sabato 1 dicembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 9

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

      – Non ce la faccio – disse E., a carponi, con le mani sul ghiaccio.
– Sì che che la fai – la contraddisse Y. – Ce l’hai fatta ieri e anche settimana scorsa.
– Non ce la faccio – protestò di nuovo lei.
– Sarebbe tutto più facile se tu andassi a dormire a un’ora decente e conducessi una vita un po’ più regolata.
– E se invece non me ne fregasse un cazzo del tuo triplo Axel? – ringhiò lei.
– Vai a farti un giro, E. Poi riprendiamo.
Non gli piaceva la piega che stava prendendo E. Che si portasse dietro V. come fosse un cagnolino poteva andare. Quello che non andava bene era che tornasse a casa con gli abiti che puzzavano di fumo. Non che questo fosse un problema per le prestazioni del siberiano. L’incidente lo aveva spaventato. Era tornato in pista due giorni prima del termine stabilito. La sua droga, quella vera, era il ghiaccio. Ne aveva bisogno. Bisogno di sapere di essere bravo, bisogno di crogiolarsi nell’ammirazione degli spettatori. Fuori dalla pista scondinzolava dietro alla ragazza appena lei faceva un cenno, ma aveva declinato alcuni inviti serali. A quanto pareva, portarlo in pista con ancora i postumi del post sbornia, dopo quella festa, era servito. V. odiava farsi vedere cadere o sbagliare e quella, almeno, era un’ottima leva per un allenatore. 
E., invece, a quelle feste ci andava. A quanto pareva quella vita serale era molto più attrattiva, ai suoi occhi di sedicenne, di quella diurna tra pista e palestra. E in quelle feste circolava un po’ di tutto. Quelli che la ragazza frequentava erano giovani russi ricchi. La prima generazione cresciuta nell’agio. Famiglie che si erano arricchite in pochi anni e che davano ai figli ampia disponibilità economica, solo per dimostrare che potevano farlo. E, quindi, ragazzi che compravano tutto quello che potevano per lo stesso motivo. Y. non era un ingenuo, né aveva vissuto come un monaco. Si era ubriacato, aveva provato il fumo e aveva fatto le olimpiadi tra gli anni settanta e gli ottanta, quando girava di tutto. Ma i soldi erano pochi, le vittorie cose importanti e quindi prima si vinceva e poi, se mai, si festeggiava, comunque senza folleggiare. E. non aveva bisogno di vincere per accedere a tutto quello, era già suo di diritto. E forse, era stata per talmente tanto tempo la più brava che dava per scontato che avrebbe continuato ad esserlo. L’allenatore sperava con tutto se stesso che qualche bella sconfitta nelle prime gare internazionali la rimettesse in riga.
– Ehi, ragazzi, pausa, hanno appena consegnato i costumi! – gridò D., arrivando correndo a bordo pista.
Anche da lui non erano arrivate grandi notizie. Aveva borbottato per mezza giornata, ma ovviamente si era portato a casa K. Che a quanto pareva, quando pensava che nessuno potesse sentirlo, verso le due di notte, in una camera chiusa a chiave, piangeva disperato.
Di giorno, al palaghiaccio, K. mostrava la sua abituale maschera di supponenza, e fu con quella che si voltò, mentre V. quasi lo travolse nella foga di raggiungere l’uscita.
– Voglio vedere il mio del lungo, subito! – esclamò il siberiano.
G. lo guardò sogghignando, come se avesse dieci anni di più di lui, invece che sei mesi di meno.
– Pausa costumi, dunque – concesse Y.
Quando lui, Georgi e Kirill arrivarono nell’atrio per prendere in carico gli scatoloni appena consegnati, scoprirono che V. li aveva già aperti, come un cane che scava alla ricerca di un osso.
– Eccolo! – esclamò, trovando ciò che cercava.
Y. non poté fare a meno di sorridere. V. apriva i pacchetti con l’entusiasmo di un bambino di quattro anni. Era quasi certamente perché non l’aveva fatto per tutta una vita. Tuttavia era talmente immerso in quella sua gioia infantile che era difficile non rimanerne contagiati. Persino L. una paio di volte era tornata a casa con dei cioccolatini, minuscoli, dentro elaborati pacchetti per il puro gusto di vederglieli aprire.
– È bellissimo! – mormorò il ragazzo, con gli occhi che scintillavano.
Il costume era bianco e grigio, decorato con delle piume sulle spalle e i polsi. La coreografia del libero di V. era una rielaborazione, creata da lui e L., di quella della prima esibizione a cui Y. aveva assistito. Non più un fiocco di neve, ma una piuma, portata dal vento, destinata a sporcarsi. Il ragazzo aveva una forza interpretativa che non aveva mai visto e che al momento sopperiva alle carenze tecniche ancora presenti. L’allenatore sospettava che quello che V. metteva in scena fosse il racconto danzato di una perdita dell’innocenza. Qualcosa che forse aveva molto a che fare con i suoi pomeriggi con E…
– Ma dai! Con quello e i tuoi capelli sembrerai Odette – commentò K., che stava estraendo il suo costume da cosacco. – Y. deve averti scambiato per una delle ballerine di sua moglie.
V. stava per ribattere qualcosa, ma fu preceduto da G.
– Ma senti da che pulpito! – disse. – Intanto V. sta con E., alla faccia dell’essere una ballerina.
C’era del rammarico in quelle parole, che il ragazzo consolò accarezzando il proprio costume, che aveva dei fulmini sulle braccia, un omaggio non dichiarato a Harry Potter.
– Io non sono la ragazza di nessuno – disse E., che arrivava nell’atrio in quel momento. – Di certo non di un bambino di quattordici anni, per quanto grazioso.
Il costume bianco e grigio cadde a terra, mentre E., che si era già messa la tuta e dava per terminato l’allenamento, usciva con i propri pattini sulle spalle.
Due secondi dopo, V. la seguiva.
– Ehi, ho detto qualcosa di sbagliato? Non volevo… – mormorò G.
Y. gli mise una mano sulla spalla.
– Mai intromettersi nelle liti tra innamorati – disse. – A meno che non ci sia di mezzo una gara importante.



– Come sarebbe a dire che non sei la ragazza di nessuno? – disse V., mettendole una mano sulla spalla.
Erano proprio davanti alla panchina su cui si erano baciati la prima volta.
In quell’ultimo mese, poi, ogni scusa era buona, V. personalmente usava il fatto che lei lo aiutava con i compiti, per scivolare insieme nella camera di E., il sabato pomeriggio, o anche la sera subito dopo cena. Una volta aveva persino bigiato le lezioni. Non sempre c’erano stati i Nirvana, per fortuna, non sempre gli spinelli, sempre per fortuna, ma sempre erano finiti sul letto. Con sempre meno vestiti addosso. L’ultima volta era rimasta solo la biancheria. E. si era lamentata dei propri seni troppo piccoli e lui aveva ribadito quanto li trovasse perfetti, studiandoli attraverso il pizzo.
– Non è che il fatto di pomiciare ti dia un qualche potere su di me, ragazzino – disse lei, senza voltarsi.
– Ah, no? Quindi per te è che cosa… Un’abitudine? Una cosa che fai con tutti i tuoi amici?
Non si era mai sentito in quel modo. No, non era vero. Era lo stesso senso di dissanguamento che aveva provato l’anno precedente, quando aveva capito che suo padre, anche se era libero, non aveva la minima intenzione di vederlo. All’improvviso faceva freddo, anche se non era vero, e i colori intorno a lui si erano fatti smorti.
– Non sono cazzi tuoi quello che faccio o non faccio con gli altri – replicò E.
V. pensò che se ne sarebbe andata senza neppure voltarsi, invece si sedette sospirando sulla panchina.
– Noi ci facciamo compagnia, ragazzino, perché siamo uguali, nessuno ci vuole bene e non vogliamo bene a nessuno, non ha senso mentirci – disse, con voce dolce e triste.
– Io ti voglio bene – disse V., con tutta la sicurezza che seppe trovare.
– No, ragazzino. Noi non sappiamo neanche cosa via voler bene, perché non l’abbiamo mai provato. Siamo bravi a recitare una parte, sappiamo come sembrare adorabili. Ma non siamo «qualcuno» per le persone che abbiamo intorno, siamo «qualcosa». Atleti, una figlia da esibire, un problema da sistemare. E siamo abituati a pensare agli altri come «qualcosa». Lo so che è così anche per te, ragazzino. Persino quando pomiciamo, a volte non è me che stai abbracciando.
V. abbassò gli occhi fino a incontrare le proprie scarpe da ginnastica. Non erano del fratello di E., quelle, le aveva comprate lui stesso, con dei soldi che Y. gli aveva dato “come anticipo sui tuoi futuri guadagni”. Com’era possibile che quelle cose, che neppure lui riusciva a dire a se stesso con tanta chiarezza, uscissero da una ragazza che era, in apparenza, l’esatto opposto di lui? 
– Io però ti voglio bene – disse ancora, con ostinazione, forse per convincere se stesso che era vero.
– Davvero, ragazzino? Se davvero vuoi bene a una persona dovresti essere disposto a fare qualsiasi cosa per lei, anche a rinunciare alla cosa che ami più al mondo. Smetteresti di pattinare per me?
V. rialzò lo sguardo, per incrociare gli occhi seri di lei.
– Ma sei matta?
– Andiamocene. Prendiamo due cani e giriamo l’Europa come artisti di strada, sappiamo ballare, io so suonare. Andiamo il più lontano possibile da qua.
– È molto comodo dire queste cose quando si ha comunque un posto a cui fare ritorno – commentò V., piatto.
Non gli piaceva per nulla quella conversazione. Non gli piaceva la freddezza che vedeva nel viso di E., come se davvero fosse pronta a fare qualsiasi follia, solo per provare a se stessa di esistere. E lui la capiva quella sensazione, la necessità di spingersi oltre i propri limiti per sentire davvero che il sangue pulsava nelle sue vene. La provava ogni volta che scendeva in pista e infinitamente più forte quando c’era un pubblico. Cosa sarebbe accaduto se l’avesse persa, se un giorno anche pattinando non fosse riuscito a sentirsi vivo?
– Forse non siamo uguali come credi – disse.
Inaspettatamente, la mano di lei si posò sulla sua guancia.
– No, lo siamo, invece, ed è il motivo per cui tu non faresti davvero una sciocchezza per me – c’era molta tristezza in quelle parole. – Il sono «qualcosa» per te. Una porta per un mondo che non avevi mai visto e che ti piace da matti.
Si alzò dalla panchina, guardando la propria tuta.
– Devo andare, starò via qualche giorno con i miei – disse, come se fino a quel momento avessero parlato del tempo. – Non prendertela a male. Io non sono la tua ragazza, ma tu sei carino davvero.

V. la guardò allontanarsi verso la fermata dell’autobus. Sentiva le lacrime che gli colavano sulle guance. Io sono una porta per un mondo che non avevi mai visto e che ti piace da matti. Era davvero solo quello E., per lui? Ma era anche quello, senza dubbio. E il fatto che le parole di lei fossero vere le rendeva più taglienti. Facevano così male che forse neppure il suono delle lame dei pattini sul ghiaccio ne avrebbe attutito il dolore.

SULLE LAME DELLA STORIA.
E con questo capitolo siamo arrivati, senza che nessuno se ne sia reso conto, al punto di non ritorno, oltre al quale potremo solo stare a guardare chiedendoci, insieme a Y, cosa si sarebbe potuto fare di diverso e quando. Ma l'insieme delle piccole crepe sul ghiaccio delle anime dei protagonisti, ormai, stanno per creare fratture che non si potranno più evitare.

Al di là di queste fosche anticipazioni, mi sono divertita molto a mettere in scena anche qui un V. dai gusti estetici non proprio improntati all'immagine della virilità, ma che fa strage di cuori femminili (temo che E. sia la prima di una lunga serie).
Il costume bianco da cignetto è tra gli elementi che ho rubato:
(Non è V. che lo sta indossando)
E non è poi tanto diverso da quello sfoggiato al galà olimpico dalla medaglia d'oro, Yuzuro Hanyu:


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