venerdì 12 ottobre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 3




PARTE PRIMA – CAPITOLO TRE

San Pietroburgo – Aprile 2001

– Ti sembra un Axel quella roba lì? – ruggì Y. con il suo miglior tono da mastino infernale.
Vide che K. rabbrividiva sotto la sfuriata e si diede un buon voto.
Dopo un istante, però, il ragazzo si ricompose e alzò il mento in quella che era la sua posa tipica.
– Beh, sono quello che lo fa meglio, qui.
– E., per favore, fai vedere al moccioso come si fa un doppio Axel – replicò Y.
La pattinatrice, che stava già per tornare nello spogliatoio si avviò al centro della pista e, dopo un minimo di riscaldamento, saltò in modo impeccabile. 
Stava diventando divina. Era una ragazza incantevole, con il suo aspetto da principessa Biancaneve, nulla di strano che G. ne fosse ipnotizzato al punto da cadere ogni volta che si rendeva conto che lei lo stava guardando. In quell’ultima stagione, però, aveva sviluppato una grazia quasi ultraterrena e pattinava come nessun’altra al mondo. K., però, non sembrava impressionato.
– Grazie tante, ha quindici anni – sbuffò.
– E alla tua età lo faceva già così – ringhiò Y. – Smetti di blaterare e datti da fare.
K. non migliorava come aveva sperato. 
Migliorava, certo, rimaneva inarrivabile per G. Aveva disputato una competizione tra gli juniores ed era arrivato quinto. Però non era… Non era I., ecco. E forse era ingiusto, nei confronti di entrambi i ragazzi, continuare con quel paragone. Non si può chiedere a un gatto di essere una tigre.
– Non mangiartelo, è stato di nuovo chiuso fuori dal compagno di stanza e ha passato la notte nell’anticamera – disse D., avvicinandosi.
– Perché tu sai sempre queste cose? – chiese Y.
– Perché non li terrorizzo.
– Uff… E sai anche il perché di questo litigio?
– G. ha due versioni. K. sa essere estremamente sgradevole, ma è perché gli mancano casa sua e suoi amici e il compagno di stanza è un vero stronzo. Quest’ultimo, però, ha anche un’altra idea, dice che a K. le ragazze non interessino e lui con un pervertito in camera non ci sta. Diamo atto a G. di averla classificata come pura maldicenza.
Y. si strinse nelle spalle.
– Potrebbero essere vere entrambe – commentò.
Il viso di D. assunse un’espressione disgustata che fece sogghignare il tecnico.
– Non dirmi che quando eri in trasferta in Europa non hai mai ricevuto un invito per andare in certi locali? – chiese.
– Sì e li ho sempre mandati tutti a quel paese! Perché, tu no?
– Non ne avevo bisogno. Avevano tutti troppa paura della mia fidanzata per provarci con me. Ma non ero ne cieco ne sordo.
Aveva partecipato a due olimpiadi e nei villaggi olimpici ne succedevano di cose…
– Il nostro compito è far sì che pattinino bene e non si caccino nei guai – riprese. – Poi il resto a me non interessa. K. non può essere sbattuto fuori dalla stanza. Non lo possono mettere con G.?
Era questa la parte del lavoro che proprio non sopportava. Avrebbe voluto che quei ragazzi prendessero a esistere ai suoi occhi solo all’ingresso del palaghiaccio. E invece no. Doveva occuparsi delle loro beghe sentimentali, persino dei litigi con i compagni di camera…
– G. divide la camera con un ragazzo che viene dalla sua stessa città e ci si trova bene – spiegò D.
Y. annuì.
A vederli così, l’aquilotto e il ragazzino magro con i capelli neri, sembrava senza dubbio G. il più fragile. Arrossiva appena E. lo guardava e gli venivano le lacrime agli occhi quando Yakov gli urlava dietro. Però andava d’accordo con tutti, nel giro di un paio di mesi si era inserito bene sia al pensionato che a scuola, al sabato pomeriggio andava al cinema con degli amici. Era diligente negli allenamenti e migliorava. In tutta onestà Y. non sapeva se potesse fare di lui un campione, ma le basi per diventare un solido atleta c’erano tutte. K. era più forte, sia allo stato attuale, che in potenza. Era un solitario e una certa resistenza alla solitudine è una caratteristica fondamentale per i campioni. Forse, però, non era un solitario per sua scelta. In quel modo arrogante di alzare il mento c’era tanto una sfida verso il mondo quanto verso se stesso. 
Y. scosse il capo. I campioni, quelli veri, sono sempre complicati. Per arrivare a eccellere quasi ai limiti dell’umano ci voleva qualcosa, rabbia, determinazione o desiderio, che le persone appagate e felici non hanno. Lo riconosceva in se stesso, lo vedeva in E., nel modo in cui ogni tanto i suoi occhi blu si rabbuiavano, sebbene, almeno in apparenza, avesse tutto. Lo fiutava in K.. Poteva diventare un campione o spezzarsi e Y. era consapevole che una sua parola, una sua decisione, poteva influire in un senso o nell’altro. Ma non sapeva quale fosse la parola o la decisione.
– Parlerò con il direttore del pensionato – disse. – E avrebbe bisogno di qualcuno al suo livello con cui scornarsi. E. è ancora troppo oltre.
– Stai ancora pensando a V.? – chiese D.
Y. sospirò.
– Sì.
L. non era per nulla entusiasta all’idea di prendersi in casa uno zotico siberiano figlio di un delinquente. O forse persino lei si era affezionata a I. e non era pronta a sostituirlo. In ogni caso non poteva portarsi a casa un ragazzino contro il volere di sua moglie. Una moglie, per altro, a cui non potevi spostare neppure una pianta in vaso senza il suo consenso. 
– L’altro giorno ha chiamato l’assistente sociale – disse D. – Vuoi tutta la lacrimevole storia?
– No – scosse il capo Y. – Solo il riassunto.
– O lo porti qua adesso o non lo fai più. 
Y. grugni qualcosa.
Aggiungere un atleta a un gruppo era come inserire un elemento misterioso in una pozione alchemica. Poteva risultarne un’esplosione come la pietra filosofale. E V. sembrava fatto di un materiale altamente instabile.
– Devo parlarne seriamente con L.
– Sai già come la penso – borbottò D.
– Come no? Continui a nominarlo. Nel profondo pensi anche tu che il suo posto sia qui, a giocarsi le proprie carte con K. e G.




Salechard – Aprile 2001

Y. si guardò intorno sperso, all’uscita dalla stazione.
A quanto pareva la massima attrattiva locale erano due enormi statue, una a forma di mammut e una a forma di renna. Per il resto quella che aveva intorno era una città che stava giusto affacciandosi alla fine dell’inverno, tutta casermoni e industrie, con un sacco di cantieri aperti. Non c’era nessun albero, ma moltissime gru. L’emblema della nuova Russia capitalistica, insomma, con pochi imprenditori ad arricchirsi e una gran massa di poveracci la cui massima aspirazione era lavorare per due soldi ai confini del mondo nell’estrazione del gas. A meno di non essere un appassionato di mammut, pensò, solo la disperazione poteva spingerti lì.
Y. aveva un indirizzo in tasca, ma era metà pomeriggio e chiese al taxista di essere portato al palaghiaccio.
– Ha l’aria di un dirigente sportivo, lei. È per la nostra squadra di hockey, vero? – commentò l’autista, tutto entusiasta. – Abbiamo dei veri campioni, lasci che glielo dica.
– Pattinaggio di figura.
– Eh?
– Sono un dirigente sportivo. E mi occupo di pattinaggio di figura.
– Belle ragazze, allora. Mica male lavorarci. Anche se sono un po’ piattine per i miei gusti… Certo, l’idea che ci siano anche dei ragazzi, con quei costumini…
– Ci ho vinto un’olimpiade, io, con uno di quei costumini.
– Ah…

Il palaghiaccio era decisamente la patria della squadra di hockey, con tanto di foto giganti per festeggiare una recente vittoria, ma la scommessa era giusta. A quell’ora si allenava il pattinaggio artistico. Quasi tutte bambine, qualche bambino, e un ragazzetto più grande dai capelli chiarissimi che provava in disparte i movimenti di una coreografia con delle cuffie nelle orecchie e un vecchio mangiacassette attaccato alla cintura dei pantaloni. 
Si era alzato in quei mesi, il che per un pattinatore poteva non essere necessariamente un bene. Al momento, forse, quello contribuiva a dargli un senso generale di sbilanciamento. Ci si stava mettendo d’impegno, però. Si fermò un istante, attese di avere la pista libera e provò un Axel. Partenza sbagliata, tanto per cambiare. Però l’elevazione… Non mancava di potenza, questo era certo. L’atterraggio fu incerto, salvato da una mano sul ghiaccio…
– Lei è il padre di…? – chiese una voce femminile.
Una donna castana sotto i trent’anni, con i pattini ai piedi, si piazzò davanti a lui. 
L’aveva già vista in gara, anni prima, doveva essere l’allenatrice, quindi, come diavolo si chiamava? Difficilmente chi non arrivava neppure alla decima posizione gli si fissava in testa.
– Nessuno, sono qui per vedere il ragazzo.
– È nei guai? È della polizia?
Inizio promettente…
– Dovrebbe essere nei guai? – chiese. – Certo, che se salta in quel modo…
Il secondo tentativo di Axel lo aveva portato sdraiato sul ghiaccio a faccia in avanti.
– Non è molto concentrato di questi tempi… – commentò la donna. – Lei è?
– Y! – esclamò il ragazzo che si stava rialzando.
Attraversò veloce la pista, andando quasi a sbattere contro un paio di bambine e per un istante il tecnico ebbe il terrore stare per essere abbracciato.
– Ma ti sembrava un Axel, quella roba lì? – ringhiò, a titolo preventivo.
– Non mi hai fatto vedere le foto dell’Axel! Il Loop l’ho imparato bene, A. te lo può confermare.
– Sì – confermò la donna. – Gli è uscito qualche bel triplo.
– Ho fatto anche un quadruplo, una volta – si inserì il ragazzo.
– Scordateli i quadrupli prima dei quindici anni che se cadi male ti spacchi tutto – borbottò Yakov.
Un quadruplo, davvero? Beh, la potenza l’aveva e un colpo di fortuna può capitare a tutti… Un quadruplo Loop a tredici anni? C’era chi non ci riusciva in una vita intera a farlo. E Y. pensava a gente che si qualificava per il mondiale assoluti…
– Quindi è vero – disse A. – È arrivato il principe sul cavallo bianco che ti porta via da qui.
Diede un’occhiata significativa a Y. e il tecnico si sentì dare un voto piuttosto basso come principe. Troppo maturo e stempiato. Proprio una città di gente simpatica, non c’era che dire…
– Non è mica detto – borbottò. – Ci sono un sacco di cose vedere… Un Axel fatto meglio ad esempio.
Il ragazzo si era rabbuiato. Ci sperava davvero. Beh, era ovvio. A quanto pareva lì il pattinaggio di figura era cosa per bambini e qualche ragazzina. Anche senza contare tutto il resto, i pattini che erano gli stessi che gli aveva visto in gara, ad esempio, non è che avesse molta gente con cui parlare, a bordo pista.
Y. sospirò e estrasse un involto dalla sacca che aveva con sé.
– Tieni – disse tirandoglielo. – Tanto ormai ti saranno già stretti.
Il ragazzo tirò fuori i pattini nuovi con una sorta di timore reverenziale.
– Sono quelli standard della nazionale russa – borbottò Y. – Vedi di meritarteli.

Nel posto dove il ragazzo viveva, un casermone in periferia con vista sui cantieri, c’era tutta la parte spiacevole che attendeva Y. C’era la burocrazia, con una serie di complicazioni che andava al di là di quello che il tecnico si era aspettato e c’era la parte di storia lacrimosa a base di padri usciti di galera che non si erano fatti vivi e di amici più grandi che ci erano già entrati. Nessuno, però, gli chiese del denaro aggiuntivo e in generale si respirava un’aria di pulizia. Un posto non allegro, questo era certo, ma forse non il peggiore in cui un bambino potesse finire. E poi per V. avevano tutti una buona parola. Volevano dargli un futuro, ma non erano felici di liberarsene. Non si poteva dire la stessa cosa per tutte le famiglie con cui negli anni aveva parlato. Nessuno dei famigliari gli aveva parlato di E. con lo stesso calore con cui gli stavano raccontando di quanto V. fosse affezionato a Baba Yaga, il cagnone dell’istituto.

Trovò il ragazzo all’esterno, seduto su una panca di cemento a guardare la sera già lunga di aprile, sporcata dai palazzi in costruzione, e il prato ancora macchiato di neve.
– Verrò a San Pietroburgo? – chiese.
– Non subito. Ci sono una marea di carte da fare. A fine estate, forse.
– Va bene.
V. lo stava guardando concentrato, col suo viso ancora da bambino tutto serio e una marea di domande e aspettative dietro gli occhi chiari.
– Mettiamo le cose in chiaro – disse Y. – Vivrai in casa mia, ma io non sarò una sorta di padre o di amico per te. Sono il tuo tecnico. Di più, sono il padrone del tuo destino. Se non stai alle regole che ti imporrò, tornerai qui. Se non sarai all’altezza, tornerai qui. Se ti farai male al punto di non poter più pattinare decentemente, tornerai qui. E non mi importa se non vuoi fare il meccanico o l’elettricista. A me interessi solo per come pattini e per come e quanto vinci. Se non sei in grado di vincere non mi interessi. Quali che siano le cose che tu ti aspetti, io sono solo questo. Intesi?
L’espressione del ragazzo era indecifrabile. Era stato troppo duro? Stava per mettersi a piangere? Era un bambino che lui stava portando via dal mondo che aveva sempre conosciuto, era davvero il caso di ringhiargli contro in quel modo?
Ma il ragazzo sorrise.
– Io, però, ho una richiesta da fare – disse.
– Sarebbe?
– Posso farmi crescere i capelli? Più lunghi di così non me li fanno tenere. – disse, toccandosi le ciocche che gli arrivavano appena sotto le orecchie.
Y. sospirò.
– A me importa solo che tu vinca.

– Allora vincerò.

Il mammut simbolo di Salechar
E con questo abbiamo finito la prima parte del racconto, quella per certi versi più tenera e consolatoria.
Ora la squadra di Y. è al completo. Dalla prossima puntata conosceremo meglio anche E., che fino a questo momento è rimasta un poco nell'ombra.

2 commenti:

  1. Grazie della nuova puntata. Baba Yaga è un nome fantastico per un cane, se non mi sbaglio è una strega di una fiaba russa?

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    1. Sì, è la strega per eccellenza.
      PS: grazie per la lettura e il commento.

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