mercoledì 29 gennaio 2020

Due considerazioni sul giorno della memoria

Il saluto dei miei alunni a Liliana Segre


Scrivevo domenica che a proposito dell'incontro con Liliana Segre non ero riuscita a trovare le parole. Sto diventando lenta. O forse ho semplicemente bisogno di pensare, riflettere sulle cose, sviluppare un ragionamento prima di condensarlo in parole. Che cosa desueta, nell'epoca dei social!

Ho avuto il privilegio, insieme ai miei alunni, di ascoltare la testimonianza di Liliana Segre, quasi due ore di lucidissima ricostruzione di quella che è stata la sua vita tra il 1938 e il 1945, pochi giorni prima della Giornata della Memoria. 
Come ogni anni, poi, il 27 gennaio ho letto articoli, guardato post sui social, sentito interventi, e molte di queste cose mi hanno profondamente infastidito. Per questo mi sento di condividere alcune riflessioni.

La specificità dello sterminio nazifascista
Ho letto post che sostanzialmente dicevano che il 27 gennaio dovrebbero essere ricordare le vittime di tutti i genocidi, perché non ci sono vittime più vittime di altre. Alcuni, senza tanti giri di parole, dicevano che si mette troppa enfasi sulle vittime ebree, che sì, sono pur state la maggior parte delle vittime nei campi di concentramento, ma poi anche gli ebrei... Il post più inquietante che ho trovato, più inquietante perché condiviso di certo in buona fede, diceva di ricordare tutti i genocidi della storia, compreso quello dei nativi americani e quello dei catari (1220 circa, giusto per dare i riferimenti temporali).
Ora, con tutto il rispetto per tutte le vittime, catari inclusi, fino a prova contraria il 27 gennaio è stato scelto in quanto è la data in cui l'Armata Rossa ha raggiunto il campo di stermino di Auschwitz. Quindi è la giornata dedicata alla memoria delle vittime del nazifascismo, non in generale alle vittime di stermino (ripeto, con tutto il rispetto). E le vittime del nazifascismo sono state appartenenti a categorie ben precise, sono state uccise perché appartenenti a categorie ben precise: disabili, ebrei, testimoni di Geova, rom, omosessuali, dissidenti politici. Forse non abbiamo numeri precisi per le uccisioni dei disabili (meno centralizzate e meno documentate), ma per quanto riguarda le altre categorie, gli ebrei sono le vittime più rappresentate. Quindi è normale e inevitabile che tra i testimoni di quegli orrori gli ebrei siano la maggioranza e che le persone di fede ebraica si sentano coinvolte. Questo non vuol dire fare un'equivalenza ebreo/vittima, in ogni tempo e in ogni luogo, ma rispettare il fatto che molte di quelle particolari vittime lo sono diventate in quanto ebree. Al ricordo di queste va senza se e senza ma affiancato quello della altre vittime del nazifascimo, testimoni di Geova, Rom/Sinti, omosessuali, disabili e dissidenti politici. Proprio come gli ebrei sono diventati vittime in quanto appartenenti a questi gruppi.
Mettere insieme tutte le vittime di ogni sterminio di fatto allontana la questione, la rende meno urgente e attuale. Rende in nazifascismo un orrore come un altro, che ci tocca si ma anche no, lontano e sfocato come sono per noi i crociati medievali. Invece non deve apparirci né lontano né sfocato.

Lo stermino nazifascista ha una specificità in fatto di vittime e carnefici. 
Abbiamo una parte della società che ha deciso che altre parte di quella stessa società (ricordiamolo, ebrei, disabili, testimoni di Geova, omosessuali non erano comunità a parte, erano membri della società tedesca, italiana e dei territori poi occupati dal nazismo che si sentivano in primis tedeschi, italiani etc.) andassero eliminate. Non isolate o segregate, ma eliminate. Nessuna abiura era possibile e l'eliminazione era parte del programma. 
Il padre di Liliana Segre l'aveva fatta battezzare, sperando così di scamparle le leggi razziali. È finita ad Auschwitz lo stesso.

Lo sterminio nazifascista ha una specificità temporale
Non stiamo parlando di barbari tempi remoti, in cui vigevano categorie di pensiero differenti. Stiamo parlando dei nostri nonni. Ripetiamocelo. I nostri nonni sono stati vittime o carnefici. O silenziosi complici. Dimentichiamoci il fatto che non sapevano.
Un piccolo anedotto personale.
Prima dell'istituzione della giornata della memoria, nel 1998, ho partecipato con alcuni compagni di scuola (facevo il liceo) a un concorso sulla seconda guerra mondiale. Abbiamo deciso di approfondire una delle tematiche proposte "cinema e resistenza". Guardando il film Il generale Della Rovere ci siamo accorti che in una scena il protagonista viene imprigionato in una cella in cui altri partigiani hanno lasciato delle scritte sui muri. Ingrandendo l'immagine abbiamo letto che una delle scritte riportava "dite ai miei genitori a Borgomanero che sono morto per la libertà". Io abitavo a Borgomanero, i miei compagni poco distanti. A quel punto siamo partiti a tappeto a intervistare gli anziani che avevamo sotto mano per capire come mai proprio Borgomanero fosse citata. Non lo abbiamo scoperto. Ma abbiamo raccolto moltissime testimonianze, nel 1998 era molto più facile trovare dei testimoni, e abbiamo appurato che a Borgomanero, provincia di Novara, c'era una piccola comunità ebraica che è sparita da un giorno all'altro. E tutti lo sapevano. Mia nonna e le sue amiche ricordavano una bambina ebree che a un centro punto non è più venuta a scuola. Ricordavano di essere state invitate a non fare domande. Ricordavano che era opinione comune che le famiglie ebree fossero state uccise. 
I nostri nonni, quei meravigliosi nonni che ci facevano le torte, che tanta parte hanno avuto nella nostra infanzia sono stati testimoni di uno sterminio. La maggior parte di loro non ha fatto nulla. Con tutto il rispetto per tutti gli altri genocidi, questo ci riguarda un bel po' da vicino. Non riguarda solo le vittime. Per dirla con un verso di De André anche se vi credete assolti, siete tutti coinvolti.

L'Italia non è stata neutra nei confronti delle leggi razziali.
La narrazione secondo cui l'Italia sì, era fascista, ma insomma, i razzisti erano i tedeschi, è autoassolutoria e, ahimé, fasulla. Le leggi razziali ci sono anche in Italia. Dal 1938 abbiamo una segregazione di una parte della società.
Come ha ricordato Liliana Segre, ad Auschwitz i suoi carnefici erano tedeschi. Ma chi l'ha imprigionata e caricata sul treno per la Polonia era italiano. 
Ci piace ricordare le vittime italiane. Ci piace ricordare gli italiani che, anche a costo della vita, hanno tentato di salvare persone dallo sterminio.  E questo è sacrosanto. Sarebbe il caso di ricordare che tanti italiani hanno applaudito Hitler, hanno sostenuto con convinzione le leggi razziali, hanno appeso sulle vetrine dei loro negozi le scritte "questo è un negozio ariano" "vietato l'ingresso agli ebrei", hanno intimato ad altri di non fare domande quando i propri vicini di casa sono stati fatti sparire.

Il pericoloso alibi della follia
Erano tutti pazzi? Tutti? Da Hitler all'ultimo funzionario che instradava i detenuti verso i treni piombati? La follia ci assolve. Se erano pazzi erano malati, se erano malati e noi siamo sani questa cosa non ci riguarda. Povere vittime, povere tutte e passiamo oltre.
Ma erano i nostri nonni. Se non loro i loro vicini di casa, i loro conoscenti. Gente che abbiamo conosciuto, erano normali. Persone come noi. Non hanno vissuto tempi così barbari e distanti. Era brava gente italiana e tedesca che ha pensato che andasse bene ammazzare della gente "diversa". Una diversità talmente calata dall'alto, talmente assurda che adesso per capire diamo la colpa alla follia. Ma a condannare milioni di persone non è stata la follia del singolo, ma l'indifferenza della moltitudine che ha semplicemente "obbedito agli ordini" "evitato di cercarsi guai" "non ha fatto domande".

L'importanza di accettare la specificità dello sterminio nazifascista
È importante accettare la specificità dello sterminio nazifascista perché ci fa sbattere la faccia con il fatto che ci riguarda.
Spostiamo per un attimo lo sguardo dalle vittime ai carnefici. Erano i nostri nonni. Che forse non hanno ucciso nessuno, ma hanno evitato di cercarsi guai e di farsi domante. E se è successo ai nostri nonni, allora può succedere a noi, che di certo non siamo migliori. Magari però possiamo farci delle domande.
È importante accettare la specificità dello sterminio nazifascista perché è accaduto qui. Abito tutt'ora a meno di un chilometro da Borgomanero dove, ho scoperto per caso, c'era una piccola comunità ebrea oggi scomparsa. A pochi chilometri da Meina, dove vi è stata una strage di ebrei in fuga. Mia nonna a dodici anni sapeva che la sua compagna era stata fatta sparire ed era meglio non chiedere. Mia nonna non era un genio, se lo sapeva lei a dodici anni vuol dire che lo sapevano tutti. E quella famiglia è stata uccisa lo stesso.
È importante perché le vittime erano persone comuni. Ebrei, testimoni di Geova, rom, omosessuali, dissidenti politici. Loro si definivano semplicemente "italiani" (o "tedeschi" o "polacchi" o...). In molti ricordi di sopravvissuti ebrei ritorna una presa di coscienza improvvisa che sì, erano ebrei, neppure ne erano consapevoli, magari il fatto di non andare a messa la domenica non era per loro un fatto identitario. 

Dalla specificità al presente
E quindi no, non si ricordano il 27 gennaio tutte le vittime. Ma le vittime di una strage precisa, avvenuta all'epoca dei nostri nonni, messa in atto da persone comuni contro altre persone comuni. 
Il male peggiore che ricordano quasi tutte le vittime sopravvissute è l'indifferenza. 
Al loro ritorno hanno trovato di colpo tutti antifascisti e antinazisti.
Tutti quelli che hanno lasciato che fossero portati via.
Guardiamoci negli occhi, non solo il 27 gennaio, e ammettiamo che avremmo potuto essere vittime per un semplice giro del destino, dei genitori di una fede minoritaria, inclinazioni sessuali. Ammettiamo però che avremmo anche potuto essere carnefici. Non farci domande su quei vicini di casa, su quei compagni di scuola.

È da questa ammissione, io credo, che si debba guardare al presente.
Le vittime di allora non sono le vittime di oggi.
Ma i meccanismi umani dell'odio, quelli non sono diversi. Il modo di pensare dei nostri nonni non era così diverso dal nostro. Quindi oggi noi come guardiamo a chi, ancora nel 2020, solo per appartenere a determinate categorie, che per altro non sono poi così diverse, viene considerato di serie b. Per noi un essere umano è prima di tutto tale, o è per prima cosa altro, straniero, di fede diversa, di diversa inclinazione sessuale, diversa ideologia? Perché se per prima cosa è altro, il rischio di non considerarlo essere umano, allora esiste. E se non è umano può essere discriminato, segregato, imprigionato senza processo... Ucciso?

Quante domande ci facciamo ora? Quanto siamo disposti a essere scudo all'odio?
Perché, ammettiamolo, l'indifferenza è tanto più facile. E genera campi di sterminio.

domenica 26 gennaio 2020

Aquila nella neve – letture


Amo cercare tra i libri usati romanzi di cui non so niente, di cui non abbia letto recensioni, riassunti, non conosca nulla dell'autore né sappia quantificarli in stelline. Libri che abbino ancora il potere di sorprendermi. Non è facile. Intanto è sempre più difficile per me trovare il tempo e l'occasione per curiosare. Anche la sorpresa, infatti, è un'arte che va coltivata. Bisogna mettersi in condizioni di farsi sorprendere, non basta sperare che accada. Ma anche la giusta condizione d'animo non è sufficiente. La sorpresa è un incontro e pertanto bisogna essere in due. Il lettore e il libro.

Aquila della neve è un libro di cui non sapevo nulla e che mi ha sorpreso per essere esattamente ciò che dichiarava di essere. Sulla copertina, come potete vedere, si legge "la più importante ricostruzione letteraria sulla caduta dell'Impero romano". Ma quando mai le frasi sulle copertine dei libri dicono il vero?

A quanto pare questa è l'eccezione che conferma la regola, perché sì e senza alcun dubbio, Aquila nella neve è la più importante e migliore ricostruzione letteraria della caduta dell'Impero.

C'è un enorme senso di stanchezza che pervade tutto il romanzo. Maximus e Quintus sono ufficiali di una Roma che non hanno mai visto, a cui non appartengono, essendo entrambi figli di popolazioni che sono state asservite e poi assimilate, che con l'imperatore non hanno più in comune neppure il credo, Onorio è cristiano, loro sono tra gli ultimi seguaci di Mitra. Sono sin dalle prime pagine degli sconfitti che si muovono verso la sconfitta, sorretti forse solo da un sogno: se fossero vissuti in un altro tempo, quando Roma era grande, anche loro sarebbero stati riconosciuti come dei grandi. Hanno la consapevolezza dell'estrema fragilità di un impero che è ormai un gigante morente, corroso dalla corruzione e da una generale sottovalutazione della situazione reale. Nessuno pensa davvero che la frontiera germanica dell'impero possa crollare e quindi nessuno si cura delle sue condizioni, nessuno fa una sensata valutazione del rischio. Maximus e Quintus vengono spostati dalla Britannia al Reno, da una periferia all'altra, con la sola illusione di poter ritardare un disastro ineluttabile che, invece, non si può ritardare.
C'è una descrizione precisa, quasi meschina di tutto ciò che li ostacola. Non certo il vescovo, che sì, non li capisce, li considera pagani, ma tutto sommato ne rispetta l'integrità morali e gli sforzi. A distruggere Roma, più che le tribù che si accalcano, sono i rifornimenti che non arrivano, le spade di pessima qualità, la burocrazia insormontabile, gli infiniti tempi di risposta alle domande di nuove armi, la gente che non ha nessuna intenzione di arruolarsi, convinta che tutto sommato la propria vita non possa cambiare poi tanto. Del resto i "romani" difesi da Maximus non sono altro che "barbari" diventati romani da una o due generazioni, cui gli "invasori" non sono che dei cugini. Siamo noi lettori, ovviamente, a sapere che quei "cugini" sono a loro volta pressati dagli Unni che quello che preme alla frontiera è un cambiamento che forse non c'era modo di fermare, ma che avrebbe spazzato via la romanità.
Ed è la romanità imbastardita un'altra forza del romanzo che ci riporta in un mondo in cui ormai tutti o quasi erano cristiani, ma in cui si andava ancora ad assistere ai giochi con le belve. In cui sopravvivevano le usanze romane, portate ai confini dell'Europa, in un mondo che ineluttabilmente, ma con un'apparente lentezza, si andava a instradando verso il medioevo.

L'autore, poi, gioca col lettore proponendo e sviando tutti i cliché del romanzo storico e romano in particolare. Tutti o quasi conosciamo la trama base di Ben Hur, trama base di moltissime altre narrazioni storiche ambientate in epoca romana: due uomini cresciuti insieme si trovano a prendere strade opposte, si affrontano come nemici, salvo poi arrivare a una sorta di pacificazione finale. Tutto ciò c'è anche in Aquila nella neve. Nelle prime 30 pagine. Come a dire che quella storia, una storia così pienamente romana è ora impossibile, ma i protagonisti l'hanno mancata di poco. Sono cresciuti in un impero, moriranno in un'altra epoca. Non si fugge neppure all'altro cliché, il protagonista scopre che l'amata moglie lo tradisce col migliore amico. Ma lo scopre quando la moglie è già morta da anni, l'amico è ancora al suo fianco e davanti hanno solo i nemici che li annienteranno. La rabbia diventa malinconia triste e senso di impotenza. Maximus non è sconfitto dai nemici o dal tradimento, ma dai tempi in cui ha vissuto.

"È mio dovere"
"Verso chi? Verso un imperatore che pensa solo ai suoi polli? Verso un vandalo corrotto che pensa solo ai suoi affari? Verso la gente di Gallia che non alzerebbe un dito per aiutarti?Verso i tuoi uomini che ti seguono solo finché ricevono la paga?O verso la memoria di tua moglie?"

Quello che ne risulta è un romanzo particolare. Non lo si può definire avvincente, perché accade poco e ciò che accade è ineluttabile e per tanto ben prevedibile. Ma ti porta in un mondo preciso, visto da un'angolazione particolare, quella del limes, il confine ultimo, dove si può vedere l'ultima luce di un mondo morente.
Non è un libro per tutti è, indubbiamente, il miglior romanzo sulla fine dell'Impero Romano.

PS: in questi giorni ho fatto ben altro oltre a leggere. Sono andata con gli alunni ad incontrare Liliana Segre. Ho anche iniziato a scrivere un post in merito, ma mi sono mancate le parole, non sono riuscita a scrivere nulla che valesse la pena di leggere. Spero di trovarle in futuro. Di sicuro, la mia già enorme ammirazione per la senatrice si è accresciuta e invito tutti a cercare la sua testimonianza in rete.

PPS: per chi volesse, ricordo che è disponibile l'ebook La spada di Emarana, primo di quattro ebook dedicati alle Cronache delle Ley

domenica 19 gennaio 2020

La spada di Emarana disponibile in Ebook




romanzo breve (59 pagine) - Può la spada di una donna trasformare un ragazzo in un uomo? Parte da questo presupposto una nuova saga fantasy che vi trasporterà in un universo straordinario!

Torvil an’Parshi forse è tornato nel Leynlared solo per farsi uccidere dalla mano di un figlio che non ha mai conosciuto. Contemplare le macerie della propria vita non è, però, la sua unica occupazione, quella ufficiale è cercare di trasformare il gracile figlio quindicenne del leylord in un guerriero. Oppure ucciderlo, giacché le Ley, un insieme di terre assediate dal gelo e dai nemici, non possono permettersi un sovrano debole. Ma tra lo spadaccino disilluso e l’adolescente nasce un’inaspettata intesa. A Torvil spetta quindi il compito di forgiare l’anima del giovane Amrod e trovare un’arma con cui possa combattere nella Mischia Invernale, una competizione mortale che si svolge nei giorni senza luce degli inverni delle Ley. Nel farlo, forse, Torvil troverà anche un modo per affrontare il proprio passato e quel figlio che ha pagato il prezzo dei suoi errori.
Con La spada di Emarana iniziano le Cronache delle Ley e le vicende di Amrod del Leynlared.
Ci siamo, è già prenotabile, e  disponibile da martedì 21 gennaio, La spada di Emarana, ebook edito da Delos Digital in collaborazione con l'associazione RiLL. Si tratta della prima di quattro pubblicazioni che andranno poi a connettersi con i racconti già pubblicati nella raccolta La spada, il cuore e lo zaffiro


Vi porterà nelle Leynlared, un regno ben presto destinato a frammentarsi in una spietata guerra civile, al cui centro vi è il diritto a regnare del principe Amrod, il ragazzo che vedete al centro della copertina dell'antologia. Non è, però, lui l'unico protagonista di quella che è invece una storia corale. Il primo sguardo sul Leynlared, per chi leggerà il racconto, sarà infatti quello cinico dello spadaccino Torvil an'Parshi, un uomo che ha gettato via ben più della propria vita, per una storia impossibile.
Gli amori impossibili è, infatti, il filo conduttore che lega i racconti e che in qualche modo accomuna tutti i personaggi che si succederanno nelle pagine.

Che cosa aspettate, quindi?
Il romanzo breve è già disponibile per la prenotazione qui


Un grazie speciale alle persone che hanno reso possibile questa pubblicazione, a tutti coloro che, assai più di me, hanno creduto nelle possibilità del Leynlared, e in particolare a Alberto Panicucci, senza il quale mai avrebbero visto la luce, e a Andrea Franco, curatore della collana fantasy di Delos Digital

lunedì 13 gennaio 2020

Le Cronache delle Ley – La spada di Emarana in arrivo il 21 gennaio



Le cronache delle Ley
Sono gli amori impossibili quelli che cambiano il mondo,
ma per ogni scelta c'è sempre un prezzo e una conseguenza.

Che cosa sei disposto a dare per cambiare il tuo mondo?

Il 21 gennaio arriverà in tutti gli store on-line, edito da Delos Digital in collaborazione con l'associazione RiLL, La spada di Emarana. Sarà il primo di quattro e-book che ci porteranno nella guerra civile che sconvolge il Leynlared, regno molto più di ghiaccio che di fuoco, dove il principe Amrod dovrà essere pronto a sacrificare ogni cosa per riprendere il controllo delle proprie terre.

In ogni racconto avremo punti di vista differenti, per comporre una sorta di romanzo corale, un racconto visto dagli occhi dei principi come da quelli dei pastori. Al centro di ogni storia, però, ci sono gli amori impossibili e le conseguenze delle proprie scelte.

Ed è un amore impossibile quello che ha segnato la vita di Torvil an'Parshi, lo spadaccino protagonista de La Spada di Emarana. Legato a una nobildonna sposata, Torvil ha ucciso in duello il marito di lei ed è dovuto fuggire in esilio. È rimasto lontano e impotente quando l'amata di è suicidata, lasciando orfano il figlio del loro amore.
Dopo vent'anni si presenta l'occasione per tornare in patria, ma il perdono del leylord non è dettato dal buon cuore. Torvil dovrà insegnare a combatte al giovane principe, che il padre considera un inetto, oppure, se questo non sarà possibile, farlo sparire simulando un incidente...


La spada di Emarana – Incipit

Se mai ci incontreremo lo faremo con le armi in pugno, in duello.
Torvil an’Parshi accartocciò la lettera e la gettò nell’ampio camino della sala d’armi. Aveva attraversato metà del mondo, si era umiliato per ottenere il perdono del leylord e infine aveva accettato un lavoro che detestava solo nella speranza di quell’incontro. Ebbene, non poteva dargli torto e solo lo Spirito sapeva se non sentiva di meritare anche di peggio. Tuttavia guardò la lettera bruciare, lasciando che la luce e il calore delle fiamme gli facessero dolere gli occhi, per illudere se stesso che la colpa fosse esclusivamente del fuoco.
Si costrinse a voltarsi, passandosi una mano sul viso. Il lavoro che doveva fare. Il suo onore gli avrebbe imposto di portarlo a termine, se ci fosse stato anche un solo briciolo di onore in quello che il leylord gli aveva proposto.

– Sarò franco con te – aveva esordito il sovrano.
Torvil intanto pensava a quanto male fosse invecchiato Bakos, che una volta era suo amico, appesantito dalle ubriacature quasi quotidiane, a capo di una nazione che ormai esibiva una ricchezza solo di facciata.
– Se fossero vissuti la mia prima moglie e il mio primogenito, il mio erede avrebbe ormai trent’anni e io sarei tranquillo – continuò il leynlord. – Invece il ragazzo ha quindici anni ed è tremebondo e malinconico. Balla, legge poesie e mi tormenta perché gli trovi un maestro di liuto. La cosa migliore che abbiano detto i suoi tre precedenti maestri d’armi è che è mediocre. Là fuori c’è il nuovo imperatore leopardo di Mar-Tial che ha ventidue anni e ha schiacciato le città in rivolta con la semplicità con cui un macellaio uccide un coniglio. Se io dovessi morire domani non posso lasciare il Leynlared a un quindicenne poeta. Tu sei la sua ultima possibilità di diventare un guerriero che gli uomini possano seguire.  L’ultima… So che c’eri tu dietro l’incidente al principe Ilven, alle Suanil.


Quindi è questo che sto aspettando, il mio prossimo omicidio? Si chiese Torvil. Era quello il prezzo che aveva pagato per l’opportunità di incontrare un figlio che lo odiava? Gli Imsheti credevano che si potesse vendere la propria anima a uno dei loro demoni obesi, e Torvil si chiese quale demone fosse così disperato da volere la sua. Ma ormai il contratto era firmato e l’anima venduta. Sempre che non riuscisse a fare il miracolo e a trasformare il principe, per usare le parole di suo padre, in un guerriero che gli uomini potessero seguire.


Il seguito del racconto vi aspetta da martedì 21 gennaio nell'ebook La spada di Emarana, disponibile su tutti gli store on-line

sabato 4 gennaio 2020

Di fini e di inizi


L'Epifania, e quindi il rientro al lavoro, incombe su di noi. Pur con tutto l'amore che ho per il mio lavoro, non ho molta voglia di lasciare queste giornate graziate dal cielo, in cui siamo stati estremamente lacustri. Tra una gita e l'altra sono tuttavia riuscita a portare a termine il mio obiettivo natalizio, cioè terminare la stesura del "non più YA".

La fine di una prima stesura di un progetto lungo è qualcosa di strano.

Da un lato c'è il grato sollievo di essere arrivati in fondo. Scrivere richiede costanza, è una sorta di maratona, succhia tempo. Un romanzo (riuscito, non riuscito poco importa) è qualcosa che si costruisce un po' ogni giorno, spesso ritagliando tempo al sonno o ad altro. Si arriva in fondo esausti, con una parte della mente che grida "non voglio mai più scrivere" (dura poco, ma c'è). Con il sollievo infinito di un lavoro che è arrivato alla fine.

Dall'altro ci si sente vuoti. La revisione non è la stessa cosa. Per mesi questi personaggi hanno abitato la mia mente, hanno ossessionato il mio immaginario, hanno sovrapposto la loro realtà alla loro. Dato che la protagonista è una pianista ho ascoltato più classica per piano da luglio ad oggi di quanto abbia mai fatto in vita mia, ho letto articoli su articoli su compositori e sonate. A tratti, ho visto il mondo come lo vedrebbe lei. Poi di colpo ci si sente vuoti e soli. E una parta della mente pensa che non sarò mai più in grado di scrivere così, con questa intensità.

Alla fine di una prima stesura si è del tutto incapaci di giudicare in modo obiettivo quanto prodotto. A tratti pare bellissimo, la cosa migliore che abbia mai scritto, a tratti orribile e imbarazzate e degna solo di un rogo.
Non so se questo bipolarismo autoriale sia una malattia che affligge solo me o se sia comune, di certo a tratti è inquietante.

Alla fine di una prima stesura si inizia a guardare al dopo, e qui c'è IL GRANDE VUOTO. Non ho idea di cosa farne. Proprio nessuna. Il fatto che sia la prima cosa non di genere che abbia scritto amplifica la cosa. L'ipotesi "lo metto gratis in rete che magari qualcuno almeno lo legge" non è del tutto scartata, altro che grandi ambizioni editoriali.

Alla fine di una prima stesura si inizia a guardare quello che si è scritto per cercare di capire che cosa sia.
Il fatto che per me fosse un esperimento, la cui fase di pre produzione attiva è durata due giorni, lo rende più curioso e affascinante. 
Io stessa non so cos'ho scritto.
Di certo non è un YA. I romanzi per adolescenti hanno un lessico di un certo tipo, mentre la mia protagonista indulge in un modo di parlare che la distingue dai suoi coetanei, troppo volutamente ricercato. Frequenta la prima superiore e a volte i suoi ragionamenti partono da quello che sta studiando, con vere digressioni letterario/filosofiche. Infine credo che alcune tematiche siano presenti anche nei romanzi YA, ma non trattate in questo modo. I miei mondi, sopratutto quello reale, sono sempre brutti. La gente muore, si fa del male, fa del male con inaspettata crudeltà. Quindi no, non è uno YA.
Potrebbe essere un romanzo di formazione, a modo suo. Ma anche qui la cosa curiosa è che alla mia protagonista e al ragazzo di cui si innamora non capitano delle cose che li fanno crescere. Elaborano quello che è già capitato loro. Quindi più che sul crescere al massimo è un romanzo sull'accettare di crescere, sul ricordo e l'elaborazione del vissuto.
È uscito, e non era mia intenzione, un romanzo sulla ricerca della felicità. È una cosa che torna a più riprese, senza che fosse pianificato. Sul fatto che agli adulti piace pensare i giovani felici solo perché sono giovani, ma l'adolescenza è spesso la stagione della disperazione.

Vi lascio l'anteprima di un pezzo "musicale", ma che credo renda l'idea del mio modo di raccontare l'adolescenza.

Pensavo di voler suonare per non pensare. Ho provato la cosa più difficile che abbia mai osato desiderare di suonare. 
Vento notturno di Medtner. 
Che cosa ti urli, di notte, vento? 
Che cosa mi urla, dentro? 
Quale parte di me torturata e ferita non riesce né a parlare né a tacere? 
Vorrei farla mia, questa sonata, urlarla con le dita sui tasti. Far sentire le urla, anche se non lo fa. Non è una cosa gridata, la sonata di Metner, è sommessa, a volte sussurrata. È terribilmente complicata e involuta, ma con qualcosa che preme per uscire, che si fa ora dolente, ora giocoso, un dolore che si nasconde e non si vuole far riconoscere. Sembra che l’abbia scritta per me, oggi. Ma non è vero. O, meglio, non ce la faccio. È troppo. Troppo da improvvisare nella Bara, senza poter davvero evocare lo spirito del maledetto russo che mi indichi come muovere le dita sui tasti. Non posso suonare il mio dolore sulla musica di un altro, perché non ne sono capace. E allora lascio che siano le mie dita a scegliere. Qualcosa di meno alto e preciso. È brutto rendersi conto che non sei in grado di scrivere te stesso, ma che qualcun altro lo ha fatto. È ancora più brutto se non sei in grado di appropriartene. Ma io suonerò Medtner, un giorno. Lo suonerò come lo avrei voluto suonare oggi, con la voce della mia anima spezzata, con il sangue che cola dentro e non si fa lacrima, con i singhiozzi ingoiati e la normalità che ti avvolge e soffoca. 

Per chi volesse una parte della colonna sonora, il brano è questo

E voi come vi sentite a prima stesura completata?