venerdì 21 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 12

Capitolo 11

V. si preparò ad entrare in camera, rassegnato alla fine della propria giornata perfetta.
Quindi vincere voleva dire quello. Essere al centro degli sguardi, del flash delle fotografie, delle domande. Gli avevano persino lanciato dei fiori sulla pista, al termine dell’esibizione. Pensava capitasse solo alle ragazze. E invece si era ritrovato a raccogliere una rosa e aveva trovato la cosa un po’ assurda. Che cosa se ne faceva di una rosa che sarebbe appassita prima ancora del proprio ritorno in Russia? Eppure era così bella, del rosso intenso del sangue, e aveva pensato che era un fiore che a Salechard non viveva e che non gli sarebbe mai capitato in mano, se fosse rimasto là. Di certo non avrebbe mai avuto i soldi per comprare rose da regalare a qualcuno, per San Valentino. Lì invece ne avevano tirata una ai suoi piedi, poteva persino calpestarla, o ignorarla, invece che raccoglierla. Più tardi aveva chiesto a Y come dovesse fare per farla seccare e conservarla, per ricordarsi di tutto quello che poteva raggiungere. Y aveva borbottato qualcosa sull’appenderla a testa in giù e sul fatto che forse c’erano degli sponsor che magari gli avrebbero passato dei vestiti. L’allenatore era stato un bel miscuglio di rimbrotti e orgoglio, ma più tentava di fare la voce grossa e più lasciava in realtà trapelare la soddisfazione. Poi c’era stata ancora la cena con gli altri ragazzi, non solo l’inglese e la polacca e lui si era trovato a offrire le bevande a tutti, capendo perché Y gli aveva infilato nella tasca della giacca due banconote da cinquanta euro. A quanto pareva anche le vittorie avevano dei costi. C’era stato un velo di imbarazzo, al momento di scambiarsi i numeri di cellulare con gli altri, quando aveva ammesso di non averne uno, ma nessuno aveva approfondito l’argomento. Ci si poteva dare semplicemente appuntamento alla prossima gara o alla finale.
Ormai era quasi mezzanotte e la stanchezza iniziava a pensare, non c’erano più scuse per non rientrare in camera, dove c’era K.
Non che V. avesse pensato davvero a lui nel corso della giornata, anzi. Ma era un fatto che avesse pattinato malissimo, cadendo proprio sul triplo Axel e finendo quarto. Poi si era eclissato. V. era stato trascinato via dal flusso degli eventi, ma non ricordava di aver visto il connazionale da nessuna parte. Quasi sicuramente, però, lo avrebbe trovato in camera e di certo di pessimo umore. Sperare che già dormisse era pura utopia.
– Perché cazzo l’hai fatta, la mia combinazione?
Eh no, non dormiva. V. non era neppure riuscito a richiudersi alle spalle la porta della camera. 
La stanza, tutta arredata in legno, come del resto l’intero albergo, aveva la luce spenta, filtrava appena quella del corridoio, da sotto la porta, eppure V. intravedeva gli occhi di K., come quelli di una tigre in agguato.
– Per vincere. E non mi sembra che salti e trottole possano diventare proprietà privata – disse, gettando la giacca dove sperava ci fosse il proprio letto.
– Era la mia combinazione! Tu avevi il tuo cavolo di Luzt, non avevi il diritto di portarmela via!
– Dovevo rimontare. Se tu l’avessi fatta meglio di me avresti vinto e io sarei arrivato secondo. Ero convinto che sarebbe andata così.
Iniziava a essere un po’ eccessivo per i suoi gusti. Dove cavolo era l’interruttore?
– È da quando sei arrivato che non fai che portarmi via tutto!
– Eh?
Davvero eccessivo. V. finalmente riuscì ad accendere la luce.
K. aveva pianto. Forse, dalla faccia, aveva pianto dal termine della gara. Il suo letto era disfatto e sembrava fosse esplosa una bomba tra le sue cose.
– Tu non hai idea della vita che ho fatto per arrivare qui! – stava gridando il ragazzo. – Delle cose che ho sopportato! Io sono il Campione di Russia, lo ero da novice, lo sono da juniores, io devo diventare il più grande! Ma tutti hanno sempre e solo occhi per te. Sei il favorito di Y., ci vivi in casa, avevi la tua bella camera spaziosa mentre la mia testa veniva infilata nei water del pensionato. Non c’è un cazzo di giorno in cui G. o D. o persino una delle bambine non mi dica quanto hai fatto bene questo o quello, quanto sei bello o gentile o dolce! Sei pazzo, cazzo, ti sei portato dietro un peluche tutto il giorno eppure vedono tutti solo te.
V. aveva fatto d’istinto un passo indietro, investito da quel fiume di parole gridate tra i singhiozzi e le lacrime. K. aveva le mani strette a pugno, ma sembrava pronto a colpire piuttosto se stesso. 
– Dobbiamo fare a gara a chi ha avuto la vita più schifosa? – domandò, freddo.
– Certo, come no! Tu sei quello che non ha nessuno, quello che «chissà cos’ha passato?», con lo sguardo da cucciolo. Te li rigiri tutti. Y, D, E. Scommetto che è sempre stato così. Ovunque tu sia stato, ti è sempre bastato guardare qualcuno con quei tuoi occhioni per averlo dalla tua parte.
– Sì, è andata proprio così – replicò V, con tono neutro.
Era vero. 
Aveva pensato più di una volta negli ultimi mesi che, al netto delle cose possedute, lui era sempre stato più felice di E. Forse gli era persino stato voluto più bene. E di certo non era mai stato pestato come era successo a K, né gli era mai stata infilata la testa nel water. Tutti pensavano che dovesse aver vissuto chissà cosa in istituto. Non era vero. Lì era stato protetto, aveva avuto degli amici. Solo che poi c’era il resto, il mondo di fuori. E l’ufficio soffocante nella palazzina accanto al palaghiaccio di Salechard e quei ricordi con cui non era ancora venuto a patti. Quello che ho fatto per arrivare qui…
– Hai finito? – domandò, togliendosi la felpa.
Voleva che il rancore di K. gli scivolasse addosso, insieme ai ricordi che aveva riportato in superficie, voleva spegnere ancora la luce, buttarsi nel letto e sognare il colore delle rose o le risate in pizzeria.
– No, non ho finito! Vorrei che tu sparissi. O che almeno mi guardassi con qualcosa di diverso da questa indifferenza. Andrebbe bene anche l’odio, sarebbe comunque qualcosa! Vorrei che te ne andassi dalla mia testa e dai miei sogni!
Detto questo, K. fuggì in bagno. 
Chiuse la porta sbattendola e un attimo dopo si udì il rumore dell’acqua che scorreva.
V. rimase un istante a guardare la porta chiusa del bagno e poi si lasciò cadere sul proprio letto. Tirò fuori il cagnolino peluche dalla tasca della giacca e lo tenne tra le mani. Si era aspettato rabbia da K. Ma non aveva immaginato di rappresentare un’ossessione per lui. La rabbia poteva capirla, a ruoli invertiti l’avrebbe provata lui stesso. Le ultime parole invece… Quanti pensieri, e di che genere, K. gli aveva dedicato? Era persino possibile che nessuno, certo non E, avesse pensato così tanto a lui… 
Guardò il peluche, mentre in bagno l’acqua scorreva, di certo per coprire i singhiozzi.
– Sarebbe molto più facile, K, se anche tu fossi entrato almeno una volta nei miei sogni – sospirò.



– Certo che è snervate vederti sempre con un atleta sul gradino più alto del podio… Deve essere facile la vita, quando hai tutta la Russa per andare a caccia di talenti.
– Taci, tu. Hai uno stato che è grosso come un francobollo, ma sei sempre tra i piedi.
K, l’allenatore svizzero, rise, sistemandosi a fianco del russo al bancone bar dell’hotel. Y notò con piacere che ormai era più grasso e stempiato di lui. Questo, però, gli ricordava anche quanto fosse passato dai tempi in cui l’avversario poteva permettersi di fare il cretino con L, le rare volte in cui lei veniva a vedere una gara.
– Si chiama “solida tradizione sportiva”… E comunque dove l’hai scovato uno che ti piazza due combinazioni così in sequenza? Non mi sembra di averlo mai sentito, prima.
– Beh, adesso diventerà una spina nel fianco per tutti, te lo assicuro.
Anche per Y. stesso.
L’allenatore lanciò uno sguardo al proprio atleta, che stava valutando il buffet della colazione, per essere sicuro di non andarsene senza aver assaggiato tutto. Bisognava in qualche modo che imparasse a gestirlo, o quella sua propensione a esagerare in gara lo avrebbe rovinato…
– Ma tanto adesso ti sei dato alle coppie, niente scontri diretti tra noi, non più – disse, per cambiare discorso.
– Non cantare vittoria troppo presto. Ho per le mani un novice che promette benissimo, ha solo undici anni, certo…
– E sappiamo benissimo quante cose possono succedere
Il collega però scosse il capo. Aveva un’aria svagata e il suo viso tondo e sorridente era facile da sottovalutare, ma tutte le volte che Y. l’aveva fatto se n’era pentito amaramente.
– Devi crescerli tu – disse lo svizzero. – Prenderli il prima possibile, evitare che finiscano in cattive mani… Le cose possono andare storte anche così, certo. Mi è spiaciuto per quell’altro tuo ragazzo. Contro certi infortuni siamo disarmati, per altre cose, invece, possiamo attrezzarci.
Y. grugnì qualcosa, poco convinto, anche se sapeva che l’altro aveva ragione. 
V. e K. usavano schermi diversi, il sorriso il primo, l’ostilità il secondo, per nascondere il loro vero io e le ferite ricevute dalla vita, non solo, ma anche, sospettava Y, nell’ambiente del pattinaggio. 
– E invece all’altro che cos’è successo? – chiese ancora K. – Sembrava che dovesse spaccare il mondo e poi si è afflosciato come un soufflé cotto male.
– Giornata storta. Capita a tutti – tagliò corto Y.
Crollo emotivo bello e buono. Di quello si trattava. V, probabilmente senza rendersene conto fino in fondo, ne aveva triturato l’ego con i pattini, scippandogli il privilegio di essere l’unico atleta in tutto il Grand Prix Juniores a portare una combinazione con un triplo dopo il triplo Axel. Adesso K sedeva a un tavolino, il capo chinato su un libro di scuola. Rispondeva a monosillabi, privo persino delle sue battutine acide e più di ogni altra cosa evitava di incrociare lo sguardo di V. 
Quando l’allenatore svizzero si fu allontanato per recuperare i suoi due atleti, Yakov fece lo sforzo di andare a sedersi di fianco al ragazzo.
– Vengono a prenderci tra mezz’ora, hai già portato giù la valigia? – chiese, per rompere il ghiaccio.
Ghiaccio che rimase intatto, dato che K si limitò a stringersi nelle spalle e ad annuire.
– Ragazzo, dopo una sconfitta non ci si rintana come un orso in letargo – borbottò Y, che già sentiva di stare per perdere la pazienza. – Che poi, sconfitta… Un quarto posto alla gara d’esordio al Grand Prix… G. neppure se lo può sognare.
– Io non sono G.
– No. E neppure V. Sei K. e puoi cavartela benissimo in quanto te stesso.
Il ragazzo gli lanciò uno sguardo tutt’altro che convinto.
– Non ti senti bello o spigliato? Chisseneffotte. Percorri la tua strada, pattina i tuoi programmi. Non vincerai tutto? Chissenefotte. Vinci abbastanza. Sarai rispettato. Il rispetto, alla lunga, conta, in questo ambiente più di qualsiasi altra cosa.
K. si limitò a sbuffare.
– Sei arrabbiato con V. e invidioso di lui? Bene. Mi sembra appropriato. Rendigli il favore. Rubagli tutti i salti.
– Tu lo sapevi che avrebbe fatto anche la mia combinazione? – chiese il ragazzo, aspro.
Ah, c’era anche questo. Beh, come dargli torto?
– No. Non l’ho allenato in segreto per sfavoriti, se è quello che hai pensato – disse, cercando di mantenere un tono neutro. –  Non l’ha provata neppure una volta. L’ha imparata solo vedendotela fare.
Y. sospirò. Non ci avrebbe creduto neppure lui se non glielo avesse già visto fare la primissima volta, con il Loop.
K. annuì.
– Se lo odiassi davvero sarebbe più facile, perché potrei trasformale l’odio in determinazione – disse, dopo un certo tempo. – Ma c’è qualcosa che si è inceppato in me e non funziono nel modo giusto.
Quello che non funziona, pensò Y, è che sei stato pestato e costretto a fuggire per qualcosa di cui non hai nessunissima colpa. È che hai l’autostima di un gatto investito in autostrada e tutto quello a cui ti aggrappavi era il fatto di essere il più bravo sul ghiaccio. Solo che hai trovato sulla tua strada qualcuno che è più bravo di te.

– Non c’è nulla che non vada, in te. Sei quello che sei. Potenzialmente un atleta da podio olimpico. Ed è l’unica cosa che a me interessa.

SULLE LAME DELLA STORIA.
Capitolo non troppo natalizio, questo, ma vi avevo avvertito sin dall'inizio che non sarebbe stata una storia disneyana di sport e riscatto (o, quanto meno, non solo).
Per alleggerire l'atmosfera, vi presento uno degli altri elementi scenici che ho rubato, il peluche-portafazzoletti a forma di cagnolino di V. Nella realtà è famoso quello a forma di orsetto del campione olimpico Hanyu, che lo accompagna a tutte le gare e viene custodito con cura (e sguardo un po' esasperato) dall'allenatore durante le esibizioni. C'è, inoltre, una giovanissima atleta russa che è evidentemente convinta di essere la versione femminile di V (e forse ha le carte per esserlo). Non lo dico a caso. Guardate bene l'esibizione (fa cose spaventose a livello tecnico), ma anche il peluche che abbraccia nell'attesa del punteggio.


2 commenti:

  1. Uh grazie x questa chicca del video

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ero un po' indecisa, perché eticamente ho delle enormi perplessità nei confronti della scuola di pattinaggio da cui proviente quest'atleta. Vengono spinte a fare cose folli da giovanissime e entro i diciotto anni sono così infortunate da doversi ritirare. Insomma, un comportamento che l'allenatore della mia storia non approverebbe mai. Però il peluche era quello e l'esibizione oggettivamente sensazionale.

      Elimina