giovedì 29 giugno 2017

Là, dove le nostre storie (forse) sono

La mia conoscenza di matematica è basica e il mio prof di fisica era notoriamente un imbecille ("è stato messo al classico così ha poche ore e non fa danni"), eppure la fisica avanzata mi affascina. Non riesco fino in fondo a seguire le formule, le capisco a malapena se spiegate passo a passo, ma mi affascina l'infinitamente piccolo e il mondo delle particelle subatomiche. Non mi perdo mai gli articoli a riguardo su Le Scienze, anche se spesso devo limitarmi a introduzione e conclusioni perché la parte dimostrativa è davvero oltre le mie possibilità. 
L'infinitamente grande lo mastico ancora meno, ma guardo volentieri i documentari divulgativi anche se le varie teorie su come funzioni l'universo e cosa ci sia oltre, raccontate senza quella solida base di calcoli e osservazioni sperimentali, sembrano tutte un po' strampalate, più dalla parte della filosofia che della scienza.

C'è chi dice che gli universi siano infiniti. Non ho idea se questa teoria abbia basi più solide di altre né se le nostre menti siano davvero in grado di comprenderla. 
Infiniti.
Vuol dire, però, che ogni possibilità è contemplata.
C'è un universo in cui è tutto esattamente così com'è qui, solo che il mio gatto è tutto nero invece che bianco e nero, un universo in cui è tutto come qui tranne che gli alberi hanno le foglie azzurre e un universo in cui le nostre storie esistono esattamente come le abbiamo pensate.
Se sono infiniti è necessariamente vero, suppongo, se la logica non mi inganna, che ci sia un universo in cui le cose vanno esattamente come noi le abbiamo scritte.

Personalmente, e consapevole che la mia opinione conta meno di nulla, non sono entusiasta della teoria degli universi infiniti. 
Tuttavia voi non avete mai l'impressione che la storia che scrivete esiste già, tutta intera, da qualche parte?
La mia impressione soggettiva non è quella di inventare, decidere e pianificare una storia, anche se poi nella prassi mi metto lì e pianifico, ma di focalizzare sempre meglio qualcosa che già c'è. 
Ad esempio i miei personaggi nascono sempre già con un nome. Come se io li incontrassi per la prima volta per strada e facessimo le presentazioni. È ovvio che in quel momento non so quasi niente di loro, ma scopro in contemporanea il loro aspetto, il loro nome e qualcosa del loro modo di fare. Se devo ragionare su come chiamare un personaggio, o è un personaggio davvero di nessuna importanza, una comparsa da tre battute o c'è qualcosa che non va nella storia.

Immagino che questa sensazione sia dovuta anche al fatto che ho degli universi narrativi ricorrenti. Ho le mie storie di Sherlock Holmes, che sono coerenti tra di loro e raccontano del mio Holmes e del mio Watson (del resto se gli universi sono infiniti, infinite sono anche le varianti di Sherlock Holmes e sicuramente esiste anche la mia).
Ho le mie storie gialle, più o meno ambientate nel qui e ora e comunicanti tra loro (anche se avendole pubblicate a pezzi e bocconi, un racconto qui e uno là, questa interconessione interna di fatto non si vede).
Ho un corpus di storie ambientate in epoca romana, il più piccolo e trascurato, ma magari un giorno lo riprenderò in mano.
Ho il mio mondo fantasy.
I racconti del tutto indipendenti a ben vedere sono minoritari, mentre quasi sempre mi muovo all'interno di un universo narrativo che ho già calpestato in precedenza.
Così mi capita spesso di osservare (e scrivere) qualcosa che è in apparenza una contraddizione o una nota incongrua. Poi ci torno su, magari anni dopo e mi rendo conto che invece aveva perfettamente senso. Come, se, appunto, vedessi meglio qualcosa che già era così fin dall'inizio.

Ho appena finito di scrivere un racconto del mio universo fantasy che era in lista d'attesa da anni (ne ho ancora uno in quella lista d'attesa, poi avrò scritto tutto quello che mi ero promessa di scrivere anni e anni fa) ed è, tra le altre cose, la storia di una spada.
La prima volta che ho visualizzato un personaggio di quell'universo narrativo aveva in mano una spada che non avrebbe dovuto avere. Perché aveva uno zaffiro nell'elsa, cosa che la connotava come una spada dinastica, eppure lui non era un membro della famiglia reale né aveva ricevuto quella spada dalle mani del sovrano (che tuttavia sapeva che era in suo possesso e non diceva nulla). Ho scritto un intero romanzo, anni fa, con per protagonista un personaggio che ha in mano una spada che a logica non dovrebbe avere.
È stato solo dopo che ho capito (scoperto? inventato?) il perché. Non era per nulla un caso, quella era la spada del sovrano precedente e c'era tutta una serie di motivi perché non fosse finita nelle mani del suo legittimo erede, che invece ne usava un'altra (la cui storia è finita nel racconto appena terminato). 
Più o meno la stessa cosa mi è capitata con lo Stradivari del mio Sherlock Holmes (prima o poi verrà pubblicata la storia in cui si racconta come è arrivato nelle mani di Sherlock) e con il povero di bulldog di Watson, che non ho potuto salvare, perché, guardando bene, era come se la sua storia fosse già stata scritta.

Razionalmente posso dire che probabilmente alla base di queste incongruenze ci sono delle intuizioni narrative che poi, ragionandoci su, finisco per dipanare, trovando un modo per far incastrare gli eventi narrati l'uno nell'altro. Tuttavia mi rimane anche forte l'impressione di avere uno spiraglio verso un mondo in cui queste storie esistono, bisogna solo avere la pazienza di osservare bene ed essere capaci di raccontarle nella giusta maniera.

Non mi piace l'idea che gli universi siano infiniti. Ma, se è così, allora le nostre storie, da qualche parte, esistono. E noi dobbiamo sono mantenere questa sorta di connessione con l'altrove e osservare bene per poi raccontarle a dovere. Ecco, questo è un pensiero che mi spiace già di meno.

Voi non avete mai questa sensazione?

lunedì 26 giugno 2017

Al Gran Giallo Città di Cattolica (ma la vita vera è più crudele di un giallo)

Ci sono momenti in cui si percepisce la l'assurdità di tutte le nostre preoccupazioni e il nostro affannarci dietro a cose che scompaiono quando ciò che è davvero importante prende il sopravvento.
Ieri sera, arrivata a casa, subito dopo aver fatto, tutta fiera, questa foto, mi è arrivata questa notizia e oggi la conferma: uno di loro è il fratellino di una mia alunna. 
La verità è banale. Non ci sono parole. Non so che scrivere e come guardare la scrittura alla luce di questi fatti. Più mi inoltro nella vita e più penso, tuttavia, che il senso della scrittura sia anche nel condividere emozioni e sofferenze. Leggiamo e scriviamo per gettare ponti tra il nostro sentire e farci coraggio a vicenda nell'attraversare la vita.

Non è questo, ovviamente, il post che avrei voluto scrivere al ritorno da Cattolica, non so neppure se sia il caso di scriverne uno. Alla fine, questo è un blog personale, non una testata giornalistica, e a volte torna ad assolvere alla sua funzione principale, quella di diario, per riflettere e ordinare le emozioni, anche quando si incatenano fatti talmente diversi e opposti che sembra assurdo parlare di una cosa invece che di un'altra. Eppure non farlo mi sembra quasi peggio.

Sabato sera, a Cattolica, non c'era nulla a turbare l'atmosfera di festa. 
La pupattola in questi giorni ha conosciuto il mare e del fine settimana, alla fine, sarà questo il mio ricordo più bello, come rideva nel salvagente giallo e l'espressione di mio marito, la creatura meno acquatica che si possa immaginare, che pur di non perdersi in suo sorriso è avanzato fino ad avere i piedi a mollo.
Anche questo da un po' un senso al mio affannarmi a scrivere. Senza questo premio non avrei mai convinto il marito ad andare al mare e ci saremmo persi lo sguazzare gioioso della pupa, la sua sorpresa alla scoperta della sabbia e gli occhi sgranati davanti ai pesci dell'acquario.

Quanto al premio, ci pensavo durante il viaggio, sono cinque anni ormai che bazzico il mondo del giallo e in particolare i premi letterari legati al Giallo Mondadori. Mi piacciono per la trasparenza e la passione che ci mettono sempre gli organizzatori e non vedo molte altre strade per valorizzare un genere, il racconto, che mi piace particolarmente.
Una cosa però non riesco proprio a cambiarla. Vivo malissimo il momento delle premiazioni. Mi paralizzo come un coniglio in trappola e non riesco a scambiare due parole. Non mi ammutisco del tutto. Come certi alunni, se interrogata rispondo. Se messa a mio agio interagisco. Se so che devo parlare in pubblico lo faccio. Ma di mia spontanea volontà rimango immobile tremante senza riuscire ad avanzare di un passo. Il risultato è che finisco pure per sembrare arrogante e antipatica perché non riesco a salutare le persone che conosco. Figuriamoci ad attaccare bottone con chi non conosco, anche se si tratta di autori che ho letto. Figuriamoci se si tratta di autori famosi che ho letto.
Ecco, un po' mi porterò il rimpianto dell'occasione mancata perché sono rimasta paralizzata in stile coniglio.
Perché la cifra del Gran Giallo Città di Cattolica è la qualità della giuria. Sia la pregiuria che la giuria finale sono composte da autori affermati. Il fatto di essere arrivata in finale (non ho vinto e non sono arrivata nei primi tre, ma va benissimo così) vuol dire che il mio racconto è stato letto da, tra gli altri, Franco Forte, Carlo Lucarelli, Valerio Massimo Manfredi. È stato letto davvero.
È trapelato, ad esempio, che non è stata una riunione di giuria facilissima quella finale. Tra i giurati c'era un dibattito ancora in corso sulle caratteristiche che debba avere un buon racconto, se preferire un giallo classico ben strutturato o un racconto più innovativo, magari meno facile e perfetto. Mi ha colpito il fatto che i giurati se la siano presa a cuore, stavano ancora discutendo tra di loro di un racconto. Alla faccia del fatto che gli esordienti non hanno attenzione. Con tutto quello che si dice del mondo dell'editoria, questo fatto mi ha quasi commosso, mi ha dato la concreta sensazione che le strade ci siano per farsi notare. Bisogna essere bravi, ovviamente, maledettamente bravi. Ostinarsi a cercare la migliore forma possibile per provare a dire quello che si ha da dire.

Io sono molto fiera del mio racconto "Signorina Maestra" che è arrivato in finale. È un racconto lontano dai canoni del giallo classico, che affonda nei ricordi di guerra partigiana di mia nonna e racconta il coraggio senza gloria di chi decide di andare avanti nonostante tutte le batoste della vita.
Sono contenta che questa giuria abbia letto di me proprio questo racconto. Mi piacerebbe che questo racconto trovasse comunque il suo pubblico e mi piacerebbe riprovare con il Gran Giallo, con un racconto che magari li faccia discutere per ore. Chissà, magari la prossima volta riuscirò anche a scambiare due parole con gli altri concorrenti e con i giurati...
Di sicuro spero di non trovare mai più al mio ritorno certe notizie. Anche per questo, per associare questo concorso a ricordi diversi vorrei partecipare di nuovo

giovedì 22 giugno 2017

Il bacio della vedova – racconto giallo inedito, epilogo

Ed eccoci al finale!

Parte prima

Parte seconda

Parte terza

Parte quarta

Parte quinta

Riassunto breve
Padre Marco, parroco e docente di religione in un liceo, è a Parigi come accompagnatore di alcune classi in gita. In un mattino di pioggia lui e gli altri colleghi si rendono conto che uno degli alunni, Livio Massenzio, è scomparso.
Parlando con i compagni di classe dello scomparso, si scopre che Livio aveva dato appuntamento a un ragazzo di un'altra scuola, anche lui in gita a Parigi. Questi, Massimo, di madrelingua francese, aveva organizzato per lui e l'amico l'incontro con una escort, Amelie. Massimo, tuttavia, è tornato da solo al proprio albergo dopo aver lasciato Livio ancora in compagnia di Amelie.
Padre Marco, in compagnia della collega Anita, si reca quindi nel quartiere di Pigalle alla ricerca di Amelie, sperando che lo scomparso si trovi ancora presso di lei. Scoprono, però, che il ragazzo ha lasciato l'appartamento della giovane prima dell'alba. Quando stanno per perdere le speranze, padre Marco riceve una telefonata: Massenzio è stato fermato poco dopo aver ricevuto un ingente quantitativo di droga da uno spacciatore e si trova in commissariato.
In commissariato, padre Marco capisce che la compravendita di droga era stata organizzata da Massimo, l'amico di Livio e che questi, in cambio della notte con la escort, doveva portare in Italia un pacchetto che gli sarebbe stato recapitato. Fermato dalla polizia francese, Livio non era riuscito a dire nulla a sua discolpa.
Il commissario francese non sembra ben disposto né nei confronti del ragazzo né del prete, padre Marco decide quindi di sfruttare i pregiudizi dell'uomo fingendo di avere importanti agganci in curia, in grado di trasformare l'arresto del ragazzo in un caso diplomatico

IL BACIO DELLA VEDOVA – EPILOGO

Anche così la liberazione di Livio non fu né facile né immediata. Marco dovette davvero farla una telefonata, questa volta ad un amico maresciallo dei carabinieri, giusto per accentuare l’impressione che il caso potesse tramutarsi in un enorme pasticcio diplomatico. Fu trovato un interprete abilitato e Livio fu infine ascoltato. Le sue dichiarazioni combaciarono alla perfezione con quelle dello spacciatore anche se ne l’uno ne l’altro, con un certo dispiacere di Marco, misero nei guai Massimo.
 Livio disse che, uscito dalla casa di Amelie, o Sandrine che dir si volesse, un giovane gli si era avvicinato e gli aveva messo il pacchetto tra le mani, dicendo qualcosa di incomprensibile in francese. Visto il posto, il fare ambiguo dell’uomo e il suo stato di euforia confusa, il ragazzo non aveva fatto altro che trovarsi perplesso sotto la pioggia con quel pacco tra le mani. E subito dopo era arrivata la polizia. Marco non avrebbe saputo dire se l’aver omesso il ruolo avuto dall’amico fosse un atto di lealtà o fosse dovuto al fatto che, tutto preso dagli eventi, Livio non avesse ancora fatto il collegamento. 
 Lo spacciatore, dal canto suo, aveva detto che la roba gli era stata commissionata e pagata da un certo Max, un ragazzo con il quale aveva già concluso affari in precedenza. A quanto gli risultava, era un diciottenne francese che abitava fuori Parigi. Il giorno precedente gli aveva mandato una mail dicendo di dare la merce ad un adolescente che sarebbe uscito dallo stabile dove c’era l’appartamento di Amelie. Non aveva mai visto prima l’adolescente in questione, gli aveva parlato, ma questi non sembrava aver capito. Dal momento che era già stato pagato, lo spacciatore si era limitato a mettergli il pacco in mano e ad andarsene… Per finire dritto tra le braccia della polizia.
 Padre Marco non dubitava che la mail che descriveva l’adolescente a cui dare la roba stesse da qualche parte nella memoria dell’iphone nella sua tasca, ma evitò di dirlo.
 Livio fu rilasciato in serata, stanco e avvilito.
 Non aveva l’aria di uno che fosse appena scampato al bacio della vedova.
 – Appena lo sanno i miei, mi ammazzano – disse – E i miei lo sapranno, vero?
 – Sì – rispose Marco.
 La giustizia in qualche modo doveva fare il suo corso.
*
 Arrivò infine anche l’ultimo giorno della gita e la cena congiunta delle due scuole.
 Per la maggior parte dei ragazzi, ragionò Marco, era stata una gita normalissima. Cioè un’esperienza unica che avrebbero ricordato per il resto delle loro vite. Alcuni amori erano sbocciati, altri erano finiti, qualcuno si era ubriacato per la prima volta. Pochissimi di loro avevano davvero visto Parigi, ma la maggior parte ne avrebbe portato un ricordo dolce, per quanto sbiadito, per il resto della loro vita.
 – Ho finito il libro che mi hai prestato ieri. 
 Anita era venuta a sedersi di fianco a Marco e gli porgeva Il bacio della vedova.
 – Come lo hai trovato?
 – Triste.
 “Per un attimo aveva creduto che il passato non insegue un individuo, che non lo segna per sempre e che la vita è qualcosa che si può ricominciare. Che coglione! La vita non la si può mai ricominciare, non è una partita di baccarà. Se uno volta la carta sbagliata, lo fa davvero e per sempre. I giochi sono fatti.”
 È davvero così? Livio è condannato ad essere per sempre un idiota? E Massimo diventerà un delinquente?
 Marco si strinse nelle spalle.
 – Può essere. La vita non è prevedibile come la letteratura, però. Può capitare di tutto. Livio va a casa, rimane in castigo per il resto dell’anno scolastico. Riesce a tirar su i voti. Di più, scopre che gli piace la chimica, o persino il francese. Capisce a quale facoltà vuole iscriversi, lo fa, trova una ragazza e di colpo riesce anche a ricordare questa gita con piacere, per quelle due o tre cose utili che gli ha insegnato Sandrine.
 Anita sorrise all’ultima frase.
 – Sei davvero uno strano prete. Può accadere davvero?
 – Per me è una necessità professionale credere nel libero arbitrio e non nel destino. Può succedere anche per te. Quel collega del liceo di Novara, laggiù, quello con gli occhiali che insegna latino… Sono sicuro che è curioso di sentire cosa sia davvero successo al ragazzo che abbiamo tirato fuori dalla prigione francese.
 Se non si sbagliava di grosso, tutta l’idea della cena congiunta delle gite era venuta a Clara al solo scopo di far incontrare la collega con quel timido insegnante di latino.
 – Sei stato tu a tirar fuori Livio dai guai. E potresti persino raccontarglielo in latino o in greco antico, se volessi.
 – Eppure sono sicuro che preferirebbe sentirlo da te.
 Con uno sguardo intimidito che chiedeva scusa, Anita si alzò dalla sedia e, un poco incerta, attraversò la stanza, verso l’uomo con gli occhiali.
 Marco rimase un poco a guardarli parlare con un bicchiere di vino bianco tra le mani. Come a volte gli capitava, si sentiva sottilmente diverso da tutti, dai ragazzi che sognavano l’amore come da quelli che l’avevano appena avuto, dai colleghi che flirtavano tra loro come da quelli che si affrettavano a chiamare casa. 

 Era stato il libero arbitrio e non il fato a condurlo a quella condizione eppure questo mitigava appena la malinconia.

NOTA FINALE
Questo racconto era stato scritto originariamente per una sorta di contest in onore dell'autore André Héléna, uno dei padri del noir francese.
Nel romanzo si racconta di come il povero diavolo Maxence fosse stato messo nei guai da un amico fino a finire sulla ghigliottina, subendo così "il bacio della vedova". L'idea è che Maxence, con tutta la sua buona volontà, non possa sfuggire al suo ruolo di vittima designata dal fato.
La mia idea era di salvare l'ambientazione parigina e di riportare la vicenda a un contesto che mi è noto, la gita scolastica. Il tono da noir è andato a farsi benedire e Maxence è diventato Livio Massenzio, messo nei guai da un amico. Entrando in scena Padre Marco, poi, il concetto del destino andava a scontrarsi con quello del libero arbitrio. Scontro che rimane irrisolto, non sappiamo, in effetti se Livio Massenzio riuscirà a prendere in mano la propria vita oppure no, se basta una carta sbagliata, per lui, a segnare l'esistenza. Al contrario di Héléna, lascio aperta la porta delle possibilità.
In ogni caso il progetto poi non è andato in porto, o comunque non per questo racconto, che è rimasto a zavorrare il mio archivio. Sono contenta di averlo tirato fuori ora.
A voi è mai capitato di rielaborare un'altra opera per crearne una nuova?

PS: Padre Marco è un mio personaggio ricorrente, protagonista del romanzo La roccia nel cuore, edito da Interlinea (link nella barra laterale del blog)

lunedì 19 giugno 2017

Di tempo, desideri, blog e strategie editoriali


In questi giorni, tra caldo, pupattola e scuola, l'unico neurone rimasto addetto al ragionamento si sveglia di rado. In uno di questi sprazzi di coscienza, ho letto questo post di Hel, che è come il solito intelligente e illuminante.
Di fatto, per i pigri, propone una strategia vincente per giungere alla pubblicazione, seguita non solo dall'autrice che lui cita, ma da molti altri con buon successo. Costruire un blog curato su uno specifico argomento che desti l'attenzione del pubblico, trattarlo con ironia e sapienza linguistica. Con l'aumentare dei lettori si ingolosiscono le case editrici e si può arrivare a pubblicare davvero bene, ovviamente un libro che abbia uno stile molto vicino a quello del blog. 
Il successo della strategia, se ben eseguita, è comprovato. I primi autori usciti da blog sono arrivati a pubblicazione già nei primi anni 2000 e non si contano mamme blogger, cuoche blogger, esperte di relazioni blogger che poi hanno pubblicato manuali o romanzi, ovviamente ispirati alla loro vita di mamme, cuoche, esperte.
Un caso particolare di questa strategia è rappresentato da Zerocalcare. Come lui stesso racconta in un'intervista, è incappato in un editore particolarmente illuminato che ne ha fiutato le potenzialità e gli ha consigliato di crearsi un seguito via blog. 
Da qui sorge spontanea la domanda, che infatti mi ha più o meno fatto anche Hel. Se la strategia funziona e la conoscevo da tempo, perché non l'ho seguita?

Tutti questi esperimenti hanno una parola che li accomuna. Leggerezza. I blog sono piacevoli e ironici e danno vita a pubblicazioni leggere e ironiche, dal peso intellettuale della carta velina. Perché è questo che crea più condivisione e letture nei social.
Persino quando un blog ha una forte caratura intellettuale, come questo, l'aspetto che più facilmente giunge a pubblicazione è quello leggero e ironico. Perché è questo che cercano gli editori.
L'unica eccezione che conosca è proprio quella di Zerocalcare e del suo atipico editore (che, sarà un caso, vende fumetti di qualità come fossero caramelle, perché fa quello che non fa nessun altra casa editrice fa), che però vive uno scollamento sempre maggiore tra i lettori del suo blog e quelli delle sue opere. Mi spiego, nel blog continua a raccontare storielle ironiche e leggere sulla vita dei trentenni di oggi che hanno un sacco di condivisioni e poi nelle pubblicazioni cartacee ti piazza reportage da Kobane che, giustamente, spiazzano non poco alcuni dei suoi lettori abituali. Certo, almeno il 50% dei suoi lettori lo segue comunque e questo basta e renderlo il caso editoriale più interessante degli ultimi anni. Per qualche ragione, però, a meno di non avere alle spalle BAO (e non avere il talento di Zerocalcare, suppongo), se si vuole pubblicare bene a partire da un blog bisogna puntare su ironia e leggerezza.

Ci ho pensato, ci ho pensato seriamente per Seguendo la cometa. Fare un blog tematico e parlare con ironia e leggerezza di adozioni, solo di quello. E puntare alla buona pubblicazione. Ma un po' non avevo tempo e un po' non mi andava di fare strategia editoriale sulla mia storia di adozione.

Il mio problema, un po' in generale sta qui. So quali sono le strategie editoriali che pagano, ma non le applico.
In generale gli editori cercano testi che vadano verso target di lettori molto ben definiti e già individuati e molta disponibilità nel promuoversi. Se proponi qualcosa che viene identificato come letteratura di genere, viene richiesto, spesso, qualcosa di non impegnativo a livello intellettuale.
Posso scrivere questo genere di cose? Penso di sì.
Lo voglio? Non lo so, ma penso di no.

Più la vita prosegue, e più il mio tempo per scrivere diminuisce e più si impone una scelta. Seguire una strategia editoriale precisa e scrivere qualcosa su misura rispetto alle richieste o seguire le miei idee con la consapevolezza e che ogni pubblicazione è una grande scommessa.
Tutto sommato sono propensa alla seconda strada.
So cosa voglio scrivere? Sì, penso di sì.
Letteratura di genere che non rinunci alla riflessione che spesso ha una nota piuttosto forte di malinconia. I miei protagonisti sono antieroi ostinati che vanno avanti consapevoli di essere destinati alla sconfitta.
Molto spesso in fase di valutazione le mie idee non convincono. Non per stile, ideazione, impianto narrativo, ma per target di riferimento. Due personaggi diversi, sottoposto a due pareri diversi, sono stati cassati in quanto "sembrano dei perdenti". L'antieroe, va bene, a quanto pare, se ha tratti quasi da super eroe. Se è uomo deve essere fascinosissimo e far innamorare tutte le le lettrici e avere i tratti "del vero maschio", quali che siano.
Eppure... Eppure... Sono lontana ere geologiche dal grande balzo editoriale e devo mettere in conto che probabilmente non avverrà mai. Eppure... Qualche coraggioso lo trovo per pubblicare qualcosa e, più ciò che scrivo è atipico rispetto al genere di riferimento e più ricevo apprezzamenti. I numeri sono pochi, anche per essere la nicchia della nicchia.
Arrivata a questo punto della mia vita, con un lavoro che basta a nutrirmi e che, pur con tutte le sue grane infinite, mi piace, devo chiedermi voglio scrivere per pubblicare o voglio pubblicare quello che scrivo?
Voglio pubblicare quello che scrivo. Alle migliori condizioni possibili, senza fretta, seguendo la mia strada. Sapendo che non posso essere scelta per la mia strategia editoriale, per il mio target di riferimento (che secondo me c'è, anche ben definito, ma non sempre questa opinione è condivisa). Sapendo che posso perdere la scommessa e trovarmi alla fine del cammino con chili di opere nel cassetto e un numero di pubblicazioni che è, comunque, solo la punta di un iceberg.
Intanto sabato si va a Cattolica, a uno dei concorsi per racconti gialli più prestigiosi con un racconto estremamente atipico. Se avessi partecipato per vincere non avrei inviato quel racconto, il cui a farla da padrona è la malinconia, la protagonista di fatto è morta e il personaggio maschile più importante è piuttosto distante al "vero maschio" (un mite ometto di mezz'età, mite, pingue e senza neppure un acume da Sherlock Holmes). Essere arrivata in finale con questo racconto è già di per sé una vittoria. Chissà, magari a un certo punto mi stancherò e scriverò un giallo ironico con per protagonista una professoressa imbranata che trova il vero amore nel baldo e virile investigatore. Avrò cura di evitare qualsiasi tematica sociale, ma aggiungerò qualche bullo brutto e cattivo senza approfondimento psicologico e un ex violento e cattivo senza approfondimento per stare al passo con i tempi. Nel blog parlerò in modo ironico e leggero di scuola e avrò un sacco di like da altri professori, che saranno il mio target di riferimento. Non escludo di farlo, anzi. Me la gioco come un'ottima possibile idea È solo che al momento continua ad essere attratta da storie e personaggi più oscuri e la mia narrativa cammina in penombra. Il pieno sole ancora non mi interessa.
L'importante, credo, è essere consapevoli del proprio cammino. Nel mio, al momento, ogni pubblicazione a un che di miracoloso e va presa come tale.
Voi quale strada state percorrendo?

PS: PICCOLO GIOCO BOTANICO LETTERARIO. Il fiore che ho fotografato nel mio giardino appartiene a una pianta che ha la sua importanza (indizio, non tutta la pianta ha importanza) in un grande romanzo. Chi indovina di che pianta si tratta? (Manu, tu hai già indovinato!)

venerdì 16 giugno 2017

Il bacio della vedova, racconto giallo inedito - parte 5

Non è difficile intuire che in questi giorni sono un po' in affanno. Al contrario di quello che ancora molti credono, i prof dopo la fine delle lezioni lavorano eccome e se al rientro a casa, com'è giusto che sia, trovano una puppatola piena di energia e di voglia di giocare, il tempo per aggiornare il blog va un po' in fumo. Mi organizzerò. Per intanto portate pazienza.


Riassunto breve

Padre Marco, parroco e docente di religione in un liceo, è a Parigi come accompagnatore di alcune classi in gita. In un mattino di pioggia lui e gli altri colleghi si rendono conto che uno degli alunni, Livio Massenzio, è scomparso.
Parlando con i compagni di classe dello scomparso, si scopre che Livio aveva dato appuntamento a un ragazzo di un'altra scuola, anche lui in gita a Parigi. Questi, Massimo, di madrelingua francese, aveva organizzato per lui e l'amico l'incontro con una escort, Amelie. Massimo, tuttavia, è tornato da solo al proprio albergo dopo aver lasciato Livio ancora in compagnia di Amelie.
Padre Marco, in compagnia della collega Anita, si reca quindi nel quartiere di Pigalle alla ricerca di Amelie, sperando che lo scomparso si trovi ancora presso di lei. Scoprono, però, che il ragazzo ha lasciato l'appartamento della giovane prima dell'alba. Quando stanno per perdere le speranze, padre Marco riceve una telefonata: Massenzio è stato fermato poco dopo aver ricevuto un ingente quantitativo di droga da uno spacciatore e si trova in commissariato.

PARTE QUINTA

Livio Massenzio era senza dubbio una perfetta vittima sacrificale.
 Quando la polizia era piombata su di lui, appena dopo che il ragazzo si era trovato in mano il pacchetto passatogli dallo spacciatore, non aveva neppure provato a scappare. Si era accasciato sul marciapiede, guardando con occhi persi, ancora rivolto alle esperienze della notte, mentre i due agenti gli gridavano  contro in una lingua sconosciuta.
 Si era fatto portare in commissariato inerte come un pacco e i poliziotti si erano fatti l’idea che tenerlo in fermo per qualche ora gli avrebbe schiarito lingua e idee. Del resto tutta l’operazione era scattata in seguito ai controlli e alle intercettazioni fatte sullo spacciatore parigino che si era accordato per consegnare la droga, già pagata in precedenza, a qualcuno che si era messo in contatto con lui su internet in perfetto francese.
 All’alba, Livio non aveva recuperato la parola. Non aveva documenti ed era riuscito a stento a biascicare il suo nome, il cui suono non abituale aveva aperto tutta una serie di interrogativi nei poliziotti circa la sua nazionalità. Ci avevano messo ore, tra le ondate di panico del ragazzo che via via iniziava a rendersi conto del guaio in cui si era cacciato, per farsi un’idea di chi avessero preso e chi fossero le persone da chiamare. Infine il commissario che seguiva il caso era riuscito a farsi dire il nome della scuola di Livio e aveva telefonato al preside, che gli aveva dato il numero del cellulare di padre Marco.
 E adesso padre Marco si trovava lì, seduto davanti al tavolo verde dell’ufficio del commissario G. Fulgence, a cercare di capire come riportare a casa il suo figliol prodigo.
 Non sarebbe stato facile.
 Livio Massenzio non rischiava di andare a baciare la vedova, come il protagonista del suo libro, ma era pur sempre stato arrestato in fragranza di reato con una dose industriale di cannabis addosso e qualche non trascurabile grammo di cocaina. Inoltre, come aveva predetto Sandrine, i poliziotti non avevano simpatia per gli italiani né, comprese Marco, per i preti.
 – Andiamo, – stava dicendo Marco, riesumando il suo miglior francese – il ragazzo è capitato lì per caso. Non parla francese, non è stato lui a contattare il vostro spacciatore e poi è minorenne.
 – Il fatto che non sia stato lui a contattare lo spacciatore non vuol dire che non fosse il destinatario originale della merce. Per mettersi d’accordo si sarà fatto aiutare da qualcuno che parlava e scriveva francese.
 – Conosco Livio da quattro anni e le posso assicurare che non è assolutamente quel genere di ragazzo – si intromise Anita infervorata.
 Marco si concesse un sorriso amaro. Cercò di immaginarsi il Livio che conosceva, tollerato dai compagni per la sua assoluta incapacità di nuocere e il suo istintivo calarsi nella parte del gregario, come il capobanda in una gang. La visione più improbabile del mondo. Del resto era consapevole anche che le loro parole non avevano alcun valore per il commissario G. Fulgence, che infatti ribatté:
 – Perdonatemi, signora, ma lei vede il ragazzo solo quanto? Due, tre ore alla settimana? Non può certo essere sicura di conoscerlo. E un prete, naturalmente, deve sempre avere l’idea migliore possibile dei suoi ragazzi…
 Marco scosse il capo. Non ne sarebbero usciti.
 Massimo Di Cataldo, ovviamente, aveva organizzato tutto. Veniva spesso a Parigi con la madre francese, aveva avuto modo di conoscere lo spacciatore e pagarlo. Ma era troppo accorto per tornare a casa con quella quantità di roba addosso, anche considerato che aveva già compiuto i diciotto anni. Molto meglio far correre i rischi a Livio. Dopo avergli organizzato e pagato una notte di passione, gli aveva solo chiesto di recuperare per lui un pacchetto che un amico francese gli avrebbe dato e portarglielo una volta rientrati in Italia. Probabilmente Livio non aveva trovato nulla di sospetto in tutto ciò, o magari aveva anche capito tutto, ma che cos’era quel piccolo favore contro una notte con Sandrine? 
 Marco soppesò l’idea di regalare Massimo a Fulgence, sacrificandolo davvero come bue grasso per riavere il figliol prodigo. Aveva lui in tasca l’iphone di Massimo, sicuramente poteva trovarci dentro una traccia dell’ultimo accordo preso con lo spacciatore, magari con l’indicazione proprio del luogo in cui avrebbe trovato Livio, poco fuori la casa di Sandrine, e la descrizione di quest’ultimo. In effetti sarebbe stata giustizia. Sotto ogni punto di vista, Massimo si meritava, se non di incontrare la vedova, almeno di conoscere a fondo e per esperienza diretta la giustizia francese. E tuttavia Marco sapeva che il desiderio di incriminare Massimo aveva poco a che fare con suo senso di giustizia e molto con il fatto di essere stato chiamato “frocio represso”. E non credeva davvero che il carcere gli avrebbe giovato.
 – Possiamo almeno vederlo? – stava intanto chiedendo Anita. – Tra poco dovremo avvisare i genitori, voglio poter dire loro che il ragazzo sta bene.
 – Sì, questo è possibile – rispose il commissario. – La accompagno da lui.
–- Io intanto farò una telefonata – disse Marco, con tono casuale.
 – A chi? – chiese Anita, in italiano.
 – Al vescovo – rispose Marco, in francese. – La famiglia Massenzio sta finanziando i restauri della cupola di San Gaudenzio, a Novara. Sicuramente il vescovo vorrà essere informato di questi problemi. Si sentirà in dovere di fare qualcosa, credo, come capire perché un ragazzino minorenne sia stato tenuto per tante ore senza avvisare la sua famiglia e non sia stato interrogato con la presenza di un interprete. Sono sicuro che se avesse potuto parlare nella sua lingua, avrebbe fornito una versione dei fatti molto chiara e sarebbe stato palese a tutti come sia stato scambiato dallo spacciatore per qualcun altro. Del resto è ovvio che non si erano mai visti. Credo che questi particolari interesseranno molto all’avvocato che la curia parigina troverà al ragazzo e alla stampa.
 Marco concluse il suo discorso con il più mite dei sorrisi.
 Appena possibile, avrebbe dovuto farsi confessare.
 Pensò al vescovo che ancora lo trattava come se fosse un pulcino a cui insegnare come becchettare, tanto era sicuro che un prete che era sempre vissuto tra seminari e università non avrebbe saputo destreggiarsi nel mondo. Si chiese vagamente se la famiglia Massenzio fosse almeno un poco religiosa.
 Però, e questa era l’unica cosa importante, il commissario era impallidito.

 Era un francese postrivoluzionario e anticlericale, per fortuna, e quindi disposto a credere a tutte le sciocchezze sull’influenza della chiesa e i poteri occulti della curia.


Continua e finisce il prossimo fine settimana.

lunedì 12 giugno 2017

Piovono libri – Cristo si è fermato ad Eboli

Nella foto, una parte delle donne del gruppo di lettura, compresa la più piccola. La pupattola questa volta ha partecipato attivamente, del resto il libro le è piaciuto al punto che ha tentato di divorarlo.

Il libro che è tanto piaciuto  (non solo) alla pupattola è Cristo si è fermato ad Eboli

Ci sono libri che la mia generazione ha quasi dimenticato. Pietre miliari delle letture dei nostri genitori che noi, a meno di non aver incontrato un’insegnante di lettere particolarmente retrò, abbiamo saltato a piè pari. Molto spesso stanno a prendere polvere nelle librerie delle case, in vecchie edizioni dalla carta ormai ingiallita. Se ci cade lo sguardo li superiamo con una sorta di involontario disprezzo, noi che abbiamo letto tutti gli americani, i grandi russi e i sud americani. Che cosa mai potranno dirci questi libri provinciali di una generazione precedente?
Non è la prima volta che grazie al gruppo di lettura i miei pregiudizi si sgretolano contro l’inaspettata bellezza di questi libri eppure mi sono avvicinata con diffidenza a Cristo si è fermato a Eboli, temendo una supposta retorica e un’ipotetica pesantezza.
Oltre tutto le circostanze non sembravano giocare a favore del libro. Ormai la maggior parte dei testi li ordino, per lo più in cartaceo e se possibile usati, per i motivi affettivi che ho raccontato qui. Di solito Amazon o chi per esso (che io continuo a immaginare come la versione moderna e femminile di Ermes, una divina messaggera dai piedi alati che conduce con rapidi droni a destinazione i nostri acquisti) ha sempre fatto il suo lavoro in tempi ragionevoli. Questa volta, invece, il libro si deve essere fermato ad Ebola per far compagnia a Cristo che solo a lettura ultimata me l'ha re inviato. Mi è stato recapitato dieci giorni prima della data della riunione e quando l'ho aperto e ho visto che le pagine erano fitte fitte, senza un dialogo o una spaziatura a interrompere la prosa ho pensato che non l'avrei mai finito.
Tre pagine dopo avevo già cambiato idea.

La straniante impressione iniziale è stata quella di avere tra le mano un romanzo di fantascienza, perché di una certa fantascienza ricalca accidentalmente l’impianto.
Quello che tutti più o meno sanno del libro è che è il racconto del periodo passato dall'autore al confino in uno sperduto paese della Lucania, ma Carlo Levi non spreca una parola per spiegare i motivi che lo hanno condotto come confinato a Galiano-Aliano. C’è forse un accenno di una riga a un’esperienza carceraria e i motivi del suo antifascismo dovremo cercarli più avanti nelle sue azioni, piuttosto che nell’esplicitazione del suo pensiero. L’impressione, quindi, è quasi quella di un naufrago galattico caduto in un mondo sperduto al quale egli deve, suo malgrado, adattarsi. Ma il mondo sperduto, ignoto ed esotico ai miei occhi di lettrice del 2017, è quello delle nostre origini. Di un’Italia marginale e marginalizzata assai poco raccontata oggi come allora ma da cui, quasi tutti, in un modo o nell’altro proveniamo. Poco importa che sia la Lucania. In questo mondo dove la magia si affaccia prepotente, perché dà ancora più affidamento della scienza, popolato di vecchi, vedove che non sono tali, poiché i mariti probabilmente sono in America e figli di nessuno ho riconosciuto l’eco dei ricordi di mio nonno, veneto, ascoltati da bambina e mai veramente compresi. Quale fosse davvero il peso della disperazione che portava chiunque potesse a cercare con ogni mezzo fortuna altrove, lasciando figli che non si sarebbero visti se non adulti e mogli che quasi certamente avrebbero trovato consolazione in altre braccia, l’ho percepita nella descrizione di Matera. Quella attraverso i Sassi è, nel racconto riportato della sorella di Carlo, una discesa infernale in un mondo che ho intravisto, forse, solo in certi documentari sulle favelas o su Calcutta, con i bambini ammassati in strada, ricoperti di mosche, che chiedono con voci stentate medicine e non soldi. Un’umanità piegata da malattie talmente dimenticate che il lettore di oggi deve ricorrere a ricerca in rete per raccapezzarcisi.
Nel terrore al pensiero della morte di una scrofa, ho ricordato un discorso di mio nonno, sentito chissà quando nella mia infanzia, in cui si vantava di essere il primo della sua famiglia per cui la morte della mucca era una tragedia sopportabile. Per suo padre, suo zio e chiunque altro della generazione precedente era preferibile piuttosto quella di un figlio.
Sarà banale e buonista la domanda che mi è venuta spontanea: con che diritto noi che per generazioni siamo emigrati fuggendo a queste condizioni adesso vorremmo negare una fuga analoga ad altre persone?
Su tutto, poi, grava il peso di uno stato non peggiore in quanto fascista, ma  incomprensibile, che si palesa solo sotto forma di richieste. Tasse, anche sulla miseria, come la tassa sulle capre e vite nella forma di soldati da mandare in guerra. Guerre, tasse e malattie sono disgrazie di uguale natura, vengono dall’alto e non c’è altra possibilità che cercare di evitarle. Ci si sottrae allo stato come si cerca di evitare la malaria. E i briganti, che quando scrive Levi gli anziani ancora ricordano, diventano delle figure mitiche, non tanto per le motivazioni che li hanno spinti, ma per il solo per aver agito. Hanno lo stesso rispetto che si porta per qualcuno che ha strenuamente lottato contro la malattia.
C’è in questa attitudine a considerare lo stato e l’autorità in senso lato come qualcosa da cui non può che provenire del male e quindi a cui sottrarsi con ogni mezzo, molto del disagio di un’Italia di oggi. Proprio come ogni altra identità statale precedente, forse fino all’epoca dei romani, anche l’Italia del dopoguerra non ha saputo o voluto ascoltare le necessità delle tante Aliano di cui è disseminata perpetuando un’atavica sfiducia nell’autorità, troppo spesso più che giustificata, che è ormai endemica.
A decenni di distanza, non resta che constatare come questo nuovo stato costruito sul cittadino inteso come rete di rapporti, ipotizzato da Carlo Levi nelle ultime pagine del romanzo non si è mai voluto realizzarlo. 

Quello che ho più amato del romanzo, ammesso che romanzo possa definirsi, però, è più taciuto che esplicitato ed è lo sforzo di comprensione di Carlo Levi. Immagino quanto distante dovesse essere un artista e intellettuale piemontese, abituato a frequentare un certo mondo, dai contadini impregnati di magia di Aliano. Eppure non si limita a descrivere un mondo tanto diverso dal suo. Via via che le pagine proseguono alla distanza e alla sconforto per essere finito in un luogo simile si sostituisce la comprensione di quel mondo. Lo sguardo di Carlo Levi è quasi sempre assai poco giudicante o paternalistico. E alla fine, proprio come lui, non possiamo non affezionarci ad Galiano e alla sua gente. Questo approccio non giudicante nei confronti dell'altro, l'accettare di mescolarcisi, di sporcarsi le mani è alla base di ogni incontro di culture.
Sono sempre banale buonista, ma viviamo in un mondo in cui la paura ci spinge a trattare sempre più l'altro come un alieno incomprensibile, se va bene inferiore o stupido, se va male non del tutto umano e l'unico modo per cercare di buttare un ponte verso l'altro rimane questo. Accettare di mescolarci, sporcarci e cercare di comprendere prima di giudicare.

venerdì 9 giugno 2017

Il bacio della vedova, racconto giallo inedito – parte 4

Promemoria per scrittori
Se partecipate a un concorso letterario, non dimenticate di averlo fatto.
Se partecipate a un concorso letterario controllate data e luogo di premiazione e assicuratevi di poterci andare.
Perché poi trovarsi con una pupattola a chiedersi come raggiungere la premiazione è un po' spiazzante...
Detto questo, SONO IN FINALE AL GRAN GIALLO CITTÀ DI CATTOLICA! EVVIVA!

Parte prima
Parte seconda
Parte terza

Riassunto breve
Padre Marco, parroco e docente di religione in un liceo, è a Parigi come accompagnatore di alcune classi in gita. In un mattino di pioggia lui e gli altri colleghi si rendono conto che uno degli alunni, Livio Massenzio, è scomparso.
Parlando con i compagni di classe dello scomparso, si scopre che Livio aveva dato appuntamento a un ragazzo di un'altra scuola, anche lui in gita a Parigi. Questi, Massimo, di madrelingua francese, aveva organizzato per lui e l'amico l'incontro con una escort, Amelie. Massimo, tuttavia, è tornato da solo al proprio albergo dopo aver lasciato Livio ancora in compagnia di Amelie.
Padre Marco, in compagnia della collega Anita, si reca quindi nel quartiere di Pigalle alla ricerca di Amelie, sperando che lo scomparso si trovi ancora presso di lei.

IL BACIO DELLA VEDOVA – PARTE QUARTA

Marco non era mai stato nell’appartamento di una prostituta. Si accorse di avere in testa un’idea piuttosto stereotipata di come dovesse essere la casa di una donna di quel genere a Pigalle.
 Amelie aveva aperto loro la porta in vestaglia e li aveva lasciati ad attendere in un salottino di buon gusto con gli scaffali pieni di libri. Per la maggior parte erano testi universitari. La ragazza doveva studiare lingue e aperta sul tavolino c’era una copia della Divina Commedia piena di sottolineature. Lì accanto, un peluche a forma di pecorella. Alle pareti, fotografie di paesaggi. Marco si chiese quanto cambiasse quella stanza in “orario serale”.
 Una porta si aprì e apparve Amelie. Doveva essere stata in dubbio sul motivo della visita. Il suo abbigliamento, valutò il prete, era una prudente via di mezzo che le avrebbe permesso di interpretare qualsiasi ruolo la situazione avesse richiesto. Jeans attillati ma non scandalosi e una camicetta rossa tutta traforata dalla quale si intravedeva il reggiseno nero.
 – È per una predica o per un appuntamento? – chiese.
 – Nessuna delle due cose – disse Marco e le spiegò il problema.
 Prima che il prete finisse di parlare, Amelie era tornata in cucina e ne era uscita di nuovo portando caffè per tutti.
 – Da quando ho fatto l’Erasmus a Bologna, riesco a bere solo l’espresso – disse, servendoli.
 – Dunque lei è principalmente una studentessa – commentò Anita, troppo sopraffatta dalla situazione per uscirne con qualcosa di diverso.
 – Ultimo anno, preparo una tesi su Dante… E mi pago gli studi… Ieri notte i vostri studenti mi hanno fatto faticare – si concesse un sorriso ambiguo nel visetto da ragazzina.
 – Peccato che uno solo sia tornato all’ovile.
 Amelie, che in realtà, avevano scoperto, si chiamava Sandrine, si strinse nelle spalle.
 – Da qua è uscito che stava bene. Erano passate le cinque. Per Livio era la prima volta e voi sapete... – guardò di sottecchi il collare di padre Marco – Ecco, nessuno è spigliato la prima volta che fa qualcosa, quale che sia. E raramente viene bene. Così gli ho offerto un secondo giro, se così si può dire. Era vivo e vegeto e decisamente euforico quando è uscito da qui.
 – Ha qualche idea sul perché non sia tornato in hotel?
 – Lui era euforico. Io ero esausta e con la prospettiva di dovermi alzare al più presto a tradurre il X canto dell’Inferno. Mi sono buttata sotto la doccia e poi a dormire.
 – E adesso? – chiese Anita.
 Marco scosse il capo.
 Fino a quel momento aveva sperato che avrebbero trovato Livio sano e salvo. Aveva pregato che la ragazza gli avesse offerto di dormire lì o che, vedendolo esausto, lo avesse indirizzato verso una bettola a poco prezzo. Invece Livio, che già di buon senso ne aveva poco in circostanze normali, euforico dopo la sua prima esperienza di sesso, si era inoltrato da solo per Pigalle. Chissà se almeno aveva acceso anche lui il navigatore? E chissà quali spettacoli poteva offrire Pigalle all’alba, con i locali che chiudevano e gli ultimi ubriachi per le strade pieni di rancore verso il mondo.
 – Adesso, davvero, chiamiamo la polizia, se Sandrine ci aiuta con numero di telefono – disse, sospirando.
 In quel momento il cellulare del prete squillò

 – È dentro per spaccio di droga nel commissariato di zona – riassunse Marco, al termine della telefonata.
 – Cosa? – chiesero all’unisono Anita e Sandrine.
 – Lo hanno preso mentre uno spacciatore locale gli passava un pacchetto con cocaina e erba a pochi metri da qui.
 – Non lo possono tenere dentro per una dose per uso personale – protestò Anita.
 – Per uso personale quella roba gli sarebbe bastata per un anno o due, a quanto pare – disse Marco.
 – Non mi sembrava un drogato – commentò Sandrine, meditabonda.
 – Si faceva qualche canna. Qualche volta l’ho intravisto anche nel parcheggio della scuola, ma nulla di più – mormorò Anita, sotto choc. 
 – Livio non parla una parola di francese. Io mi sono fatto una certa idea su come siano andate le cose.
 – Sì, va bene, ma adesso cosa facciamo? – chiese la professoressa.
 – Andiamo dalla polizia e ce lo facciamo ridare in dietro – replicò Marco.
 – Lo faranno? – si intromise Sandrine. – È un’incriminazione grave e qua, in generale, non si ha molta simpatia per gli italiani.
 – Non sei tu, Marco, ad aver detto che negli anni ’40 usavano ancora la ghigliottina? – Anita sembrava sul punto di cedere al panico.
 – Sì, ma adesso non lo fanno più. – provò a calmarla il prete.

 – Non è comunque un buon biglietto da visita.

martedì 6 giugno 2017

Seguendo la cometa 24 – Paperopoli Italia


Non so se è un problema solo mio, ma sento sempre di più la distanza tra i discorsi astratti dei legislatori o comunque delle discussioni basate sui principi e i problemi reali con cui chi c'è dentro (quale che sia il contesto) deve confrontarsi ogni giorno. Paperino in questo senso è proprio un caso tipico italiano. Nessuno gli darebbe mai un bimbo in adozione perché non è sposato e non ha un reddito fisso, ma tre in affido subito, semplicemente perché pochissimi sono disposti a prendersi bambini in affido.
Parlare del problema degli affidi in Italia esula dalle mie competenze, ma personalmente non posso che fare di cuore un applauso enorme al coraggio e all'amore di chi decide di intraprendere una strada che che già è difficile di suo e in Italia a volte sembra ancora più difficile.
Semplificando all'osso, molti minori in Italia non sono adottabili, ma non possono più stare con la propria famiglia per una quantità di motivi. Per le adozioni c'è tutto un iter valutativo che se va bene dura un anno e tutta una serie di requisiti. Pochissimi voglio invece prendere dei minori in affido e anche per questo i requisiti sono diversi (non c'è l'obbligo del matrimonio, giusto per citare il più macroscopico e fonte di molte polemiche) e poi molto spesso gli affidi si fanno in emergenza (giuro, ho visto anche un annuncio su un giornale locale per cercare genitori affidatari).
In teoria l'affido dovrebbe durare poco, ma siamo in Italia e invece spesso dura anni. Se poi il minore viene dichiarato adottabile succede che spesso gli affidatari non hanno i requisiti per l'adottabilità e quindi viene spostato in un'altra famiglia, cosa anche fisiologica se il periodo di affido e breve, ma come la mettiamo se è durato più di due anni? Quindi con la nuova legge (sul cui cammino parlamentare a un certo punto mi sono persa) si voleva favorire il passaggio dall'affido all'adozione, sia per creare meno traumi al minore, sia per invogliare chi vuole adottare a dare anche la disponibilità per l'affido. Come principio non mi sento di essere in disaccordo. 
La prassi italiana ha fatto sì, però, che si siano innestati sulla discussione principale altre questioni con una serie di articoli dai toni forti che dubito abbiano fatto bene a qualcuno. 
Questa vignetta, quindi vuole raccontare la distanza tra la prassi e i le discussioni sui principi su un tema così importante.
E segnalare la mia stima ai tanti "zii paperini" d'Italia che fanno tutto quello che farebbe un papà senza poterlo essere al 100%.

domenica 4 giugno 2017

Il bacio della vedova – racconto inedito a puntate, parte 3

Parte prima

Parte seconda

Riassunto breve 

Padre Marco, parroco e docente di religione in un liceo, è a Parigi come accompagnatore di alcune classi in gita. In un mattino di pioggia lui e gli altri colleghi si rendono conto che uno degli alunni, Livio Massenzio, è scomparso.
Parlando con i compagni di classe dello scomparso, si scopre che Livio aveva dato appuntamento a un ragazzo di un'altra scuola, anche lui in gita a Parigi. Questi, Massimo, di madrelingua francese, aveva organizzato per lui e l'amico l'incontro con una escort, Amelie. Massimo, tuttavia, è tornato da solo al proprio albergo dopo aver lasciato Livio ancora in compagnia di Amelie.

PARTE TERZA

E così erano finiti a Pigalle, sperando che Amelie li conducesse da Livio.

 Pioveva e, alle dieci e mezza del mattino, il quartiere si adagiava nel sonno sgualcito delle cortigiane. C’erano poche luci accese e ancor meno bar aperti. I pochi negozi che avevano orario mattutino non vendevano esattamente generi alimentari.
 Clara era rimasta a piantonare Massimo e padre Marco provava un certo disagio a passeggiare con una donna al fianco così vicina a lui, dato che dividevano lo stesso ombrello, tra un vetrina che esponeva corsetti e manette e un’insegna a forma di fallo.
 – È colpa mia – disse Anita. – Tutto quello che inizio finisce male.
 – Nessuno può prendersi la colpa di questa colossale idiozia, eccetto Livio e Massimo.
 – Allora è una maledizione. O un destino. Quando faccio qualcosa, per quanta cura ci metta, va sempre tutto male. Come col mio matrimonio. Sai quanto ci ho messo per organizzare questa gita? Tre mesi. Ho scelto i giorni e le attività per usufruire di tutte le agevolazioni e le tariffe ridotte. Doveva essere tutto perfetto…
 – Io credo nel libero arbitrio, non nel destino.
 – Libero arbitrio un corno. L’ho scelto io che mio marito mi cornificasse? Oppure il resto? Appena ho conosciuto un altro mia madre è caduta dalle scale rompendosi tutte e due le gambe. Lei è venuta a vivere con me e il mio fidanzato non si è più fatto vedere. O questo? L’ho scelto io?
 – Alcune cose capitano e basta. Altre sono frutto di decisioni, che magari non sono le nostre.
 – E dunque starei scontando colpe commesse da altri a mia insaputa? Questo dovrebbe confortarmi?
 – No. Dovrebbe spingerci a considerare bene le nostre scelte, pensando anche gli effetti che possono avere sugli altri… E quello cosa dovrebbe essere?
 Non aveva voluto parlare ad alta voce. Era del tutto impossibile camminare per quel quartiere controllando i numeri civici e ignorare i prodotti che erano esposti nelle vetrine. Fino a quel momento Marco vi aveva lanciato sguardi distratti e solo vagamente infastiditi. E tuttavia era ancora più irritante non riconoscere il tipo di oggetto che stava guardando. La parte di studioso che era in lui si ribellava a quella possibilità.
 Anita, presa nella sua spirale di autocommiserazione, avrebbe potuto attraversare tutta Sodoma senza notare alcunché di strano. Si chinò verso la vetrina per osservare meglio la paperetta di plastica viola dal collare di pelo.
 – Un vibratore – sentenziò infine. Poi, vedendo ancora la perplessità sul viso del prete, provò ad aggiungere – Sai, un vibratore serve...
 – So che cos’è un vibratore – la interruppe Marco. – Mi chiedevo solo come… Be’, lasciamo perdere. La ragazza dovrebbe abitare nel prossimo stabile.
 E proseguì.
 – Certo che sei uno strano tipo di prete. 
 Un prete curioso. Si disse Marco. Dannatamente, era il termine giusto, curioso. Chissà quanto ci avrebbe messo, adesso, a togliersi di mente quegli interrogativi squisitamente tecnici sulla paperetta. Chissà come doveva essere usata per non rovinare il collare di pelo? Di sicuro il vescovo non avrebbe approvato quei pensieri. E neppure Qualcuno di assai più in alto. Si costrinse a controllare l’indirizzo.
 – Ci siamo.
 Il numero civico coincideva con il punto di partenza inserito da Massimo sul navigatore e tra i nomi dei campanelli spiccava una “Amelie, estetista e servizi alla persona”, come tradusse Anita. Suonarono. 
 Qualche minuto e si aprì una finestra.
 Senza trucco, con i capelli un poco spettinati tirati in dietro da un cerchietto, Amelie sembrava una ragazza come tante. Più graziosa, secondo Marco, della femme fatale delle foto su internet.
 – Oui? – chiese
 – Bonjour, nous sommes… – iniziò Marco nel suo francese dal suono incerto.
 – Italiens? – chiese Amelie.
 – Oui.
 – Studio italiano – rispose lei, con inflessione impeccabile. – Cosa volete? Sul sito è chiaro “solo orario serale. Prenotazioni via telefono.”
 – È più complicato.
 Solo allora la ragazza sembrò accorgersi del colletto che portava Marco e della piccola spilla sulla maglia.
 – Un prete e una donna. Ci credo che è complicato. Vi faccio salire.