venerdì 19 ottobre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 4

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3


Eccoci alla parte seconda della storia. Pian piano entriamo nel cuore della vicenda, dove tutto si fa più complicato.
Spero che possiate conoscere meglio i miei protagonisti, adolescenti gettati troppo presto in un mondo più grande di loro. Spero che vi possiate affezionare a loro. 
Tengo particolarmente alla seconda parte di questo capitolo. Sia perché è il primo pezzo con il punto di vista di V., sia perché ci si avvicina di più a E., sia perché questo loro sentirsi simili, al di là delle barriere sociali, fondato su un dolore che non hanno mai condiviso con nessun altro è una delle cose a cui tenevo in questa storia.

PARTE SECONDA

San Pietroburgo – Aprile 2002

Y guardò con soddisfazione i suoi atleti che, a turno, provavano le coreografie che stavano preparando per la nuova stagione.
Il primo fu G. 
Il ragazzo se l’era cavata bene, per essere la sua prima stagione da juniores. Terzo al campionato nazionale, sedicesimo agli europei. 
– Un po’ più di grinta, che diamine, è un’aquila quella che stai interpretando, non un piccione! – gli gridò l’allenatore.
G. annuì e riprese da capo i movimenti. No, non aveva il guizzo degli altri, ma sopperiva con l’impegno. Alla lunga, tra talento e impegno, non era detto che fosse il primo a prevalere. Il fatto che ci fossero altri davanti a lui non lo aveva scoraggiato, anzi. Lui era uno che continuava sulla propria strada, leggeva i suoi libri, guardava i suoi film e si innamorava ogni tre mesi di una ragazza nuova, solo per evitare di pensare a E. Rifaceva gli esercizi tutte le volte che gli veniva detto, rispettava con scrupolo fin eccessivo la dieta, ascoltava Y come se fosse un dio sceso in terra. Allenarlo era quasi noioso.
– Avanti K! – l’allenatore chiamò il secondo atleta.
Lui, certo non era noioso da allenare. Era aggressivo, umorale e, almeno per il momento, il migliore. Aveva fatto a pugni due volte con il compagno di stanza, uno nuovo, prima che Y. riuscisse a convincere il direttore del pensionato a metterlo in una singola. Era il campione nazionale juniores ed era arrivato secondo agli europei. Come l’allenatore aveva previsto, l’arrivo di V. in pista gli aveva fatto bene, almeno atleticamente. Forse per la prima volta da che aveva messo i pattini ai piedi, aveva visto la propria supremazia insidiata da vicino e aveva scoperto che le vittorie non erano così scontate. Adesso pattinava con un’espressione corrucciata, adatta al pezzo che stava preparando, in cui interpretava un giovane soldato, e gli occhi castani ardevano in quella particolare luce che ha chi è affamato di vittorie. Bene. Si muoveva con precisione e il pezzo gli cascava a pennello. Quanto al resto, quando vengono messi due atleti di uguale talento a stretto contatto, possono accadere due cose. O diventano grandi amici, o si odiano. E K. odiava V., con tutte le sue forze. Il contrario non era così facile da stabilire, poiché Y., in nove mesi di convivenza, ancora faticava a decriptare il vero carattere del siberiano.
V. era, per certi versi, ancora un enigma.
Nessuna delle fosche previsioni di chi, D. in testa, lo avevano sconsigliato di prenderselo in casa, si erano avverate. Anzi, era come avere un gatto indipendente e pulito. Si alzava alle sei, che ci fosse oppure no allenamento, rassettava la propria camera e prima delle dieci di sera dormiva. Si entusiasmava per ogni sorta di sciocchezza e l’unica cosa che Y. aveva capito che non andava fatta era lasciarlo con del denaro quando c’erano fiere, mercatini o bancarelle di qualsiasi tipo. Era già tornato a casa con un pesce rosso, deceduto in pochi giorni perché poi il ragazzo non si era ricordato di dargli da mangiare, con una collana di plastica per L., dei terribili guanti tigrati che E. gli aveva fatto gettare via il giorno stesso e tre vecchie fotografie ammuffite dei tempi dello zar costatigli tutto il denaro che secondo Y. doveva bastargli per un mese. Si era affezionato al portafazzoletti di peluche a forma di cagnolino che l’allenatore gli aveva fatto trovare in camera, che si portava dietro ovunque come un bambino con la metà dei suoi anni, ma non si era legato allo stesso modo alle persone. Era gentile, sorridente e in sostanza distante. Con un’unica eccezione. Era diventato l’ombra di E. e lei sembrava di aver ricevuto in dono un cucciolo da vezzeggiare.
Nell’impossibilità di recuperare da un giorno all’altro tutto il guardaroba di un adolescente, Y. aveva chiesto alla pattinatrice se per caso non avesse qualcosa di smesso del fratello da prestare. E. era arrivata con valige intere di abiti maschili firmati ed era rimasta tutta una domenica pomeriggio a spiegare a V. come abbinarli e in quali occasioni andassero indossati. Da quel momento, con grande disperazione di G., che in un anno non era mai riuscito a completare un discorso con E., i due erano diventati inseparabili. Lei aveva deciso di trasformare il ragazzetto sperduto in un membro dell’alta società e lui era entusiasta di farsi addestrare. V. ascoltava la musica, guardava i film e quanto meno provava a leggere i libri che lei gli indicava. Da che E. gli aveva detto che sarebbe stato imperdonabile non passare l’anno scolastico si era persino messo a studiare, anche se con risultati alterni.
Sul ghiaccio si era chissà come impadronito della particolare eleganza di E., una cosa che in tutta onestà Y. riteneva impossibile, che univa alla crescente potenza muscolare in un mix che l’allenatore iniziava a sospettare potesse essere unico. Ma con i pattini ai piedi V. era un ribelle. Negli ultimi anni a Salechard doveva necessariamente essere stato allenatore di se stesso e adesso non gli importava quante medaglie avesse vinto o fatto vincere Y. Doveva discutere quali elementi tecnici inserire, come farli, per non parlare del tono paritario che assumeva con L. quando lei vestiva i panni di coreografa. Non c’era nulla da fare, alle nazionali era arrivato secondo, perché aveva a tutti costi voluto inserire una combinazione che ancora non padroneggiava. Era caduto e questo probabilmente aveva evitato che K. si suicidasse in bagno. Y. in tutta onestà non sapeva fino a che punto quell’istinto a superare i propri limiti andasse represso perché quella era la materia di cui erano fatti i record. O i brutti infortuni. Non aveva potuto portarlo agli Europei. All’ultimo momento era mancata una delle infinite firme necessarie per far espatriare un ragazzo in affido o, più probabilmente, era mancata una mazzetta. Ma, almeno, Y. aveva imparato. Nella prossima stagione, se tutto fosse andato bene, con la coreografia che stava provando, il ragazzo avrebbe mostrato la propria esistenza a tutto il mondo.
– Basta, sono stanca – disse E., dopo aver provato un paio di volte il proprio pezzo.
– Come sarebbe a dire “sono stanca”? – chiese Y.
– Questo – replicò la pattinatrice, portandosi al bordo pista e guardando oltre le vetrate gli alberi che iniziavano appena ad aprirsi alla primavera. – Sono stanca. Mi fa male tutto e ho sonno.
Non era da E. lamentarsi così.
– Non abbiamo ancora iniziato la parte seria – replicò il tecnico.
– Mi sono già allenata in palestra questa mattina. Mi fa male tutto.
– Abituati, sono i ritmi dei professionisti – disse Y.
Il salto da juniores a senior era duro per tutti. Sopratutto se ci si portava sulle spalle il peso delle aspettative dovuto a un mondiale vinto di potenza. La vita degli atleti era un susseguirsi di allenamenti e fatica intervallati da fisioterapia, massaggi e dolore. Una volta non era richiesto null’altro. Adesso, nel così detto mondo globalizzato, ci si aspettava anche un atleta indirizzato a una carriera internazionale sapesse come muoversi, parlare quanto meno due lingue, abbozzare una risposta a domande che nulla avevano a che fare con lo sport, non rimaneva molto tempo per il riposo o per qualsiasi altra cosa. Ma era la loro vita.
– E dopo l’allenamento hai ancora danza e… Inglese? – concluse l’allenatore.
– Francese – rispose la ragazza. – Ma non oggi. Basta.
Senza chiedere ulteriori permessi, uscì dalla pista, sotto gli occhi perplessi dei tre ragazzi. Nessuno di loro si era mai neppure sognato di contraddire in quel modo Y. Questi sbuffò indeciso se forzare la situazione o lasciar correre.
– Vai a farti un giro – concesse. – Ma non saltare la danza.
Lei non rispose neppure, già avviata agli spogliatoi.
I tre ragazzi si guardarono. Automaticamente, K. si mise della posizione di partenza, dando per scontato che si ripartisse da lui. V. invece si diresse all’uscita della pista, inseguendo E.
– Ragazzino, per te l’allenamento non è finito – gli gridò Y.
V. scosse il capo, facendo ondeggiare i capelli che gli arrivavano già quasi alle spalle, e proseguì, imperterrito.
– Non sei il suo cagnolino e non puoi saltare tre quarti di allenamento!
V., però, si limitò a girarsi verso di lui, sorridergli quasi a scusarsi, e a proseguire.
Era un ammutinamento bello e buono. Peggio. E. era una ragazza e aveva vinto il mondiale, che gli altri tre la considerassero una creatura diversa da loro, non obbligata a seguire le loro stesse regole poteva starci. K., G. e V., però, dovevano percepirsi come uguali e già non era facile, considerando che uno dei tre viveva nella stessa casa dell’allenatore. 
– Un quarto d’ora di pausa per tutti. – si inserì D., che era in un angolo della pista con il gruppetto di bambine sotto i dieci anni che seguiva. – Ho bisogno di più spazio per le mie principesse.

Y. scosse il capo. D. era troppo tenero con i ragazzi. A neppure trent’anni aveva ancora ricordi troppo vividi di quand’era dall’altra parte della barricata. Se avesse continuato così, non avrebbe mai potuto gestire atleti sopra i dieci anni. Lui, d’altro canto, iniziava a non ricordare più cosa significasse essere adolescente. E, anche se lo faceva, erano ricordi di un’altra epoca. A neppure cinquant’anni a volte si sentiva un residuato di un mondo finito, incapace di adattarsi all’evoluzione troppo rapida dei tempi.


V. trovò E. seduta sulla panchina di pietra del giardinetto di fronte al palaghiaccio.
C’era un sacco di pietra, lì a San Pietroburgo. A Salechard era tutto di cemento o di legno, le strutture delle fabbriche erano di metallo. Non c’era quasi nulla che avesse più di trent’anni. A San Pietroburgo era tutto vecchio, durevole, scolpito. Nessuno si sognava di dipingere i palazzi di rosso o di blu, almeno non lì, o nel centro. Era una città più bella, ma per certi versi più fredda e respingente, di quella da cui proveniva. E. sembrava l’anima della città nel corpo di un’adolescente. Bella di una bellezza antica, che avrebbe incantato in ogni tempo e in ogni luogo, fatta di contrasti, la pelle chiarissima con i capelli neri, il corpo dall’apparenza esile che nascondeva la forza della campionessa. Come la sua città, aveva un’eleganza fredda, un’alterigia un po’ sprezzante che faceva dimenticare il fatto che E. non ridesse quasi mai. 
– Cosa succede? – le chiese, sedendosi al suo fianco.
Lei sobbalzò, ma accettò la sua presenza, come si fa con un cane o un gatto inopportuno.
– Niente. Sono stanca.
– Non ti ho mai sentito lamentarti, prima.
– Aspetta di preparati a passare nei senior – E. sospirò. – Ho scoperto muscoli che neppure sapevo di avere. Ho sempre sonno e ho sempre fame. 
– Anch’io ho sempre sonno e sempre fame. Da sempre.
E. gli passò una mano tra i capelli.
– Sei carino, ragazzino, ma non sai di cosa parli – disse. – Ieri era il compleanno di una mia amica. Alla festa c’erano ragazze che conosco da una vita e quasi non capivo di cosa parlavano. Studio a casa, non esco mai con loro, non conosco nessuno dei loro fidanzati. Non ho potuto mangiare quasi niente di quello che c’era, neppure la torta. A mezzanotte sono venuti a prendermi, mentre loro uscivano per andare in discoteca… Loro pensano che io giri il mondo, che veda chissà cosa, che faccia chissà che, ma vedo solo dei palaghiacci, che sono tutti uguali, in tutto il mondo.
Aveva ragione, lui non sapeva di cosa lei stesse parlando. In quei pochi mesi la sua vita era cambiata come mai prima. Ogni volta che girava un angolo si imbatteva in qualcosa che non conosceva, a cui non sapeva come reagire. Per la maggior parte erano novità meravigliose e non gliene importava molto se rimaneva imbambolato a fissare estasiato cose che per tutti erano scontate. Era bellissimo vivere in un mondo che riservava sorprese ad ogni angolo, fossero anche solo le caramelle alla menta del distributore del palazzetto. Poi c’erano anche le cose come E., del tutto spiazzanti. Finestre socchiuse su mondi splendidi e alieni, come nei fantasy di cui G. parlava sempre, in cui nessuno, però, reagiva come V. si sarebbe aspettato.
– Vorresti vivere come le tue amiche? – provò. – Nessuna di loro ha vinto un campionato mondiale.
– E sai cosa gliene importa, a loro – replicò lei. – Non riescono a capire come ci si possa allenare così tanto, tutti i giorni, per esibizioni che durano pochi minuti. Uno stupido spreco di tempo. E un titolo del mondo dura un anno. 365 giorni dopo è solo una patacca che prende polvere. Tra quattro, cinque anni, magari una delle bimbette che allena D. sarà al posto mio e io sarò zoppa, come I. Pensaci bene, ragazzino, nel letto in cui dormi stava un ragazzo che era bravo quanto te e che adesso controlla macchine che fanno i bulloni alla periferia di Mosca.
V. annuì.
Aveva sentito parlare di I. Aveva dormito nella sua camera e respirato i suoi stessi sogni. Y. aveva commentato anche con lui, alla sera, i filmati appena arrivati da gare o esibizioni sparse per il mondo. Se il tecnico l’aveva ospitato, voleva dire che anche lui non se la passava molto bene, prima. E anche lui si era sentito altrettanto speciale e predestinato. Solo che non era vero. E poteva non rivelarsi vero anche per lui.
– Non importa – disse, per scacciare quel pensiero. – Anche se dovessi ritirarti domani, tra dieci, anche vent’anni la gente guarderà il video del tuo mondiale e ti troverà bellissima. Nessuno nel mondo del pattinaggio ti dimenticherà mai.
– Non esiste solo il mondo del pattinaggio, ragazzino.
– No, ma nessuno può dominare tutti i mondi. Io e te possiamo dominare questo.
– Sei modesto, ultimo arrivato.
– È una delle cose che non dovrei dire, vero? – domandò V., portandosi una mano alla bocca. – Non so mai cosa…
Lei gli passò ancora la mano tra i capelli e poi sulla guancia.
– Non sei modesto per niente, però sei davvero carino, ragazzino.
La mano di E. era ancora sulla sua guancia, leggera, con le unghie blu come i suoi occhi. Occhi che erano troppo vicini, come tutto il suo viso da bambola di porcellana. V. non arrossiva con facilità, ma pensava che, sotto il tocco di E., il suo viso stesse per andare a fuoco.
– Sei così carino che adesso ti darò un bacio – sussurrò la ragazza.
V. pensò per una frazione di secondo che forse era il caso di scappare. Perché lei era troppo bella, troppo diversa, troppo… Troppo tardi.
Si ci avesse pensato, V. si sarebbe aspettato un bacio da ragazzini, uno sfiorarsi appena delle labbra. Invece E. le stava succhiando, le sue labbra, socchiudendole. Ed era morbida e piacevole e non si poteva che lasciarla fare. E sperare che il mondo tornasse in asse. O che tutto continuasse così, per sempre.
Lei staccò le mani dal suo viso, prese le sue e le appoggiò alla panchina di pietra, staccandosi.
V. non aveva idea di quale aspetto avesse, ma era lei ad avere le guance leggermente arrossate.
– Non è il primo bacio che ricevi, ragazzino – disse. – Avrei preferito essere la prima.
Adesso sicuramente V. era arrossito.
– È il primo bacio che sono contento di ricevere – mormorò, arretrando istintivamente verso il bordo della panchina.
Non voleva domande. Ma E. non ne fece. Si limitò ad annuire.
– La prima volta avevo dodici anni – sussurrò la ragazza. – Il socio di mio padre. Eravamo andati via un fine settimana con la sua famiglia. I suoi figli sono più piccoli di me… Come facevo a immaginare che fosse un porco?
V. non disse nulla, continuando a guardare le mani di lei, sopra alle proprie. Lui lo sapeva che era un porco, il dirigente della società sportiva di Salechard. Si era pagato con la propria disponibilità la partecipazione alle nazionali. Ed era andata bene così, visto che ora lui era lì e quell’uomo ancora in Siberia.
E. gli prese il mento con la mano e lo obbligò a incontrare i suoi occhi.
– Non devi dirmi niente, ragazzino. Non importa se veniamo da posti diversi. Noi siamo uguali.
Lo erano? Con tutte le cose di cui E. parlava e che lui non conosceva? Erano cose che avevano importanza?
– Sabato mio fratello fa una festa – proseguì la ragazza. – Ha detto che posso portare chi voglio, immagino speri in belle ragazze, ma vorrei che ci venissi tu.

8 commenti:

  1. Io non commento spesso, e anche questa volta non avrei voluto, un po' perche' sono lentissima a scrivere e riscrivere per essere sicura di non essere fraintesa, un po' per pigrizia. :)
    Eppure oggi ti commento perche'... per varie ragioni. La prima e' per dirti che a me non attirano affatto le storie alla Mimi' o alla Holly e Benji, le storie di sport in generale. Eppure, dopo varie resistenze, ho iniziato a leggere il tuo racconto e adesso attendo con impazienza il seguito ogni fine settimana. QUindi, anche se non commento, a me piace il tuo testo, e penso anche altri come me.
    La seconda cosa, che forse non dovrei dire, o almeno non qui, riguarda due piccoli errori che mi sembra che tu faccia in questo post in particolare. Il primo e' quello di giustificarti, quasi a volerti "parare" in qualche modo rispetto al contenuto del racconto. Il racconto non e' la tua persona, non sei tu. E' nato in questo modo? NOn e' "Colpa" tua, del tuo inconscio o di chissa' cos'altro. DOveva svilupparsi cosi', perche' altrimenti non avrebbe avuto lo stesso senso. Non giustificarti mai per quello che scrivi. Se il lettore ti giudica per quello che i tuoi racconti raccontano, e' un lettore sprovveduto.
    A tale riguardo, mi ricordo il collega di mio marito che, leggendo una mia storia pubblicata in e book, disse a mio marito: "Ammappa, tua moglie" con fare ammiccante, come a dire, "sembra tanto carina e dolce, e invece..." e questo perche' la storia parla anche di due sorelle che ammazzano uomini e se li mangiano. Tra parentesi, episodio realmente avvenuto e ripreso dalle cronache del VI secolo. Io rimasi scioccata per il fraintendimento. Poi mi son detta che non vale la pena pensarci, tanto la storia non poteva essere diversa, e di sicuro, quando scrivo una storia, non mi metto a pensare alla faccia che faranno gli amici o a pianificare compromessi. Preferisco rispettare la narrazione e la sua identita'.
    La seconda, e' un pensiero (che non mi sento nemmeno di chiamare critica, perche' non vuole assolutamente esserlo) riguardo alla descrizione del bacio. Ecco, mi dirai giustamente, adesso mi hai detto una cosa, e gia' mi rivolti la frittata? La storia esigeva quel bacio, come esige anche la storia di abusi subiti dai due pattinatori. Eppure il bacio descritto cosi' mi ha fatto un po' rabbrividire (mi vedevo gia' le lettrici dei romanzetti porno-rosa drizzare le antenne. Che per carita', diritto loro, se a loro si rivolge il racconto. E qui, non avendo letto tutto il lavoro, ti chiedo: si rivolge a loro?). Ci tengo a sottolineare che lo stesso effetto non mi ha fatto la parte in cui si dichiarano gli abusi. Al contrario, l'ho trovata ben scritta, lieve, senza drammatizzazioni fuori luogo e scioccante proprio per questo.
    Perdonami se mi sono permessa. Alla fine, bisognerebbe leggere l'intera storia per capire il registro che ha e giudicare i dettagli con esattezza.
    In ogni caso, a me sembra che potrebbe diventare qualcosa di piu' che un racconto. Hai tanti personaggi con storie interessanti, con un po' di ricerche, puoi approfondire anche la scenografia, o come la vogliamo chiamare. :)

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    1. Innanzi tutto grazie davvero. Un commento così approfondito è un sogno per noi scribacchini!
      Allora, quello del giustificarmi è un mio difetto, in questo caso pernso comunque che andasse fatto perché da qui in poi la storia potrebbe disturbare qualcuno, meglio che il lettore lo sappia e decida di conseguenza.
      Ti dirò, contenta che il bacio ti abbia fatto rabbrividire. Perché no, non è un bacio "giusto". Questa di certo non è una storia porno-rosa.Non è porno, ma soprattutto non è rosa. Non è, purtroppo per loro, la storia di due adolescenti che si salvano attraverso l'amore. V. è troppo giovane e inesperto del mondo per un bacio del genere e per quello che sottointende. Per questo dovevo descriverlo così e sono contenta che ti abbia fatto questo effetto.
      Quanto all'espandere il racconto, non posso. V. è un personaggio rubato. Rimaneggiato a tal punto da non aver problemi di diritto d'autore, certo, ma rimane un personaggio rubato e non è giusto che ne risulti qualcosa di più di un lavoro amatoriale.

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  2. Risposte
    1. Scusa il pastrocchio con i nomi. :/

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    2. :)
      (Qualche altra scena del genere ci sarà, perché con personaggi di questa età la scoperta della sessualità non è un tema che si possa evitare, ma nessuno arriverà a mostrarsi nudo in scena)

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    3. :)
      Il problema non sono le scene di sesso o la sessualita' di grandi o piccoli. Non e' quello che mi ha "disturbata". Se ci stanno, ci devono stare. E ancora una volta, lo so di rompere con 'sta storia, ma non c'e' bisogno di giustificare nulla, soprattutto a me. :)
      Il fatto importante e' riuscire a non tradire il tono della storia.
      Quando si sono viste lingue che si introducono scaltre in labbra di ragazzini mi e' sembrato che il tono generale si fosse come interrotto per prendere in prestito uno stile diverso, che non mi sembrava fosse indispensabile alla storia perche' gia' funzionava bene.
      E' forse per questo, perche' lo avevo preso per un'ingenuita' della scrittrice, che mi ha lasciata perplessa. E qui la colpa e' stata anche un po' tua (naturalmente te lo dico sorridendo, non prendere troppo sul serio le mie parole), perche' a forza di dire che e' un genere in cui non ti sei mai cimentata e che ti creava delle difficolta' e degli imbarazzi, io ci ho creduto. ;)

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    4. È un genere con cui non mi sono mai cimentata. Quindi non so. Diciamo che non è questo il pezzo che mi ha messo più in difficoltà, ecco. Il bacio è lì per un motivo. Questo non vuol dire che sia scritto nel modo migliore. Più avanti, invece, ci sono delle parti che mi hanno messo in crisi, su cui attendo il tuo giudizio!

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  3. Ciao Tenar, io invece sono molto indietro con la lettura a partire da questa. Credo che mi convenga leggere tutto insieme per non perdere il filo del discorso, trattandosi di una storia a puntate. A presto comunque! :)

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