venerdì 28 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 13

A Natale sta diventando, ahimé, tradizionale a casa mia l'influenza. Almeno quest'anno eravamo preparati e abbiamo evitato di progettare trasferte da rimandare all'ultimo momento...
Con questo ospite non invitato ho saltato il post degli auguri natalizi, ma non volevo saltare anche il capitolo di Padrone del tuo destino, anche se, più ci si avvicina al finale, e meno festivo diventa... 
Spero comunque di riuscire prima del 31 (al peggio nei primissimi giorni dell'anno) a fare il tradizionale post sulle folgorazioni librarie dell'anno, anche perché ce n'è una dell'ultimissimo minuto che va assolutamente segnalata.
Per intanto, per chi lo desidera, buona lettura (preparare fazzoletti...)

Capitolo 12

San Pietroburgo – Settembre 2002

Erano rientrati dalla Francia da una settimana, quando il telefono suonò alle due di notte.
– Arrivo subito – mormorò Y., mettendo fine alla chiamata.
Alzò gli occhi e si trovò gli sguardi assonnati in attesa di L. e di V., più indietro, sulla soglia del salotto, come se non sapesse se aveva diritto oppure no di partecipare a quell’emergenza.
– K. sta male – disse. – Lo hanno portato in ospedale. Raggiungo D.
L. annuì e V. fece lo stesso. Nessuno dei due chiese che cosa avesse.
Trovò D. davanti al pronto soccorso, senza giacca, nonostante le notti fossero già fredde, con i capelli che fuggivano alla coda in cui li legava e il maglione al contrario.
– Non era il caso che venissi, tanto non ci lasciano salire da lui – disse l’uomo più giovane. – Non è brutta come sembrava. Mi hanno detto che domani già lo possono fare uscire, per l’aspetto medico… Mi hanno fatto un sacco di domande, però, sul perché stava con me… Domani devo vedere anche dei poliziotti…
Y. annuì.
– K. starà bene – disse. – Il nostro medico ha chiamato il primario. Adesso tu vieni a bere qualcosa e mi racconti tutto.
Aveva visto solo una volta D. in quello stato, completamente annientato, quando aveva provato a tornare a gareggiare, dopo l’operazione e aveva capito davvero che la propria carriera era finita, a un passo dalle olimpiadi. Solo che questa volta la colpa era sua, che gli aveva scaricato il ragazzo in casa, senza capire quanto seria fosse la situazione, solo perché… Beh, perché K. aveva ragione e lui tra i due preferiva V.

– Dio, non faccio che chiedermi se non sia colpa mia, se non abbia fatto una battuta di troppo. Sicuramente ne ho fatte…
Dopo una vodka e un caffè lungo, nel primo bar aperto che Y. aveva visto, D. faticava ancora a ritrovare un minimo di coerenza.
– Non è colpa tua, quello che è successo – disse l’allenatore più anziano. – Ma è grazie a te che è arrivato in ospedale in tempo utile.
D. scosse il capo.
– No… Gli deve essere tremata la mano… Cazzo, però… Per fortuna lei non ha voluto salire da me… Non avrei mai pensato di poter dire una cosa simile… La vasca era tutta rossa. Lui era ancora semi cosciente e io, cretino, per prima cosa ho chiamato l’ambulanza. Così mentre ero al telefono è svenuto e la testa gli è finita sott’acqua…
Y. gli poggiò una mano sulla spalla.
– Lo hai salvato. È questo che hai fatto. 
D. bevve quello che rimaneva del caffè.
– Tu lo sapevi che era messo così male? – chiese poi.
– Avrei dovuto – replicò Y. – Pensavo che toglierlo dal pensionato avrebbe migliorato le cose, ma…
K. si sentiva marcio dentro e la gara in Francia gli aveva tolto l’ultimo orgoglio che avesse. Avrebbe dovuto capirlo, quel giorno all’hotel, quanto vicino fosse al limite. Avrebbe dovuto capire quanto soffocata si sentisse E. Avrebbe dovuto…
– Dici che è colpa mia, per tutte quelle frasi sui froci…
– D., te l’ho già detto, tu sei quello che gli ha salvato la pelle.
Anche se supponeva che quelle frasi d’aiuto non fossero state. Ma se c’era qualcuno che poteva essere identificato, se così si poteva dire, come la causa scatenante, era V. I due ragazzi erano stati piuttosto cauti uno verso l’altro, negli ultimi giorni. K. sembrava aver optato per un atteggiamento meno ostile, ma il siberiano non si era scostato da sua gentile indifferenza che solo E. era riuscita davvero a scalfire. 
– Ha scritto delle lettere – disse D., a bassa voce. – Le ho messe in tasca all’ultimo momento e ho dato una scorsa mentre ti aspettavo… Ce n’era una per me e una per te, oltre che per la famiglia. A leggerlo non è proprio il ragazzo che abbiamo in mente, che prenderemmo a ceffoni un giorno sì e l’altro anche. Ha solo parole gentili per noi. A quanto pare il padre, un ex militare, ha preso il fatto che abbia chiesto di andarsene dal pensionato come una prova di debolezza. Avrebbe dovuto farsi valere, come se… Beh, se c’è una rissa di qualche tipo, noi pattinatori siamo sempre quelli che le le prendiamo. Ovviamente si fa schifo per… Beh, per quello che gli piace. Si scusa con entrambi noi, per non essere stato all’altezza delle nostre aspettative. Dice che non è colpa mia o tua, che lo abbiamo aiutato e non gli abbiamo fatto pesare le sue debolezze, solo non sopportava di essere mediocre… Ne ha iniziata anche una per V., ma non è andato oltre l’intestazione.
– Perché non sapeva se scrivere un’invettiva o una dichiarazione – commentò Y., con voce stanca.
– Già… Che vita d’inferno che faceva, sotto i nostri occhi.
Y. sospirò.
– Sì, ma non gli sarebbe andata meglio altrove. Deve far pace con se stesso, K., prima di poter vivere una qualsiasi vita.
– E adesso che si fa con lui?
Y. si strinse nelle spalle.
– Quello che ci dicono i medici. Poi lo mandiamo a casa per una bella vacanza, dopo esserci assicurati che il padre militare non finisca il lavoro, con buona pace della stagione agonistica. E speriamo che torni. Ma se fossi un padre ci penserei due volte prima di rimandare mio figlio dove ha cercato di tagliarsi le vene.
– … E. tornerà?
– Io non credo. E così ne abbiamo persi due. Quelli che sembravano gli acquisti più sicuri…
Adesso era Y. che sentiva il bisogno di una vodka.
– Ti ricordi cosa ci ha detto quell’assistente sociale, la prima volta che ci siamo interessati a V? – disse Dimitri. – Che ne salvavano la metà e si sentivano bravi per quello.
Y. emise un sospiro stanco.
– Noi non siamo assistenti sociali.
– No, siamo allenatori di uno sport in cui si arriva ai vertici mondiali quando si è ancora poco più che ragazzini e nessuno, a quell’età, se un minimo sano di mente, si butta in questa vita. Forse dovremmo sentirci bravi anche noi, se riusciamo a portarne avanti la metà.

– Forse… – mormorò Yakov, poco convinto.

2 commenti:

  1. Che rogna influenza natalizia, ci colpì tutti modello 10 piccoli indiani nel 2016. Spero che la ripresa sia vicina e attendo la folgorazione.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Al momento sembra sconfitta, speriamo che l'anno nuovo si porti via tutti i malanni che hanno funestato questo dicembre.

      Elimina