lunedì 25 febbraio 2019

Non esaustiva storia della donna guerriera in letteratura

Fin dall'inizio del mio rapporto con la lettura o, meglio, del mio rapporto con la narrazione, ho subito il fascino delle donne guerriere. Bimba avventurosa, inevitabilmente mi riconoscevo con chi sceglieva la spada, piuttosto che con chi sveniva per amore. 
Non sono certo l'unica, dal momento che la donna guerriera è presente nelle narrazioni fin dall'alba della letteratura, anzi, è un classico che riscuote successo da millenni e  mi è venuto il desiderio di osservarne l'evoluzione (o la non evoluzione) nel tempo.
Si parte

Atalanta
L'antica Grecia, terra di rara misoginia, ci ha regalato dei personaggi femminili di intramontabile fascino.
Non mancano, ovviamente, le donne guerriere, prime tra tutte le Amazzoni. Le amazzoni formano, però, una sorta di "contro società" da cui gli uomini sono esclusi e le donne tutte addestrate alla guerra. Le amazzoni, quindi, sono "la norma a casa propria".
Atalanta, invece è la capostipite di tutte le donne guerriere. Abbandonata dal padre che voleva un maschietto, è stata salvata da Artemide, che ne ha fatto una guerriera.
Atalanta partecipa alla spedizione degli argonauti e si distingue in praticamente qualsiasi impresa si cimenti. Al contrario delle eroine che verranno dopo, non si nega qualche avventuretta qua e là, ricavandone, pare, anche un figlioletto. 
Alla fine, il padre non può che riaccoglierla in famiglia, ma questo punto alla donna tocca maritarsi. Se l'amore in sé non è stata la sua rovina, il matrimonio lo è, ma non nel senso che potremmo pensare. Lo sposo è infatti profondamente innamorato di lei e viene ricambiato con una passione travolgente. Così travolgente che i due si concedono all'amore nel tempio di Cibele, dea vendicativa che li trasforma in leoni (maschi, perché pare che al tempo i greci considerassero leoni e leonesse due specie differenti).
È lei la capostipite di una schiera di donne guerriere, quasi tutte imbattibili solo fino a che non riscoprono la propria femminilità e l'amore, che le porta alla rovina, anche se in realtà la bella Atalanta non ha mai negato la propria femminilità. Si è solo fatta trascinare dalla passione e per questo gli antichi dei greci non hanno pietà.

Camilla
Come Atalanta era protetta da Artemide, la Camilla dell'Eneide, altrettanto abbandonata, è protetta da Diana. Vive con altre donne nei boschi, vestita di pelli di animali. Turno, nel cercare alleati contro Enea, le arruola tra le sue fila, ma evidentemente dimentica di fornire loro equipaggiamento. Camilla, infatti, si distrae ad ammirare la stoffa degli abiti di un nemico ucciso e questo le è fatale. Colpita da una freccia, muore tra le braccia della più fedele delle sue donne. 
Non è l'amore, quindi, a rovinare a Camilla, quanto la curiosità per qualcosa a cui, lei, abituata alle pelli di animali, non era adusa. Con qualche rotolo di stoffa in dono, insomma, Turno avrebbe salvato l'alleata e magari vinto la guerra...

Bradamante
Storia diversa è quella della Bradamante dell'Orlando Furioso di Ariosto, personaggio presente, in realtà, anche nell'Orlando Innamorato. Innanzi tutto non sono noti particolari drammi famigliari. Pare abbia una madre che la aspetta a casa ed è un membro riconosciuto della famiglia. Nessun particolare dramma neppure nella carriera come paladina di Carlo Magno, ruolo che ricopre con riconosciuto successo. Neppure l'amore è l'anticamera di un destino funesto, dal momento che da suo figlio si originerà la casa d'Este. Insomma, in mezzo a tante storie tragiche, Bradamante è la dimostrazione che essere donna e guerriera si può.

Clorinda
Tasso è più tragico di Ariosto in tutto, figuriamoci se non lo è con la propria donna guerriera!
Clorinda, la vergine combattente de la Gerusalemme Liberata, ha una storia famigliare quanto meno travagliata. Figlia dei sovrani d'Etiopia è però bionda e di pelle chiara. La madre (chissà perché) si convince che il marito non l'avrebbe presa bene e la sostituisce con un più appropriato neonato di colore. La affida al servo eunuco che si dimentica di fare l'unica cosa che la regina gli aveva chiesto, cioè battezzare la bambina. Seguono una serie di presagi funesti e problemi d'identità. Mi devo essere persa qualche passaggio, ma alla fine la figlia di sovrani cristiani, cresciuta da un ex schiavo eunuco, si trova ad essere una combattente nell'esercito mussulmano che protegge Gerusalemme dai cristiani. Qui Clorinda subisce il tipico mobbing che colpisce le donne in carriera e, a parità di abilità, non ottiene il posto che sente di meritare e tenta un'azione notturna in solitaria. Tancredi, guerriero cristiano innamorato di lei, non la riconosce e la ferisce a morte. Prima della dipartita, tuttavia, Clorinda riesce a farsi battezzare. La storia di Clorinda è tragica dall'inizio alla fine e non c'è mai stata per lei alcuna speranza di lieto fine.

Capitan Tempesta
Saltiamo al 1905 per trovare, dalla penna di E. Salgari, Eleonora, duchessa d'Eboli, erede letteraria diretta di Bradamante. Siamo nel XVI secolo, Eleonora è stata addestrata al combattimento dal padre, che non ci trovava nulla di male. Quando il suo fidanzato viene fatto prigioniero dei turchi a Cipro lei si travesta da uomo per andarlo a salvare.
Storia anomala per la trama quanto per la protagonista, la vicenda inizia praticamente dove le altre finiscono. Nel giro di pochi capitoli Eleonora, considerata da tutti un uomo di estremo valore, viene ferita e la sua identità rivelata a un certo numero di personaggi. Questi per la maggior parte non fanno una piega e, preso atto che sono rimasti in pochissimi europei in una Cipro ormai in mano turca, che in qualche modo devono portare a casa la pelle e che Eleonora sembra avere le idee migliori sul come, ne accettano la leadership senza battere ciglio.  Si salveranno quasi tutti, meno il famoso fidanzato. C'è da dire, però, che Eleonora ha fatto innamorare di sé un principe siriano che ci mette poco a decidere di lasciare tutto, titolo e religione compresa, per andare a vivere da lei.
Il romanzo ha anche un seguito, Il leone di Damasco (che non ho letto e risulta introvabile), in cui apprendiamo che Eleonora e il suo bello hanno messo su famiglia, ma non appeso la spada al chiodo e, in caso di necessità, lei è sempre in grado di tornare a combattere per salvare la pelle ai suoi cari. Un caso più unico che raro in cui vocazione guerriera e famiglia riescono a conciliarsi.

Non mi sono noti esempi italiani più recenti di donne guerriere, anche se l'archetipo continua a vivere nel nostro immaginario. Tutte le persone della mia generazione conoscono ovviamente Lady Oscar, che risulta parente di Clorinda, una figura tragica destinata a morire nel momento stesso in cui accetta la propria femminilità. 
Una piccola curiosità. Da tempo sospettavo che la figura di Lady Oscar non fosse poi così folle a livello storico. Questo perché sapevo che il governo rivoluzionario francese si era premurato di vietare la carriera militare alle donne, regola che doveva pur essere stata promulgata sulla base di un qualche precedente. Scrivendo questo post ho scoperta che negli stessi anni (appena dopo in realtà) nell'esercito russo una donna è diventata ufficiale di cavalleria. Pluridecorata, ne è uscita vivissima e ha scritto anche un libro di memorie.

Rimanendo in ambito prettamente letterario, ho scelto queste cinque figure in quanto figlie della letteratura italiana, ad eccezione di Atalanta, che è comunque la capostipite di tutte le altre. 
Mi ha colpito il fatto che 3 su 5 muoiono tragicamente, anche se nessuna è effettivamente tradita dal fatto di essere donna. Virgilio prova a dirci che Camilla è distratta dal gusto femminile per le belle stoffe, ma mi sembra un po' un arrampicarsi sugli specchi. Atalanta viene punita per la propria lussuria insieme al marito e il suo passato guerriero ha poco a che fare con questo destino, mentre Clorinda è vittima di un tragico equivoco. Tutte e tre le decedute, però, hanno avuto infanzie tragiche, come a dire che la donna guerriera se la può cavare benissimo, purché cresciuta in un ambiente non disfunzionale (come tutti, insomma)!

L'archetipo della donna guerriera rimane vivissimo nella narrativa fantasy, che ce ne regala di splendide, dalla Eowyn de Il signore degli anelli fino alla Brienne di Tarth de Il trono di spade. Non ho fatto una ricerca approfondita in merito, ma mi sembra che la sopravvivenza media delle donne guerriere nel fantasy moderno sia superiore a quelle della letteratura del passato.

Mi manca invece, un racconto sulle donne guerriere di oggi. Mi viene segnalato un film documentario sulle combattenti curde e poco altro, quando forse, invece, ci sarebbe parecchio da dire su una carriera, quella militare, oggi possibile, ma di certo non facile per le donne.

Voi cosa ne pensate di questi personaggi?


lunedì 18 febbraio 2019

L'abbazia di Northanger – Piovono libri


Dopo una serie di disavventure librarie (libro perso nei meandri della casa o libro che proprio non si è voluto far leggere), sono tornata a frequentare il gruppo di lettura.
Non potevo mancare, dato che il libro l'avevo proposto io ormai tre anni fa.

Si tratta di una delle opere meno note di Jane Austen, edito postumo.
La caratteristica che lo differenzia dalle altre opere dell'autrice è che si tratta di una parodia dei romanzi gotici e sentimentali per cui allora stravedevano le ragazzine. La protagonista, l'ingenua Catherine, legge solo questo genere di romanzi, li cita di continuo, ragiona sulle sue esperienze solo in relazione alle vicende delle sue eroine e, in fin dei conti, si crede immersa in una storia simile.
Questa evidente vena parodistica, che non ha come uniche vittime quei romanzetti, ma anche il mondo dell'editoria e, perché no, la Austen stessa, rende ancora più chiaro il meccanismo alla base del suo romanzo.

Sotto le (deliziose) storie d'amore, i romanzi della Austen sono anche ciniche analisi del funzionamento della società dell'epoca. Le ragazze devono frequentare balli e luoghi di villeggiatura come Bath al fine di essere notate da aspiranti mariti e sembrano girare con il cartellino del prezzo attaccato, poiché vengono giudicate principalmente in base alla loro dote. Se non possono recarsi in questi luoghi insieme alla famiglia, qualcun altro provvederà a portarle, come si porta una merce al mercato. Allo stesso modo i genitori indirizzano i figli machi verso i partiti migliori (sia mai che si facciano incantare da un bello sguardo e perdano di vista la dote...), in un pratico sistema di compravendita. In questo romanzo, punteggiato, più di altri, dai commenti dell'autrice, che arrivano dove la perspicacia della protagonista non può giungere, l'aspetto di analisi dei meccanismi sociali è per certi versi più evidente e lo sguardo su di esso più venato d'amarezza.

Spesso le eroine di Jane Austen, perfettamente consapevoli di come gira il mondo, riescono non a scardinare il sistema, ma a sfruttarne gli stessi meccanismi per raggiungere i loro scopi attraverso l'intelligenza e il buon senso. Catherine, povera cara, è una ragazza di cuore, ma del tutto priva di acume, con una testolina nutrita solo a romanzetti gotici e affidata a una coppia benintenzionata quanto superficiale. 
Mi ha ricordato moltissimo alcune mie alunne (senza riferimento ad alunne attuali), nutrite solo a reality, convinte che quanto vedono sullo schermo sia il metro con cui devono giudicare la realtà. Perché quello che colpisce è questo, c'è molto, in questo romanzo che rimane valido ancora oggi. Il giovanotto che non fa che vantarsi del proprio calesse è tale e quale a tanti giovani interessati solo al modello di cellulare o di moto o di suv posseduto. E, di tanto in tanto, l'ironia dell'autrice sfocia in qualcosa di più amaro, come quando afferma che le donne, per avere successo, devono apparire sciocche e ignoranti.

Rimane comunque quella sorta di apertura a una felicità possibile che è propria delle Austen. Catherine è osservata con benevolenza nelle sue peripezie e se le persone non cambieranno mai del tutto, ma possono migliorare, aprire gli occhi, capire qualcosa del mondo senza esserne incattivite.

Al gruppo di lettura pascolano, tra gatti e (ottimi) sorbetti, lettori molto più raffinati di me. Così ho scoperto, tra le altre cose, che tutti i riferimenti ai romanzi gotici presenti sono stati ritenuti a lungo frutto della fantasia dell'autrice poiché di quelle opere si era persa traccia. Si è poi scoperto che no, si tratta di romanzi reali, alcuni di sicuro presenti in casa Austen e sono stati recuperati e ri editi come i "gotici austeniani". Questo, suppongo, significa che le opere lette e stra lette dalle ragazzine come Catherine finiscono rapidamente dimenticate, le Abbazie di Northanger, anche se non baciate da particolare fortuna all'uscita, sopravvivono ai secoli. Immagino sia valido allora come oggi.
Sono, in effetti, particolarmente interessanti tutti i riferimenti al mondo dell'editoria, così simile al nostro. Un mondo interessato solo a ciò che vende, nella fattispecie, quindi, romanzetti gotici, in cui un romanzo di valore può essere opzionato da un editore e mai edito e mai pagato. Vi ricorda qualcosa?

In conclusione l'Abbazia di Northanger  è un romanzo piacevole e intelligente e che, tuttavia, potrebbe deludere chi associa il nome di Jane Austen solo a romantiche storie d'amore. Questa è una garbata e divertita parodia, che gioca con affetto con una protagonista che vorrebbe essere l'eroina che non sarà mai, ma anche con le velleità autoriali dell'autrice. Infine, più che in altri romanzi, è evidente l'opera di analisi e scomposizione dei meccanismi della società patriarcale del tempo, vivisezionata dall'acuto sguardo di una donna.
Consigliatissimo, dunque, sia a chi della Austen ha già letto le opere più famose, sia a chi associa il nome solo a storie romantiche a cui non si avvicinerebbe mai.
"Stupidi umani, che avete bisogno di specchiarmi nei libri
per guardare il mondo, smettetela con le chiacchiere
e onoratemi come merito!"

lunedì 11 febbraio 2019

Portare gli alunni all'Inferno


Ogni volta che mi capita di avere una seconda media finisco per perdere di vista la mole enorme del programma di letteratura per "impantanarmi" nella Divina Commedia.
Ok, quest'anno mi sono fatta un po' prendere la mano. Complice un'insegnante di sostegno e una classe oggettivamente più creativa e volenterosa della media abbiamo letteralmente trasformato una parte dell'aula nell'inferno. Non so neppure io come ci siamo trovati con questo enorme cartellone che mostra i gironi illustrati, con tanto di Virgilio e Dante staccabili da spostare su e giù al momento della spiegazione (peccato che poi non ci hanno dato la scala per raggiungere la parte alta dell'Inferno).
Non ho ancora, come prof, tutta questa lunghissima esperienza da poter dire che quanto sto per raccontare accada sempre, ma per come ho vissuto io la cosa, ciò che succede è più o meno questo:
"Ragazzi, adesso iniziato la Divina Commedia!"
"No, prof, pietà, cosa abbiamo fatto di male?!"
Mesi dopo.
"Ok, adesso abbiamo finito la Divina Commedia!"
"Ma come, prof, di già? Non facciamo altri pezzi?"
E io, ogni volta, ringrazio il cielo per l'immensa fortuna di essere nata nel paese di Dante che ci ha regalato un'opera dalle infinite chiavi di lettura, capacissima di incantare a qualsiasi età la si legga.

Se devo essere sincera, però, non posso dare torto ai ragazzi che vivono nel terrore della Divina Commedia. Sembra che ci sia tutto un movimento interno alla scuola, con la complicità dei libri di testo, che alimenta il loro terrore.
La Divina Commedia è difficile.
Basta aprire un medio libro di testo per aver paura di Dante. C'è sempre, in qualsiasi libro di letteratura, un tot di testo tra il nome dell'autore e il primo brano presentato. Che lo si voglia o no, diventa una sorta di barriera che ci separa dal testo. Più è lungo e più abbiamo l'impressione che il testo che andremo a leggere sia complicato. Più la spiegazione è lunga in relazione al testo e più abbiamo l'idea che il testo che andremo a leggere sia difficilissimo.
Ora, la Divina Commedia è oggettivamente difficile e un'introduzione è necessaria, ma vedere venti pagine al posto dell'abituale mezza è terrorizzante. Dà l'impressione di accostarsi a qualcosa che non è alla nostra portata. E in effetti sembra che i libri di testo la pensino così. Spiegoni su spiegoni per brani di canti sempre più brevi da edizione a edizione.
Siamo tutti d'accordo che in seconda media non si possa leggere tutto l'Inferno, magari neppure un canto completo, ma vogliamo andarci in questa Selva Oscura? Vogliamo conoscerlo Caronte? E Paolo e Francesca? La selva dei suicidi? Ulisse? Libri di testo che sulla guida del docente dichiarano di non aver inserito Paolo e Francesca perché "troppo difficile" mi sembrano insultare l'intelligenza dei nostri alunni.


Perché, davvero, è così difficile? I pre requisiti dovrebbero averli. Sapere cos'è un poema, quindi cos'è un canto, cos'è un endecasillabo, riconoscere uno schema metrico. Il medioevo dovrebbe essere stato studiato e acquisito. La parte davvero complicata è far capire i fondamentali teologici indispensabili a chi viene da una religione diversa, ma questo può aprire la porta a interessanti confronti.
Trovo molto triste l'idea che qualcuno studi la Divina Commedia senza leggerla, senza assaggiarne neppure un pezzettino.
Io odio, odio con tutta me stessa, i libri di testo che presentano la Divina Commedia con la parafrasi a lato. Primo perché spesso questa parafrasi è sbagliata (quest'anno continuo a imbattermi in parafrasi sbagliate, in quasi tutte le nuove edizioni scolastiche e non solo, mi è pure venuto il dubbio che a sbagliare fossimo io e tutti i miei prof precedenti, ma no, porca paletta, sono proprio sbagliate), secondo perché in questo caso nove studenti su dieci non leggeranno mai il testo originale.
E invece dobbiamo andarci in questa Selva Oscura, a guardare le fiere negli occhi, per perderci insieme a Dante.
La prima lezione è il terrore assoluto. Che lingua parla questo?
La seconda lezione è terrore parziale. Questa cosa necessita attenzione, che fatica!
La terza lezione è cauto ottimismo. Posso provare a fare la parafrasi, prof?
La quarta lezione (e siamo a Caronte) è: va beh, prof, ma si capisce!

Caronte è il punto di svolta. Il momento in cui ormai si è fatta amicizia con il testo. Non fa più paura. Non è vero che c'è così tanto da studiare, una volta che si è capito come funziona e di cosa stiamo parlando.
Il momento in cui si legge e si può iniziare a ragionare su Dante e con Dante.
Perché la Divina Commedia è una magnifica palestra di educazione emozionale.
Quello di Paolo e Francesca è il delitto passionale più famoso della storia, terribilmente simile a millemila fatti di cronaca. Si presta a mille ragionamenti, dalla riflessione sulla violenza a quello sulla lapidaria attribuzione delle colpe di Dante (galeotto fu il libro e chi lo scrisse). Ogni verso può aprire finestre di discussione. Paolo e Francesca, come qualsiasi altro brano della Divina Commedia, a partire da quelli più famosi

Mi fa tristezza pensare che per molti, in primis per chi scrive certi libri di testo, la Divina Commedia sia troppo difficile per i ragazzi. Se proprio si deve, meglio fornirne una versione ridotta e addomesticata. Meglio ancora ridurre ancora a qualche pagina nozionistica da mandare a memoria.

Meglio non far scoprire che tutto sommato leggere Dante non è così impossibile. Sia mai che acquisiscano un pizzico di autostima e perdano il sacro terrore per la disciplina!
Che poi il risultato è che fanno amicizia persino con i demoni traghettatori!
Compito di realtà: scegliere una terzina e illustrarla tenendo conto della
descrizione di Dante
Quindi, fino a che non arriverà un ispettore ministeriale a impedirmelo con la forza (cosa che inizio a pensare non così improbabile) io continuerò a portare i miei alunni all'Inferno.

Voi cosa ne pensate? Colleghi prof, vi inoltrate in Dante? Da ragazzi siete stati portati all'Inferno? È stato un trauma?

PS: alla fine di ogni lezione, c'è un mio alunno che alza la mano: "prof... Ma non è successo davvero? Non è andato davvero nell'Aldilà? Cioè, sembra davvero che si stato, ma io mica ci credo"

lunedì 4 febbraio 2019

Cose che si imparano scrivendo fumetti


È finito il quadrimestre, siamo stati travolti da un'influenza stile valanga, di quelle che non risparmiano nessuno, è scesa la neve, ho quasi finito, e non mi sembra sia possibile, il mio primo esperimento di sceneggiatura per fumetti.

Ho quasi finito la prima stesura, quindi il primo step di un lavoro molto più lungo e pertanto tutte le mie considerazione sono parziali.

Tuttavia, obbligandomi a cambiare totalmente approccio alla narrativa, ho dovuto ragionare di nuovo su alcune cose, mettere in dubbio le cose che davo per acquisite e, in fin dei conti, ricominciare da capo.
Insomma, sono dovuta ripartire dalle basi, gestione punto di vista, personaggi, dialoghi, da ciò che credevo di saper fare e ho scoperto che, tutto sommato, ci sono aspetti che non avevo considerato e sarà bene tener conto anche quando tornerò alla narrativa.

TUTTI I MODI IN CUI UN PERSONAGGIO PUÒ PARLARE
Come si fa a far parlare un personaggio? Ma col dialogo, è ovvio.
I fumetti, poi, sono pieni di dialogo.
Sì, però...
Intanto quanto puoi far durare un dialogo in un fumetto, quattro tavole? Immaginando che ogni personaggio abbia una battuta a vignetta e immaginando sei vignetta per tavola (in realtà sono molto meno) abbiamo un massimo di 24 battute. Ogni battuta deve stare sotto le due righe come media.
Sembra tanto, ma è pochissimo, anche perché di dialoghi così lunghi in un albo ne puoi mettere pochi. La maggior parte sono scambi molto più rapidi.
Sì, però, obietterà qualcuno, le psicologie del fumetto sono di carta velina.
Non sempre. E comunque non abbastanza.
Nel caso specifico ognuno dei personaggi principali ha un grosso segreto, c'è un uomo che in realtà è una donna, uno schiavo fuggiasco e un uomo che non è proprio un essere umano. Ci sono sette segrete e tutto un mondo di cui scoprire il funzionamento. Ma le parole per raccontare tutto ciò sono pochissime!
Allora le parole si pesano, una a una, si girano le frasi per essere le più corte e le più dense possibili. Io di mio amo i dialoghi secchi, ma qui ho dovuto potare siepi già rachitiche per arriva a definire interi personaggi con una battuta o due.
Ma i personaggi non parlano solo con le parole. Parlano con la posa del corpo, con i gesti, con gli abiti, con gli sguardi. Nell'immaginare una storia disegnata ho dovuto prestare la massima attenzione alla gestualità dei personaggi, molto di più di quanto non faccia di solito. Quanto cambia, per esempio, a quanto cambi il senso di una battuta, pronunciata guardando il cielo, con una lacrima che spunta dall'occhio, piuttosto che fissando con fare deciso l'interlocutore.

VISIONE INTERNA/VISIONE ESTERNA
In un fumetto lo spazio per l'introspezione è minimo. Non assente, ma minimo. Si può ricorrere al dialogo interiore, ma per poche vignette e per pochi personaggi. Anche qui la personalità deve uscire dai gesti, dal mostrato e dal non narrato.
Per questo esperimento sono partita da personaggi nati in altri contesti e riadattati a nuove condizioni. Però alcuni tratti caratteriali rimanevano quelli, chi è ostinato, chi è aggressivo, chi è un pesce fuor d'acqua all'esterno del proprio ambiente, chi ha una scarsa autostima... Per i primi tre nessun problema, ma per il quarto personaggio, soprannominato dalle mie complici "mezzasega", il coro è stato unanime: "questo non è più mezzasega!". Il problema è stato che è sempre stato un personaggio in gamba in quello che faceva, ma con una forte emotività e un sacco di dubbi. Solo che nella versione a fumetto c'era pochissimo spazio per i suoi dubbi, in parte perché il suo ruolo è essere "l'uomo del mistero" in parte perché è visto esclusivamente o quasi da fuori. E da fuori si percepisce un personaggio deciso con delle priorità ben chiare.
Questo mi ha dato molto da pensare sulla gestione dei personaggi e di quanto la percezione del lettore possa essere diversa da quella dell'autore e tra la discrepanza tra le sue azioni e la sua percezione di sé. Di fatto mi sono resa conto di non essere mai stata contenta di ciò che veniva percepito di questo personaggio. Nei racconti chi li ha letti ha dato troppo peso a quello che lui pensava di se stesso e poco ai risultati ottenuti, nella sceneggiatura quelle stesse persone hanno potuto vedere solo i risultati e di fatto non lo hanno riconosciuto.
La riflessione che ho fatto è che forse ho sbagliato in entrambi i casi e nel narrare qualcuno bisogna trovare un grande equilibrio nel raccontare ciò che sente di essere e ciò che è, sopratutto nel caso vi sia una grossa discrepanza. Se non avessi tentato questo esperimento non mi sarei resa conto che a volte l'ottica nella mia narrazione è troppo focalizzata su ciò che il personaggio pensa di essere.

RACCONTARE ATTRAVERSO L'AMBIENTE
Lo sappiamo tutti che l'ambiente non è solo un palcoscenico neutro su cui si muovono i personaggi, ma deve diventare lui stesso personaggio. Con così poche parole, tutto deve essere funzionale alla storia. Ogni oggetto inquadrato, ogni arredo, ogni particolare paesaggistico. Non c'è spazio per luoghi neutro. Eppure quando scrivo narrativa a volte ho pensato un po' sbuffando a una mezza pagina di descrizione d'ambiente, quelle parti che non mi piace scrivere, che pure devono esserci... Ecco, forse adesso ne colgo appieno le potenzialità.

Insomma, al di là degli esiti dell'esperimento in sé, questo provare un nuovo approccio alla narrativa mi ha dato davvero molti spunti, che volevo condividere con voi.