venerdì 23 novembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 8

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7


San Pietroburgo – Giugno 2002

– Vieni con me, dobbiamo parlare – disse Y. a K.
All’interno del palazzetto il tecnico aveva una sorta di ufficio che di fatto usava pochissimo, se non per riporre e compilare le scartoffie. Aveva scatoloni che strabordavano dall’unico armadio e un’unica fotografia alle pareti, di quando ancora gareggiava, che ogni volta che entrava si riprometteva di togliere. Fu lì, comunque che condusse il ragazzo.
Ragazzo che aveva il naso gonfio e uno zigomo viola.
– Allora, cos’è successo? – chiese, dopo che ebbe chiuso la porta e indicato a K. una sedia.
– Niente, sono caduto.
Y. sbuffò.
– Il mio lavoro è veder la gente cadere. So riconoscere i lividi dovuti ai pugni. È la prima volta?
K. si fissava intensamente le mani.
– Così, sì – borbottò.
– Quando è iniziato?
Il ragazzo scosse il capo. 
– Quando è iniziato? – ripeté Y., alzando la voce.
– Dall’inizio. Da quando il mio primo compagno di camera ha frugato tra le mie cose e ha trovato…
Il tecnico sospirò.
– Se non è roba illegale non mi importa cos’ha trovato, vai pure avanti.
– Era il catalogo di un parrucchiere – ringhiò K., alzando lo sguardo. – Solo uno stupido catalogo di parrucchiere. E da allora sono iniziate le prese in giro. E gli scherzi. E le notti chiuso fuori dalla camera. Anche adesso che dormo in singola. Mi mettono le cicche masticate nella toppa e non riesco a inserire la chiave. 
Y. annuì. Nulla che non avesse già visto. Il ragazzo non era riuscito a farsi nessun amico. Era isolato e questo da solo faceva di lui una vittima perfetta per altri ragazzi lontani da casa e annoiati. Faceva pattinaggio, aveva il fisico esile dei pattinatori e persino a lui, molti anni e molti chili prima, avevano dato della ragazzetta. 
– Non ti avevano mai picchiato prima, però – commentò.
– Non le ho proprio solo prese – sbuffò il ragazzo. Mentendo, molto probabilmente. – Comunque prima almeno gli amici di G. mi lasciavano stare.
– Prima di cosa?
Aveva litigato anche con G., quindi, che, in effetti, era in ritardo, per la primissima volta. Ci voleva un bell’impegno. G. non si offendeva mai, a meno che non si parlasse male della ragazza di cui era innamorato in quel momento. Non si era offeso neppure qualche giorno prima, quando aveva chiesto a V. un parere sulla propria coreografia e il siberiano aveva risposto che era un bell’esercizio adatto alle bambine del gruppo di D. 
Adesso però K. era arrossito e si stava di nuovo guardando le mani.
– Siamo andati al cinema e un suo amico più grande mi ha toccato il sedere. Io l’ho insultato, sono andato via. E il giorno dopo ne ho trovati tre di quelli soliti ad aspettarmi.
Anche quella era una storia già sentita. Al pensionato con K. e G. stavano parecchi universitari. Qualcuno di loro aveva vigilato fino a quel momento perché la situazione non degenerasse. Nulla di disinteressato, a quanto pare. Che lo accettasse oppure no, a K. piacevano i ragazzi. Era abbastanza evidente. Quando pensava di non essere visto si mangiava con gli occhi D., con suo grande disappunto. Il suo protettore occulto aveva gli stessi gusti, ma visto che era stato rifiutato aveva abbandonato K. al proprio destino. Una storia già vista e piuttosto squallida. Da cui, però, non era così facile uscire. Lividi a parte, il ragazzo aveva delle occhiaia che, unite al naso affilato, contribuivano al suo aspetto da rapace smagrito. Si allenava con rabbia, cercando di canalizzare lì la propria aggressività. Non si era fatto male, ma non ci voleva un fine occhio medico per capire che era sull’orlo dello sfinimento.
Y. sospirò.
– Senti un po’ ragazzo, sei simpatico come la peste bubbonica e questo non aiuta. Ma quello che stai passando non è colpa tua. E finirà. Dimmi i nomi di chi ti ha pestato.
Il ragazzo prese un respiro, come prima di iniziare salto difficile.
– Puoi ospitare anche me, almeno per qualche tempo? – chiese.
Il tecnico rimase un istante immobile, interdetto. Non ne aveva alcuna voglia. 
– Io… Potrei mettere una brandina nella stanza dove sta V. Ma devo sentire cosa ne pensa mia moglie e anche V. – prese tempo.
Il siberiano sarebbe stato entusiasta, di sicuro, di dividere la camera, la prima che avesse avuto tutta per sé, con uno che lo odiava. E sua moglie altrettanto di avere per casa uno perennemente arrabbiato con il mondo.
Intanto, però, Kirill stava già scuotendo il capo.
– Lascia stare. Sono stato stupido a chiederlo. Lo so che è lui il preferito di tutti. Anche se è del tutto fuori di testa e parla col proprio peluche.
Lo sguardo del ragazzo era così spento, così disilluso, che Y. si trovò proprio malgrado a deglutire l’aria. Perché aveva ragione. Il suo dovere di allenatore era l’imparzialità. Oltre tutto quei due al momento si equivalevano. K. aveva più tecnica, V. più espressività. Il suo dovere era proteggerli entrambi allo stesso modo. Un allenatore, a volte, non dovrebbe essere anche un essere umano.
– Ho bisogno di chiedere, anche al fuori di testa – si sforzò di dire. – Intanto forse D. ha una stanza.
D, che sarebbe stato felicissimo di portarsi a casa uno schifoso pervertito...




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