Mondadori sta, con una certa calma e una scelta di priorità che non mi spiego del tutto (immagino problemi di diritti posseduti da altri editori), ripubblicando alcuni dei romanzi di fantascienza di U.K Le Guin.
GIOIA E GAUDIO!
Questo romanzo, del 1966, è un'opera giovanile, per certi aspetti una prova generale di quel capolavoro che sarà, pochi anni dopo, La mano sinistra delle tenebre.
Lo dice senza mezzi termini l'autrice stessa nell'introduzione, che arriva da un'edizione del 1978 (quindi ottima cura editoriale da parte di Mondadori). È un libro scritto quando ancora non aveva ben chiare le sue priorità e cosa volesse raccontare. In particolare la Le Guin rimpiange di aver relegato la protagonista femminile a un ruolo troppo passivo, anche se vi è già un'ombra del femminismo dolce che la contraddistinguerà. È un romanzo che semplicemente racconta una storia, senza aspirare ad essere altro, né da un punto di vista stilistico né contenutistico. Considerando che il suo lavoro lo fa più che degnamente, per molti autori questo è un punto d'arrivo tutt'altro facile che raggiungere. Per la Le Guin è una partenza la cui ingenuità, in retrospettiva, viene guardata con scarsa benevolenza.
È come saranno le opere successive, il racconto di un incontro di civiltà.
Sul pianeta Werel una civiltà avanzata ha impiantato una colonia. I contatti con la madrepatria, però, si sono interrotti, nessuna nave spaziale è atterrata, le comunicazioni interplanetari hanno smesso di funzionare. I coloni vivono con insofferenza la loro condizione di esiliati, beandosi della propria superiorità tecnologica e culturale e con scarsa voglia di interagire con le popolazione native, che hanno una cultura ricalcata su quella dei nativi americani (di cui il padre della Le Guin era uno dei massimi studiosi).
Il pianeta, però, ha un ciclo stagionale lunghissimo (come il mondo de Le cronache del ghiaccio e del fuoco, che il buon Martin abbia preso spunto da qui?) e l'approssimarsi dell'inverno costringe i pochi esiliati rimasti a cercare un contatto con i nativi.
È invece la semplice curiosità a spingere Rolery, giovane nativa nata nella stagione sbagliata e quindi condannata alla solitudine, a recarsi nella città dei "nati lontano", dove, per altro, può trovare coetanei, forse addirittura un compagno.
La narrazione passa rapidamente da un punto di vista all'altro, da quello dei nativi a quello dei "nati lontano", creando un gioco di specchi deformanti che è poi la caratteristica tipica dei romanzi di fantascienza della Le Guin.
Le similitudini tra questo romanzo e La mano sinistra delle tenebre sono tali che è davvero difficile giudicarlo per se stesso. Tanti sono i punti in comune che saranno poi approfonditi in quel romanzo: la forza della natura che impone alleanze improbabili, gli alieni che si guardano tra loro, con un continuo alternarsi di punti di vista per cui il diverso, quello sbagliato, è sempre l'altro, l'idea che il clima possa portare cambiamenti sulla fisiologia umana (qui i nativi fertili solo in determinati momenti per sfruttare le estati per crescere i figli, gli ermafroditi su Gheten), l'approfondire la mentalità aliena, la solitudine come motore degli eventi.
Rispetto a quel romanzo, però, tutto è solo un abbozzo e si percepisce come l'autrice non avesse ancora consapevolezza piena dei propri mezzi e dei propri intenti. Sopratutto, il lettore trova lontani tutti i personaggi. Sia Rolery che Jakob Agat sono in fin dei conti, per noi che leggiamo, alieni. Proprio perché c'è uno sforzo nel costruire dei meccanismi mentali diversi dai nostri li sentiamo lontani e non riusciamo fino in fondo ad empatizzare con loro. Anche il desiderio degli hainita di rimanere esiliati e non volersi rassegnare a capire il mondo che ormai abitano da generazioni ha qualcosa di artificioso che ci fa subito percepire le loro posizioni come sbagliate. Per quanto ingenua, l'istintiva saggezza di Rolery si connota subito come la voce dell'autrice.
Andando avanti la Le Guin imparerà a farci immergere totalmente nelle menti di un'umanità diversa, fino a farci dimenticare che non si parla di noi e a farci amare anche personaggi diretti verso il disastro.
Con questo non voglio dire che Il pianeta dell'esilio sia un brutto romanzo. È una storia di fantascienza come oggi non si usano più, con una certa ingenuità di fondo, ma connotata da un'indubbia eleganza. Un libro che vale la pena di leggere a prescindere, anche se bisogna sapere che non è il meglio che l'autrice abbia prodotto.
Quello che mi sono chiesta, leggendolo, è se oggi a un'autrice come la Le Guin sarebbe stata data la stessa possibilità di crescita. Da quel che ne so, quando questo romanzo uscì, il suo secondo romanzo di fantascienza (dopo Il mondo di Rokannon, un altro romanzo interessante, ma embrionale), vendette abbastanza (erano anche altri tempi, in questo senso), senza però suscitare particolare clamore.
Cosa direbbe oggi un editore a un autore in analoga posizione: osa pure, non aver paura di fare qualcosa di potenzialmente shoccante e con grandi ambizioni letterarie o, piuttosto vola basso, tieniti stretto i lettori che già hai, non impelagarti in temi scottanti, dopo tutto scrivi di genere e il tuo lettore vuole solo evadere?
Io un po' temo la seconda versione. Poi, certo, la Le Guin non ha proprio un caratterino accomodante e l'editore del secondo tipo lo avrebbe mandato a pascolare. Quelli, però, erano anche altri tempi, con altre vendite, altri ritorni economici e, per certi versi, forse, maggiore possibilità contrattuale da parte degli autori.
Di certo mi ha fatto toccare con mano la semplice verità che nessuno nasce imparato. Anche gli autori migliori hanno imparato ad essere tali, hanno scritto romanzi che col senno di poi hanno trovato ingenui e hanno trovato la loro strada non sempre al primo colpo.