venerdì 28 settembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 1

Eccoci con la "storia particolare".
Di tutte le mie remore ho già parlato altrove.
Non mi resta che farvela leggere. 

Questa storia nasce, in modo curioso, da un'affermazione di uno dei personaggi che, nella mia mente, mi spiegava come la sua non può essere considerata, o almeno non in toto, una storia disneyana in cui un ragazzo venuto dal nulla viene salvato dal suo grande talento. Lo è, ma anche no, perché altra gente, che aveva altrettanto talento, non ce l'ha fatta.
Quindi questa è la storia di chi ce l'ha fatta e di chi non ce l'ha fatta. Di chi non è diventato un campione, ma è diventato adulto lo stesso.

I personaggi sono adolescenti, variamente allo sbando nella vita e fanno un buon numero delle sciocchezze che si possono fare a quell'età. Adulti che cercano di metterci una pezza nel modo in cui possono, per il fine che si prefiggono, magari secondo i valori che non sono i nostri. A scanso di equivoci, gli adulti di questa storia sono cresciuti in Unione Sovietica e possono avere un'idea su alcuni aspetti di quel sistema che non coincidono con la mia.

La parte sportiva è stata documentata in meglio possibile, ma si tratta comunque di uno sport che seguo da spettatrice, sono passati quasi vent'anni dal momento in cui questa storia è ambientata e i regolamenti sportivi sono cambiati mille volte e l'errore è sempre in agguato. Infine, questo è una sorta di universo parallelo al nostro. Per quanto possibile luoghi e date delle gare citate sono corretti, ma ovviamente i risultati e il contesto sportivo generale è modificato ad hoc.





PADRONE DEL TUO DESTINO




– PARTE PRIMA –



Mosca – Dicembre 2000

Y. si sedette sbuffando sul sedile scomodo. Possibile che fossero tutti così i sedili dei palaghiacci? Il pattinaggio doveva proprio essere una sofferenza per tutti, in modo democratico, atleti e spettatori… E poi non gliene importava niente della gara giovanile che si stava svolgendo sulla pista. O forse non voleva che gliene importasse niente. Se si fossero rivelati tutti mediocri non avrebbe dovuto farsi carico di nessuno di loro. Ognuno di quei ragazzini che volteggiavano sul ghiaccio era un groviglio di ansia, rabbia, paura, problemi di salute, paturnie sentimentali, comportamenti da correggere, studi da portare avanti… Forse doveva darsi all’addestramento dei cani. Esercizio giusto, croccantino, esercizio sbagliato, bastonata e finiva lì. Molto più facile. O forse era lui che non riusciva. Sua moglie più o meno si comportava così con le sue ballerine e la cosa, maledizione, funzionava. Mai una volta che l’avesse vista preoccupata per una di loro. Se una falliva c’erano subito altre candidate per il posto vacante. Lui, però, era un cacciatore di fuoriclasse e i fuoriclasse sono fragili e preziosi. Per niente facili né da addestrare né da lasciar andare…
– Sei già qui? – gli chiese D.
L’uomo più giovane si sedette al suo fianco, facendo ondeggiare i capelli lunghi.
– Fuori nevica – grugnì Y., salutando con un cenno il suo aiutante.
– Così li terrorizzi tutti.
– Quelli che non sanno chi sono mi ignorano. Quelli che lo sanno… Beh, io voglio vedere appunto come se la cavano sotto tensione. Se basto io per spaventarli hanno sbagliato mestiere. Ecco, sono questi i nostri osservati speciali.
Y. passò due fogli a D.
Su ciascuno c’era la foto di un ragazzetto sui dodici anni, un tipino magrolino e tutto naso, G., e un ragazzetto biondo dallo sguardo impertinente, K.
D. annuì.
– Abbiamo già parlato con il padre di questo, vero? – disse, prendendo il foglio con la foto di G. – Un tipo a posto, che si è già informato per le scuole e il pensionato… E questo invece è l’aquilotto Vladivostok… Certo che sarebbe un bel salto da lì a San Pietroburgo…
– Sì.
I trasferimenti erano sempre un problema. Erano ancora bambinetti, abituati ad avere la mamma sempre alle calcagna. Metà degli spettatori, del resto, erano madri ansiose.
– Pare sia il migliore del suo anno e se vuole avere speranze negli juniores…
Da due anni Y. dirigeva il centro federale di San Pietroburgo. La Russia da lì a cinque anni doveva tornare ai vertici mondiale nel pattinaggio, in tutte le categorie. E singoli, a quanto pareva, erano diventati un suo problema. E lui, ovviamente, era diventato il problema con cui doveva scontrarsi chiunque volesse fare del pattinaggio qualcosa di più di un passatempo pomeridiano.
– Ho parlato con quel mio amico – disse D., cambiando discorso. – Ha un posto da operaio. Certo, la paga è quella che è…
Y. fu tentato di accartocciare i fogli che aveva in mano e scagliarli verso la pista.
– Ha sedici anni, zoppica e non ha un titolo di studio decente, non è che si possa aspettare molto di meglio – provò D., ma con dolcezza.
– Una volta ci si prendeva più cura degli atleti.
– Non mi diventare nostalgico proprio tu. Erano altri tempi.
Sì. Tempi in cui si combatteva con lo sport per la grandezza dell’Unione Sovietica. In cui dovevi ubbidire e tacere. Magari morire a trent’anni per un infarto per chissà quali schifezze che ti avevano obbligato a prendere. Però se non altro ci si prendeva cura dei feriti che rimanevano sul campo.
– I… – iniziò.
– Era il migliore, lo so – sospirò D. Ostentava noncuranza, ma anche lui era affezionato al ragazzo. – E viveva a casa tua. Ma si è distrutto un ginocchio. Sono cose che succedono. Devono metterlo in conto, questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato come tutte le cose dure e fredde.
Sì. 
Non gliene importava niente al ghiaccio del padre di I., che aveva perso il lavoro, della madre, che entrava e usciva dall’ospedale. Della rabbia ostinata che covava negli occhi scuri di un adolescente che voleva in ogni modo cambiare il destino di chi gli era caro. Il loro destino, però, lo decideva il ghiaccio. Non la volontà e neppure il talento, per quanto fossero indispensabili. Riuscivi a spostare appena una gamba mentre cadevi e te la cavavi con due lividi e vincevi magari le olimpiadi. Non ci riuscivi e rimanevi zoppo per sempre.
Y. sospirò, guardando la pista per cercare di non pensare a quel ragazzo. Nella camera degli ospiti, a casa sua, c’erano ancora delle cose che aveva dimenticato. Un quaderno, un vecchio portachiavi a forma di dinosauro…
Lo sguardo dell’allenatore fu attratto, quasi suo malgrado, da uno degli atleti in pista. 
Erano tutti ragazzini tra gli undici e i quindici anni, anche se quelli sopra i quattordici che ancora non avevano cambiato categoria erano proprio scarsi. Questo poteva averne una dozzina. Era magrolino, con i capelli così chiari da sembrare bianchi. Non aveva un costume, neppure di quelli artigianali prodotti da madri o zie volenterose, solo una tuta bianca, per altro con delle tracce di macchie non del tutto cancellate. Indossava dei pattini vecchissimi, di seconda o terza mano, eppure si muoveva nei minuti di riscaldamento come se fosse il padrone assoluto della pista.
– Quello chi è? – chiese Y.
– Mah, siamo a metà, questi sono mediocri senza sper…
Anche D. si era fermato a guardarlo.
– Adesso si ammazza – mormorò D.
Il ragazzo stava provando un salto, un Loop, con una partenza del tutto sbagliata. 
Riuscì comunque a portare a termine due rotazioni e ad atterrare in modo quasi discreto.
– Non ha la più pallida idea di come si salti – disse Y.
E neppure di come si impostava una trottola, constatò un attimo dopo. Eppure c’era quella sicurezza istintiva, ai limiti dell’arroganza, di chi sa di essere nel proprio elemento.
Chi lo allenava?
A bordo pista c’erano alcune facce note, tecnici di società giovanili con cui Y. aveva già avuto a che fare e un uomo che non aveva mai visto, accompagnato da una giovane donna di forse venticinque anni. A quanto pareva il ragazzo era con loro. L’allenatore e… la sorella? La zia? Cicciottella com’era non poteva avere molto a che fare con il pattinaggio.
– Fammi un favore, D., vai a capire chi è.
– A quest’età, se non hai le basi ci vuole un miracolo – sbuffò D., ma si stava già alzando.
Ci voleva un miracolo, certo. Eppure Y. si rese conto di attendere con trepidazione l’esibizione del ragazzo.
Eccolo.
La tuta bianca era proprio il costume con cui si esibiva… Quindi? Non aveva un allenatore in grado di spiegargli i fondamentali, non aveva nessuno che gli preparasse un costume decente, ma aveva un coreografo, a quanto pareva. Perché la cosa che stava mettendo in scena aveva senso. Era un fiocco di neve, sospinto da vento, destinato a sciogliersi. Non c’era un singolo elemento tecnico che non andasse rifatto da capo eppure riusciva a dare una coerenza al tutto. Aveva un modo di pattinare che catalizzava l’attenzione, quel qualcosa che non può essere insegnato ed era perfettamente a tempo con la musica. Il resto… Y. cercò di essere oggettivo. In uno sport in cui si dà il massimo entro i venticinque anni a dodici alcune qualità le devi già avere o è inutile buttare via il proprio tempo. La corporatura del ragazzo andava bene. Aveva l’ossatura esile, ma una buona muscolatura, poteva in effetti sviluppare il fisico del pattinatore. L’impostazione tecnica era un disastro, ma qualcuno gli aveva cucito addosso una coreografia amatoriale, certo, ma calibrata sui suoi mezzi e che il ragazzo aveva saputo eseguire in sintonia con la musica. Se non poteva avere il ragazzo voleva quanto meno parlare con il coreografo.
Anche i giudici avevano apprezzato la performance, regalandogli un primo posto temporaneo che lo avrebbe fatto rimanere nei primi quindici al termine della giornata. Il giudizio gli regalò anche il nome del ragazzo, V. Mai sentito. Ma a quanto pareva veniva da un posto sperduto sul circolo polare, una di quelle città minerarie ai limiti della depressione.
– Non ha un coreografo – disse D., tornando a sedersi al suo fianco.
– Come sarebbe a dire che non ha un coreografo?
– Non ce l’ha. L’ha fatta il ragazzo la coreografia, sulla musica che ha scelto.
– Stai scherzando?
– No, ma non farti illusioni, lui non lo possiamo prendere.
– Genitori che ti hanno morso?
– Padre in galera. La donna è l’assistente sociale. Un incubo burocratico solo portarlo qui.

martedì 25 settembre 2018

Documentazione e scrittura, questione etica


Da che è nato il blog, scelgo foto di fiori per introdurre i post che parlano di scrittura.
Volendo parlare di documentazione è venuto naturale spulciare il mio archivio di immagini alla ricerca di una rosa. Perché per me il lavoro di documentazione relativo alla scrittura è così: bellissimo, ma punge.

Nel post precedente presentavo un racconto molto particolare, di cui nel fine settimana proverò a mettere on-line il primo capitoletto. È un racconto a cui tengo, che sento molto mio, ma che mi pone parecchi interrogativi, alcuni dei quali, se vogliamo spendere una parola che magari sembra eccessiva, etici. Anche riguardo alla documentazione.

Daniele Imperi, in un commento fa giustamente notare che ci si può documentare praticamente su tutto, ormai, stando comodamente a casa e ha ragione da vendere.
Rimane il fatto che per me la documentazione per un lavoro di scrittura non è pignoleria, è una questione etica.

L'etica della documentazione
L'oggetto della narrativa non è mai il vero oggettivo. "Mai rovinare con della verità una bella storia" dicono gli americani. O, se non lo dicono, potrebbero farlo. Quanti film abbiamo visto, e amato, che contengono degli svarioni, delle inverosimiglianze palesi? Magari sono capolavori. E rimangono tali, nonostante gli svarioni e le inverosimiglianze.
Però.
Ci sono almeno due però, piuttosto forti nella mia mente.

Se è possibile documentarsi su una data cosa, secondo me è un preciso dovere morale di chi scrive farlo.
Non più tardi di una settimana fa mi è capitato di scagliare a terra un fumetto che iniziava con "Spagna, XVII secolo" e poi faceva entrare in scena l'Ordine Templare.
Ora, io sono ancora dell'idea che non importa quanto di intrattenimento sia una storia, se mi si dice che è ambientata in un tal posto e in una tal epoca (cosa non obbligatoria, esistono il fantasy, le distropie, le storie alternative...) mi aspetto che i particolari dell'ambientazione siano il più accurati possibili. Mi aspetto che si possa imparare qualcosa su quell'ambientazione o, quanto meno, non incappare in una follia anacronistica. È una questione etica. Quando nelle ore di storia un mio alunno esordisce con "ho letto in un libro ambientato in quel periodo..." mi aspetto che abbia un'informazione corretta. E se non è corretta mi vien voglia di prendere a pugni l'autore perché se poi quello svarione finisce in una verifica la colpa è anche di chi l'ha messo dove non voleva.
Quindi, se c'è un particolare su cui ci si può documentare senza diventare pazzi è un dovere morale farlo.

C'è poi un altro aspetto etico della documentazione, che è più attinente con i problemi che mi sono trovata a fronteggiare con la storia particolare.
Ci sono cose di cui magari ci troviamo a scrivere che non abbiamo vissuto. Ma qualcun altro sì. Dolorose o meno che siano, importanti o meno che siano, dobbiamo averne rispetto.
Da qui la mia difficoltà nell'ambientare storie nel mondo reale, ma in luoghi o situazioni che non conosco davvero a fondo. Perché di sicuro, invece, qualcun altro le conosce e ho sempre paura di non trattarle col dovuto rispetto.
Ho già parlato, credo, dell'antipatia che provo per la fiction ambientata durante guerre o catastrofi varie. Noi prof di lettere siamo bersagliate da proposte di letture educative che raccontano i grandi drammi del novecento. Alcuni di questi libri sono scritti con grande rispetto e documentazione. Altri sono stati palesemente studiati a tavolino, scritti nel comodo di salotti riscaldati e contengono svarioni che chiunque abbia sentito (o vissuto) storie di prima mano nota subito. Ecco, questi libri a mio parere sono offensivi.
Io non mi inoltrerei mai in tematiche così sensibili senza il giusto lavoro alle spalle, ma nel mio piccolo provo già un imbarazzo che non è solo paura di fare brutta figura quando scrivo di luoghi o situazioni che sento di non aver approfondito a dovere. Ho paura di mancare di rispetto a  chi quelle cose le vive o le ha vissute.
Quindi, secondo me quando narriamo un fatto o un luogo reale, documentarci è un preciso dovere nei confronti di chi quel fatto o quel luogo lo vive o lo ha vissuto.

Detto questo, poi mi trovo a scrivere di città che non ho mai visitato, di periodi storici che non ho vissuto, di situazioni di cui ho solo letto. E non sempre mi sento all'altezza dei miei principi.

venerdì 21 settembre 2018

Una storia particolare

Quest'estate ho scritto una storia con l'intento preciso, tra le altre cose, di pubblicarla sul blog.
Adesso, però, sono giorni che rimando il momento, trovando scuse più o meno valide (è troppo lunga, saranno almeno 15/20 puntate...), per non affrontare il fatto che il realtà è l'idea di farla leggere in sé che mi imbarazza...

Andiamo con ordine a circoscrivere i fatti.

Questa storia nasce come costola della "scrittura privata" che mi ha tenuto impegnata per qualche mese, che, a sua volta, nasce, tecnicamente, come una fanfiction, cioè come elaborazione di personaggi non originali e senza autorizzazione. Il fatto che la scrittura privata non fosse pubblicabile, in realtà, per me, è stato un enorme sollievo, mi ha permesso di giocare e sperimentare come in altre circostanze non mi sarei concessa e le storie prodotte hanno acquisito un senso particolare per me e le altre persone coinvolte.

Questa, però, è una storia "costola". Uno stranissimo ibrido. Vi sono personaggi che non ho creato io,  circa la metà di quelli totali, ma sono raccontati in un contesto talmente staccato dalla storia originale che, cambiando i nomi, risulterebbero del tutto autonomi. Al massimo "ispirati a". La vicenda è del tutto indipendente rispetto a quella da cui ho "rubato" parte dei personaggi. Il piano originale, infatti, prevedeva la pubblicazione sul blog con i personaggi indicati con solo l'iniziale del nome puntato (il che ha previsto un certo lavoro per evitare sovrapposizioni). Questo per un mio scrupolo sentimentale a non volerli immaginare con un nome differente.

È una storia talmente profondamente mia che quasi me ne vergogno.
Parla di sport, di cosa significhi dedicarci la propria vita con il rischio di non farcela. 
Parla di chi non ce l'ha fatta e di chi ha proseguito la corsa da solo.
Parla di adolescenti, guardati per lo più dall'esterno, da chi dovrebbe essere "super partes" ma, così, facendo dovrebbe abdicare alla propria umanità.
Parla di adolescenti, dei loro drammi spesso negati, di dolori nascosti, di punti di rottura.

Allo stesso tempo è una storia così poco mia che me ne vergogno.
Non ha davvero nulla a che fare con quella da cui ho preso parte dei personaggi, che è ambientata circa 15 anni dopo ciò che racconto io, ma quello che volevo raccontare aveva senso solo mantenendo la nazionalità di questi personaggi. Mi sono quindi trovata con un'ambientazione che non mi appartiene, la Russia dei prima anni 2000.
Già di base odio ambientare storie in luoghi del mondo reale in cui non sono stata. Ho bisogno quanto meno di aver respirato quell'aria per poter tentare di riprodurla su carta. Purtroppo, però, non potevo andare a San Pietroburgo solo per questo racconto. L'effetto che ho ottenuto è stato "film italiano con pochi fondi", cioè un racconto quasi tutto in interni. Per carità non penso che questa gente stia molto all'aperto, considerato la vita che fa e il clima, ma qui si è trattato di una fuga bella e buona.
Oltre tutto, ambientare una storia in quegli anni in Russia con personaggi adulti e adolescenti significa che gli adulti sono cresciuti in Unione Sovietica e gli adolescenti in Russia. E questa non è una cosa da poco. Non si può ignorare, ma raccontarla così dall'esterno, per pura immaginazione, è quanto meno arrogante.

Infine tutto questo è nato per quello che doveva essere un gioco leggero nato da uno spunto narrativo dello spessore della carta velina usurata. A un certo punto, però, ha smesso di essere solo un gioco. Di certo ha smesso di essere leggero.
Questa storia in particolare ha una prima parte quasi disneyana, tanto sembra leggera e a lieto fine. Nella seconda, però, le cose si complicano parecchio e si toccano alcune tematiche non proprio soft. Ho cercato di trattare questi aspetti con la massima sensibilità possibile, ma il rischio scivolone è comunque sempre in agguato.

Quindi, ricapitolando, ho una storia che è profondamente mia nelle tematiche, ma che mi ha costretto a inoltrarmi in mondi che sento di non controllare e di non aver davvero il diritto di narrare.
Parla di sport, adolescenza e adulti che hanno a che fare con adolescenti e cercano in qualche modo di traghettarli verso l'età adulta. È lunga e andrà spezzata in almeno quindici capitoli.
La volete leggere?

martedì 18 settembre 2018

Considerazioni sull'insegnare ai tempi di internet


Vivendo nel mondo di oggi e non in una qualche astrazione ipotetica (dove pare vivere molta gente che parla di scuola) mi sembra assurdo insegnare come se la rete non esistesse. 
Internet esiste, è pervasivo e il nostro dovere di insegnanti è guidare i ragazzi a viverlo come un mezzo utile, con i suoi pro e i suoi contro, come qualsiasi altra cosa.
Ci si aspetterebbe, però, che ragazzi che hanno un accesso illimitato alle informazioni abbiano una  certa facilità nel reperire le stesse. 
Errore.
O, meglio, le cose non sono lineari come sembrano.
Durante le vacanze i miei alunni dovevano produrre un cartellone che doveva servire a presentare un personaggio del rinascimento scelto da una lista secondo una schema prefissato. Davo quindi per scontato che le informazioni le avrebbero reperite in rete, mentre lo schema li avrebbe obbligati a un minimo di rielaborazione e ad evitare il copia in colla.

Nei risultati non non mi aspettavo l'effetto forbice.
Una minoranza di ragazzi ha in effetti acquisito un numero di informazioni impressionanti. Ci sono ragazzi per cui internet apre dei mondi. Mondi che a volte non sono in grado di governare, in cui non è troppo saggio avventurarsi da soli. Ragazzi che potrebbero tranquillamente trovare le istruzioni per costruirsi una bomba batteriologica in cantina e realizzarla davvero, per dire. Nello specifico, ragazzi che sono tornati dalla "missione" con un numero di informazioni degne di un medio corso monografico universitario.
All'estremo opposto ci sono coloro che pur avendo accesso a tutte le informazioni del mondo non sono in grado di utilizzarle. Persone che potrebbero avere già aperta davanti una pagina che spiega come preparare un antidoto al veleno che hanno accidentalmente assunto e neppure accorgersene. Non per cattiva volontà, per incapacità di discriminare il plausibile dal decisamente folle, che non sanno discernere l'affidabilità di una fonte e ritengono che un sito che si chiama "www.glialienisonotranoi.it" possa essere il massimo dell'affidabilità. Nello specifico, ragazzi che sull'implausibile rinascimentale hanno trovato cose scartate pure da Dan Brown. Così il povero Leonardo da Vinci è diventato "quello della mitragliatrice", inventore solo ed esclusivamente della mitragliatrice con cui "ha rivoluzionato la storia militare del rinascimento".
In mezzo c'è il gruppo dell'informazione monca. Quelli che magari sul personaggio da indagare hanno trovato una vera perla, ma hanno perso di vista il contesto generale. Per un ragazzo Lorenzo il Magnifico è stato solo un poeta. Mi ha fatto un bellissimo commento al Canto di Bacco e Arianna, ma se lo immaginava squattrinato nella sua stanzetta, con la penna in mano tutto il giorno.
Mi ha colpito come il normale rendimento scolastico non fosse poi quella grande discriminante per rientrare in uno dei tre gruppi. C'è piuttosto chi ha già sviluppato senso critico, che appartiene al primo gruppo, chi si lascia volentieri suggestionare da qualcosa di così bello che vuole a tutti i costi che sia vero, chi si interessa a un particolare e dimentica il resto. Nell'approccio alla rete dei miei alunni c'è più sensibilità caratteriale, quindi, che approccio allo studio.
Mi chiedo se questo non spieghi il motivo per cui anche gente con un livello di istruzione tutt'altro che disprezzabile "abbocchi" alle più improbabili delle bufale. C'è un evidente meccanismo psicologico che ci porta, in rete, a cercare conferma delle idee che ci piacciono, piuttosto che a ricercare l'informazione corretta. Così l'appassionato d'armi ha trovato conferma del fatto che Leonardo da Vinci fosse stato solo un progettista di armi. Il ragazzo che dice di diffidare dei potenti e dei politici ha trovato solo il Lorenzo il Magnifico poeta.
Questa cosa mi ha fatto riflettere, perché è evidente che è dall'età che hanno i miei alunni che bisogno insegnare loro a diffidare dalle sciocchezze della rete. E a quanto pare il livello di istruzione, se vogliamo, riportato alla loro età, il "voto", non è l'unica discriminante.

Il possibile, ma non reale, presente nella rete ha fascino. E tutti vorremmo credere che ciò che ci affascina, o che conferma le nostre idee, sia vero. Dove tutto è virtuale è più difficile trovare le ancore alla realtà.
Bisogna in qualche modo insegnare ai ragazzi a essere dei "detective del reale", dei segugi della rete capaci ci fiutare la pista giusta senza farsi distrarre dall'allettante, dal curioso o dal sensazionale.
O il drammatico sospetto che non sia per nulla facile.

giovedì 13 settembre 2018

Romanzo, sceneggiatura, film


Un paio di settimane fa mi è capitato di vedere in rapida successione due film apparentemente diversissimi che hanno in comune, in realtà due elementi. Il film sono L'esorcista e Mission.
Le caratteristiche in comune sono che entrambi hanno nei gesuiti dei personaggi positivi (infatti ho commentato col marito che era "la settimana dello spottone gesuita") e di entrambi esiste un romanzo scritto dallo stesso autore della sceneggiatura del film.
Avevo letto e già parlato sul blog del romanzo L'esorcista qui.
Non conoscevo invece l'esistenza di un romanzo legato al film Mission, se non che, appena dopo averlo rivisto mi sono imbattuta in una bancarella di usati posta sotto la scuola in cui dovevo fare una riunione. La copertina con la faccia di Robert De Niro in costumi di scena e il titolo "La Missione" mi hanno lasciato pochi dubbi e ho investito quindi un euro per adottarlo. Ho scoperto così che l'autore del romanzo e lo sceneggiatore coincidono e che l'autore, Robert Bolt, ha collaborato in modo attivo al film, così come lo scrittore/sceneggiatore de L'esorcista.

Sono quindi due curiosi casi di studio, perché in entrambi i casi abbiamo due autori con una storia ben chiara in mente, a cui evidentemente tengono, ne curano la sceneggiatura e la affidano a un regista senza però rimanere del tutto tagliati fuori dalla produzione. Ci si aspetterebbe una trasposizioni cinematografica molto fedele e in effetti le cose che accadono sono più o meno quelle, ma il sapore del film è diverso.

L'esorcista è un film d'inquietudine e un romanzo di malinconia.
Ho molto apprezzato il film. Non me lo aspettavo. Non sono un'amante dell'horror sullo schermo, mi fa appunto orrore. Invece non l'ho trovato spaventoso o disgustoso, ma sottilmente disturbante, con delle scelte registiche e di fotografia meravigliose (l'uso della luce in primis).
Il film è la storia di una bambina che cambia personalità e viene posseduta dal demonio, di una madre in crisi e di un prete sconfitto che non sa che pesci pigliare.
Il romanzo è la storia di un prete in crisi che cerca disperatamente un senso per la propria vita e le proprie scelte, che viene interpellato da una donna disperata per via della misteriosa malattia della figlia.
Cambia il focus della storia.
Ho trovato il personaggio di padre Karras molto meno incisivo nel film di quanto non sia nel libro. Nel romanzo la storia è principalmente la sua. La sua morte (spoiler?) alla fine ha un sapore agrodolce. Non solo perché permette alla bambina di tornare se stessa, ma perché se esiste il demonio, allora esiste anche Dio e la sua vita ha avuto senso. La stessa morte, nello stesso modo, mi ha colpito assai meno nel film. È necessaria per la salvezza di Regan, è quello che ci sta a cuore. La morte di Karras nel romanzo mi ha commosso, nel film quasi mi è venuto da pensare "depresso com'era, meglio così..."
Anche la madre risulta parecchio sottotono rispetto alla sua corrispettiva cartacea. Per ovvie ragioni di tempo non viene approfondito il suo passato, il contrasto tra una vita apparentemente perfetta di attrice di successo e il dolore segreto per un figlio perduto.
Ci guadagna invece la piccola Regan che nel romanzo è importante solo per l'importanza che gli danno gli altri, ma non è quasi mai in scena da sola. Nel romanzo Regan è un enigma da risolvere, non qualcuno per cui tifare. Nella pellicola, invece, beh, non c'è nessuno che abbia visto il film che non ricordi Regan. Lei è il centro, dolce, inquietante e spaventosa, a seconda dei momenti.
La trama è identica eppure l'impressione è di avere a che fare con due storie diverse, ugualmente interessanti.

Anche per quanto riguarda Mission tra libro e film c'è un cambiamento di focus. Anzi, a ben vedere, anche se il rapporto tra le due opere è più stretto (l'autore fin dall'inizio ha lavorato alle due versioni, per il cinema e per la libreria) le differenze di trama sono maggiori.
Mission è un film che narra la storia di due uomini diversi, un commerciante di schiavi e un missionario le cui vite andranno a convergere fino a che entrambi moriranno insieme agli indios di una missione.
Mission è un romanzo che narra la storia di un giovane che diventa mercante di schiavi in sud America e poi cambia vita fino a morire insieme agli indios della missione fondata da un prete che ha contribuito a cambiargli la vita.
Nel film Mendoza, il commerciante di schiavi, e padre Gabriel, il gesuita, sono due protagonisti alla pari. Hanno all'incirca la stessa età. La storia inizia poco prima che Mendoza uccida il fratello e padre Gabriel, volendo, può diventare per lui un sostituto del fratello perduto. Per Gabriel Mendoza è solo un'altra pecorella che gli viene affidata da Dio.
Nel romanzo seguiamo le vicende di Mendoza da quando è ragazzino, scopriamo come diventi mercenario e commerciante di schiavi suo malgrado, per mantenere il fratello minore, ma siamo anche inquietati da tratti francamente da serial killer del suo carattere. Padre Gabriel entra in scena molto dopo ed è più anziano di Mendoza, al punto da vedere nel ormai ex mercenario il figlio che non ha mai avuto.
Il romanzo chiarisce la natura del legame speciale tra Mendoza e il fratello e per certi versi il dolore dell'uomo alla morte di quest'ultimo è ancora più lacerante, guardando il film è però evidente che questo pregresso era ben chiaro ad attori e regista. Non viene mostrato, ma, quando ne si conosce l'esistenza lo si intuisce negli sguardi e nelle azioni.
Padre Gabriel è meglio tratteggiato nel romanzo, in cui conosciamo la vicenda personale e vocazionale, tuttavia il personaggio risulta più incisivo nel film. Un attore può rendere memorabile un ruolo al di là di come è stato scritto, persino tradendo l'idea con cui era stato pensato.
Sia l'autore che il regista, secondo me, avevano ben chiaro in mente il rischio "mattone indigeribile" insito nella vicenda. La pellicola vira al lirico, si appoggia alle musiche di Morricone, alla fotografia, alle sequenze silenziose. Il romanzo al contrario scarnifica all'osso le parte descrittive, è un susseguirsi di scene d'azione (per lo più assenti nella pellicola) ha il sapore del romanzo d'avventura ottocentesco.

Quest'analisi rafforza la mia idea che sia impossibile e ingiusto giudicare un film alla luce del romanzo da cui è tratto. Anche nei casi in cui la sceneggiatura è scritta dallo stesso romanziere, il mezzo film e la mano del regista portano il focus altrove. Un attore azzeccato rende il proprio personaggio più forte di quanto non fosse stato pensato e catalizza su di sé l'attenzione dello spettatore. 
Ancora meno senso ha dire "il libro è sempre meglio". Il romanzo L'esorcista è stato una gradevolissima sorpresa che mi sento di consigliare. Il romanzo Mission è leggero e godibile, specie se piace il genere avventura, ma di sicuro non è un libro di spessore.
Mi riservo di cercare, se mi capiterà l'occasione, un romanzo il cui autore è poi diventato regista della trasposizione cinematografica per vedere se anche in quel caso vi è un inevitabile cambiamento di focus.

lunedì 10 settembre 2018

Inizio anno scolastico

...E si riprende il viaggio.
Mi verrebbe da continuare con i versi di una poesia di Ungaretti, ma non è ne allegra ne ben augurante.

Ho scelto invece una canzone e il video associato, che ho dedicato ai miei alunni.
La rigiro a voi, dedicata a tutti coloro che sono alle prese con un inizio o una ripartenza, in questo mondo che sembra a volte remare contro.


giovedì 6 settembre 2018

Cose che mi spaventano


Quest'estate, sopratutto nei momenti di stasi che il mio organismo mi ha imposto, ho degnato i social di più sguardi di quanti sarebbe, forse, sano indirizzarvici.
Perché i social altro non sono che la versione amplificata del bar di paese. E chi vive in paese lo sa che al bar si va per lamentarsi. Per dare la colpa di tutti i propri guai a qualcuno. Non è che necessariamente siano dei rancorosi quelli che tra un caffè e un bicchiere di bianco elevano le loro lamentele, spesso colorite. È che quello è il luogo per esprimere il peggio, non il meglio. Andate al bar dopo una partita di calcio e scoprirete subito tutto quello che non ha funzionato, con epiteti molto coloriti rivolti ad allenatori e giocatori. Andate in un bar di un piccolo paese e subito sarete informati di tutto ciò che non va e di tutte le magagne personali degli amministratori. Magari quegli stessi interlocutori sono fierissimi del posto in cui vivono e stimano le persone che denigrano, ma al bar, tra un caffè e una birra, si fa a gara a raccontarsi il peggio.
I social sono tutto ciò, ma amplificato. Il rancore, a volte l'odio che vi si respira non sono lo specchio esatto di chi ha postato quei contenuti. Il mondo reale, ne sono sicura, è ancora molto migliore di quello virtuale.
E tuttavia tutto questo rancore mi spaventa. Mi spaventa in modo indicibile.

Farò un solo esempio di una cosa piccola, che spero non vada a urtare troppe sensibilità, per spiegare il mio disagio.
A poche ore dal crollo del ponte Morandi a Genova, quando ancora il conto delle vittime era in aggiornamento ha iniziato a circolare su Fb un'immagine correlata da una scritta.
L'immagine era quella di un cane che veniva calato tra le macerie e la scritta era, con diverse varianti, "con che coraggio ora non lo farete entrare al ristorante".
Io, amante degli animali e dei cani in particolare, ne sono stata profondamente urtata, per diversi motivi.
– Si stavano ancora contando i morti. Una delle famiglie in quel momento disperse (poi trovati morti) veniva da un paese vicino al mio, erano persone note per cui si stava in pensiero. Chissà quanti altri erano in quelle condizioni di ansia e attesa. In quel momento di dolore pubblicare in bacheca non un messaggio di cordoglio, ma di accusa e neppure diretta verso i veri o presunti responsabili del disastro mi è sembrato oltremodo fuori luogo.
– Si gettava un'accusa, in un momento di dolore, verso una categoria, quelli che non vogliono i cani al ristorante, che non aveva davvero nulla a che fare con l'accaduto. A me i cani non danno alcun fastidio, ad alcuni sì. Magari queste persone possono essere sgradevoli, ma non avevano nulla a che fare con i morti di Genova. Il mio amico terrorizzato dai cani e che, pertanto, non ha piacere ad averne uno sotto il tavolo al ristorante non ha sabotato in alcun modo il ponte Morandi. Correlare due cose che non hanno alcun nesso tra loro è quanto meno un errore logico. Qui, però, all'errore si è unito lo sfruttamento a caldo di una tragedia.
– La foto riportata non era stata scattata a Genova e neppure in Italia. I cani tra le macerie del ponte Morandi c'erano davvero a cercare le persone, ma non sono diventati delle star social. Chissà, magari non erano belli come quello ritratto nell'immagine che circolava.

L'idea che una tragedia possa essere sfruttata, non mi viene parola migliore, per una campagna anche giusta, mi ha disgustato. Mi ha disgustato il tono della frase che non era "ricordiamoci di quanto ci aiutano i cani quando siamo in difficoltà", ma era di accusa. Un'accusa, ribadisco, rivolta a una categoria di persone che magari si può legittimamente trovare sgradevole, ma che è del tutto esterna a quanto accaduto.

Questo è un esempio piccolo. Potrei farne molti altri. 
Potrebbero essere reazioni legate all'arrivo dei migranti o al ferimento di svariate persone, tra cui una bambina, in un'estate in cui sparare o lanciare cose contro chi appare diverso sembra sia diventato un sport. Non mi addentro su questo perché sono temi assai più sensibili, magari ho anche meno il quadro della situazione, sicuramente rischierei di essere più aggressiva.

Mi spaventa che il dolore e i morti passino in secondo piano.
Mi spaventa che in un momento in cui dovrebbe vincere la solidarietà o il legittimo sdegno per chi può aver causato un dramma ci si rivolga invece con odio verso un "nemico" che magari nulla a che fare con quanto accaduto.
Mi spaventa che non importi neppure se la "prova" presentata sia attinente oppure no.
Nell'epoca dell'immagine non posso che ricordare le vecchie lezioni di greco antico, che ricordavano che "oida" può voler dire "è vero perché l'ho visto", ma anche "è falso, perché l'ho visto, ma gli occhi ingannano".
Lunedì i miei alunni rientrano in classe. Loro vivono immersi nella virtualità della rete. Come farò a comunicare loro il mio disagio, addirittura la mia paura, per questo bar di paese amplificato in cui ormai siamo immersi?
Come farò a spiegare loro che "l'ho visto", spesso può significare anche "è falso"?

lunedì 3 settembre 2018

Fantasy a Km0 – Né a Dio né al Diavolo, L'angelo d'autunno

Ma che belli che sono i fantasy di casa nostra!
In un genere che soffre moltissimo di esterofilia ho trovato negli ultimi tempi delle bellissime sorprese proprio nei fantasy scritti a pochi km da me.

Né a Dio né al Diavolo

Non sono una fan dei vampiri, lo ammetto, ma come ci stanno bene i vampiri a Biella. Ok, no, non è Biella è Biveno, ma essendo io piemontese non è facile fregarmi.
Che sia o no Biella, la cosa che mi ha incantata di questo romanzo è la naturalezza con cui i vampiri di Aislinn abitano la provincia italiana, come se non vi fosse mai stata Transilvania alcuna e da sempre si muovessero in Piemonte. Sono perfetti, meravigliosamente adattati a interagire con il sottobosco culturale dei metallari/giocatori di ruolo di cui anch'io, anche se non molto metallara, faccio parte.
Leggendo da una parte mi sembrava di rivivere la mia vecchia campagna di gioco di ruolo di Vampiri (Vampiri a Novara nel nostro caso). Dall'altra parte era così facile tornare alla me stessa di qualche anno fa, a certe amicizie, a certi pub, e sentire quasi che forse in quegli anni un vampiro vero avrei potuto averlo sfiorato, tanto Aislinn riesce ad ancorarli a quella realtà.
Sicuramente, leggendo questo romanzo, su di me ha giocato un po' l'effetto nostalgia, la sensazione di leggere una vicenda fantastica ma, per assurdo, così vicina al mio vissuto che quasi avrebbe potuto essere vera.
Poi però c'è la prosa. Diciamocelo chiaramente, la prosa del fantasy, sopratutto quello tradotto, è spesso sciatta. Bruttarella. Ci sono libri che ho amato, perché comunque a me il fantastico piace, ma che ho chiuso con un sospiro che diceva "se solo fosse stato scritto meglio". C'è anche quest'idea che solo perché un romanzo è leggero, è dichiaratamente d'intrattenimento, deve essere scritto in modo semplice. Aislinn sa scrivere in modo elegante. È un piacere da leggere. Perché "scorrevole" e "leggero" non vuol dire "piatto".
Né a Dio né al Diavolo è stato il mio "libro da vacanza", quello che mi ha portato con la testa altrove, facendomi uscire dai ritmi mentali dell'anno scolastico. 
È esattamente quello che la copertina promette, una storia con i vampiri e i metallari nella provincia piemontese. Forse non è quella che con spocchia viene definita "alta letteratura". Però funziona alla grande. E ha una prosa che si legge con piacere.
Uno di quei libri che non cambia la vita, ma che si chiude con dispiacere e di cui si aspetta un seguito quanto prima.

L'angelo dell'autunno

Era da un po' di tempo, invece, che aspettavo il momento giusto per recensire L'angelo dell'autunno.
Davide Camparsi l'ho conosciuto grazie al Trofeo Rill è mi è subito sembrato un Autore. Uno di quelli da tenere per d'occhio e di cui poter dire, al momento giusto "io l'ho conosciuto quando ha iniziato". Perché non è bravo, di più.
Ho preso il libro a scatola chiusa e non mi aspettato, in tutta sincerità, un fantasy-fantasy. Di quelli in un universo altro, con regole loro proprie. Chissà poi perché mi aspettavo fantascienza o un urban fantasy.
Beh, se Aislinn mi ha dimostrato che i vampiri a Biella  Biveno ci stanno benissimo, Davide mi dimostra che anche gli italiani il fantasy-fantasy lo sanno scrivere.
Qui siamo in un inizio di saga. Un mondo (una parte di mondo) fatta a cerchi concentrici, in ciascuno dei quali è sempre, perennemente, una stagione. Ovviamente l'Inverno è il posto dei reietti, dove c'è solo freddo e sofferenza, mentre via via che si va verso il calduccio aumenta la qualità della vita e, suppongo, lo status sociale. Solo che non sempre le cose sono state così e, guarda, caso, la scrittura e la lettura sono proibite proibitissime. Siamo solo al capitolo uno, ma è evidente che le cose non sono semplici come appaiono.
L'impianto narrativo, devo dire, è molto classico. C'è un ragazzo che si trova nei guai, ma a ben vendere è forse il prescelto. C'è un gruppo di avventurieri, disillusi agenti dello status quo, in cui il ragazzo capita e c'è una missione, che probabilmente non è la cosa più giusta del mondo da portare a termine.
C'è, però, un gran lavoro di caratterizzazione dei personaggi e la capacità di creare il "sapore" dell'atmosfera. L'angelo dell'Autunno è uno di quei libri in cui ci si immerge e che tengono desto il nostro senso del meraviglioso e dell'avventura.
Anche in questo caso, uno di quei libri di cui si aspetta con ansia il seguito.


Questi due romanzi, poi, sono scritti non sono da autori italiani, ma da autori che conosco di persona, ed è sempre strano leggere le pagine di chi così facilmente immagini alla tastiera, intento a scriverli.
Da un lato sono libri che si leggono con uno strano senso di competizione, persino con un occhio più critico. Perché diventiamo terribili, noi autori italiani, quando leggiamo altri autori italiani e ci inoltriamo nello stesso genere che bazzichiamo anche noi.
Dall'altro c'è la paura della delusione. Quel "E poi lo incontro e se il libro non mi è piaciuto? Lo dico, non lo dico, ignoro?"
Ecco, questi sono due libri che mi hanno fatto dimenticare i loro autori. Mi hanno fatto entrare nella storia, mi hanno portato con i loro personaggi e che siano "fantasy a km0" lo ricordo adesso, non mentre li leggevo. Se la giocano con molti best seller internazionali, alla faccia di chi dice che il fantasy non è roba nostra.