venerdì 16 novembre 2018

Padrone del tuo destino – Racconto a puntate, capitolo 7

     
Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

 – Ok, basta così. Andate a cambiarvi tutti e due – disse Y.
L’allenamento in pista sarebbe dovuto terminare venti minuti prima, ma né K. né V. volevano mollare. Entrambi avevano deciso di inserire una combinazione che partiva con un salto che non dominavano ancora del tutto e entrambi avevano deciso che lo avrebbero padroneggiato prima del rivale. Erano dieci giorni che provano e riprovavano con ostinazione. V. aveva allungato anche gli allenamenti in palestra e quelli di danza, per aumentare potenza ed elasticità. Si era beccato un voto pessimo perché si era addormentato durante una lezione e la sera prima era praticamente crollato sulla cena. K. stava tenendo più o meno i suoi stessi ritmi, ma aveva più resistenza. Prima che Y. terminasse di parlare era già partito per il salto. Un triplo Axel perfetto, da sei tondo, con atterraggio impeccabile. G., a bordo pista, applaudì di cuore e anche E., che stava provando dei passi sotto la supervisione di D., accennò a un mezzo inchino. Quello era un triplo Axel da campionato del mondo senior.
– E con questo possiamo dire di aver chiuso in bellezza – approvò Y.
Era bello vedere K. soddisfatto, per una volta. Non era simpatico, era un dato di fatto, ma non era colpa sua. Y. doveva essere oggettivo. Era un ottimo pattinatore e bisognava che lo sapesse.
– Andiamocene – disse.
V., però, non aveva nessuna intenzione di uscire dalla pista.
– Un ultimo tentativo e arrivo.
Aveva saltato maluccio ed era caduto un paio di volte. Ma dare la vittoria morale della giornata a K. gli scocciava da morire.
– Ultimo – concesse Y.
Errore. Il ragazzo era stanco e ammaccato. Non avrebbe dovuto permettergli di saltare ancora.
Il tecnico vide subito la partenza fuori asse, il tentativo maldestro di completare le rotazioni e poi la caduta, con le gambe una sotto l’altra… Una caduta così simile a quella di I. che per un istante Y. si sentì mancare.
– Non riesco ad alzarmi – disse V. un attimo dopo.
Aveva le mani appoggiate sul ghiaccio e la fronte corrucciata, con i capelli lunghi che gli ricadevano sul viso. Era atterrato col sedere sul pattino destro e caviglia e ginocchio…
– Datti un attimo, può essere solo la botta – disse Y., con una sicurezza che non sentiva.
K. era solo a pochi metri da lui, lo guardava imbambolato, ma col cavolo che faceva un movimento per dargli una mano. Fortuna che D. era in pista con i pattini ai piedi e si stava già muovendo. Raggiunse V. in pochi movimenti e controllò immediatamente la gamba.
– È una distorsione al ginocchio. Farà male, ma non è nulla che non possa guarire – disse un attimo dopo.
– Sei sicuro? – mormorò il ragazzo, con voce flebile.
Aveva la stessa espressione di quella sera, il terrore che fosse tutto finito.
– Cos’è, è la prima volta che ti fai male? – chiese K., che finalmente si era degnato di avvicinarsi.
V. non replicò. Era la prima volta che Y. lo vedeva davvero a un passo dalle lacrime.

– È terrorizzato, non l’ho mai visto così – sussurrò E.
Y annuì. Si fidava di D., ma aveva comunque chiamato il medico che seguiva i ragazzi e in quel momento si stava occupando di V. nell’infermeria del palaghiaccio.
– Non lo facevo un piagnone – disse ancora la ragazza.
– Non è per l’infortunio in sé – replicò Y. – Dorme nella stessa camera di I e lui non ha nulla a cui tornare.
E. annuì.
– È così brutto là dove stava? – chiese.
– La Russia è piena di posti peggiori in cui crescere – rispose il tecnico. – Ma non è il posto per lui, non dopo aver provato tutto questo.
Y. un paio di volte aveva chiamato I. Il ragazzo si era sempre sforzato di mostrarsi positivo. Sua madre stava meglio, il padre lavorava di nuovo. Nella fabbrica apprezzavano la sua precisione, l’abitudine alla fatica. Si era fatto degli amici, usciva anche con una ragazza. Se la sarebbe cavata. Sarebbe diventato magari capo reparto, magari meglio. Si sarebbe fatto una famiglia, avrebbe comprato un appartamento in un casermone di periferia. Lui che, nella mente di Y., a febbraio di quell’anno avrebbe dovuto vincere le olimpiadi. E I. era solido, ancorato alla realtà e con una buona dose di senso pratico. V. in una fabbrica sarebbe durato quindici giorni.
Sospirando, il tecnico si mosse verso l’infermeria. Incrociò il medico sulle scale.
– Lo stai spremendo troppo quel ragazzo – gli disse l’uomo, sistemandosi gli occhiali. – Il ginocchio torna a posto in due settimane di riposo, il resto sono solo lividi. Sta piangendo come una fontana, però, ma credo sia sollievo. È crollato quando ha capito che davvero sarebbe andato tutto a posto. Non sono ritmi per ragazzi di quest’età. Dovresti farli seguire anche sul piano psicologico. Quasi tutte le squadre europee, di qualsiasi disciplina, ne hanno uno.
Y. grugnì qualcosa di incomprensibile. Odiava gli psicologi.
– Una volta non avevamo di questi problemi – ringhiò.
– Erano altri tempi. Si veniva su indottrinati, questa è una generazione persa, nati in mezzo al guado, non più sovietici, non ancora russi. 
Il tecnico scosse il capo. Sapeva che il medico aveva ragione, a sessantacinque anni aveva visto generazioni di sportivi. Era anche uno dei pochi che vedesse gli atleti come individui e non come macchine da medaglie. Evitava di somministrare certi farmaci che in Russia giravano con troppa facilità e Y. sapeva che quando si fosse ritirato avrebbe perso un tassello fondamentale del proprio staff. E tuttavia gli psicologi per lui rimanevano quelli che ti dicevano che era normale sognare di portarsi a letto la propria madre.
V. era ancora in infermeria e Y. si fermò appena fuori dalla porta socchiusa, da dove poteva sbirciare dentro senza farsi vedere.
Il ragazzo era sul lettino, il ginocchio era stato fasciato e inserito in un tutore, anche la caviglia era fasciata e aveva un aspetto gonfio. Lui si stava asciugando quasi con rabbia le lacrime che suo malgrado continuavano a colargli dagli occhi, estraendo uno dopo l’altro i fazzoletti dal cagnolino. E. gli teneva una mano sulla spalla e guardava preoccupata ora lui e ora D., in piedi al suo fianco. Con sorpresa, Y. si accorse che anche K. era nella stanza, in un angolo, come fosse lì per caso, ma non riusciva a staccare gli occhi dal compagno di allenamento.
– Odio farmi vedere così – stava dicendo V.
Y. non stentava a crederlo, il ragazzo era vanitoso come un gatto. Forse era meglio rimanere lì, senza imporgli anche la propria presenza.
– Guarda che lui non ti lascerà andare – disse D. – Non importa cosa ti abbia detto o quanto abbia ringhiato. Di una cosa potete essere certi, tutti quanti, qualsiasi problema abbiate, qualsiasi cosa vi possa capitare, Y. non vi lascerà andare, a meno che non siate voi a voler partire.
– Ma I… – iniziò K.
Tutti avevano sentito la sua storia. E ne erano terrorizzati.
– Non poteva più pattinare – raccontò D. – E voleva tornare dalla sua famiglia. Chi pensate che abbia smosso mari e monti per trovare qualcuno disposto ad assumerlo da un giorno all’altro e con stipendio pieno? Io ho trovato il contatto, ma è stato lui a ungere gli ingranaggi. E se invece I. avesse voluto studiare si sarebbe trovata un’altra soluzione.
Anche dalla sua posizione, Y. vide l’incredulità negli occhi dei ragazzi. Bene, quindi lo pensavano davvero senza cuore? Beh, lui ci si metteva davvero d’impegno perché lo pensassero. Ma non era così bello constatare che l’obiettivo era stato raggiunto.
– So di cosa parlo – continuò D. – Io sono uno di quelli che non ce l’hanno fatta. Ho avuto sfiga, pura e semplice sfiga. Dovevo andare a Lillehammer. Non avrei vinto, questo no, ma avevo vent’anni ed era un sogno che si realizzava. Ma mi sono fatto male durante quella stagione, una brutta caduta in una tappa del Grand Prix. Ho dovuto essere operato e hanno sbagliato qualcosa. Ho provato a imbottirmi di farmaci, ma non c’è stato niente da fare, la schiena non regge più il contraccolpo dei salti. Avevo vent’anni, il che vuol dire essere giovane per un sacco di cose, ma vecchio per altre. Non avevo uno straccio di titolo di studio, tanto per dirne una, allora non si dava peso a queste cose. Y. non era il mio allenatore, anche se ovviamente nell’ambiente ci si conosceva tutti e mi ha preso su, come si prende un cucciolo abbandonato, offrendomi un lavoro che proprio allora non sapevo fare, ed eccomi qui, otto anni dopo. Credetemi, ragazzi, vi sembreranno tanto fighi gli europei e gli americani, con i loro tecnici a contratto, con le loro università, ma in tutto il mondo non potevate capitare meglio che con Y.
L’allenatore fece un passo indietro. Adesso, pensò, non era proprio il caso di entrare. 
– Grazie – disse più tardi a D., quando anche lui fu riemerso dall’infermeria. – Ho sentito quello che hai detto hai ragazzi.
– E di che? Ho detto la verità – replicò l’uomo, facendo ondeggiare i capelli lunghi, che portava legati in una coda.
– Pensi che sia il caso di farli seguire da uno psicologo, come fanno in Europa e in America?
– Dio, no. Così quello convince K. che andare con gli uomini sia bello e normale!
Yakov si strinse nelle spalle.
– Guarda che per un tecnico un atleta gay è più facile da gestire, lo puoi sempre ricattare.
– Sì, ma io nella stessa stanza con uno di quelli non ci voglio stare. K. è ancora salvabile e di certo non voglio che qualcuno lo incoraggi!
– Noi siamo cresciuti con la consapevolezza di essere soldati. Non era bello, non era giusto, ma sapevamo cos’eravamo. Loro non lo sanno. Combattono, senza neppure la consapevolezza della battaglia.
L’uomo più giovane scosse il capo.

– Lo scopriranno. Cadranno, si faranno male. Qualcuno lo perderemo come atleta. Ma tutti diventeranno adulti.



– Quasi quasi ti invidio – sospirò E., leccando il proprio gelato, minuscolo e alla frutta. – Ancora dieci giorni di riposo assoluto. Vorrei quasi farmi male io…
    – Non dire sciocchezze – replicò V., secco.
    Era sabato pomeriggio e il ragazzo aveva zoppicato dietro a E. fino al centro, dove finalmente lei aveva accettato di fermarsi su una panchina del parco dietro la cattedrale. Aveva caldo, odiava la stampella, il tutore, odiava stare lontano dalla pista, sentiva la mancanza dei pattini ai piedi quasi gli avessero amputato un arto, e odiava dover farsi offrire il gelato da E.. Non che Y. non gli passasse dei soldi, se glieli chiedeva, ma aveva dimenticato di farlo, o forse lo aveva evitato, perché era sempre un momento imbarazzante. Doveva tornare al più presto in pista. E doveva vincere. Da juniores con le vittorie si iniziava a guadagnare. Insomma, non si poteva in nessun modo sentirsi a proprio agio con una bella ragazza se non si aveva neppure la possibilità di offrirle un gelato o si indossavano i vestiti smessi di suo fratello. Mentre si allenava non pensava mai a quelle cose, al mondo fuori dal palazzetto. Anzi, era più giusto dire che non pensava. Stando fermo, però, i pensieri riemergevano. E non sempre era un bene.
    Lei guardò l’orologio.
    – Andiamo a casa mia – propose la ragazza.
    Abitava nel pieno centro cittadino, in un palazzo antico proprio sulla Prospettiva Nevskij.
    – A quest’ora non c’è nessuno, mio fratello è a studiare da un amico, mio padre è via per lavoro e mamma è col suo amante – spiegò, come fosse la cosa più normale del mondo.
    Vi. la guardò, senza commentare.
    – Le famiglie sono cose complicate, ragazzino – disse, stringendosi nelle spalle. – Sopratutto le famiglie ricche, dove ognuno ha il suo ruolo da interpretare. Io sono quella graziosa da esporre, come la ballerina di un carillon, e un giorno da far sposare a qualcuno che voglia imparentarsi con gli affari di papà.

    V. non era mai stato nella stanza che un adolescente aveva abitato fin dalla prima infanzia. C’era tutto lo stratificarsi dell’esistenza di E., lì. Dei peluche sui toni del rosa abitavano il fondo del grande letto. Sugli scaffali, serie di libri di scuola, alcuni consumati, altri quasi nuovi. Quaderni in disordine sulla scrivania di legno scuro sopra cui era appesa una lavagnetta di sughero dove delle puntine dalla capocchia in plastica colorata tenevano ferme delle foto. E. da bambina a delle competizioni, o sul podio, sui dodici anni, con delle amiche in un parco divertimenti, con un abito lungo nero e il volto truccato a una qualche cerimonia. Sulle ante degli armadi erano appesi poster raffiguranti cantanti che lui non conosceva. Era un territorio del tutto nuovo, pieno di fascino e di pericolo.
    Su uno scaffale c’era uno stereo nuovissimo, che la ragazza accese con un gesto noncurante. Ne uscì della musica ad altissimo volume, che fece sobbalzare V.
    – Che roba è? – chiese, quasi urlando.
    E. rise.
    – Non è possibile che non li conosci! È musica vecchissima, i Nirvana, un cd di mio fratello.
    V. scosse il capo, a disagio.
    – Da Y. e L. solo classica, vero? – chiese la ragazza.
    Lui annuì. E gli piaceva. Quando aveva accesso alla radio preferiva il pop o certe canzoni in italiano, di cui non capiva le parole, ma gli piaceva il suono di quella lingua. Quella roba urlata lo disturbava. Eppure, in qualche modo, si adattava bene a E., che ora muoveva la testa a ritmo, facendo fuggire i capelli neri dalle forcine. Lui rimase a guardarla ipnotizzato, in bilico sulla gamba sana come un fenicottero, fino a che lei si avvicinò, gli diede una spinta che lo sbilanciò e lo fece cadere sul letto. V. si attendeva di vederla saltare al suo fianco, regalandogli una vicinanza che gli faceva nascere al solo pensiero una sorta di tremore a metà del petto, che per fortuna rimaneva interiore, del tutto segreto. E. invece, sempre muovendosi a tempo, cercò qualcosa sotto il letto e un attimo dopo estrasse da una scatola uno spinello e un accendino.
    – Ancora con quella roba? – esclamò V.
    Il ricordo di quanto era stato male era ancora vivido. Per non parlare della reazione di Y. Non era affatto sicuro di voler ripetere l’esperienza.
    – Non è forte come quella che girava alla festa – disse lei. – E non abbiamo bevuto niente. È solo per lasciarsi andare, non pensare… Tu cosa fai quando vuoi smettere di pensare?
    – Pattino – replicò V. sulla difensiva.
    – Ma adesso non lo puoi fare. E non lo farai neppure questa sera o domani. Un tiro a testa. Non gareggi fino ad agosto. Non può farti male in nessun modo.
    – Ma tu…
    – Io secondo Y. devo fare il triplo Axel – disse E., accendendo lo spinello. – Devo. Non posso o devo provare. Devo. E sono stanca. E ho paura di farmi male. E quel salto alle donne porta sfortuna. E non ci voglio pensare.
    V. pensava che sarebbe stata splendida su quel salto che pochissime al mondo erano state in grado di completare in gara. Doveva essere bellissimo essere tra i pochissimi al mondo a riuscire a fare qualcosa, anche solo uno stupido avvitamento sul ghiaccio. Forse, però, E. non aveva bisogno di essere tra i pochi al mondo a fare qualcosa per sapere di essere speciale. Lo era già.
    Il fumo, buttato fuori dalle labbra di E. gli arrivò proprio in faccia, con quel suo odore inconfondibile, facendolo tossire.
    – Dai, ragazzino, un tiro soltanto.
    E poi, senza sapere bene come fosse successo, E. era a cavalcioni sopra di lui, i Nirvana ancora a tutto volume e il mozzicone spento che fumava su uno specchietto adibito a portacenere, sul comodino. V. sentiva il respiro accelerato di lei e la guardava fisso negli occhi color della crepuscolo. Sentiva il cuore che martellava e una vaga sensazione di fluttuare. E. gli prese le mani e le portò ai propri fianchi, facendole insinuare sotto la maglietta.
    – Baciami, e non pensare a niente – sussurrò. – Ma prima dimmi se almeno è la prima volta che ti trovi in una situazione così.
    – È la prima volta.
    – Bene.
    La pelle di E. era calda sotto le sue mani. I suoi fianchi erano magri, la punta delle sue dita sentivano gli addominali tonici, quasi come quelli di un ragazzo. Questa volta un brivido percorse tutto il corpo di V., mentre lei si chinava per baciarlo. E davvero non c’era più modo di pensare.


SULLE LAME DELLA STORIA: la storia avanza, le gare si avvicinano e V. si scopre più fragile di quanto gli piacerebbe. Anche E, però, sta vivendo una crisi più profonda di quanto non vorrebbe dare a vedere. Il salto che sta preparando, il triplo Axel è stato a lungo considerato un salto maledetto per le donne. A dire il vero ormai è stato quasi sdoganato (lo si è visto alle olimpiadi e lo si sta vedendo al Grand Prix). Semplificando, leggenda vuole che quando una donna riesce a fare il triplo Axel, comunque non riesca  a vincere la gara, perché qualcos'altro andrà storto. Il salto, poi, è legato alla storia di Tonya Harding (su cui è stato recentemente girato un film, che però non ho ancora visto), atleta in grado di fare il triplo Axel, la cui carriera è però finita con l'accusa di aver organizzato un'aggressione ai danni di un'avversaria. Per chi volesse saperne di più, qui un articolo completo. E chissà se anche E. sarà vittima della maledizione?



 

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