venerdì 3 giugno 2016

La sterminatrice sul divano – racconto completo

È una vita che non vi propongo un racconto. In questo fine settimana che per molti è un po' più lungo magari vi viene voglia di leggerne uno.
È estremamente leggero e per altro invernale, ma il clima, almeno qui, non è esattamente estivo. Un mio personale omaggio ai racconti per ragazzi di Gaiman.
Buona lettura.

LA STERMINATRICE SUL DIVANO

– Aspetta ad accendere la Play. Devo portare fuori il cane.
– Adesso? – chiede Giacomo.
– Adesso – ribadisco.
Lei sta già puntando la porta con fare deciso, il guinzaglio tra i denti. È seduta nella sua classica posizione. La codina batte sul pavimento, impaziente, mentre con una delle zampe anteriori, affusolata e ricoperta di pelo fulvo, raspa impaziente sulla porta.
Giacomo la guarda perplesso. Prima, mentre facevamo i compiti, non ci ha fatto neppure caso. Lei è venuta a strusciarsi contro le nostre gambe e lui gli ha grattato il collo, dove il pelo è più morbido e folto. Adesso ne osserva il muso ostinato, lungo, senza pelo, con qualche dente sporgente. Fa quasi paura. Fuori, però, è una giornata fredda, di nebbia invernale. È molto più allettante stare in casa e giocare alla play.
– Non sta neanche abbaiando – fa notare. – Forse non vuole davvero uscire.
– Lei non abbaia mai – ribatto. – Andiamo. Facciamo presto. 
– Ma di che razza è?
– Un incrocio. Uno strano.
– Lo vedo.
Giacomo, per fortuna, si è già rassegnato. Ammit, grata, gli si struscia di nuovo addosso, più felina che canina. La guardo male. Lei abbassa il muso scaglioso e si mette a scondinzolare con più impegno.
– Prima non avevi un gatto?
– Sì – anche a distanza di un anno, pensare a Pigro mi mette tristezza. – L’ho presa dopo che è morto.
Giacomo annuisce, come se avesse capito tutto. 
Invece non sa proprio niente.

Pigro è stato senza alcun dubbio il miglior gatto di tutti i tempi. Quando dormivo, lui dormiva insieme a me nel letto. Quando ero a tavola, lui mangiava le sue crocchette. Quando guardavo la televisione, lui mi saltava in braccio facendo le fusa così forte che a volte non si sentiva neppure l’audio di ciò che veniva trasmesso. Quando facevo i compiti saltava sul tavolo e cercava di portarmi via le matite e le gomme. È stato l’unico al mondo che abbia mai provato a difendermi dai compiti a casa.
Quando è morto, preso sotto dalla macchina del vicino di casa, per tutti gli altri era solo un gatto. Da dimenticare alla svelta. E quando papà ha trovato il suo corpo nel freezer si è arrabbiato davvero.
Sia chiaro che io nel freezer non lo volevo mettere, Pigro. È che non mi andava che fosse seppellito in fondo al giardino vicino all’insulso pappagallino di mia sorella. Non volevo metterlo in un sacco nero per portarlo in discarica come “rifiuto speciale”. Era speciale, ma non un rifiuto.
– E quindi hai pensato di tenerlo nel freezer della cantina? – ha sbraitato papà.
Era così arrabbiato che gli si erano gonfiate le vene sulle tempie. Forse avrei dovuto mettere Pigro in un sacchetto. Papà era furioso perché lo avevo appoggiato sulle costine di cinghiale. Non credo che ci sia al mondo qualcosa che papà ami di più delle costine di cinghiale. La sua auto, forse. Adesso, aveva detto, avrebbe dovuto buttarle. Dal tono della voce sembrava valutare se fare me a costine. Mi avrebbe servito per Natale sul vassoio bello dalle decorazioni a fiori con contorno di patate arrosto?
– No – ho risposto con una vocina piccola piccola. – Volevo mummificarlo.
Le vene sulle tempie di papà si sono sgonfiate di colpo. Ho capito dal suo sguardo che non  era più arrabbiato. Non voleva più farmi a spezzatino, pensava che fossi matto. Stava cercando di ricordare quale tra i suoi vecchi compagni di scuola ora fosse psichiatra in una clinica. Se avesse il suo numero da qualche parte. Allora ho iniziato a parlare il più velocemente possibile. 
– Non ho trovato il sale giusto. A scuola ci hanno detto che gli egizi adoravano i gatti e per onorarli li mummificavano. Io volevo onorare Pigro. Ho studiato tutto. Ho preparato i canopi con il Dash. Solo che ho bisogno di quattro chili di natron, il sale che si usa per togliere i liquidi, ma in farmacia non l’avevano. Devo comprarlo su internet. Pensavo di farlo dopo Natale, con i soldi che mi dà la nonna. E allora l’ho congelato, fino a Natale.
Non l’avevo rassicurato. Per niente.
A mio padre non piace quando uso delle parole che non capisce. Natron. Canopi.
Avrei dovuto iniziare da principio, dal progetto che avevamo fatto sugli egizi in terza elementare, quando abbiamo preparato un sarcofago di cartone. Abbiamo anche mummificato un würstel,  lo abbiamo disseccato nel sale e avvolto con bende di carta igienica. La maestra era molto fiera dei nostri würstel mummia, tutti rinsecchiti al punto giusto, senza tracce di muffa. Ci dicono sempre che le cose che impariamo a scuola poi le dobbiamo applicare, no? Io avevo fatto il würstel mummia migliore della classe. Ce l’ho ancora in camera mia, dentro il suo sarcofago di cartone, con Anubi e Osiride disegnati di lato. Volevo solo fare la stessa cosa per Pigro: un ottimo lavoro. Ma per spiegarlo avrei dovuto usare altre parole complicate. Con mio padre bisogna usare concetti semplici.
– Mi manca tanto Pigro! Volevo che avesse una tomba speciale!
Questo anche papà poteva capirlo. Almeno a livello basico. Non è pazzo. Solo triste. 
Mio padre è rimasto un attimo interdetto, in dubbio se farmi a spezzatino, chiamare l’amico strizzacervelli o farsi intenerire dal mio sguardo supplichevole. La terza opzione era la più facile. Mi ha abbracciato forte forte.
– Mi spiace tanto per Pigro – ha detto. – Ma non può stare nel freezer.
– Lo so – ho risposto, con la faccia nascosta nel maglione di papà, in modo che lui non vedesse la mia espressione.
Avevo già capito che la contaminazione delle costine di cinghiale non era il guaio più grande che avessi combinato, con il funerale egizio di Pigro.

– Dove andiamo? – chiede Giacomo.
Ha freddo e anch’io ho freddo. Abbiamo messo il cappellino, la sciarpa e i guanti, ma ogni parola è una nuvoletta bianca che si mescola al bianchiccio della nebbia.
– Non lo so – ammetto. – È Ammit che sceglie la strada. 
Spero che questa volta sia vicino. 
Non so se lei abbia freddo. Scodinzola tutta felice e avanza spedita con questa sua andatura buffa. 
– Di solito le piace andare dietro all’ospedale – dico, speranzoso. 
Non è una passeggiata troppo lunga.

Quella sera, dopo l’abbraccio di papà, non me la sono cavata velocemente. Io volevo solo andare di sopra, ma tutti, di colpo, hanno sentito la necessità di parlare di Pigro. Di quanto fosse stato un buon gatto, di come fosse normale che mi mancasse, di come dovessi abituarmi al distacco. Alla mamma, credo, un po’ spiaceva davvero. Papà era preoccupato di non dover buttare via altre costine, in futuro. Mia sorella, invece, non voleva che si sapesse in giro che suo fratello era quello matto che congela i gatti. Alla fine mamma voleva accompagnarmi a dormire come quando ero piccolo e io ho avuto il mio bel da fare a dirle che no, me la cavavo benissimo da solo. Grazie.
Dopo un bel po’ di tempo, finalmente, sono salito in camera mia e ho aperto la porta con cautela.
Lei era ancora lì.
Sdraiata sul mio letto sfatto (il mio letto è quasi sempre sfatto, nonostante le mie continue promesse e di rifarlo al mattino prima di andare a scuola). Si era allungata tutta. Le lunghe zampe anteriori penzolavano di lato insieme al lenzuolo. Quelle di dietro, grosse e tozze, erano allargate sul copriletto, con quel buffo codino glabro in mezzo. E proprio sul mio cuscino era appoggiato il muso scaglioso da coccodrillo. Non c’era nulla di buffo o grazioso nel muso. La bocca semi aperta lasciava vedere i denti da rettile, tutti conici e appuntiti e, sopratutto, tanti. Non ci potevano essere dubbi. 
Era lei.
Ammit. La Sterminatrice.
Il fatto era che quel pomeriggio avevo finito i canopi, i vasi in cui ritirare gli organi di Pigro. Avevo preso il libro sugli egizi che mi avevano regalato per il compleanno. C’era in fondo un capitolo su come leggere i geroglifici, che non sono, come si crede, un vecchio fumetto. Sono per lo più parole con le sillabe fatte a forma di figura. Insomma, si possono leggere. E io avevo letto ad alta voce i papiri riprodotti nelle foto.
Un’invocazione per Ammit, la Sterminatrice. Il mostro in parte ippopotamo, in parte leone e in parte coccodrillo che divora le anime di coloro che non sono degni di accedere all’aldilà.
L’avevo invocata.
E lei era venuta.

Sotto sotto, Giacomo non è scontento dell’uscita. Ammit le piace. Siamo passati dal parco e lui le ha tirato un po’ di volte un ramo, che lei ha riportato. È stata molto brava a non spezzarlo con quei suoi denti fatti per squartare un po’ di tutto, dai carapaci delle tartarughe alle ossa degli ippopotami. All’inizio era molto più maldestra.
– Anch’io lo vorrei un cane – sospira Giacomo.
– Prendilo. I canili li danno gratis.
– I miei non so come la prenderebbero… Tu come li hai convinti i tuoi?

Come si blandisce un demone dio egizio?
È una domanda piuttosto urgente quando il demone dio, con tutti i suoi denti da coccodrillo e i suoi artigli da leone, ce l’hai nel letto. Letto nel quale, per inciso, dovresti dormirci tu.
Sotto, la mia famiglia stava ancora metabolizzando la dipartita delle costine e il ritrovamento del gatto surgelato. Non era un bel momento per dir loro che il problema era un altro. E poi cosa? Una volta era entrata una biscia in casa e mia mamma l’aveva scacciata con la scopa. La nostra massima esperienza in fatto di ospiti sgraditi. Non pensavo che una scopa potesse servire contro Ammit. Forse esisteva qualche altra formula per bandirla. Proprietà transitiva delle formule magiche.
In quel momento lei si è svegliata. Ha aperto un occhio giallo, da rettile, senza espressione. Ha chiuso di scatto la bocca. Il rumore più inquietante che abbia mai sentito. E poi ha iniziato a scendere dal letto.
Dio, com’era goffa!
Nei papiri è sempre rappresentata seduta. Per una ragione. Ha le gambe di dietro più corte. Quindi prima si è puntellata con quelle davanti, eleganti, da leone, e poi ha fatto una sorta di salto sbilenco con quelle di dietro, per poi assumere una buffa postura inclinata. Si è avvicinata. Un passo delle zampe davanti sono tre di quelle di dietro. Certo, il muso da coccodrillo faceva la sua figura, però, ecco, quel sederino grassoccio e ondeggiante, con la coda corta… Ho iniziato a ridere. Una risata isterica, certo, ma pur sempre una risata. E lei si è fermata, offesa, emettendo un verso, una sorta di mezzo ringhio strozzato, l’unico suono che sia in grado di emettere con quella sua povera gola metà da mammifero e metà da rettile.
Sembrava perplessa. 
E come darle torto. Si aspettava, probabilmente, un tempio, un sacerdote pelato con il gonnellino, incenso e statue enormi. È possibile che qualche millennio fa le fosse abituale essere evocata per mangiarsi qualche anima sul posto. Adesso si era trovata in una stanza riscaldata, illuminata da una luce elettrica, con degli abiti sporchi appallottolati su una sedia, piena degli odori sconosciuti della plastica, del detersivo alla lavanda di mia madre e del mio sudore di ragazzino terrorizzato. Ha iniziato ad annusare la stanza come un cane. Ma i suoi occhi gialli non erano da cane. Neppure da coccodrillo. Erano antichi. Capivano.
– Come ti mando indietro? – ho domandato, indicando il libro.
Lei si è avvicinata. Ha dato un’annusata. E poi, giusto per dimostrare che tutti quei dentoni non erano decorativi, s’è mangiata il libro.

  Cos’è che mi ha chiesto Giacomo… Ah… Come ho convinto i miei.
– Glielo ho fatta trovare sul divano.
La prima notte l’abbiamo passata per la gran parte tutti e due svegli a fissarci. Io per vedere se volesse divorarmi anima o corpo, lei, suppongo, per capire dov’era finita. Quando è suonata la sveglia ed è stata ora di alzarmi per tornare a scuola mi sono reso conto che tutto sommato mi ero addormentato. Ero vestito, sopra le coperte, e Ammit dormiva con il muso sulle mie gambe. La parte leone sa fare le fusa e, per un attimo, mi ha ricordato Pigro. Poi ha aperto un occhio, contrariata, mi ha lasciato scendere dal letto, è risalita e si è sistemata comoda. Evidentemente i letti della nostra epoca sono più comodi di qualsiasi cosa si usasse nell’Antico Egitto. E, altrettanto evidentemente, aveva voglia di restare. Che io fossi d’accordo oppure no.
I miei, per fortuna, non mi entrano in camera nei giorni feriali, sia benedetto il loro lavoro, quindi l’ho lasciata lì.

–  Ormai avevo deciso di tenerla – spiego. Anche se sarebbe più giusto dire che lei aveva deciso di tenermi vivo nella sua nuova casa. – Quindi ho fatto in modo che mamma, rientrando, la trovasse sul divano. A mamma, sotto sotto, gli animali piacciono.

Le avevo messo una coperta sul muso, perché non sembrasse troppo rettile, lasciando in bella vista la parte più presentabile, quella da leone. Ma l’avevo ammonita a non fare le fusa: l’ho pesata e siamo sui cinquanta chili. Possibile per un cagnone, impensabile per un micetto.
A dire il vero non è che sia stato difficilissimo. Ho dovuto promettere le solite cose. Di occuparmene io, di darle da mangiare, portarla fuori e pulire eventuali pipì. Ecco, forse non tutti i ragazzini devono promettere di non surgelare il proprio animale, dopo la dipartita, ma, del resto, non credo neppure che Ammit possa, tecnicamente parlando, morire.
È stato più difficile spiegarne l’aspetto. Ho detto che l’ho presa al canile, che un incendio le ha ustionato il muso e il sedere e che per questo lì non ha il pelo. Contavo molto sull’effetto pietà che avrebbe suscitato in mia madre. Il cane che nessun altro aveva voluto, troppo brutto per essere amato. Ci si sente un po’ speciali, credo, all’idea di essere gli unici a voler bene a qualcosa o qualcuno che gli altri hanno rifiutato. O, almeno, mia madre si sente così. Appena ha sentito la storia ha iniziato a farle le coccole. Lei, Ammit, si è un po’ offesa. Penso che si ritenga bellissima, ma in compenso ha sviluppato una vera adorazione per il divano di casa. Lo trova migliore persino del mio letto. Ho idea che l’Antico Egitto fosse un posto assai scomodo.

– Non è stato davvero difficile – spiego. – A papà basta che non dia fastidio. Guardano insieme le partite, ogni tanto. Lei si accuccia ai suoi piedi come una sfinge e papà dice che porta fortuna. Quando fa così, la sua squadra vince sempre. Mia sorella la trova insopportabile. Dice che a me le danno tutte vinte, mi fanno tenere il cane e a lei non prendono l’auto. Papà le risponde che quando ci saranno i canili in cui regalano le auto usate potrà portarsene a casa una. Insomma, un modo si trova per fare in modo che ti lascino tenere un cane. C’è da dire che lei è educatissima.
Ammit non sporca. Un demone dio non fanno pipì o popò. Non beve, se non per educazione. E i miei non hanno ancora capito che non ho mai dovuto riempire la ciotola con crocchette nuove.
Questo, però, non vuol dire che Ammit non mangi.

Siamo arrivati sul retro dell’ospedale.
C’è un piccolo parco, tra la struttura e il fiume. Slaccio il guinzaglio di Ammit e lascio che corra nell’erba già toccata dalla brina. Si diverte un sacco. C’è in lei una gioia speciale nell’affrontare l’inverno. Credo che in Egitto non abbia mai sperimentato nulla del genere. La diverte il fiato che si condensa di noi umani, l’erba che brilla sotto i lampioni, la sensazione frizzante dell’aria. Non c’è sabbia qui che le possa sfregare la pelle esposta delle gambe posteriori, il sole non brucia e vi è una varietà di cose da annusare e da inseguire. Non so. A scuola, nei libri, fanno sempre apparire figo l’Antico Egitto. Un posto maledettamente affascinante. Dall’entusiasmo con cui Ammit affronta il XXI secolo mi permetto di avere qualche dubbio..
– E adesso che fa? – chiede Giacomo.
Lei si è fermata, con la bocca aperta, e poi la chiude di scatto. Poi fa qualche passo, apre la bocca e di nuovo la richiude.
– Non lo so – mento. – Forse sta cercando di prendere delle mosche.
– Con questo freddo?
Sta mangiando. 
Anime.
Il posto in cui è più probabile che vi siano dei decessi è il polo ospedaliero. Qualche volta Ammit mi trascina per le vie della città alla ricerca di una casa in cui vi sia appena stato un lutto, ma spesso veniamo qui. Non visitiamo tutte le case in cui è appena morto qualcuno. Ammit non si mangia tutte le anime che provengono dall’ospedale. Solo quelle che se lo meritano, spero.
A volte, c’è qualcuno che si chiede come sia l’inferno. Io lo so.
È lo stomaco del mio cane.
Ammit torna tutta scodinzolante. Giacomo le mette il guinzaglio e lei si struscia affettuosa contro le sue gambe. Siamo tutti e tre contenti di tornare. Non vedo l’ora di sfidare Giacomo alla play. Ammit sembra altrettanto desiderosa di sedersi con la testa sulle mie gambe.
Mentre stiamo per entrare nel giardino di casa, il vicino ci passa accanto in macchina, veloce e per poco non prende sotto Giacomo.
– Ehi! – grida il mio amico. – È quello che ti ha ucciso Pigro?
– Sì.
– Una maledizione, si meriterebbe una maledizione.
Ammit guarda nella direzione in cui è andata la macchina. Emette un suono inquietante, che non è propriamente un ringhio, è più profondo e più antico. Penso che potrei aizzargliela contro. Penso che sia per quello che esisteva una formula per evocarla. Per, per così dire, velocizzare una pratica. Far divorare un’anima senza attendere il naturale decesso del corpo che la contiene. Non credo che ritroverebbero il cadavere. Lei adesso ha gli occhi rossi, che brillano fiocamente al buio.
Le metto una mano sulla testa e la accarezzo.
– Lascia stare – dico. – Voglio iniziare la partita.
Gli occhi di Ammit tornano del normale giallo inquietante e la codina prende a muoversi con brio. Giacomo sospira, poi annuisce ed entra nel cancelletto di casa mia. 

Io lo seguo portando al guinzaglio l’inferno che scodinzola. 

9 commenti:

  1. Waww!!! Anche Ammit la sterminatrice sa amare.
    Bello.
    Buona e serena domenica.

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  2. Alla faccia del racconto! Complimenti, mi piace un sacco! Questo bambino è incredibile. Il modo in cui tu ti sei messa nei suoi panni è incredibile. Ho riletto la parte relativa a Pigro più di una volta e mi sono pure emozionata. Ok, a me basta poco e, ok, ho la febbre quindi sono più lagnosa ma... bello. Proprio bello. :)

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  3. Bellissimo, congratulazioni!!😘
    http://gattaracinefila.blogspot.it/

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  4. Ben scritto :)
    Dimostrazione che la documentazione va fatta anche per racconti brevi.

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    1. O si scrive di ciò che già si conosce, così si fa prima!

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