Dopo dei capitoli fin troppo lunghi, uno più breve in cui ritroviamo il punto di vista di Y. e le sue difficoltà a gestire un ruolo che non sente suo.
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Nel tragitto tra casa sua e quella della famiglia di E., Y. diede fondo a tutte le sue imprecazioni, in russo come in tutte le altre lingue che conosceva. E di alcune il suo vocabolario si limitava alle imprecazioni. La prima volta che lasciava uscire il ragazzino alla sera e quello si sentiva male. Sperando che non avesse bevuto. O fumato. Anche se per certi versi, per un atleta era meglio sperare in una sbornia, piuttosto che in un malanno. Magari non a quattordici anni, però.
Trovò V. piegato in due, intento a buttar fuori anche l’anima, sopra un cespuglio sul retro dell’elegante palazzo in cui abitava la famiglia di E. A tenergli la fronte non c’era la pattinatrice, ma un ragazzo alto sui diciotto anni che aveva i suoi stessi occhi blu. Occhi che si sgranarono in un viso che era la maschera dell’innocenza, appena si trovò davanti quello inferocito dell’allenatore.
– Può aver fatto qualche tiro di spinello. Nulla di che – provò a giustificarsi. – Non pensavo di dover fare da balia a mia sorella o ai suoi amici.
Quindi aveva fumato. E bevuto.
– Comunque adesso prende un po’ d’aria e si riprende – continuò il ragazzo. – Vero che va già meglio, V… Attento che quelle una volta erano le mie scarpe preferite.
Il ragazzo provò ad alzare la testa, ma desistette e tornò alle prese con le proteste del suo stomaco. Se quel tipo, come si chiamava…? fosse stato sottoposto in un modo qualsiasi all’autorità di Y. si sarebbe preso un ceffone.
– Tua sorella dov’è? – ringhiò.
– In casa, ha mal di testa.
V. si era inginocchiato a terra. A prescindere dall’età, i fisici dei pattinatori erano delicati, dovevano essere leggeri per saltare, con solo nervi e muscoli attaccati alle ossa. Si chiese se dovesse preoccuparsi sul serio.
– Adesso tu vai a controllare come sta tua sorella. Sono minorenni. Se lei o il ragazzo finiscono al pronto soccorso ti becchi una denuncia.
– No, si calmi… – biascicò il ragazzo. A quanto pareva Y. era ancora bravo a far paura. – Avranno fatto qualche tiro e non sono abituati… Se lo sa mio padre mi ammazza.
– Tuo padre non è un problema mio. Vai da lei. Subito.
Il giovane fece per aggiungere qualcosa, ma in un rigurgito di saggezza ci ripensò e corse via.
Y. rimase a osservare V. che cercava di rimettersi in piedi.
– Credi di riuscire ad arrivare all’auto? – gli chiese.
Il ragazzo alzò il viso stravolto.
– Sì, penso di sì.
Aveva risposto alla stesso modo la prima volta che aveva tentato di fare il triplo Axel e si era quasi ammazzato.
Non ci fu bisogno di portarlo al pronto soccorso. Bastò sbatterlo sotto la doccia e poi trascinarlo in cucina per fargli bere qualcosa di tiepido. Aveva una buona capacità di recupero, ma questo Y. lo sapeva già.
– Quindi, fammi capire, un ragazzo ti offre non sai neppure cosa da fumare e tu accetti? Dopo aver bevuto non si sa cosa che ti hanno messo nel bicchiere? – gli chiese Y.
V. alzò dal tavolo della cucina quei suoi occhi dal colore indefinibile, tra l’azzurro, il verde e il grigio, nella sua migliore interpretazione del cane bastonato.
– Lo stavano facendo tutti… E. voleva insegnarmi a ballare qualcosa di diverso da quello che si fa con L., ma è intervenuto suo fratello, dicendo che eravamo troppo rigidi e qualcun altro ci ha detto che con due tiri ci saremmo sciolti… Poi lei ha finito per ballare con quel ragazzo e io…
E tu per non pensare al fatto che avresti voluto uccidere quel tipo hai finito tutto quello che ti è stato messo in mano, terminò mentalmente Y. Che cazzo si diceva a un ragazzino, in queste situazioni? I. era stato la disciplina in persona e comunque lui ce l’aveva un padre adibito ai cazziatoni.
– Senti, ragazzino, dovresti averlo già capito da un po’ che nella vita ci vuole un po’ di giudizio – sbuffò. – Non posso portarti in giro per il mondo con l’idea che questa scena patetica si ripeta, magari prima di una gara. Sono stato chiaro?
Sul viso di V. si dipinse un’espressione che Y. non gli aveva mai visto, qualcosa di molto simile al panico. Non piangeva, ma gli tremavano leggermente le labbra.
– Mi stai mandando via? – chiese il ragazzo.
– No, ti porto in pista domani mattina alle otto. Così ti rendi conto da te di quello che ho detto.
Un istante dopo, Y. si trovò stretto in un abbraccio, come non gli capitava… Beh, forse da che aveva l’età del ragazzo. Nell’incapacità di capire come dovesse reagire, si trovò a stringerlo a sua volta tra le braccia.
– Basta così, ragazzino, non è morto nessuno. Fammi sentire come sta quell’altra pazza.
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