costruire i propri programmi. Un’impostazione da professionista.
L’allenatore non sembrava dargli chissà quale valore aggiunto, anzi, non sembravano proprio avere una grande confidenza.
– Non è l’allenatore, è il dirigente del centro sportivo – disse D., che stava osservando le stesse cose. – Lo allena una ragazza che una volta è arrivata dodicesima ai campionati nazionali juniores.
– Ci credo che non abbia le basi, allora… Quindi ti sei informato?
D. si strinse nelle spalle.
– È un tipetto curioso. Ieri, subito dopo la gara, ha avvicinato K. per chiedergli un consiglio. Il nostro aquilotto gli ha risposto che prima doveva imparare a pattinare. Io gli avrei affibbiato almeno un pugno in faccia, mentre il ragazzetto ha detto che era proprio quello che stava facendo e che un giorno sarebbero saliti sul podio insieme. Per un attimo ho pensato che sarebbe stato interessante vederli allenarsi insieme.
Y. grugnì.
L’aquilotto era un po’ troppo abituato a primeggiare. Un atteggiamento pericoloso, a quell’età, ma probabilmente sarebbe bastata E. a rimetterlo in riga.
Il ragazzo aveva cominciato.
Aveva scelto una canzone che parlava di pioggia e di lacrime. E no, la coreografia del giorno prima non era stata un caso. Se solo fosse stato un po’ più preciso…
– L’impostazione del Loop è giusta! – esclamò D.
Un doppio Loop perfetto. Fatto guardando per due minuti delle fotografie, il giorno prima. 
– Adesso tenta una combinazione – mormorò Y.
– Troppa arroganza – commentò D.
Sì. Cadde di sedere sul secondo salto, ma si rialzò subito, recuperando la sincronia con la musica. Questo voleva dire che aveva cambiato in corsa la coreografia. Aveva nervi salvi e consapevolezza di quel che stava facendo, anche se tendeva ad esagerare.
– Se non fosse caduto e non avesse fatto così tante imprecisioni con questo programma si giocava il podio – commentò D., quando ebbe terminato.
– Entrerà comunque nei primi dieci, non male per la prima gara nazionale – ragionò Y. – Tu come te l’eri cavata?
– Dodicesimo. Ma avevo dieci anni, ero il più piccolo. Tu?
– Quarto. Ci sono rimasto malissimo.
– Quindi? – chiese D.
Y. sospirò. Il ragazzo aveva enormi margini di miglioramento, questo era certo. Ma tra avere una possibilità e riuscire a realizzarla c’erano in mezzo una marea di variabili, alcune del tutto imponderabili. Era una scommessa in qualsiasi caso e se le complicazioni erano troppe forse non valeva la pena di scommettere. Se c’era una cosa che Y. odiava era creare aspettative che poi non era in grado di soddisfare.
– Vediamo di fare una chiacchierata con i suoi accompagnatori, a fine gara.

Vinse K., G. arrivò terzo, con una performance un po’ sporcata dall’emozione. Il secondo aveva quasi quindici anni, uno di quelli che aveva preferito rimanere a primeggiare tra i Novice piuttosto che passare agli Juniores.
Y. andò a parlare con i suoi due osservati e i rispettivi genitori, entrambi i ragazzi sembravano ben consapevoli di cosa volessero e di cosa ci si aspettava da loro. 
– Io voglio vincere le olimpiadi, come te – disse K., alzando il mento, quando fu davanti a Y.
Il padre del ragazzo, un ex militare, gli mise una mano sulla spalla in segno di approvazione.
– Noi siamo gente nata per primeggiare – disse.
– Allora devi metterti in testa di lavorare sodo – replicò il tecnico al ragazzo, ignorando il padre. – Più di quanto tu abbia mai fatto. Ti aspetta una giovinezza senza uscite con gli amici il venerdì o il sabato sera, senza vacanze. Ti alzerai molto prima degli altri ragazzi, tutti i giorni, avrai male da qualche parte tutti i giorni. Non deciderai tu cosa mangiare, figuriamoci cosa bere. Dovrai ripetere gli stessi esercizi fino allo sfinimento e trovarti dei ritagli di tempo per studiare, se non vorrai fare la figura dello zotico. Dovrai ubbidirmi ciecamente, anche quando mi odierai con tutte le tue forze. Tutti i tuoi amici avranno vite più semplici della tua e te lo ricorderanno ogni santo giorno.
– Voglio vincere le olimpiadi – replicò il ragazzo, senza cambiare espressione.
Y. si augurò con tutto se stesso che fosse sincero.
Per certi versi una volta era davvero meglio. Essere uno sportivo voleva dire essere un privilegiato, poter viaggiare, accedere a cose che gli altri non potevano neppure sognarsi. Y., da ragazzo, tornava dalle trasferte carico di musica occidentale, libri introvabili e cibi inesistenti. Erano tesori ben miseri, ma a quindici o sedici anni bastavano a fargli dire che ne valeva la pena. Adesso che la Russia era nel libero mercato da quasi dieci anni, perché mai un ragazzo avrebbe dovuto sacrificare la propria vita a un sogno quanto meno improbabile?
– Vedremo – grugnì.
G. gli diede una risposta che gli piacque di più.
– Io sono abituato da sempre a dare il massimo… E voglio conoscere E.
– Ti piace, eh?
Il ragazzo arrossì. 
Se non altro eccellere per potersi pavoneggiare davanti a una bella ragazza era una motivazione che sarebbe cambiata per colpa della politica. Anche se… Ne aveva di strada da fare, G., se voleva impressionare E. con il pattinaggio.

V. era stato parcheggiato su un altro tavolo del bar del palaghiaccio con un’aranciata e degli esercizi di matematica mentre gli adulti discutevano del suo destino. 
Y. era convinto che in realtà avesse orecchie ben tese verso la conversazione, anche se forse non era così, forse era abituato al fatto che la sua vita fosse decisa da altri.
– Il ragazzo ha talento – stava dicendo l’uomo che l’aveva accompagnato. – I nostri mezzi sono limitati, ma è arrivato comunque ottavo. Se ne potrebbe fare un campione.
Voleva soldi. Non solo quelli dovuti per il cambio di società. A Y. non piaceva per niente, non gli piaceva aver notato come il ragazzo, che non si faceva intimorire da niente, neppure da una leggenda vivente del pattinaggio come lui, sembrasse a disagio in sua presenza. Ma un giro di mazzette era la cosa più facile da gestire. I problemi veri erano altri.
– Il padre esce di galera tra quattro mesi – spiegò l’assistente sociale. – In teoria potrebbe riprenderselo indietro, ma non ci crede nessuno. Capirete, è stato in carcere cinque anni, quasi la metà della vita del figlio, e non è che prima fosse un padre presente. Per farlo andare a vivere a San Pietroburgo ci vorrebbe qualcuno che ne chiedesse l’affido, magari disposto a convincere il padre a cederne la patria podestà.
Insomma, altre mazzette.
– Noi però vogliamo un atleta, non un delinquente – disse D.
– A V piace piacere – rispose l’assistente sociale. – Certo, è un po’ selvatico, come tutti quanti, ma tra questo e il pattinaggio si è quasi sempre tenuto fuori dai guai.
– Quasi?
– Stiamo parlando di ragazzi che o non hanno nessuno o è meglio che non avessero nessuno. Tutto il paggio della nostra nuova Russia ha fatto parte direttamente o indirettamente della loro realtà. Il nostro obiettivo è dare a loro un lavoro onesto, ci riusciamo quasi nella metà dei casi e ci riteniamo bravi – spiegò la donna. – V. e i suoi amici qualche mese fa hanno cercato di rubare dei cd in un negozio. Lui faceva il palo, ma si è distratto e si è fatto beccare. Una cosetta da nulla.
Ecco. Y. evitò di chiedere cosa la donna riteneva non fosse “da nulla”. 
Spiò con la coda dell’occhio il ragazzo tirare su una riga sul quaderno e sospirare sconsolato.
– A scuola come se la cava? – chiese.
– Quello è un problema – rispose l’assistente sociale. – I professori dicono che ha la testa tra le nuvole o che non sa concentrarsi. Le materie di studio e quelle tecniche sono un disastro.
– Perché, rimane qualcosa? – domandò D.
– Le lingue, la musica… Però, capite, noi dobbiamo prevedere un percorso di studi che li renda indipendenti il prima possibile. Un corso da meccanico, da elettricista, una cosa così… Voi ve lo vedete V. a fare il meccanico?
Y. guardò di sottecchi il ragazzino, con le sue mani sottili, gli abiti ordinati, il talento innato per dare vita alla musica.
– No – ammise.
– Il pattinaggio può davvero diventare una professione? – chiese la donna.
– Per noi è una professione – replicò Y. – Nell’immediato vuol dire avere tutto spesato dalla federazione, cure mediche, supporto tecnico, istruzione, almeno di base. I ragazzi dei centri federali frequentano scuole apposite, con orari pensati ad hoc. Parliamoci chiaro, i professionisti veri sono una ventina in tutto il mondo e quelli oggi hanno sponsor, opportunità che noi neppure ci siamo sognati, ma cerchiamo comunque di dare qualcosa ai tutti i nostri atleti.
Un posto da operaio, nel peggiore dei casi. Che coincideva comunque con il meglio a cui quel ragazzo poteva aspirare stando dove stava.
– Y., pensaci bene – disse D. – Dovresti prendertelo in casa, sotto la tua responsabilità fino alla sua maggiore età, qualsiasi cosa accada. Essere responsabile di tutte le sue cazzate, i reati che potrebbe commettere. E la maggior parte dei ragazzi che viene da queste realtà non è in grado di mantenere impegni a lungo termine. Alla prima difficoltà ti svaligia casa e se ne va.
L’assistente sociale aggrottò la fronte, ma non replicò. 
D. aveva ragione, quasi sicuramente.
E Y. non voleva prendersi mai più un ragazzo in casa. Poteva dirgli e dirsi tutto quello che voleva, che non cambiava niente, rimaneva un atleta come un altro, ma non era vero.
Sbuffò.
– Ragazzo, vieni qui – chiamò.
Docile, V. si avvicinò con quel suo sorriso con cui, a quanto pareva, si rigirava tutti.
– Perché pattini? – chiese Y.
Il ragazzo ci pensò un attimo.
– Quando pattino sento di esistere. E io voglio esistere, per il maggior numero di persone possibile, il più a lungo possibile.

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