martedì 29 gennaio 2019

Due romanzi sul rinascimento – letture

Sia agli atti: non auguro a nessuno l'influenza di quest'anno. Sopratutto non auguro a nessuno di ammalarsi in tandem con il pargolo, mentre il marito è rapito dal lavoro, con il contagio che si sparge in un attimo anche ai nonni. Inguaita con il virus, ho lottato con i nuovi, meravigliosi, maledetti termometri digitali, che li provi in un orecchio e risulti che sei bollito nella tua stessa febbre, li provi nell'altro e sei freddo come un cadavere di tre giorni prima. Li dai in mano al nonno e ti sparano temperature nelle più svariate scale, forse calcolano la pressione atmosferica e la probabilità di neve, ma al telefono con la pediatra non sei assolutamente in grado di dire quanta febbre abbia tua figlia...
In tutto questo non ho scritto, non ho letto se non libri illustrati per l'infanzia (sempre gli stessi che abbiamo in casa, visto che eravamo murate vive), ho guardato qualche cartone animato e ho fatto lunghe discussioni filosofiche con i peluche di casa (e col gatto, che è assimilabile per vitalità ai peluche).

Più o meno riemersa dal malanno, aspetto il mio turno scrutinio, per parlarvi di due libri letti a cavallo delle vacanze natalizie.

IL SEGRETARIO DI MONTAIGNE

Ho già avuto modo di scrivere qui che Montaigne è uno dei personaggi del rinascimento che più mi affascina. Pensatore libero, assai meno pigro e inetto di quanto amasse descriversi, depresso cronico, grafomane, osservatore attento del suo presente, è un personaggio sfaccettato che ci ha lasciato, con i suoi "Saggi", un'opera dall'impianto tanto moderno da essere stato definito "il primo blogger della storia".
Tempo fa mi ero anche imbattuta in un articolo molto ben documentato che ipotizzava, in occasione del viaggio di Montaigne in Italia un ruolo da diplomatico occulto o addirittura di agente segreto al fine di trovare una soluzione pacifica alle guerre di religione in Francia. All'epoca avevo pensato che sarebbe stato bellissimo creare un romanzo a partire da quello spunto, magari con come io narrante proprio un segretario.
Quando mi sono imbattuta in questo romanzo di Luca Romano, quindi, sono corsa ad acquistarlo, fremendo un po' per l'attesa un po' per la rabbia da "ah, qualcuno ha sviluppato prima di me l'idea".

Il segretario di Montaigne si è rivelato una lettura allo stesso tempo piacevole e deludente.
Piacevole perché la prosa è scorrevole, immerge in un'epoca affascinante senza appesantire il lettore con eccessive descrizioni o pedantezze lessicali. Il protagonista, il segretario, appunto, è un soldato ugonotto che, per salvarsi la vita si finge cattolico (complice un Montaigne molto aperto sul piano religioso) e ben si adatta a posare la spada per impugnare la penna del segretario. Ci offre una visione "dal basso" del rinascimento, guardato dalla gente comune, che si innamora della sarta, viene sfruttato dal potere e, in fin dei conti, abbandonato senza troppi pensieri quando non è più utile. Il protagonista vorrebbe essere trattato da pari da Montaigne, capisce di poterne seguire i pensieri meglio di molti nobili blasonati, ma è comunque un servo e, per quanto il suo padrone sia aperto e premuroso, il suo destino è comunque quello di un servo.
Per quanto sia interessante, quindi, lo sguardo Jean-Marie Cousteau l'ho trovato comunque un poco limitante. Per ovvie ragioni questo giovane soldato reinventatosi segretario non ha gli strumenti per seguire davvero il pensiero di Montaigne in tutte le sue implicazioni. La figura del pensatore francese diventa quindi un po' una cartolina. Vengono esposti i alcuni passi dei Saggi, ma in modo piuttosto decontestualizzato. Montaigne stesso appare un pacioso signore un po' malinconico, a volte un po' perso nei propri pensieri, più macchietta che personaggio. Il viaggio in Italia è uno sfondo buono come qualsiasi altro per raccontarci un po' di vita del rinascimento (sempre interessante e ben narrata), e una trama che si sviluppa in pratica negli ultimissimi capitoli e esclude totalmente Montaigne.

Il romanzo rimane quindi una piacevole lettura per gli amanti della storia, che sa anche un poco di occasione mancata e rischia di scontentare sia chi cerca un po' d'azione, sia chi vorrebbe un maggior approfondimento sul personaggio di Montaigne.

LA MISURA DELL'UOMO
Più o meno stessa epoca, ma tutt'altro stile è il giallo storico di Marco Malvandi.
Malvaldi sceglie di raccontare il rinascimento con lo sguardo dell'oggi, con uno sguardo divertito, che spiega le stranezze dell'epoca. Ci porta, con un giallo, nella Milano di Ludovico il Moro, quando Leonardo lavorava alle sue dipendenze. 
C'è, dietro a questo romanzo, un enorme sforzo di documentazione e semplificazione. Malvaldi prova a raccontarci un rinascimento non "normalizzato", portandoci nei meandri dei giochi di potere e di passione della corte milanese, pur mantenendo uno stile semplice e frizzante. Non sempre il gioco riesce. Ci si perde nella miriade di personaggi secondari e nei retroscena politici, tra fazioni religiose e doppi e tripli giochi. Proprio il tentativo di mantenere la prosa agile rende in realtà facile perdersi e il continuare a ricorrere alle appendici per ricordare "chi è chi" rischia di rompere il piacere della lettura. Stesso problema hanno le caratterizzazioni dei personaggi. Malvaldi vuole darcene un'immagine vivida, ma allo stesso tempo far correre la trama e quindi la complessità dei pensieri scivola via, tra la macchietta e il non approfondito. Così se ho molto apprezzato un Leonardo non troppo angiografato, con la sua predilezione per i giovani apprendisti, i vestiti vistosi e il pettegolezzo, a perdersi è la profondità di pensiero e lo sguardo sul mondo.
Ne risulta comunque una lettura piacevole. Personalmente mi è sembrato un esperimento per raccontare il rinascimento in modo non ingessato, ma comunque abbastanza aderente alle fonti. Un esperimento non del tutto riuscito, ma interessante. Del resto, rendere vivi e credibili personaggi come Leonardo è tutt'altro che facile. Spero che Malvardi ci ritenti, magari lasciando la prosa più ariosa, senza quest'ansia che sembra aleggiare tra le pagine: "non è che poi il lettore si annoia?"

sabato 19 gennaio 2019

Provando a scrivere per il fumetto



Come accennavo nel post precedente, in questi giorni mi sono imbarcata nella follia di provare a venire a capo di una sceneggiatura per fumetti.

Perché? 
La domanda dovrebbe magari essere: perché no? Dopo tutto sono stata svezzata a fumetti Disney e Bonelli, leggo fumetti tanto quanto leggo narrativa, ben più di quanto non legga saggistica, sono anche molto più "sul pezzo" sulle novità e le tendenze del fumetto rispetto a quanto non lo sia per la narrativa. La nostra piccola "comune del fumetto" che fa girare gli acquisti mi ha permesso di leggere quasi tutte le opere premiate negli ultimi anni in Italia, Francia e Stati Uniti. Anni fa ho persino seguito un mini corso di sceneggiatura per fumetti.

E tuttavia perché farlo? A disegnare sono una capra, quindi avrei bisogno o un disegnatore indipendente che decida di dedicarmi un anno del suo tempo o poco meno o un editore interessato alla sola sceneggiatura. Questo tralasciando il fatto che sono una dilettante allo sbaraglio.

In fatto è che mi sono imbattuta, o sono stata fatta sbattere (ciao, care), in una storia che è prettamente visiva. È bella mostrata, disegnata. Raccontata perderebbe tre quarti del suo senso di esistere.

E così, da brava dilettante allo sbaraglio, ho riesumato vecchi appunti, comprato un manuale, cercato materiale in rete e mi sono messa a scrivere.
Quindi non ho assolutamente le basi per scrivere un post su come si sceneggi per fumetto, ma ho qualche riflessione su cosa significa provarci per la prima volta con una storia lunga venendo dalla narrativa.

Provare a ragionare per tavole e vignette
Mi sto muovendo immaginando per la mia storia un formato europeo, un doppio albo francese o un albo di formato bonelliano.
Quindi la mia unità narrativa è la tavola. Che non corrisponde a una pagina. Un testo può stare in mezza pagina, una, due, dieci. I capoversi e le pagine non hanno nulla a che vedere con la pagina. C'è un ritmo, certo, che è dato dall'uso della grammatica e dalla sintassi della lingua.
Nel fumetto c'è la tavola, che il lettore vede nella sua interezza in un unico colpo d'occhio e poi legge.  Il girare pagina è una frattura visiva molto più marcata del girare pagina in narrativa. Quindi una tavola è una mini unità che deve avere una sua coerenza e una sua tensione interna. A sua volta la tavola è frazionata in vignette, che non possono essere mille. Di base sono sei, che poi possono essere variamente assemblate.
Quindi devo frazionare la storia in un numero finito di tavole, ognuna con un suo senso, che a sua volta va frazionata in un massimo di 6 o 7 istantanee.
Non sto scrivendo narrativa, neppure filmando una scena. È cose se dovessi fotografare la storia. Devo scegliere quali e quante fotografie accostare perché il susseguirsi degli eventi si capisca. Troppe immagini diventa noioso e poi il mio spazio è definito, non mi sta dentro la storia. Troppo poche e non si capisce.
Al momento questa è la parte più difficile e più divertente.
Difficile perché non so se sto usando la grammatica del fumetto in modo corretto. Né so, al momento, se starò nel numero di tavole previsto. Che non è "più o meno" è quello e basta, nessun margine di tolleranza nel fumetto.
Più divertente perché ogni scena si può assembrare e riassembrare in mille modi. Mi compongo la tavola davanti agli occhi, mimando la posizione delle vignette con le mani. Sembro più pazza del solito. Ma è come scrivere e allo stesso tempo comporre un puzzle. Doppio divertimento.

Raccontare per immagini
Le parole dentro una tavola di fumetto sono dannatamente poche. Mezza riga fa una didascalia didascalia. Due righe per una battuta sono già quasi d'avanzo. Ma non è detto che il fumetto debba per forza raccontare cose semplici. Io ho un amore per lo sceneggiatore Gianfranco Manfredi, che scrive spesso fumetti storici e racconta cose complicatissime, con un numero comunque limitato di parole. Perché le immagini non sono puri sfondi, ma portatori di significato.
Giusto per complicarmi la vita, la mia storia è un fantasy steampunk, quindi ambientata in una sorta di fino XIX secolo alternativo con tutta una serie di mutamenti sociali in atto solo in parte mutuati dal nostro XIX secolo. Non ho parole per raccontarli. Nel senso che proprio non ho parole in numero sufficiente. Deve essere l'ambientazione a parlare per me. E allora è divertente immaginare luoghi di culto riconvertiti in società operaie. Con vecchie vetrate a raccontare un immaginario, manifesti appesi alle pareti a narrarne un altro contrapposto. Anche le psicologie dei personaggi devono uscire più da ciò che fanno che da ciò che dicono.
Ci riesco? Non ci riesco? Non lo so, ma è divertente.

Scrivere per essere capiti
Nella più rosea e fantascientifica delle ipotesi un domandi tutto ciò deve arrivare nelle mani di un disegnatore che ha solo le mie parole per dare vita al mio mondo.
In narrativa le parole devono essere precise, ma anche creare suggestioni che si mescolano con l'immaginario del lettore. Chi sono, quante sono e come sono vestite le persone presenti a un ballo di corte in un romanzo? Difficilmente ci verrà detto di tutte quante. Quante sono, chi sono e come sono vestite le persone a un ballo di corte in una tavola di fumetto? Eh, forse il disegnatore, che può non essere un esperto di balli di corte, deve saperlo.
Cambia proprio il modo di scrivere, quindi, che non deve essere "bello", quale che sia l'accezione che noi diamo a questo termine, ma chiaro. E non è affatto facile.

Ciò di cui puoi farcire un fumetto
Io sto provando a scrivere una sceneggiatura di un fumetto in cui comunque prevale l'azione. Non è certo Persepolis o Maus (due storie a fumetti che raccontano rispettivamente le vicissitudini autobiografiche di una ragazza iraniana e l'olocausto). Questo non vuol dire che non ci possano essere dei passaggi che mi stanno a cuore.
In questo preciso momento mi sto arrovellando sulle riflessioni della protagonista in un momento cruciale. Per vari motivi ha passato gran parte della sua vita a essere trattata come se fosse un uomo, anche se chi la circondava sapeva benissimo che non lo era, con un ruolo di comando e relazioni con gli uomini basate sulla parità. Si trova ora a essere interrogata come testimone di un delitto da poliziotti che la vedono solo come una donna e sono interessati esclusivamente al rapporto sessuale che aveva con la vittima. Ci è andata a letto di recente? Aveva avuto una relazione? Lo ha ucciso lei insieme all'attuale compagno per togliere di mezzo un ex scomodo? Senza alcun interesse alla dimensione di profonda stima personale e fiducia che invece caratterizzava il suo rapporto con il poveretto. In quanto donna viene trattata come puro corpo e nessuno è interessato a sentire le sue considerazione e le sue ipotesi. Vorrei che queste cose saltassero fuori in un fumetto in cui comunque prevale l'azione, senza appesantirlo troppo. Ci riuscirò, non ci riuscirò? La sfida è aperta.

Questo al momento è il mio "gioco" letterario. Qual è il vostro?

lunedì 14 gennaio 2019

Sfide scrittoree per il 2019


Non voglio fare un elenco degli obiettivi scrittorei del 2019.
Il più bel regalo scrittoreo che mi abbia fatto il 2018 è il ritrovare il gusto di scrivere per me stessa, o al massimo per un gruppo di amici. Il ritrovare del piacere della sfida tecnica del "non ho mai scritto una storia del genere, arriverò in fondo?". 

Negli ultimi anni la domanda si era spostata molto sul "riuscirò a pubblicare questa storia?" o, peggio "come la devo scrivere perché sia pubblicabile?".
C'erano alcuni tipi di storie che avevo imparato a scrivere, in primi il racconto giallo ed ero arrivata al punto di sapere se avevo fatto un racconto vendibile. Il risultato era che a volte ciò che piaceva a me non era quello che piaceva a chi doveva scegliere (con la notevole eccezione dei racconti sherlockiani, che sono sempre stati gioia pura).
Mi sono ritrovata, quindi, da una parte con una certa frustrazione di fondo. La sensazione che, se volevo pubblicare a determinate condizioni non dovevo raccontare ciò che mi stava più a cuore.

Il 2018 mi ha insegnato a fregarmene, a cercare di ritrovare il gusto per la sperimentazione e il muoversi in strade nuove. La sfida di iniziare una storia e non sapere se sarei riuscita a portarla a termine, non per problemi di pura forza di volontà, tempo, concentrazione e fiducia nella storia stessa, ma per motivazioni tecniche.
Mi sono trovata a scrivere, in forma "privata" una storia ambientata alle olimpiadi invernali del 2018, quindi con una griglia strettissima di eventi, eventi, spostamenti e logistica di cui tenere conto. Perché il personaggio tale doveva trovarsi al tal giorno alla tal ora in quel tal posto e l'altro era da tutt'altra parte. È stata una cosa difficilissima, uno dei pochi racconti che ricordo di aver finito davvero con sollievo. Un "grazie al Cielo sono arrivata in fondo".
Ho finito quella storia, però, anche con un grande senso di divertimento, dovuto allo scrivere quello che non avevo mai scritto prima e del "chissenefrega del mercato editoriale".

Quindi il mio obiettivo per il 2019 in scrittura è sfidare me stessa, divertirmi e pubblicare solo se è il caso, solo alle mie condizioni.

Ho un paio di opere "da concorso" che voglio o far competere in concorsi importanti e che sono, entrambe eccentriche rispetto al genere a cui vorrebbero appartenere. Voglio capire se lo sono abbastanza per essere notate, se hanno la forza di imporsi. Se è così bene, in caso contrario me ne farò una ragione.

Ho riesumato il mio vecchissimo account in EFP per pubblicare quello che voglio, sopratutto le cose nate per gioco. Sono da sempre un po' perplessa nei confronti dell'autopubblicazione. Nel senso che non ho soldi da investire per ottenere un lavoro professionale e non trovo etico far pagare per qualcosa che non è, appunto, professionale. Allora è meglio rendere pubblico un racconto su un sito apposito e gratuito, anche se, proprio per la mancanza di filtro, circolano molte storie francamente imbarazzanti. Quello che scrivo io è diverso dalla media di ciò che si trova lì e da quello, quindi, che i lettori vi vanno a cercare. "Padrone del tuo destino", pubblicato anche su EFP, però non è andato malissimo. Il sito permette di seguire le letture capitolo per capitolo ed è rassicurante vedere che se molti aprono il primo capitolo per caso, chi legge il secondo arriva poi fino alla fine. Potrei continuare l'esperimento. Io non ho nulla da perdere, i lettori neppure.

Voglio scrivere cose che siano una sfida per me, sia da un punto di vista tecnico che contenutistico.
In questo momento i miei progetti sono essenzialmente due, di cui uno nato per purissimo caso.

La riscrittura del mio romanzo fantasy, che, passando da due a cinque punti di vista è una bella sfida tecnica per me che non sono abituata a questa frammentazione degli sguardi. Lo è anche da un punto di vista del contenuto, dato che, se dovessi dargli una definizione, lo chiamerei "fantasy sociale", dato che la domanda "in che società vorremmo vivere?" diventa cruciale per le scelte dei personaggi. C'è anche una nota spiccatamente femminista nella storia, già presente fin dall'inizio, ma le mie riflessioni degli ultimi tempi mi hanno spinto a portarla più alla luce.

La nota spiccatamente femminista sta emergendo anche nel secondo progetto, nato dalla quiete delle vacanze e da una singola immagine giratami da un'amica ed è una sceneggiatura per un eventuale fumetto di ambientazione steampunk fantasy.
Avevo bisogno, credo, di fare qualcosa che non avevo mai tentato prima. Quindi ho riesumato gli appunti presi a un vecchissimo corso, ho comprato un manuale di sceneggiatura e mi sono messa all'opera. Non so assolutamente se sono in grado di arrivare in fondo, né se sto producendo una cosa sensata dal punto di vista tecnico. Il "vendibile" al momento è una mera chimera.
So che mi sto divertendo moltissimo a cambiare il mondo di pensare. Visualizzare la storia per istantanee. Sforzarmi di scrivere non "bene" ma in modo chiaro, per imprimere su carta ciò che ho in mente. Rimanere dentro una gabbia che ha vincoli strettissimi (bisogna sapere in anticipo quasi esattamente a quale pagina va inserito il colpo di scena, per dire).
Mi sto anche innamorando di una storia nata come gioco ozioso, ma che pian piano sta portando in luce cose che volevo raccontare da tempo. 
Mi piacciono quelli che sono diventati mio malgrado i due protagonisti, allo stesso tempo molto tosti e molto dolci. In particolare ho una lei che vorrei riuscire a definire in modo diverso dalle molte donne in abiti maschili della storia del fumetto e della letteratura. 
È una sfida. E come tale mi intriga moltissimo.

Tra questi due progetti credo sarò impegnata almeno fino alla tarda primavera. Poi si vedrà.

Queste sono le mie sfide scrittoree per il 2019, le vostre?

sabato 12 gennaio 2019

Padrone del tuo destino, racconto a puntate – Epilogo

Dopo 15 settimane, eccoci alla fine di questo racconto.
Come prevedevo, la frammentazione non gli ha giovato, ma un manipolo di lettori coraggiosi ha seguito tutti gli sviluppi e a voi va il mio più sentito ringraziamento.

Questo è un racconto strano, come dicevo all'inizio. Parte come una storia disneyana di riscatto attraverso lo sport, ma è qualcosa di diverso e di più amaro. Per un V che diventa un grande atleta, un G, che avrà la sua onesta carriera sempre un passo indietro, ci sono tanti K e tante E che non ce l'hanno fatta. Spero che abbiano trovato comunque la loro strada nella vita.
E poi ci sono gli adulti, che spesso fanno del loro meglio, eppure non è detto che questo sia sufficiente.


EPILOGO

    Sofia – Gennaio 2004   
    Non voleva dire niente. Potevano andare storte una marea di cose. Nessuno meglio di lui lo sapeva. Era la terza volta in cinque anni che si trovava in quella situazione e due volte le promesse non si erano realizzate. Beh, si concesse, non era proprio la stessa cosa. Questa volta sul podio del mondiale juniores due gradini su tre erano occupati dai suoi atleti, V. primo e G. terzo. Tra tutti e due gli avevano fatto perdere dieci anni di vita. G., con una mezza crisi di panico prima della gara e V. con quella sua maledetta mania di fare di testa propria, anche a costo di sbagliare e di finire quinto dopo il programma breve. Lo avrebbero fatto morire giovane quei due. Guardò il maledetto cagnolino di peluche che V. gli aveva affidato. Beh, almeno quella era l’ultima volta, il ragazzo aveva promesso  che una volta approdato alla massima categoria avrebbe smesso di portarselo dietro.
    Sospirò, più stanco che se avesse gareggiato lui. Due volte. Almeno adesso, mentre i suoi atleti andavano a cambiarsi e a fare il giro delle foto e delle interviste, avrebbe avuto il tempo per un panino.
    – Y! – lo chiamò D. – Guarda chi è venuto a salutarci.
    Dietro il suo collega c’era una giovane coppia. Lui era sui vent’anni, alto, bruno e con un accenno di pizzetto. Y. lo fissò interdetto, poi ne riconobbe gli occhi grigi.
    – I! – esclamò.
    L’adolescente spigoloso che ricordava era diventato un giovane uomo proporzionato, in grado, sopratutto, di mostrare quel piglio sicuro che una volta mostrava solo in gara.
    – Cosa ci fai in Bulgaria? – chiese, stingendogli la mano con calore.
    – Sono qui per lavoro, la mia ditta sta aprendo qui un nuovo stabilimento e io devo controllare che i macchinari siano montati a dovere. La mia ragazza è venuta a trovarmi per il fine settimana e non potevo perdere l’occasione di presentartela.
    Così dicendo invitò la biondina a fare un passo avanti.
    – A. – disse I. – Questo è Y., che una volta è riuscito a farmi diventare campione del mondo e poi ha raccolto i cocci quando sono andato in pezzi.
    L’allenatore le diede un buon voto, anche se era un po’ troppo bassa e rotondetta per i suoi gusti, ma aveva uno sguardo buono, e I. si meritava tutta la bontà del mondo.
    – Venite, andiamo a prenderci qualcosa da bere, prima che debba recuperare i due scapestrati – li invitò.

    In pochi sorsi di caffè I. aggiornò i suoi vecchi allenatori sulla propria vita, il ginocchio che faceva male solo se lo forzava, i viaggi di lavoro e i propositi a lungo termine di A., che studiava lingue all’università. Non era la vita che Y. aveva immaginato per lui, ma era, ammise, comunque una vita.
    – Hai fatto carriera – constatò.
    I. si strinse nelle spalle.
    – So cosa vuol dire la fatica, parlo bene inglese, sono abituato a viaggiare e non mi spaventa alzarmi presto – disse. – Sono tutte cose che davo per scontate, perché le fa anche quello che oggi è arrivato ultimo, ma a quanto pare nel vasto mondo esterno non è poi così comune per i ragazzi della mia età.
    A., intanto, stava guardando il peluche appoggiato al tavolino del bar, ma non osava chiedere.
    – È di quel pazzo che ha vinto – si giustificò Y. – È in grado di rimontare cinque posizioni con tre salti, ma se gli perdo il pupazzo è capace di fare una crisi isterica.
    La ragazza sorrise.
    – Lei è davvero come I. l’ha descritto.
    Y. fece una smorfia.
    – È il capitano di una nave in continua tempesta – citò A., mentre I. arrossiva per l’imbarazzo. – Non è il padrone del destino, ma se tutto dovesse andare storto, ci ha comunque insegnato anche a nuotare.

SULLE LAME DELLA STORIA.
Siamo arrivati alla fine. Qualcuno è partito, qualcuno è tornato a casa, qualcuno è diventato campione del mondo. Tutti loro hanno lasciato l'infanzia e gran parte della loro innocenza.
Grazie di cuore a chi è arrivato fin qua.
 

lunedì 7 gennaio 2019

Ritrovato e perduto – letture



Trovare in libreria, senza essermelo aspettato, un corposo volume di racconti della mia autrice preferita, Ursula K. Le Guin, è stato uno dei più bei regali di questo Natale.

Ritrovato e perduto è una strana antologia. Le precedenti antologie che avevo letto (I dodici punti cardinali, La rosa dei venti e Su altri piani) erano tutte state curate dall'autrice stessa e ogni racconto era introdotto e contestualizzato. La mia prima impressione, qui, invece, è di essere di fronte di una raccolta fatta un po' a casaccio, dove storie fantascientifiche si intersecano a racconti realisti, mini saghe, fa poi irruzione il fantasy e si torna infine alla fantascienza.
Molti racconti sono legati a saghe più ampie, ben 7 sono legati al Ciclo dell'Ecumene, che raccoglie la maggior parte della produzione fantascientifica dell'autrice, tre invece sono legati alla saga fantasy di Terramare e hanno tutt'altro impianto stilistico.
Tutti i racconti, però, sono conclusi in loro stessi e in effetti, proprio la natura meticcia di quest'antologia può dare un'idea dello spessore stilistico e contenutistico dell'autrice.

Questioni di stile
Proprio sullo stile vorrei spendere qualche parola prima di analizzare i racconti che più mi hanno colpito.
Ursula K. Le Guin è qualcosa di unico. È nata nel 1929 in California, ma la sua formazione è impregnata da una parte di antropologia culturale (il padre era un famoso antropologo, studioso delle culture dei nativi americani) e dall'altro di letteratura europea (si è laureata in letteratura rinascimentale italiana e francese, leggeva e scriveva anche in queste due lingue). Ne risulta uno stile molto poco "americano", che al senso dell'essenzialità unisce l'eleganza stilistica di una prosa morbida in cui c'è un costante ricerca della parola giusta, dell'unico aggettivo perfetto. La sua è una prosa allo stesso tempo semplice e ricercata. Il lettore deve arrivare esattamente là dove l'autrice vuole che arrivi, attraverso una serie di suggestioni mai banali.
Purtroppo io la leggo in traduzione, ma leggo anche in traduzioni le due autrici che secondo me hanno uno stile in qualche modo affine al suo: Marguerite Yuorcenar e Alice Muroe.
Ci tengo molto a questo punto. Si parla sempre dei temi della Le Guin e sicuramente lei si definiva una scrittrice anarchica e femminista, dando quindi maggiore importanza al cosa scriveva. Sta di fatto che a me sembra al livello di gente molto premiata anche per il come scrive.

Una scrittrice anarchica e femminista
Se c'è una parola che può unire questi racconti così diversi è proprio "femminismo".
A volte il femminismo della Le Guin non sembra tale. Ci sono romanzi interi che hanno protagonisti uomini in mondi di uomini e di sicuro e di sicuro il femminismo della Le Guin non è del tipo che va a bruciare i reggiseni in piazza.
Le sue donne, e questi racconti ne sono pieni, sono fatte di granito. Possono essere scheggiate, abrase, levigate, ma resistono, vanno avanti con una capacità di resilienza che fa quasi paura. Non lottano contro gli uomini, vanno avanti nonostante gli uomini, sperando di trovarne qualcuno da guardare da pari. Sono donne che portano avanti la vita, la famiglia, i loro sogni in mezzo situazioni che, per lo più, sono complicate dagli uomini, dove sono gli uomini che dettano le regole e tuttavia, come acqua che filtra, loro trovano sempre una strada. Sono eroine silenziose. Lavoratrici, schiave che mandano avanti nonostante tutto le tenute, vecchie contadine. La vera differenza è che sono o diventano consapevoli del loro valore, dell'importanza che hanno nella società. E con ferma gentilezza rivendicano ciò che è giusto.
L'anarchia è meno immediatamente percepibile. Come diceva la Le Guin, non è l'anarchia di chi piazza bombe che le interessa, quella è solo delinquenza. È l'utopia di un mondo che non ha bisogno di regole esterne, perché ciascuno ha già una propria rettitudine interiore. È un'utopia che lei stessa sa essere illusoria (uno dei suoi romanzi più premiati ci racconta l'orrore dietro l'apparente messa in pratica di un'utopia simile). Eppure tendere a un ideale ci migliora. Tutti i suoi protagonisti, in qualche modo, sovvertono in modo spesso silenzioso e sempre non violento le regole in cui sono immersi. Cercano una strada loro, più giusta, anche se destinata al fallimento.

Uno sguardo disincantato e dolce
La Le Guin racconta con dolcezza cose terribili. Non c'è nulla di ingenuo o favolistico nel suo sguardo. Le giuste rivolte portano sempre a violenza indiscriminata, gli ideali si fanno dittatura e non c'è limite al dolore che gli uomini possono infliggersi. Non c'è nessun dio salvifico, forse una speranza nel trascendente, che tuttavia non è mai certezza e comunque poco influenza questa vita. Tuttavia c'è sempre dolcezza. La pace è qualcosa di interiore, da costruire dentro di sé, con l'altro (poco importa se l'altro è un coniuge, un compagno, figli, amici, l'idea di "famiglia" è estremamente fluida) ed è possibile. Anche se effimera, fragile, in equilibrio sull'abisso, tuttavia esiste.

Racconti memorabili

Herne
Del tutto inaspettato in quella che si presenta come un'antologia di fantastico, è saga famigliare.
Racconta quattro generazioni di donne, che per vari motivi si trovano sole, in Oregon, dalla fine dell'800 agli anni '70 del novecento.
Ognuna a modo suo, queste donne sono delle pioniere, apritrici di piste. La prima è una pioniera nel senso letterale del termine, vedova, si sposta a ovest con i figli, fonda un nuovo paese. La seconda non accetta il tradimento del marito, preferendo vivere la donna divorziata. La terza accetta di portare avanti una gravidanza frutto di uno stupro e la quarta non rinuncia alle proprie ambizioni in nome delle convenzioni sociali. I quattro punti di vista si intersecano e si mescolano, dando a intendere quanto poco i mutamenti storici cambino le difficoltà delle donne sole, che sempre battaglie da combattere, quasi sempre in silenzio, senza neppure che i vicini si accorgano della lotta.
Mi ha dato molto da pensare questo racconto, non fosse altro per il fatto che non avevo mai letto una storia ambientata in quegli anni nell'America rurale raccontata da un'ottica esclusivamente femminile. E già questo mi ha fatto pensare.

Una storia alternativa o un pescatore del mare interno
Questo è un racconto il cui fascino sta ai bordi. A ben vedere è una banale storia di paradosso temporale e una storia d'amore piuttosto prevedibile. Ci porta però in un mondo dallo strano fascino, con convenzioni sociali spiazzanti, raccontate con la normalità di chi le vive abitualmente. E commuovente, ai bordi, accennata e non approfondita, è la storia della madre del protagonista. È un'aliena (una terreste), proveniente da un luogo lontanissimo, giunta in qualità di ambasciatrice. La Le Guin ingloba nei suoi racconti fantascientifici la teoria della relatività senza aggirarla, se non con l'ansibile (uno strumento che permette la comunicazione istantanea). Quindi questa donna è ancora giovane su un mondo alieno quando la sua famiglia, sulla terra, è morta da secoli. Suo figlio vorrebbe fare la medesima scelta. Nella domanda inespressa sul prezzo pagato dalla madre sta il fascino del racconto.

Il giorno del perdono; un uomo del popolo; Liberazione di una donna; Musica antica e le schiave
Questi quattro racconti compongono una mini saga all'interno dell'antologia. Ci portano tutti a Werel, un mondo schiavista in cui l'arrivo di gente di altri mondi, porta inevitabilmente alla ribellione degli schiavi. Si alternano, nei racconti, cinque punti di vista, tre di ambasciatori di altri mondi, uno di un esponente della vecchia aristocrazia schiavista e quello di una schiava che riesce a liberarsi.
Il racconto più forte è senza dubbio Liberazione di una donna, il memoriale della ex schiava, Rakam. La liberazione di Rakam, a livello burocratico, avviene quasi per caso, per il benintenzionato ma avventato gesto del figlio del padrone. Da un giorno all'altro gente non istruita, che non è mai stata altro che schiava si trova alla mercé di tutti. Le esperienze peggiori Rakam le vive infatti subito dopo questa avventata liberazione, da cameriera privilegiata viene presa, stuprata, costretta a prostituirsi. Diventa tuttavia consapevole della sua esistenza come individuo. Rakam lotta per una vita diversa, che passa per due punti essenziali, l'istruzione, osteggiata in primo luogo dai suoi ex-compagni schiavi (che cosa te ne fai di una conoscenza che non ha fini pratici? Le chiedono quando si appassiona alla storia) e il riprendere possesso del proprio corpo. Rakam è una persona mite, non ha certo il carattere di una rivoluzionaria, ma è tenace. Persegue con ostinazione la propria strada verso la libertà, costellata di dolore e di perdite, di tradimenti e la sua strada, inevitabilmente, diventa un modello per altri.
Dopo il finale dolce della storia di Rakam, arriva come una doccia fredda l'ultimo racconto, a ribaltare la prospettiva. Musica Antica è il nome di un inviato dell'Ecumene, la federazione di pianeti, che fin dall'inizio da aiutato la rivolta degli schiavi. Ora lui stesso si trova nel mezzo dei combattimenti. Vede la violenza che gli stessi "liberatori" infliggono a quegli schiavi che erano rimasti tali per semplice mancanza di alternative. La brutalità dei vecchi signori e dei nuovi liberatori si equivale. Il racconto si conclude con una bambino da seppellire, tanti interrogativi su una violenza nata come giusta ma poi diventata solo violenza, e poche risposte.

Il trovatore
Il trovatore ci porta verso il fantasy classico. Anche questa è una storia di ricerca di libertà attraverso la conoscenza e di ideali che possono trasformarsi in qualcos'altro. 
È di fatto una mini saga condensata. Un altro autore ci avrebbe fatto dieci romanzi, la Le Guin lo condensa in un racconto. Ha uno dei passi più strazianti di tutte le sue storie, la morte di una schiava portata per la magia che usa fino alle sue ultime energie per permettere al protagonista di sopravvivere. Come molti dei racconti della saga di Terramare, a chi appartiene, anche se è perfettamente indipendente, è pensato come la trascrizione di un racconto orale. Provate a leggerlo ad alta voce a qualcuno e vi assicuro che rimarrà incantato.

Nell'alta palude
Nella sua semplicità, questo racconto, che già conoscevo, è uno dei miei preferiti.
C'è un mago impazzito in fuga. Si ferma, quasi per caso, in un villaggio, accolto da una donna sola, dove inizia a curare il bestiame.
È un racconto molto più semplice di altri presentati qui, eppure mi commuove sempre. Mi commuove l'intesa tra il mago e la donna, che non ha nulla dell'attrazione sessuale, è un accettarsi nella diversità, accettando anche di non potersi capire. Mi commuove la condizione del mago, la cui mente non è libera, può fare grandi cose, può compiere grandi danni. L'istinto della saggezza direbbe di ucciderlo o rinchiuderlo per la sicurezza di tutti. Insomma, è un pazzo che può asservire le anime della gente! Vince invece la fiducia e anche, se vogliamo, l'idea del lavoro come cura e riabilitazione. Il mago scopre di poter guarire gli animali, ha un lavoro da fare, una sua utilità e pertanto, in barba alla saggezza, chi dovrebbe rinchiuderlo decide di non farlo.
Sarà banale, ma mi scappa sempre la lacrimuccia sul finale.

Paradisi perduti
Chiude la raccolta un romanzo breve, che come tale era stato già pubblicato da Delos.
Ne avevo già parlato e quindi vi rimando alla vecchia recensione, qui

Sono stata lunghissima e me scuso.
Per tutta la vita, questa autrice, più o meno coetanea di mia nonna, mi ha mostrato la strada. Ho preso in prestito per la rete il nome di un suo personaggio che era, tra le altre cose, ben prima che lo diventassi io, una madre adottiva. Senza le sue opere non sarei la persona che sono, la mia mente non si sarebbe formata allo stesso modo. 
Anche adesso che non c'è più, continua a mostrarmi la strada.
Per una volta ho davvero un debito di riconoscenza verso Mondadori che ha deciso di tradurre un'opera che probabilmente pochissimi leggeranno, qui in Italia, ma che è davvero cibo per la mente.

venerdì 4 gennaio 2019

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 14

Capitolo 13

Appena era giunto a San Pietroburgo, poco più di un anno prima, V. si era innamorato della pista secondaria del palaghiaccio, con le vetrate che davano su tre lati. Aveva pensato che avrebbe voluto pattinare lì per il resto della sua vita.
G. si avvicinò. Con il suo viso affilato, a V. sembrava un topo, ma si sforzò comunque di sorridere.
– Siamo rimasti noi due – disse G.
– Così pare – non aveva davvero voglia di parlare.
– Tu lo sai cos’è successo a K.
Non era una domanda. 
– Domani torna a casa sua – disse V. – Il padre ha litigato con Y. Se lo rivedremo, sarà in qualche gara, con il suo vecchio allenatore.
V., volente o nolente, aveva ascoltato la metà di quel litigio telefonico, dato che Y., quando si arrabbiava, faceva in modo che tutta San Pietroburgo lo sentisse. Padre e allenatore si erano accusati a vicenda di essere la causa di quello che era capitato. Alla fine Y. aveva buttato giù il telefono ed era uscito di casa sbattendo la porta. Sua moglie era via per lavoro e l’allenatore era rientrato tardi, aveva lasciato in cucina del cibo d’asporto per lui e poi si era chiuso in camera. Per la prima volta V. aveva avuto la sensazione che forse anche Y. potesse essere un essere umano.
– Sei stato un bastardo con quella combinazione – disse G.
– Lo so. Ma io volevo solo vincere – replicò V.
Adesso non era più sicuro di essere contento per quella vittoria. O, peggio, si sentiva in colpa per esserne ancora contento. 
La sera prima aveva chiamato la donna che lo aveva accompagnato, in una vita precedente, alla gara in cui aveva conosciuto Y. A quanto pareva, lassù erano tutti estasiati per quella vittoria. Lui, però, non era stato in grado di raccontare tutto ciò che era successo. Cosa doveva dire? Ho fatto uno sgarbo al mio compagno di allenamento che poi ha cercato di uccidersi, anche perché, forse, era innamorato di me e io neppure me n’ero accorto? Invece la ragazza di cui forse sono innamorato io ha abortito il figlio di un tipo che non è neppure andato a trovarla in ospedale, e io non dovrei neanche saperlo, perché ufficialmente si è fatta male in allenamento… Era stato più semplice, anche più bello, offrire la versione breve della storia. A un anno dalla sua partenza aveva vinto la sua prima competizione internazionale. L'assistente sociale aveva fatto in modo che gli altri ragazzi vedessero la registrazione della gara. «La maggior parte di voi è convinta di non valere niente» aveva detto. «È bello dimostrare che non è vero. Ricordatelo, V., se diventerai famoso, un sacco di ragazzi trarrà ispirazione da te, non solo gli sportivi». Non sapeva come rapportarsi con quelle parole o con le proprie omissioni. Quando quella notte Y. era rientrato, ormai erano quasi le cinque del mattino, dopo aver raccontato in breve quello che era accaduto, gli aveva messo una mano sulla testa e gli aveva detto solo: «non è colpa tua». V. non sapeva neppure se lo pensasse. Si sarebbe comportato diversamente, se avesse saputo cosa passava nella testa di K? Forse la verità era che del compagno d’allenamento non gliene era mai fregato niente.
– Lo so – disse G., riportandolo al presente. – Sai, è una fortuna che io non abbia il talento di K. Io lo so che potrò batterti solo se ti troverò in una pessima giornata, ma sapere di avere la possibilità di pattinare come te e non riuscirlo a fare dev’essere terribile.
– K. qui, era più bravo di me – replicò V.
Lo pensava davvero. Aveva iniziato prima di lui, con allenatori migliori. Era più tecnico e preciso.
G. scosse il capo.
– Tu non ti vedi, quando pattini. Ah, non sei sempre perfetto. Ogni tanto fai degli errori imbarazzanti… Però ipnotizzi. Mi spiace per tutti quelli che si scorneranno con te, anche perché della maggior parte di loro non ti accorgerai neppure… Vuoi venire al cinema, sabato pomeriggio?
La domanda prese V. in contropiede.
– Perché me lo chiedi?
– Perché io vado al cinema con i miei amici del pensionato e tu mi sembri piuttosto sprovvisto di compagnia… E io non posso passare il resto della mia vita fingendo che tu non esista o odiandoti.
– Non Harry Potter…
– L’era glaciale. Tranquillo, è un cartone animato per bambini, al tuo livello intellettuale.
V. gli fece una linguaccia. 
Non vedeva molte possibilità di diventare davvero amico di G., ma provare non costava nulla…
Guardò fuori e, attraverso le vetrate, vide una figura magra che camminava verso il palaghiaccio.
– E! – esclamò.
Senza pensarci, senza chiedere il permesso a D., V. uscì dalla pista per correrle incontro.
La intercettò nell’atrio e le gettò le braccia al collo prima ancora che lei avesse il tempo di metterlo a fuoco.
– E! Sei tornata!
– Ehi, ragazzino, mi soffochi…
Lei gli mise le mani sulle spalle e arretrò di un passo.
– Non sono tornata, vado via, ero passata per salutare D… Non fare così, ragazzino, vieni fuori, parliamo un po’.
V. annuì, usando tutta la sua forza di volontà per non piangere.
Finirono sulla solita panchina. Per i pochi metri necessari a raggiungerla, E. aveva evitato di guardarlo in faccia, ma non aveva lasciato la sua mano.
– Tu sapevi quello che mi era successo e non l’hai detto a nessuno, credo di doverti ringraziare – esordì, quando furono seduti, sempre senza guardarlo.
– E., non avrei mai…
– Pensavo che, tra tutti, tu fossi quello più arrabbiato con me.
– E perché mai?
Poteva sentirsi ferito da E., ma non avrebbe mai provato rabbia nei suoi confronti.
Lei sorrise, un sorriso triste, nel viso che era ancora più magro di quanto V. ricordasse.
– Sei proprio strano, ragazzino.
– Che cosa farai adesso?
– Vado via. I miei mi hanno iscritta a una scuola internazionale, a Parigi. Per aiutarmi a dimenticare, dicono. In realtà sono loro che vogliono dimenticare. E dimenticarmi. E evitare che la cosa si sappia. Perché loro farebbero una brutta figura.
V. annuì. La Francia era lontana, ma, aveva scoperto, non irraggiungibile.
– Tornerai ad allenarti? Potremo vederci durante le gare, quando anch’io passerò tra i senior.
E. scosse il capo.
– Non lo so. Non credo di voler pattinare sotto qualcuno che non sia Y. Non credo neppure di voler pattinare… Iniziare di nuovo, una vita in cui non ci sia sempre qualcosa che mi faccia male, in cui essere solo una qualsiasi, non è un’idea che mi dispiaccia.
Anche se non voleva, una lacrima scese sulla guancia di V.
– E., ma tu sei… Sei come una dea sul ghiaccio.
Lei raccolse la sua lacrima con la punta dell’indice e rimase a guardarla. Il cielo era di un grigio uniforme e la lacrima non rifletteva alcuna luce.
– Forse lo sono, ma non è una cosa che ho scelto io… – E prese un respiro. – Ascolta, ragazzino, mi sono quasi distrutta nel tentativo di essere quello che volevano gli altri. Volevo essere la bella bambolina da esibizione per i miei, l’atleta perfetta per Y… Con I ci sono finita a letto, senza pensare davvero al dopo, solo perché speravo che poi mi guardasse come a volte mi guardi tu, quando dici che sono una dea. Non ne vale la pena. Non ci ho guadagnato niente. A parte Y, se la sono data tutti a gambe quando le cose sono andate storte… Noi siamo uguali, ragazzino, ma tu non fare come me. Fregatene di quello che vogliono gli altri. Tutti quanti, persino Y. Vivi la vita che desideri, pattina fino a che ti va di farlo, smetti quando non ti va più. Fai il contrario di quello che la gente si aspetta da te, perché forse è quello ciò di cui la gente ha bisogno.
– Resta qui – mormorò V., anche se sapeva che era una richiesta puerile e impossibile.
Sapeva anche, però, che non era in grado di dire se quello che provava per E. fosse amore, ma di certo lei era l’unica persona con cui, lì a San Pietroburgo, non si sentisse solo.
– Lasceresti tutto per venire tu via con me? – chiese lei, con dolcezza.
– No – rispose V.
Neppure E. valeva la sensazione che aveva provato al termine della gara, in Francia.

– E allora resta… Ma se un giorno tu trovassi una persona per cui senti di poter andare anche in capo al mondo, non chiederti se sia o no un capriccio, se ne valga la pena. Vai.

SULLE LAME DELLA STORIA.
Con questo capitolo siamo praticamente alla fine. La settimana prossima pubblicherò l'epilogo.
Vorrei intanto ringraziare chi è arrivato a leggere fin qui, seguendo questi miei personaggi che stanno diventando adulti in modo tanto doloroso.
PS: scovare quali film fossero nelle sale in Russia nel momento della storia non è stato facilissimo, è un dettaglio di cui però sono molto soddisfatta.