giovedì 30 giugno 2016

Il mio racconto sul Giallo Mondadori di luglio


Dai prossimi giorni sarà reperibile in qualsiasi edicola o in e-book, il Giallo Mondadori 3145 Quella casa nella brughiera. In coda troverete il mio racconto Aveva ragione Corto Maltese.

Sono felice perché finalmente i lettori potranno leggere un racconto diverso dagli ultimi che ho pubblicato, un lato della mia produzione che è rimasto un po' in ombra, ma che è al 100% mio.
Aveva ragione Corto Maltese si può definire una "commedia col morto". È un giallo, ma i toni sono assolutamente brillanti e ironici, anche se non manca una vena di malinconia.
Anche il protagonista si differenzia dai soliti protagonisti del giallo. Jo Museni è un immigrato ugandese, laureato in botanica, ma adattato al ruolo di giardiniere factotum in una villa diventata albergo di lusso. È uno sguardo un po' diverso, il suo, appartiene a una fascia di popolazione che la narrativa indaga poco e, se lo fa, la relega di solito nel drammone.
Per tutti questi motivi, sono assolutamente stra felice di portare i miei lettori fuori dalla Londra vittoriana (che pure amo tanto) per una vacanza con delitto in un hotel di lusso sul Lago Maggiore.

AVEVA RAGIONE CORTO MALTESE

"Lo sapevo che i miliardari sono tutti pazzi... Deve essere qualche cosa nell'inchiostro con cui stampano i loro dollari" (Corto Maltese, Una ballata del mare salato - H. Pratt)

In una villa sul Lago Maggiore riadattata ad albergo di lusso, d'estate si susseguono i matrimoni più stravaganti. Una coppia giapponese, ad esempio, vuole organizzare un finto matrimonio cattolico, con tanto di attore nel ruolo del prete, del resto pare che questa sia la moda del momento, per le coppie più abbienti del sol levante. Il vecchio attore assoldato per l'occasione, però, viene trovato morto proprio la mattina del grande evento. Tutto viene messo a tacere al più presto, ma urge trovare un sostituto! Dato che il giardiniere della villa ha un fratello prete, viene incaricato di prendere il posto del deceduto. E da quella nuova e non voluta posizione, Jo Museni ha anche modo di farsi qualche domanda sull'accaduto...

UNO SGUARDO DIETRO LE QUINTE – L'ANGOLO DELLE CURIOSITÀ
La cosa più improbabile di questo racconto, ovviamente, non è il giallo, ma il finto matrimonio giapponese con l'attore al posto del prete. Ebbene, l'idea mi è venuta dopo aver parlato con delle persone che sono state proprio a un evento simile. Non è una battuta. Venire in Italia e celebrare un finto rito matrimoniale cattolico è davvero un must per le ricche coppie giapponesi!

Se volessi uccidere mia suocera, dovrei fare proprio come l'assassino di questo racconto. Io a mia suocera voglio molto bene, ma dovendo nel mio tempo libro progettare omicidi, è inevitabili prendere ispirazione da chi ho attorno (ok, potete sentirvi inquietati).

Io nella mia testa ragiono sempre in grande. Jo Museni è senza dubbio il personaggio più lontano da me che abbia mai utilizzato e probabilmente non potrei gestirlo sul lungo periodo. Però nella mia testa c'è tutta una serie di storie con lui come protagonista (un altro racconto è già scritto, ma è al momento inedito). Da amante del fumetto quale sono, ognuna di queste storie dovrebbe avere un richiamo nel titolo a Corto Maltese. Ad esempio il racconto inedito si intitola Ballata per foglie e stelle cadenti. Sempre idealmente, poi tutte queste storie andrebbero raccolte in una serie dal titolo E riparleremo di gentiluomini di fortuna, che è il titolo, appunto, di un'avventura di Corto Maltese, ma descrive benissimo Jo.

Presto (appena finisco il racconto che sto scrivendo), riprenderò in mano il romanzo a cui sto lavorando ormai da tempo immemore. Anche qui Jo ha una piccola parte. Ha una parte ben più importante un altro personaggio che in questo racconto dice solo due battute. 


Chi bazzica il mondo della scrittura sa che ogni pubblicazione, per quanto piccola, è un miracolo. Questo è un miracolo particolarmente miracoloso, perché il racconto è arrivato secondo a un concorso in cui la pubblicazione era garantita solo al primo. Grazie quindi in modo particolare ad Ambretta Sampietro, organizzatrice del concorso Giallo Stresa 2014, alla giuria del concorso, che ha avuto bellissime parole per questo racconto, a Franco Forte, direttore dei romanzi in edicola di Mondadori, che si è speso personalmente per pubblicare anche il secondo e il terzo classificati e alla gentilissima Lorenza Giacobbi, della segreteria di Giallo Mondadori.



martedì 28 giugno 2016

Il trono di spade – stagione sei, considerazioni semiserie.


Ho il sospetto che ieri sera l'Italia si dividesse un po' tra chi guardava l'europeo e chi attendeva e poi guardava l'ultimo episodio della sesta stagione de Il trono di spade.

La serie, tratta dai romanzi fantasy di Martin, ha con questa stagione superato il limite della narrazione su carta, addentrandosi in un territorio sconosciuto. Personalmente credo che la cosa le abbia fatto un gran bene. Dopo una quinta stagione di interminabili spostamenti e ristagni di trama, in questi dieci episodi sono successe un sacco di cose. Non saprei se è un fatto inevitabile, che accadrà anche nel libro corrispettivo, se mai uscirà, per il semplice fatto che la fine si sta avvicinando, o se solo gli sceneggiatori si sono tolti un peso. Di certo hanno agito con più disinvoltura, dotando qualche personaggio di teletrasporto (in un episodio c'è chi fa la stessa strada che prima ci si metteva due stagioni a percorrere) e tagliando anche con l'accetta le troppe sottotrame. Certo, non tutto è riuscito. Passaggi mosci e inconcludenti ce ne sono stati, ma in generale le cose hanno ricominciato ad accadere. Persino i momenti di nudo non funzionali (molto apprezzati da mio marito, temo) sono drasticamente diminuiti, segno che gli sceneggiatori non avevano più minuti da sprecare.
Non ho voglia di fare una recensione, quindi mi limito a qualche osservazione sparsa che, inevitabilmente, sarà comprensibile solo a chi ha visto la serie.
Nel corso della visione io e il Nik abbiamo anche stabilito che i personaggi seguono più o meno le regole del nostro gioco di ruolo e quindi li giudichiamo di conseguenza, anche questo, temo, inficerà la comprensione dei commenti.

– la resurrezione è, a livello, legale, un casino. Gli avvocati dei mondi fantasy dovrebbero attrezzarsi meglio ad essa, perché i vari "fino alla morte" diventano piuttosto aleatori.
La mia guardia è finita. Miglior battuta della serie. Bravo Jon, il tuo tiro sull'intelligenza riuscito (e mai più ripetuto).

– I metalupi sono la più grande delusione di tutta la vicenda. Arrivano come segni divini e sembrano dover spaccare il mondo e poi muoiono uno dopo l'altro come cuccioletti indifesi (Nik dice che è colpa del fatto che sono "compagni animali" e nessuno tranne Jon dei loro proprietari è andato avanti come ranger, quindi i poveretti hanno pochissimi punti ferita). 
Nymeria è stata la prima a capire come girava e si è data alla macchia nella prima stagione ed è a oggi quella con più possibilità di sopravvivenza. 
Spettro ha capito anche lui come girava e si è preso una vacanza proprio nell'episodio in cui il suo umano ha caricato da solo un esercito di cavalieri. Spettro è più intelligente di Jon, ma questo lo sapevamo da tempo.

– Sempre per intelligenza e istinto di sopravvivenza, Jon non sarà di padre Stark, ma è uno Stark fino al midollo. 
Comunque faccio tanto la cinica, ma rivedere Grande Inverno col simbolo del metalupo mi è piaciuto un sacco.

– Di tutti i personaggi, quello che ha maggiori possibilità di sopravvivenza è Sam, perché è l'alter ego di Martin. Il ragazzo, per altro, ha il talento "infrangere voti impunemente". Vorrebbe appartenere non a uno, ma a ben due ordini che prevedono il celibato e se ne va allegramente in giro con la sua donna e il suo presunto figlio senza che nessuno trovi la cosa strana. Passi il maestro alla cittadella che palesemente non collega "donna-bambino-voto di castità infranto" perché non sa cosa si possa fare con una donna. Però Sam si presenta in famiglia dicendo "salve, sono un guardiano della notte celibe, questa è mia moglie, questo è mio figlio" e papino gli fa il predicozzo per il lignaggio di lei! In tutto questo il fatto che riesca anche a portarsi via impunemente la super spada magica anatema dei non morti è il meno.

– Ero molto, molto in pena per i miei personaggi preferiti. Io tifo sempre per l'intelligenza e il buon senso, quindi i miei tre "protetti" sono Tiryon, Varis e Davos (ammiro anche Ditocorto, ma diciamo che gioca nella squadra avversaria). E sono davvero felice che tutti e tre sopravvivano per un'altra stagione. 
Ero particolarmente in ansia per Varis, temevo che il suo scopo narrativo fosse solo portare Tiryon da Daenerys, ma visto cosa viene fatto fare ai suoi uccelletti, credo possa avere qualcosa da dire prima della fine.
Tiryon dopo una stagione passata a tentare di insegnare barzellette trova finalmente la sua ragione d'essere. Un po' mi spaventa la cosa, perché appena gli gira bene, poi il fato lo bastona. Prima della fine, però, lo voglio su un drago.
Davos lo vorrei sindaco di Westeros, subito. Sindaco, perché "re", da quelle parti, porta un po' sfiga. È l'unico che sembra consapevole di dove si sta andando a parare e lo sa spiegare chiaramente.

– I 62 Mormont mi fanno paurissima.
E sì, sposo l'idea che se lady Mormont avesse avuto tre draghi avrebbe chiuso la storia molto prima.

– Ho capito perché i re delle Isole di Ferro non hanno mai brillato per intelligenza. Questo rituale di incoronazione con il quasi annegamento qualche danno celebrale lo crea sicuro.

– Tranne quella di Hodor, nessuna della morti mi ha davvero rattristata. 

– Finalmente una battaglia sporca e brutta in cui l'eroe rischia di morire calpestato dai suoi alleati.

– Il dio rosso deve avere un perverso senso dell'umorismo. Credo che Melisandre inizi ad essere d'accordo con me. 

– Il dio dei mille volti ancora non l'ho capito, ma non è che mi abbia colpito favorevolmente.

– Un sacco di personaggi hanno trovato le pergamene di teletrasporto. Oppure Westeros si è ristretta di colpo. Consiglio gli sceneggiatori di stare attenti con i prossimi lavaggi.

– Meno si vede Dorne, più la serie funziona.

– I draghi sono sempre un ottimo modo per terminare una puntata.

Qualcuno di voi guarda la serie? Cosa ne pensate?

lunedì 27 giugno 2016

History lost in story – Scrittevolezze

(Prego e spero che il mio titolo in inglese abbia senso, suonava tanto bene...)
Da archeologa in disarmo, i romanzi storici sono per me tormento ed estasi. Estasi perché ogni scusa è buona per tornare in quell'altrove temporale che da sempre amo, il passato. Tormento, perché non c'è come un errore storico in un romanzo storico per scatenare le ire del Drago Interiore. Il mio istinto, in questi casi, è sempre prendere il romanzo in questione e scagliarlo con violenza non importa dove. Reazione che, si capisce, ha i suoi lati negativi. I romanzi storici hanno, chissà perché, la tendenza a essere corposi e, quindi, pesanti. Se scaglio un oggetto dal mio divano le probabilità di beccare una finestra o una delle mie piante sono piuttosto alte, purtroppo. Se poi il romanzo è in digitale finisce pure che mi rompo il kindle. Quindi non solo mi arrabbio, ma la mia giusta ira non può nemmeno essere sfogata!

Il fatto è che il povero autore di romanzi storici, quando vuole essere tale, scrive muovendosi in un campo minato in cui è quasi impossibile arrivare alla fine del percorso (e della narrazione) senza finire almeno in una trappola.

UNA QUESTIONE DI ETICA: AMERICANA VS EUROPEA
Semplificherò al massimo (lettore abbia pietà), c'è tutta una corrente di pensiero nella narrativa americana (oddio, anche di quella del romanzo d'appendice ottocentesco) che si può riassumere in una frase:
Mai rovinare una bella storia con la verità
Ecco, per chi segue questa massima, tutti i problemi che possono essere segnalati non si pongono proprio. Prendono personaggi storici che mai si sarebbero potuti incontrare e li fanno brindare assieme, fregandosene altamente di ogni verosimiglianza. Un esempio recente? La serie tv "Da Vinci's Demon", in cui a un certo punto, mi informa Wikipedia, Leonardo, Macchiavelli e Amerigo Vespucci partono allegramente per le Americhe alla ricerca di un libro maledetto.
Ecco, con questo tipo di narrazione non ha senso infuriarsi. Si riconoscono a pag.3 o al terzo fotogramma, ci si può astenere o prenderle come sono. L'importante, sopratutto se si è studenti, è non pensare che raccontino la storia e non riportare quanto letto o visto in un compito in classe.
Grazie al cielo non tutti gli americani fanno narrazione storica così e quasi tutti gli europei si attengono a un'etica diversa:
Si può inventare solo negli interstizi della storia, in quello che le fonti tacciono, senza smentirle mai
Qui il gioco si fa sottile e delicato. Il narratore deve farsi a sua volta storico, a volte più dello storico stesso (mi è stato fatto notare che a volte gli storici sono interessati alla conferma o alla smentita di questa o quella teoria, mentre il romanziere è a caccia del particolare di vita vissuta, della minuzia su cosa si mangiava a colazione che spesso agli storici interessa poco o niente) e inventare una trama che faccia da contrappunto ai fatti, senza smentire mai ciò che è stato appurato e studiato. Ovviamente, però, a questo punto il lettore è autorizzato a giocare con l'autore e a controllare se abbia o meno fatto i compiti a casa. Per altro, più l'autore è accurato e più il lettore si infurierà per le sviste.

IL PASSO FALSO È SEMPRE DIETRO L'ANGOLO – GRANDI SCIVOLONI
Si potrebbero riempire post su post sugli errori storici nei romanzi storici. Alcuni sono quasi leggendari, come i famosi orologi ai polsi delle comparse di Ben Hur. 
Il problema è che chiunque può sbagliare e anche il romanzo meglio documentato può cadere sui fondamentali.
Appartiene a un'altra epoca, quella in cui i romanzi si facevano bene, con i correttori di bozze ancora ben pagati La grotta di cristallo di M. Stewart, un romanzo che io per prima ricordo con infinito affetto. È una rivisitazione storicizzata del mito della tavola rotonda, collocata intorno al V sec. d.C. e narrata in prima persona da Merlino. Come cura nella resa dell'ambientazione è quasi impeccabile, niente a che vedere con il pur epocale Le nebbie di Avalon che risponde molto più all'etica "mai rovinare una bella storia con la verità (storica)". Eppure... Prima pagina, narratore interno, V sec d.C "mia madre era bionda come le barbe del mais". Se avessi scagliato il romanzo giù dalla finestra alla prima pagina mi sarei persa una narrazione memorabile, ma ancora mi chiedo come sia arrivata fino all'edizione italiana una frase così.
Del resto pare anche che il padre del romanzo storico, sir Scott, nel suo Ivanhoe abbia mandato in giro in pieno medioevo gente con la tabacchiera!

IL PASSO FALSO È SEMPRE DIETRO L'ANGOLO – PICCOLE MALEVOLE SCIVOLATE
Se persino il padre del romanzo storico è incappato in grandi scivoloni, come si può pensare che un autore normale non incappi almeno in un piccolo errore?
Pensate sia più perdonabile?
Sbagliato! Il grande scivolone fa quasi tenerezza, sopratutto quando è tanto macroscopico che non lo si può attribuire a ignoranza. È la svista che ci fa apparire il tutto più umano.
Gli strali peggiori gli autori di narrazione storica se li sono presi per gli errorini. Quelli piccoli e all'apparenza insignificanti.
Perché c'è una legge malevola della Sfiga Cosmica che fa sì che se scrivi un romanzo in cui c'è un errore che il 99% dei lettori non potrebbe notare, ebbene quel romanzo finirà di sicuro in mano al massimo esperto mondiale di quella minuzia. E lui si farà carico di avvisare il restante 99% di lettori del tuo errore.
Ricordo una lunga pagina di scuse apparsa su un Tex (narrazione da cui io personalmente non mi aspetto tutta questa correttezza filologica, ma evidentemente altri sì). In una vignetta un personaggio stava per seguire il cattivo di turno e rassicurava Tex: "gli starò incollato come un francobollo alla busta". Ho scoperto grazie alle scuse che nell'anno in cui pare sia ambientata la storia, in America non c'erano i francobolli.
Del resto io sono ancora ferma a pagina venti del romanzo ambientato nell'antica Roma. Un personaggio ha esclamato "per le vestali di Giunone" e io, niente, non riesco ad andare avanti. Aspetto ancora che le fiamme di Vesta inceneriscano l'autore (Roberto Genovesi).
Del resto l'autrice di un blog che mi piace assai, I dolori della giovane libraia, mal sopporta un romanzo che io, invece, ho molto amato: Il club Dumas. Motivo? Lei è un'esperta di biblioteconomia e storia del libro e non tollera gli errori in quest'ambito che ha riscontrato (che alla mia lettura sono passati in cavalleria).
Il fatto è che chi è molto appassionato di un dato periodo storico o di un dato argomento non vede l'ora di leggere un (ennesimo) libro che ne parli. Se il testo sarà di suo gusto, l'autore ha conquistato un fan fedele e affezionato. Se questo tipo di lettore, però, trova un errore, per quanto piccolo e insignificante possa sembrare, sarà suo dovere morale dirlo al mondo.

ATTENTO A QUELLO CHE DICI! E A CHE DICE IL PERSONAGGIO!
C'è poi una più subdola categoria di errori storici, quelli lessicali.
Anche l'autore più meticoloso rischia di far dire o pensare a un personaggio storico una parola che fa riferimento a una categoria mentale che il personaggio non può possedere.
Questo è un inciampo comune anche nel fantasy, non solo nella narrazione storica. In questo momento sto pregustando il finale di stagione de Il trono di spade, di questa sera. Tuttavia nel corso di questa stagione sono sobbalzata un paio di volte sulla poltrona, quando un personaggio ha usato parole come "sodomita" o "zelota" (vado a memoria, pietà, potrebbero essere altre). Termini, in ogni caso, che rimandano a un contesto biblico e a un substrato cultuale giudaico cristiano che come **** potrebbe avere un abitante di Westeros allevato al culto dei sette dei/del dio rosso/del dio dai mille volti?
A volte si pecca persino per troppo studio e si creano dei (deliziosi?) cortocircuiti storici. C'è una serie che mi è piaciuta non poco Le indagini del principe Meren, è ambientata nell'antico Egitto, è scritta da un'egittologa e si vede. Ho riso un sacco, però, quando il protagonista ha detto che avrebbe preso degli appunti su un "ostrakon". Un ostrakon è un pezzo di ceramica che viene inciso, un post-it ante litteram, insomma. Peccato che il termine "ostrakon" sia in greco classico. Un archeologo è abituato a chiamare "ostrakon" qualsiasi pezzo di coccio con un su un appunto, ma il principe Meren, che vive secoli prima che il greco classico sia parlato, certo non avrebbe chiamato il suo coccio "ostrakon". 
I modi di dire e le frasi fatte sono, poi, un incubo da mettere in bocca a personaggi del passato. Un medioevale non può essere libertino, un antico romano non può esclamare: "questo è tutto un altro paio di maniche"!

OGNI NARRAZIONE STORICA È UN CAMPO MINATO
C'è un certo masochismo che spinge l'appassionato ad aprire un libro sull'argomento che gli è più caro, perché è assai probabile rimanerne delusi, con arrabbiatura che no, non passano più.
C'è un masochismo ancora più grande che porta a scrivere narrazione storica. Perché o si segue l'idea che "l'importante è la bella storia e poi chissenefrega", oppure ci si infila nel ginepraio di cui ho cercato di rendere conto. 
Bisogna fare i compiti a casa in modo meticoloso, con la consapevolezza che comunque ci sarà sempre qualcuno che ne sa più di noi. E sì, il nostro testo arriverà proprio nelle sue mani. E sì, che lo farà sapere. E se anche così non fosse, ci sarà sempre un personaggio che esclama qualcosa di inappropriato, un antico greco a chi scappa un "Perbacco!", qualcuno che si prepara un pasto inappropriato, tipo un insalata di patate nell'Europa del seicento (che così, d'istinto, non sembra neppure così assurdo).
Eppure non c'è modo più affascinante di affrontare il passato che farlo rivivere attraverso la narrazione. C'è un fascino particolare che solo le narrazioni storiche hanno, che non le rende certo migliori, ma sottilmente diverse. Se leggiamo di Londra o della Polinesia o della Terra del Fuoco, tutto sommato possiamo pensare un giorno di poterci andare. Ma nei paesi bassi dei pittori fiamminghi, alla corte dei Medici o a quella di Augusto non abbiamo altro accesso se non tramite la narrazione. E questo, spero, valga qualche mal di pancia in più, sia per chi legge che per chi scrive.

venerdì 24 giugno 2016

Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!

Non avevo previsto di scrivere questo post nel giorno della Brexit, diciamo che avrei voluto evitare di  avere materiale per scriverlo a prescindere. Nel giorno della brexit rischia di assumere, almeno per me, un senso da "quello che vorremmo essere e non siamo" o peggio "quello che avremmo voluto essere e non siamo stati capaci di essere".
Non è volontà né del post né del blog parlare di politica, ma è inevitabile per chi come me ha fatto parte della "generazione Erasmus", ha girato tutta l'Europa sentendola come la propria patria tanto quanto il proprio paesello, oggi non sia un giorno particolarmente lieto. Non tanto per il voto degli inglesi in sé, quanto per il constatare l'ennesimo fallimento di un'idea d'Europa che non ha saputo realizzarsi nel modo in cui era stata immaginata dai suoi ideatori. 

In realtà quello che volevo raccontare oggi è di ciò che ho scoperto nel corso della mia -non ancora conclusa- odissea burocratica. 
Probabilmente per gli addetti ai lavori è tutto molto banale, ma io sono una prof a cui viene fatta una capa tanta sulla semplificazione e sulla digitalizzazione, sul fatto che ormai tutti i documenti devono essere, appunto, digitali e accessibili ovunque. Credevo di vivere nel 2016 e non, che so, io all'epoca delle signorie.
Vi siete mai trovati a dover richiedere dei documenti in anagrafe in originale, senza passare dalla (benedetta) autecertificazione?
La prima cosa che ho scoperto è che le anagrafi non sono in rete, non sono centralizzate e non comunicano tra loro. Quindi, se non risiedete nel vostro luogo di nascita, per dire, non potete richiedere nell'anagrafe di residenza il vostro certificato di nascita. Dovete prendere il permesso lavorativo che vi occorre, i mezzi che vi occorre prendere e tornare al vostro luogo natio.
Grazie, genitori, per non aver pensato di far trascorrere a mamma l'ultimo mese di gravidanza al mare, magari in Sicilia! Grazie per non avermi fatto nascere all'estero!
La seconda cosa che ho scoperto è che tale documento, una volta che lo si ha in mano, non è proprio autentico autentico, va fatto autenticare in prefettura. Ovviamente non in una prefettura qualsiasi, che i prefetti non sono tutti uguali, ma in quella di riferimento della tale anagrafe. Quindi non basta prendere il permesso e i mezzi necessari per tornare al luogo natio, bisogna anche passare per la prefettura di riferimento del luogo natio (altri permessi, altri mezzi...).
La terza cosa che ho scoperto che ogni documento può essere scritto in tanti modi diversi. Ad esempio ora possiedo quattro moduli diversi che attestano il mio avvenuto matrimonio. E quale va bene? Quello che piace alla prefettura! E quale piace alla prefettura? Questo lo si può scoprire solo sul posto!
Così ho scoperto che ci sono prefetture che autenticano senza particolari problemi i documenti e le copie conformi e prefetture che autenticano solo documenti redatti secondo il tal modulo (quale sia non te lo dicono manco a pagarli, devi andar lì e sperare in bene) e non vogliono neanche sentire parlare di copie conformi.
Ho scoperto anche che è un grosso grosso problema dimostrare di essere se stessi, non solo per me, ma per chiunque non abbia la propria firma depositata. Quindi ho scoperto che sì, si può dimostrare davanti a pubblico ufficiale di essere se stessi, ma per dimostrare di fare un tal lavoro per cui si percepisce un tale reddito deve firmare davanti a pubblico ufficiale chi ti ha firmato il contratto, che a sua volta deve esibire un documento redatto da chi ha la firma depositata che dimostri che ha davvero il potere di rilasciare tale dichiarazione. E comunque se va in comune direttamente l'Amministratore Delegato dell'azienda è meglio (grazie, marito, per non lavorare, per dire, alla FIAT, se no dovevamo portare in comune Marchionne, credo). Mi chiedo se non sia necessario che Dio Padre in persona scenda a firmare in presenza per dimostrare che siamo parte del creato, ma mi viene il dubbio che non sia predisposto un apposito modulo e che quindi questo creerebbe più danno che beneficio.

Quindi in questi giorni ho rifatto documenti sperando di azzeccare il modulo preferito dalla prefettura di riferimento. Ho recuperato al paese natio il certificato di nascita e l'ho portato alla prefettura di riferimento, che l'ha autenticato senza problemi, anche se è lo stesso modello di quello di mio marito e che, no, non è andato bene. Ho rimpianto di aver fatto fretta per un mese al commercialista, tanto la copia conforme della dichiarazione dei redditi era inutile e ho inseguito tutt'altro documento (con il povero Nik che ha portato un altro documento alla funzionaria quasi a notte). Infine, stiamo aspettando che l'Amministratore Delegato della ditta di mio marito (santo subito) vada in comune a palesare la propria esistenza. Il tutto per tornare in prefettura e sperare che questa volta tutto vada bene (nonostante svariati documenti ministeriali attestassero che andava tutto bene anche prima).

Mentre attendevo che l'anagrafe del posto in cui mi sono sposata aprisse ho fatto due passi e ho incontrato questo drago che mi guardava truce. L'ho trovato molto simbolico.

Buona semplificazione a tutti.

2016
Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!

mercoledì 22 giugno 2016

Magico Vento - La guerra delle Black Hills e di personaggi che contraddicono i loro autori - Letture


Torno finalmente al blog dopo due giorni densi come il plutonio e con la gioia che si può immaginare abbia chi ha ricevuto le notizie che un buon numero dei documenti della mia maratona burocratica è da rifare e che al concorso scuola stanno passando all'orale solo circa un terzo dei candidati (per me ancora le notizie latitano, ma gli auspici non sono tra i migliori, direi...).

Però adesso mi prendo mezz'ora di pausa per raccontare di qualcosa che molto amo.
Quando si parla del "preferito" in un campo qualsiasi, il giudizio non può essere oggettivo. Magico Vento è stato e, credo, sempre sarà, il mio fumetto preferito. Perché mi ha traghettato dall'adolescenza all'età adulta. Perché mi ha fatto compagnia durante i primi tempi dell'università, quando non conoscevo nessuno. Perché mi veniva spedito anche quando ero in Erasmus. Perché la storia è splendida ed è scritta benissimo.

Ned Ellis è un soldato americano. A seguito di un incidente ferroviario viene trovato ferito e smemorato da una tribù lakota che lo adotta. Diventa un "uomo strano", cioè un uomo a cui è stato dato il (dubbio) dono della visione profetica. Col tempo Ned Ellis recupera la memoria, ma sceglie di restare con il suo popolo d'adozione e di condividerne il tragico destino.

I primi numeri, usciti nel lontano 1997, erano un prodotto ben strano. Un western atipico, molto ben documentato, ma con inserti horror, che sembrava non saper bene cosa voleva essere. Poi Gianfranco Manfredi (autore praticamente unico di tutte le sceneggiature) ha preso la strada della grande narrazione storica, facendo la scelta di raccontare la guerra che vide opposte le tribù native guidate da Toro Seduto e Cavallo Pazzo all'esercito degli Stati Uniti dalla parte dei nativi. Ne uscì una narrazione fiume di decine e decine di numeri collegati, culminata con cinque memorabili volumetti che raccontano dalle fasi cruciali della guerra (compresa la famosissima battaglia del Little Big Horn) fino alla resa e alla fuga degli ultimi ribelli. Quando ho scoperto che era stato pubblicato un volume in grande formato di questi ormai introvabili cinque volumetti, vi assicuro, ho vissuto un istante di felicità pura (anche quando l'ho trovato, alla terza libreria in cui l'ho cercato).


LA GUERRA DELLA BLACK HILLS - Un grande romanzo storico a fumetti
Non so quale accezione diate voi alla parola "fumetto". In ogni caso al 90% non si applica a questo volume che è un grande romanzo storico a fumetti.
Racconta la guerra indiana con una cura maniacale per il dettaglio e un rispetto per tutti i personaggi più unico che raro.
Siamo là, nelle Black Hills, territorio sacro dei lakota, loro concesso da una serie di trattati, ma in cui, purtroppo, era stato trovato l'oro, all'alba dello scontro frontale con l'esercito statunitense.
Le grandi figure storiche svettano come giganti. 

Io non so se fin dall'inizio Manfredi avesse progettato questa epopea. Di fatto il suo protagonista, Ned Ellis, è costruito a immagine di Cavallo Pazzo, guerriero dotato del dono della visione, dal grande carisma, che lo porta ad avere un enorme seguito, nonostante non fosse di fatto a capo di nessuna tribù. Decidendo di far interagire Ned e Cavallo Pazzo, quindi, vi erano una serie di "mine narrative" che Manfredi evita abilmente. I due si incontrano da protagonisti alla pari, due spiriti affini che si riconoscono subito come uguali. Ned, con il suo comunque riconoscersi anche negli americani (nei soldati semplici mandati a morire, se non nei politici), Cavallo Pazzo con il suo non voler essere capo, col suo dolore immenso per la figlia da poco morta. Entrambi con il dono non voluto della visione. Entrambi troppo lucidi per sapere che non c'è alcuna vittoria possibile, entrambi pronti comunque ad andare fino in fondo.
Ben diverso è Toro Seduto, che vorrebbe un futuro differente, vorrebbe scontrarsi alla pari con l'esercito statunitense (che batte più volte sul campo) e alla pari trattare poi una pace. Che non può, tuttavia, trattare un insieme di tribù come un esercito disciplinato, né ottenere dal governo statunitense quel trattamento alla pari che vorrebbe. Paradossalmente, come ben racconta Manfredi, Toro Seduto è vittima del proprio successo. Se avesse solo sconfitto l'esercito americano, forse, avrebbe avuto un trattamento migliore, ma come motore degli eventi che portano alla morte di un simbolo vivente come Custer, non può che attirare su di sé l'odio e il desiderio di vendetta di tutti gli USA.
Narrativamente, forse è Custer il capolavoro di Manfredi. Un uomo complicato, intento a costruirsi attorno una leggenda di cui è consapevole di non essere all'altezza, ma sincero negli affetti. Un uomo che ha una sua personalissima, ma in fondo coerente, morale, che lo porta a tentare il tutto e per tutto con un'armata di soldati ragazzini, consapevole di essere per i suoi superiori solo una vittima sacrificale e pronto a assumersene fino in fondo il ruolo.
L'apice emotivo della narrazione è forse il momento in cui Ned cerca in ogni modo di raggiungere Custer, nel pieno della battaglia. Per salvare un lakota che gli sta dando del traditore, si trova ad uccidere un ragazzino appena diciassettenne. Quelle poche tavole sono la descrizione perfetta di una guerra disperata, dove il fatto che la ragione stia tutta dalla parte dei nativi non li rende tutti eroi, né rende tutti gli statunitensi inumani. Umanissimo è Custer, il suo enturage e la sua armata di ragazzini, mandati a morire perché altri possano sterminare i ribelli in nome della giusta vendetta.
Del resto c'è una cura maniacale in tutti i personaggi, in quelli storici come in quelli inventati. Le figure femminili (una delle prime giornaliste di guerra, la moglie di Cavallo Pazzo, Scialle Nero e la guerriera Hanno paura di lei), i semplici vivandieri, il fuoricasta Spirito della Notte, mezzosangue in parte nero e per questo rifiutato da tutti, nessuno di loro passa inosservato.
Questo è un volume da avere e da leggere, anche se non si ama il fumetto. Se si ama il racconto storico, se si avverte il fascino dell'epopea dei lakota di Toro Seduto, ma non si vuole uno sguardo univoco e di parte, questo è un volume da leggere.


I LIMITI DELL'EDIZIONE
Ci sono purtroppo dei limiti in questa edizione, pure così bella, uno grafico e uno strutturale.

I cinque volumi vedevano l'alternanza dei cinque migliori disegnatori della serie (io ho un debole per Frisenda, autore anche della copertina del volume). Uno dei volumi era originariamente a colori ed è qui presentato in bianco e nero. Mi rendo conto che fosse un problema da gestire. Le bellissime tavole di Frisenda del capitolo "Rosebud" sono pensate per il bianco e nero, colorarle avrebbe annullato alcuni effetti di luce. D'altro canto, il volume "Il crepuscolo degli eroi" disegnato da Parlov era pensato per il colore e ricordo l'effetto della terribile visione di Ned sulla morte di Cavallo Pazzo, effetto dato anche dalla colorazione ad acquarello su fondo nero, che qui viene a mancare. Forse valeva la pena di mantenere quell'unico capitolo a colori, perché chi lo ricorda come tale ne sente davvero la mancanza.


Il secondo limite è ben più grave.
Originariamente questi erano 5 numeri della serie originale, dal 96 al 101. Una cavalcato conclusiva, ma iniziata col numero 16 della serie, quando per la prima volta è stato presentato Cavallo Pazzo. Parliamo di 80 numeri di presentazione ed evoluzione dei personaggi, con dinamiche e caratteri che si vanno a consolidare nella mente del lettore. Di Cavallo Pazzo in 80 numeri abbiamo seguito la stagione della speranza, il dolore per la morte della figlia, uccisa da una malattia portata dai coloni, la scelta di una ribellione solitaria e la dolorosa consapevolezza di essere diventato un simbolo, con tutti gli oneri mai cercati del comando. Questo, però, vale anche per tutti i personaggi secondari. Tutti hanno un passato e storie pregresse, tutti, anche la bambina con il flauto che si intravede in un paio di tavole o il giovane messaggero Fango che ha solo due battute.
Questo pregresso ovviamente non poteva esserci nel volume. Serviva un'introduzione e un rapido passaggio in rassegna dei personaggi principali, giusto per capire chi è chi. Mi chiedo con rammarico cosa capirà il nuovo lettore di questa storia. Per me, appassionata di lungo corso, è stato comunque necessario un bello sforzo di memoria (ad un certo punto, tanto per citare un esempio, diventa importante un vecchio scontro tra tale Pioggia in Faccia e il fratello di Custer, avvenuto una ventina di numeri prima). Ma per chi legge questa storia per la prima volta?
L'unica cosa che posso dire è non lasciatevi spaventare da qualche sfumatura incomprensibile, qualche rapporto di forza non narrato. La forza intrinseca di questa storia è tale, che anche se non vi sarà chiaro chi è Fulton o perché Ned odia Lungo Fucile, la narrazione può essere apprezzata ugualmente.
Un'introduzione, però, sarebbe davvero servita. E lo dice una che odia le introduzioni.

LA STRANA STORIA DI UN PERSONAGGIO CHE SI È PRESO IL SUO FINALE, NONOSTANTE IL PARERE DEL SUO AUTORE
Questi numeri, e in particolare l'ultimo, il 101 della serie originale hanno una strana storia.
Quando iniziarono a uscire tutti gli appassionati gridarono al capolavoro e le vendite si impennarono. Ma quasi tutti i lettori non comprarono il numero 102, né i seguenti, causando di lì qualche decina di uscite la chiusura della serie.
La cosa lasciò, comprensibilmente, interdetti autore ed editore. Com'è possibile che i lettori dicano che il n°101 è un capolavoro e poi non comprino il 102?
Il fatto è che Ned Ellis non poteva sopravvivere al suo popolo. 
Il finale del 101 (si tratta di eventi storici, non è spoiler) non è certo il finale di un fumetto bonelliano. I ribelli sono sconfitti, quelli nelle riserve costretti a spostamenti punitivi che li decimeranno, i pochi sopravvissuti in Canada destinati al declino. È la storia, non la narrativa. È morto Custer e Cavallo Pazzo. Il popolo di Toro Seduto, così come il lettore l'aveva conosciuto, non esiste più.
Ned Ellis non muore, però (come si fa a uccidere un eroe bonelliano?). Secondo le intenzioni di Manfredi, avrebbe dovuto unirsi ad altre tribù ribelli e in particolare offrire sostegno logistico agli apaches. Ma Ned Ellis, Magico Vento, è un soldato disertore che ha deciso di diventare un lakota e di condividere la sorte del suo popolo e in particolare quella di Cavallo Pazzo, fino alla fine. 
Ci sono personaggi particolarmente ben riusciti da risultare così forti da non obbedire neppure al loro autore. Sherlock Holmes non poteva morire in fondo a una cascata, con buona pace di Doyle. Ned Ellis ha scelto di morire con Cavallo Pazzo, con buona pace di Manfredi. L'ultima tavola mostra un luogo di sepoltura indiano nelle Black Hills e quattro personaggi che vi si allontanano di spalle. Poco importa che uno sia in effetti Ned. Anche rileggendolo ora, ho avuto la stessa sensazione di dieci anni fa. Un finale definitivo.
Né io né gli altri lettori volevamo vedere Ned in una riserva o in un circo. Lui voleva rimanere fino all'ultimo con Cavallo Pazzo. È talmente chiaro che quando Manfredi trova una scusa per allontanarlo, noi non ci crediamo. Il lettore non può credere a un personaggio che si muove contro la sua natura. E se un personaggio è scritto davvero bene ha più forza del suo autore. 
Nonostante tutti gli sforzi (per altro lodevolissimi) di Manfredi, Ned Ellis è morto con Cavallo Pazzo, come aveva sempre voluto.
Di solito, comprensibilmente, quando succedono cose simili, gli autori non sono molto contenti di questo ammutinamento interno e del ritrovarsi prigionieri delle premesse che loro stessi avevano posto. Eppure è anche la misura della riuscita di un personaggio.
Voi cosa ne pensate?

venerdì 17 giugno 2016

Anticipazioni & Appuntamenti


A luglio il Giallo Mondadori 3145, Quella casa nella brughiera di Ngaio Marsh conterrà anche il mio racconto Aveva ragione Corto Maltese.
Iniziate a ordinarlo nella vostra edicola di fiducia!

Martedì 21 giugno alle ore 21 ad Alzo di Pella vi sarà invece una serata dedicata a Innocenzo Manzetti. Salvo imprevisti (considerata la durata della riunione di oggi meglio mettere le mani avanti), ci sarò anch'io e presenterò il romanzo Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico, che con Manzetti ha molto a che vedere. 

mercoledì 15 giugno 2016

Chi abita nella testa di Tenar?


Lasciamo un attimo le atmosfere serie del post precedente.
Prima di farlo volevo ringraziare tutti coloro che hanno preso parte alla discussione. A me è servita e spero sia utile anche agli utenti di passaggio. La conclusione a cui sono giunta (il self non è per ricchi, ma purtroppo neppure per precari) non mi rallegra molto, ma il problema, se non altro, non sembra riguardare tanto l'editoria, quanto un sistema per cui per molti ultratrentenni un investimento incerto di 2000€ è impensabile.

Oggi, quindi, tra uno scritto d'esame da correggere e una riunione di programmazione, volevo concedermi un post molto più leggero.
Non avete mai l'impressione che nella vostra testa abitino vari personaggi? Io sì e, parlando con alcuni amici, li abbiamo individuati e abbiamo dato loro dei nomi. Qualche volta ne ho già nominato qualcuno nel blog, quindi ho pensato che fosse il caso di fare un post un po' più sistematico per presentarveli come si deve.

LA BEGHINA: la Beghina è il mio spirito morale, che spesso, sopratutto per le questioni etiche, prende il timone del mio Io Cosciente, determinando le mie scelte di vita.
Ha un'età indefinita stimata intorno ai 600 anni (chi mi ha detto che sono "vecchia dentro" non immagina quanto), la visualizzo come una vecchina vestita di marrone e armata di un bastone nodoso con cui minaccia tutti gli altri abitanti del mio inconscio. Il fatto che abbia 600 anni fa sì sia praticamente impossibile scandalizzarla e probabilmente è sopravvissuta a svariati processi per stregoneria. Ha quindi una morale ferrea che però non si può dire cattolica e una coscienza di genere infinitamente più antica del femminismo. 
La Beghina è quella parte di me che mi permette di andare d'accordo con insegnanti di religione e con  neopagani convinti, purché abbiano una morale e che mi fa invocare il rogo per ogni sorta di ipocrisia.

IL DRAGO D'OTTONE: il Drago d'Ottone, intimo amico della Beghina, spiega molti tratti del mio carattere. Chi ha giocato qualche volte a D&D sa infatti che i draghi d'ottone prediligono i climi caldi, amano la conoscenza e, ogni tanto, fare sfoggio della loro saccenza. Come tutti i draghi odiano spendere e, potendo, si rotolerebbero su un tesoro (che nel mio caso sarebbe formato da libri, libri rari e oggetti antichi). Rispetto a tanti altri draghi ha un buon carattere, ma guai a pestargli la coda!

IL MOSTRO DEL PANICO (BOB): questo pare sia comune a molte menti. Di solito si alterna alla "Scimmia della gratificazione immediata" (che nel mio caso credo sia stata mangiata dal Drago d'Ottone). Entra in azione quando c'è una scadenza imminente, sopratutto burocratica. Teoricamente dovrebbe far scappare la scimmia e permettere al cervello di funzionare. Nel mio caso, temo, imperversa fino a che la Beghina non lo abbatte a bastonate.

LA RUOTA DELLA PARANOIA: è enorme e vi corre dentro un enorme criceto obeso. Quando il criceto si ferma (è obeso, quindi si ferma spesso), un meccanismo fa sì che venga scelta in modo casuale una paranoia che per un tempo variabile tra due minuti e settimane occupa la mia mente. Ogni cosa vagamente spaventosa di cui io venga a conoscenza entra nel "monte paranoie" e può quindi essere estratta. Ad esempio so che si dice che Eschilo morì ucciso da un carapace di tartaruga che un'aquila gli fece cadere in testa. Ecco, è improbabile, ma un giorno potrei svegliarmi pensando "oddio, e se mi cade in testa un carapace di tartaruga?".
Fortunatamente la Beghina e il Drago abbattono molte delle paranoie appena escono dal meccanismo della ruota.

LE PANTEGANE DELL'INCONSCIO: di queste sicuramente ho già parlato. Nei sotterranei del palazzo mentale ci sono le pantegane dell'inconscio, dei grossi ratti che rappresentano le paure profonde e ogni tanto risalgono dai tombini e bisogna combattere contro di loro. Al contrario delle Paranoie della ruota, sono davvero temibili e a volte affrontarle non è uno scherzo. Come ho raccontato in passato, gran parte del lavoro di uno scrittore consiste nel calarsi nei tombini e affrontare le pantegane. Anche perché se lasciate indisturbate possono fare parecchi danni, come chiunque abbia mai avuto un problema di topi in cantina può testimoniare.

IL PALAZZO MENTALE: tutte queste creature abitano il palazzo mentale. Non ho ancora esplorato del tutto il mio palazzo mentale, ma vi è una bellissima stanza circolare con un bel focolare, dove di solito si trova accoccolato il drago, con due enormi vasi cinesi dove vi sono i post-it gialli delle urgenze. Il luogo più suggestivo, però, è la spiaggia dei filosofi e dei poeti, dove raccolgo la memoria delle cose più affascinanti che io abbia letto o sentito. Posso passeggiare mentalmente lunga la spiaggia, al tramonto, e ascoltare i filosofi che parlano...
Ovviamente vi sono moltissime altre stanze e altri abitanti, come i folletti dei ricordi inutili che tappezzano il palazzo con deliziose assurdità che ho letto o sentito non si sa quando. È il motivo per cui magari non mi ricordo il PIN del bancomat, ma so con matematica certezza che le femmine del merlo preferiscono i maschi con una piuma bianca. Tra l'altro i folletti dei ricordi inutili mi regalano attimi di vera gioia ogni qual volta incappano su una di queste informazioni che poi potranno trasformare in poster da affiggere ovunque, anche sui post-it delle urgenze.


Ecco, a questo punto potete o scappare a gambe levate ormai convinta che io sia pazza, oppure raccontarmi chi abita nella vostra testa.

domenica 12 giugno 2016

L'autopubblicazione è un hobby per ricchi?


Premessa necessaria
Questo post è una riflessione personale, né più né meno. Una riflessione, però, non una provocazione, tanto meno gratuita. Nella blogsfera, sopratutto in quella parte di blogsfera in cui si parla di scrittura, si discute moltissimo di autopubblicazione e chi ci è passato o lavora nel settore offre consigli e analisi di mercato. Leggo sempre con interesse quei post. Sono la prima a rendermi conto che alcune cose che ho scritto non interessano ad alcun editore, almeno non qui, non oggi. Potrebbero interessare dei lettori, però, quindi non mi sento di scartare a priori la possibilità di autopubblicare e per questo mi tengo informata. Faccio sempre, o quasi, i "conti della serva" per cercare di capire quanto possa costare e se me lo possa permettere e da qui nascono molte mie perplessità. Avere perplessità non credo sia offensivo, anzi, spero proprio che qualcuno nei commenti risponda "no" e mi motivi in modo convincente la sua opinione.

Perché non penso che pubblicare o autopubblicare POSSA essere un hobby, tanto meno per ricchi
Quando faccio i conti della serva, a volte mi viene detto che bisogna investire nella propria scrittura e, comunque, non c'è nulla di male nel spendere per qualcosa che ci piace fare. Del resto se andiamo in palestra paghiamo un abbonamento e allo stesso modo se faccia un corso di fotografia non pretendiamo di farlo gratis e se facciamo sub ci compriamo l'attrezzatura. 

Il problema è che IO NON PENSO CHE LA SCRITTURA DEBBA ESSERE UN HOBBY.
Un hobby è qualcosa che si fa per propio piacere, principalmente per autogratificazione, poi se ne esce qualcosa di gradevole, bene, ma è comunque un investimento su noi stessi. La scrittura è un'attività rivolta all'esterno, ai lettori e i lettori si meritano qualcosa che non sia a livello amatoriale, sopratutto se pagano. Quando mettiamo un libro in vendita non stiamo facendo la mostra gratuita del fotoclub o il saggio di danza. Chiediamo al lettore tante ore di attenzione, oltre che i suoi soldi. E al lettore non importa molto della nostra autogratificazione. Importa di avere una bella storia.

Un hobby è qualcosa a cui si dedicano dei ritagli di tempo e le energie in sovrappiù, qualcosa di cui, al limite, si può fare a meno. La letteratura non è qualcosa di cui l'umanità possa fare a meno e accettare che solo quella parte di popolazione che può permettersi di praticarla per hobby produca letteratura rischia di impoverirci a livello culturale. Non avere i soldi e il tempo da investire nell'autopubblicazione non vuol dire molto in termine di qualità. O torniamo indietro di qualche secolo e all'idea che solo chi ha i soldi ha idee che ha senso ascoltare o dobbiamo sforzarci di avere un sistema culturale che permetta anche a chi non ha risorse di emergere. A livello etico questa è la mia principale perplessità sull'autopubblicazione, che rischia di trasformare il "tutti possono pubblicare" in "tutti quelli che hanno i soldi possono pubblicare".

Ovviamente si può fare letteratura per hobby e non c'è nulla di male in questo. Ci sono siti di scrittura amatoriale, gruppi di lettura e di scrittura e si può aprire un blog e giocare con le parole. Non solo non c'è nulla di male, ma spesso è uno step necessario per arrivare a fare letteratura in modo più professionale. Per quel che mi riguarda la discriminante è il mettere un prezzo alle proprie opere. Fino a che su un blog pubblico racconti che tutti possono vedere, io come autore ho un impegno limitato in termini di impaginazione, grafica e promozione, io come lettore posso abbandonare la lettura dopo poche righe senza remore se ritengo che non ne valga la pena. Come tutte le attività amatoriali, se si pubblica su un sito o su un blog di solito si rimane aperti ai commenti e ai consigli, in un'ottica di crescita e di mutuo aiuto. Come lettore posso passare a distanza di tempo per vedere se quell'autore è migliorato oppure no. 
Quando però metto il mio libro in vendita ho, come autore, tutta una serie di obblighi e di impegni e, come lettore, investo qualcosa, tanto o poco che sia. Come lettore se non sono soddisfatto non sono soddisfatto, non regalo gentili consigli, al massimo stronco. E di certo non compro una seconda opera da chi mi ha deluso. Insomma, come in molti altri campi, quando metto un prezzo alla mia opera passo al professionismo, con tutti gli oneri e gli onori del caso.

Perché penso che l'autopubblicazione RISCHI di diventare un hobby per ricchi

– Perché per fare un buon lavoro c'è bisogno di un investimento non indifferente
Bisogna fare un editing, una correzione di bozze, un'impaginazione e una copertina professionale. Personalmente ritengo che, tranne casi fortunati, non sia il caso di ricorrere a degli amici (chi ci garantisce l'obiettività e la professionalità degli amici, a meno che non lavorino nel settore), del resto non stiamo facendo la locandina della festa dell'oratorio, con tutto il rispetto per le feste dell'oratorio! Il problema è che tutto ciò costa. Parecchio. E qui torna il paragone con il sub. Fare sub è una bellissima esperienza, ma costa. Se uno non se può permettere, evita. Tuttavia il mondo non perde niente se una persona non fa sub. Invece un capolavoro della narrativa arricchisce tutti e perderselo perché l'autore, magari giovane e squattrinato, non può permettersi editing e grafico non mi sembra una grande vittoria per la democrazia. Peggio, il giovane scrittore, non potendo permettersi editing e grafico si affida agli amici e fa quello che può. Vende 20 copie, riceve due recensioni da 1 stellina, la prima dice " ci sono quattro refusi in 40 pagine, che schifo!", la seconda "l'impaginazione era un disastro, ho dovuto smettere di leggere". Il nostro giovane scrittore si convince di non valere niente e se ci fa bene non fa la fine di Jacopo Ortiz.

– Perché per fare un buon lavoro, sopratutto di promozione, ci vuole un sacco di tempo
Questo, a dire il vero, è un problema comune anche all'editoria tradizionale. Bisogna scrivere in modo professionale (almeno secondo me), ma, sempre conti della serva alla mano per i più la scrittura rimane, se va bene, un secondo lavoro. Posto che a tutti piace mangiare e dormire in case riscaldate, gli autori alle prime armi si dividono in tre categorie: quelli ricchi, che non hanno bisogno di un altro lavoro, quelli normali, che si barcamenano tra famiglia, lavoro e scrittura, e quelli pazzi che vivono per strada o in case occupate (e magari sfornano capolavori, ma magari no).
Solo i primi hanno le risorse di tempo per accollarsi per intero il lavoro di promozione e questa è una triste verità, ribadisco, anche per l'editoria tradizionale. Quest'anno io ho dovuto dare uno stop a molti impegni, non per mia scelta, e è saltato per primo il tempo dedicato alla promozione di ciò che scrivo. Pur lavorando con editori, c'è chi me l'ha fatto pesare, senza indagare il perché della mia scelta. Tuttavia qualcosa si è mosso ugualmente, perché non ero solo io a occuparmi dei miei scritti. Se la stessa congiuntura fosse capitata a un giovane autore self con il suo capolavoro appena messo su Amazon? Il non potersi occupare di promozione avrebbe affossato le vendite? Questo avrebbe fatto di lui uno scrittore peggiore?

– Perché sono necessarie attitudini sociali che nulla hanno a che vedere con la scrittura
Questa mia perplessità non ha nulla a che fare con la ricchezza. 
Si dice sempre che un autore self deve essere un autore social, molto presente, pronto all'interazione, entusiasta nel rapportarsi col pubblico, pronto a raccontarsi. Questo aspetto ha a che fare con competenze informatiche e sociali, non letterarie. Esiste la seria possibilità che un ottimo autore non abbia quelle competenze e quelle qualità. Ci sono ottimi autori che, quando li senti parlare, ti vien voglia di strapparti i capelli. Ma, del resto, non hanno scelto di fare cabaret. Hanno scelto di scrivere. Attività solitaria che tende ad attrarre introversi, non proprio degli animali da palcoscenico. Il fatto che un editore gestisca l'immagine di un autore può essere un gran male, ma anche un bene, quando un autore sa scrivere, ma non, sopratutto all'inizio, interagire con i lettori. Un buon editore accompagna l'autore in un percorso, gli insegna come fare. Il self è lasciato allo sbaraglio. O paga qualcuno, o rischia di pagare per i propri errori di strategia. In ogni caso questo non ha nulla a che fare con la scrittura.

Inconcluse conclusioni

Ho una gran paura che l'autopubblicazione, presentata come il massimo della meritocrazia, finisca per premiare dei meriti che nulla hanno a che fare con la scrittura. 
Ho paura che si trasformi in un hobby per ricchi.
Ho paura che un giovane autore di talento, ma squattrinato, possa perdercisi anche più che non bussando alla porta di un editore.
Ho paura che l'auopubblicazione rimanga patria per boriosi imbrattacarte senza talento, per feroci imprenditori del libro più spietati dei grandi editori, tutti tesi alle vendite e al marketing e per uno sparuto gruppo di idealisti che rischia di finire schiacciato.
Ho paura di finirne schiacciata io. Se autopubblicassi forse avrei meno lettori che non mandando gratis il pdf della mia opera ai miei amici, perché non ho il tempo e i soldi per pagarmi editing e grafica, per non parlare della promozione.

Smentitemi, ma motivatemi le vostre idee, considerando che sono un'anima pratica che ama farsi i conti e che no, non posso abbandonare nulla di quanto sto facendo per dedicarmi di più alla mia vocazione.

venerdì 10 giugno 2016

Metti una sera dei ragazzi a spiegare la storia...

Certo che i ragazzi di oggi...
Non si interessano...
La storia poi... Non sanno più niente... Non gliene importa... Sempre lì sui telefonini...

Alzi la mano l'adulto che non ha mai detto una cosa del genere, neppure una volta.
Ma se facessimo un esperimento? Se dessimo ai ragazzi un archivio storico su cui fare ricerca seguendo ciò che li incuriosisce, se li lasciassimo cercare nelle soffitte di casa loro alla ricerca di oggetti e di fotografie, se li lasciassimo fare delle domande agli anziani? E se poi raccogliessimo tutto quello che hanno scoperto e organizzassimo un incontro in cui siano i ragazzi, supportati "alla pari" da uno storico, a spiegare agli adulti quello che hanno scoperto?
Perché no? Questa è stata la risposta degli storici, del sindaco, che ha messo a disposizione l'ambiente più prestigioso del comune e la dirigente. Perché no? A volte basta così poco, eppure quel poco a volte è così difficile da mettere insieme. Non questa volta.
Vediamo cosa ne esce.
Cosa ne esce?
Ne esce una conferenza corale, con circa 25 ragazzi che si alternano rapidi nelle spiegazioni, con la padronanza che differenzia chi ha fatto un lavoro di ricerca da chi ha studiato una lezione a memoria. Partono dalla storia del territorio, dalle condizioni di vita dei loro coetanei 80 o 90 anni fa. Illustrano fotografie trovate in archivio, ma anche in solaio, oggetti insoliti che hanno provato a tenere in mano. Fanno le loro considerazioni, da storici, su ciò che hanno trovato nei libri e quello che hanno sentito dalla viva voce dei testimoni. Hanno persino provato a fare i dolci di un vecchissimo ricettario.
Ne esce mezzora in cui gli adulti ascoltano e poi commentano che no, non sapevano che sulle nostre strade sono state provate le primissime moto da corsa, che no, non si ricordavano di questo o di quell'altro. E a spiegarlo sono stati proprio quei ragazzi che rimproveriamo di stare solo sui cellulari e che invece erano lì, dopo la fine dell'ultimo giorno di scuola, subito prima della festa di fine anno a parlar di storia.

Mi ricorderò di ieri sera, quando, prigioniera della burocrazia e delle regole in continuo mutamento dirò che non voglio più insegnare. Me ne ricorderò la prossima volta che avrò voglia di mollare tutto.
Non avevo mai organizzato nulla fuori dall'orario scolastico e magari è sembrato anche che abbia lavorato un sacco, invece non ho fatto nulla.
Non ho spiegato nulla ai ragazzi, non ho detto loro cosa studiare, non ho distribuito parti da imparare a memoria, non ho ascoltato prove di alcun genere. Di fatto mi sono limitata a dar loro l'indirizzo internet dell'Archivio fotografico del Lago d'Orta, ad accompagnarli un pomeriggio a incontrare gli anziani di una casa di riposo e a studiare con loro oggetti e fotografie che hanno trovato in soffitta. Poi li ho lasciati fare, magari sbuffando insieme a loro quando la connessione internet ballerina del nostro istituto ci lasciava.
A volte si pensa che i ragazzi non siano in grado di lavorare con precisione. Ma se sanno che c'è un ritorno possono trasformarsi in un perfezionismo quasi maniacale. Ci sono stati due gruppi di lavoro che a due ore dalla fine delle lezioni non avevano consegnato il lavoro, non per pigrizia, ma per perfezionismo e stavano ancora discutendo sul colore da mettere come sfondo alle fotografie. Alla fine, raccolto tutto, c'è stato giusto il tempo per stabilire l'ordine di parola, cercando di mediare tra senso logico e timidezza personale.
La sala gremita, poi, intimidiva me, ma loro come consumati professionisti si sono alternati alla parola senza sovrapporsi mai, senza rubarsi la parola, lasciandomi col dubbio se sia stato un miracolo o se, alla fine, tutte le cose ripetute in classe abbiano acquisito senso anche ai loro occhi.
Sono stati fantastici, semplicemente fantastici.
Hanno posizionato le sedie, hanno recuperato un computer che andasse d'accordo con il proiettore, hanno parlato e spiegato senza annoiare. 
Mi hanno fatto prendere dei complimenti su come li avessi preparati che non mi sono meritata. Non erano stati preparati da nessuno. Si erano preparati da soli, su materiali che sono cercati in autonomia e che hanno assemblato secondo il loro gusto.

E quindi cosa posso dire? Grazie al sindaco, che ci ha messo a disposizione spazi e materiale, oltre a un supporto costante, grazie ad Accendiamo la Memoria e a Ecomuseo, che ci hanno dato il materiale su cui indagare, grazie a Villa Serena, che ci ha fatto incontrare i suoi ospiti, grazie alla Dirigente, che ci permette di far scuola fuori da scuola.
E grazie, grazie, grazie ai ragazzi, che non piccoli geni, ma ragazzi come tutti, in grado di appassionarsi e di appassionare.

mercoledì 8 giugno 2016

La soluzione sette percento – Letture


Oggi mi ha colpito molto il post di Salvatore. Lui afferma di non leggere se non libri che gli sono utili. L'utilità, penso, è molto personale.
Io nella lettura sono totalmente anarchica, forse perché sono molto rigorosa in altri aspetti della vita. Faccio molta fatica a impormi di leggere i libri per il gruppo di lettura, e dire che mi sono piaciuti quasi tutti. C'è il momento in cui leggo il classico rinascimentale e quello del peggior libro commerciale. Ci sono classici imprescindibili che non ho mai aperto e altri che ho divorato. Non credo che il mio sia il miglior modo possibile di leggere, anzi. In linea di massima ritengo che si debba leggere per migliorarsi come persone, per allargare i propri orizzonti, entrare in contatto con altri modi di pensare, di scrivere, altre culture, problematiche esaminate dall'interno come solo la narrativa sa fare. Come prof lo dico ai miei alunni. Poi razzolo male. Leggo al 99% per puro e immediato piacere.
Questo libro mi ha regalato sprazzi di pura e semplice gioia.
Non so se basti a definirlo un libro utile. 

Ho sempre sentito parlare di La soluzione sette percento di Meyer. È, di fatto, il romanzo che ha dato dignità all'apocrifo sherlockiano moderno. Così quando l'ho visto tra i libri a due euro in una libreria dell'usato ho avuto un momento di pura felicità letteraria.
Seguita subito dal timore. Sarà all'altezza di tanta attesa?
Sarà davvero un apocrifo con dignità letteraria, in grado di dire qualcosa di nuovo (oddio, nuovo per gli anni in cui è stato scritto, i '70) su Sherlock Holmes senza snaturare il personaggio? Peggio. Questo libro è entrato talmente tanto nell'immaginario degli sherlockiani che ce ne sono tracce quasi ovunque, al punto che qualsiasi appassionato ne conosce almeno a grandi linee la trama, con buona pace dell'effetto sorpresa. Giusto per fare un esempio, penso proprio che vengano da qui i ricordi del giovane Sherlock in Piramide di paura e una certa gestualità dell'Holmes di Brett, a sua volta confluita nello Sherlock BBC.
Infine, proprio l'assunto stesso del libro mi destava perplessità: Sherlock Holmes è talmente schiavo della cocaina da essere ossessionato da un Moriarty in realtà innocuo e ha bisogno che Freud lo ipnotizzi per risalire alle cause della sua dipendenza. Temevo la vaccata.
Poteva essere una vaccata immane. Ma non lo è.

Il miracolo di questo libro è che l'Holmes di Meyer è allo stesso tempo vulnerabile e geniale e non smette mai, neppure per un istante, di essere temibile. È semplicemente quello che è, un genio con un pessimo carattere ma una profonda nobiltà d'animo con un problema di dipendenza. 
Premesso che so ben poco di Freud, l'interazione tra Freud e Holmes funziona benissimo. Non sempre è facilissima, essendo comunque entrambi delle primedonne e l'autore è bravissimo a gestire i continui cambi nei rapporti forza. I due combattono una loro amichevole guerra e il vantaggio psicologico continua a passare dall'uno all'altro.
Infine, questo romanzo non è una storia di dipendenza, ma un giallo. Un giallo tutto interno alla psiche di Holmes (che comunque non viene mai svelata, grazie al cielo) e uno classico, tutt'altro che marginale, con una scena d'azione finale estremamente appagante.

Arrivata alla fine del post e del libro mi trovo un po' in imbarazzo. Razionalmente continua a pensare che la lettura debba essere utile. Eppure La soluzione sette per cento è una lettura fondamentalmente inutile. Ben scritta, ottimamente strutturata, con una guest star d'eccezione splendidamente gestita, ma non credo mi abbia arricchito. Mi ha regalato gioia, però, e ottimo intrattenimento. E non riesco a giudicarlo inutile.

lunedì 6 giugno 2016

Quando un'opera derivata supera l'originale.

Di solito quando si guarda un film che si è molto amato da lettori la reazione è di delusione. Cambiamenti della trama, semplificazioni, scelte di cast che non rispecchiano la nostra immaginazione e il semplice passaggio da un media all'altro ci va spesso venire voglia di mettere al rogo il regista di turno al grido di: "è meglio l''originale! Sempre!".
Sempre?
Sempre l'originale è meglio dell'opera derivata?
Dopo la lettura de Il fantasma dell'Opera mi sono fatta delle domande. Ho ascoltato il musical e ne ho guardato degli estratti e ho pensato che, tutto sommato, credo sia meglio il musical. Quindi mi sono domandato se fosse un caso così isolato o se ce ne fossero altri..

L'ORLANDO FURIOSO VS LA CANZONE DI ORLANDO
L'Orlando Furioso di Ariosto è un'opera derivata da un'opera derivata. Rivisita e continua L'Orlando innamorato che, a sua volta, pesca dai cantari medioevali, addirittura da una delle prime opere in francese volgare, La canzone di Orlando. A usare un vocabolario moderno è il sequel di un reboot. Di solito questo fa presagire una pessima qualità. Aggiungiamoci anche il fatto che si tratta comunque di un'opera su commissione, scritta (anche) per esaltare gli estensi... Eppure l'Orlando Furioso è meraviglio. È forse una delle opere letterarie italiane a cui personalmente sono più legata. Gusto personale a parte, tra ironia e tristezza, tra paladini pazzi d'amore e animali volanti che trasportano fino alla luna, L'Orlando Furioso è uno dei grandi capolavori della nostra letteratura, in grado di eclissare tutte le pur lodevoli opere dedicate ad Orlando che sono venute prima.

FRANKESTEIN JUNIOR VS QUALSIASI ALTRO FILM SU FRANKESTEIN
Lasciamo per un attimo da parte il romanzo e concentriamoci sui film derivati dal romanzo. Abbiamo un curiosissimo caso in cui una parodia è diventata più famosa delle opere da cui è derivata. Per vedere i film di cui questa pellicola è la parodia bisogna spulciare un bel po' il web o le videoteche, Frankestein junior, invece, è passato diverse volte in televisione. E già questo la dice lunga sulla sua popolarità. Inoltre altri seriosi film sul povero mostro sono arrivati negli ultimi anni sugli schermi e svaniti senza lasciare traccia. Invece chiunque abbia visto la parodia di Mel Brooks se la ricorda e persino chi non l'ha mai vista ne conosce qualche battuta (come la celeberrima "potrebbe andare peggio... Potrebbe piovere" seguita dallo scroscio di pioggia). Merito sicuramente da un'alchimia più unica che rara tra sceneggiatura e recitazione (e per una volta anche doppiaggio) e di un'opera che pesca da così tante fonti da risultare godibilissima anche da chi non conosce per nulla gli originali.

SANDMAN VS SANDMAN
Chiunque bazzichi il mondo del fumetto ha sentito quanto meno parlare di Sandman, opera sceneggiata da Neil Gaiman e che oscilla tra filosofico e metafisico. Protagonista è Sandman, Sogno degli Eterni, il signore dei sogni, fratello di Morte e Destino (oltre che di altri), figlio del Tempo. Ebbene, Sandman è un'opera derivata. Negli anni '80 la DC, la casa editrice di Superman, voleva rilanciare alcuni vecchi super eroi finiti nel dimenticatoio, tra cui, appunto un tale Sandman, un tizio che girava con il volto coperto da una maschera antigas. Gaiman ha rivoltato il personaggio come un calzino, di fatto è rimasta solo un'inquietante maschera che un po' ricorda una maschera anti gas, ma sta di fatto che una delle più acclamate opere del fumetto contemporaneo nasca come un reboot.

IL PADRINO (FILM) VS IL PADRINO (ROMANZO)
Tra i film tratti dai libri credo avrei trovato parecchi esempi, mi fermo a uno soltanto, tra i più clamorosi. Alzi la mano chi ha letto e apprezzato il romanzo Il padrino di Mario Puzo, edito nel 1969. Quanti invece hanno visto e apprezzato il film. Anche se wikipedia mi assicura del buon successo editoriale del romanzo, la critica è abbastanza unanime a stroncarlo, mentre i film sono imprescindibili. Magari possono non piacere, ma dire che siano pellicole brutte è quasi impossibile.





Ho fatto una carrellata molto rapida, scegliendo quattro opere diverse, che a loro volta derivano da opere diverse, dall'alta letteratura al fumetto, passando per il cinema.
Preparando questo post ho molto ragionato. Ho pensato alla fine che un'opera non è necessariamente inferiore perché derivata da un'altra. I libri, le opere narrative in generale, si parlano tra loro, si rimpallano gli spunti. Ogni autore è anche la somma di tutto quello che ha visto, letto, ascoltato e amato. A volte uno spunto mediocre può diventare genio in mano d'altri o un lavoro su commissione elevarsi a capolavoro. Sono le meraviglie e le magie della narrazione.
Voi cosa ne pensate? Avete altre opere derivate che considerate migliori delle originali da segnalare?

venerdì 3 giugno 2016

La sterminatrice sul divano – racconto completo

È una vita che non vi propongo un racconto. In questo fine settimana che per molti è un po' più lungo magari vi viene voglia di leggerne uno.
È estremamente leggero e per altro invernale, ma il clima, almeno qui, non è esattamente estivo. Un mio personale omaggio ai racconti per ragazzi di Gaiman.
Buona lettura.

LA STERMINATRICE SUL DIVANO

– Aspetta ad accendere la Play. Devo portare fuori il cane.
– Adesso? – chiede Giacomo.
– Adesso – ribadisco.
Lei sta già puntando la porta con fare deciso, il guinzaglio tra i denti. È seduta nella sua classica posizione. La codina batte sul pavimento, impaziente, mentre con una delle zampe anteriori, affusolata e ricoperta di pelo fulvo, raspa impaziente sulla porta.
Giacomo la guarda perplesso. Prima, mentre facevamo i compiti, non ci ha fatto neppure caso. Lei è venuta a strusciarsi contro le nostre gambe e lui gli ha grattato il collo, dove il pelo è più morbido e folto. Adesso ne osserva il muso ostinato, lungo, senza pelo, con qualche dente sporgente. Fa quasi paura. Fuori, però, è una giornata fredda, di nebbia invernale. È molto più allettante stare in casa e giocare alla play.
– Non sta neanche abbaiando – fa notare. – Forse non vuole davvero uscire.
– Lei non abbaia mai – ribatto. – Andiamo. Facciamo presto. 
– Ma di che razza è?
– Un incrocio. Uno strano.
– Lo vedo.
Giacomo, per fortuna, si è già rassegnato. Ammit, grata, gli si struscia di nuovo addosso, più felina che canina. La guardo male. Lei abbassa il muso scaglioso e si mette a scondinzolare con più impegno.
– Prima non avevi un gatto?
– Sì – anche a distanza di un anno, pensare a Pigro mi mette tristezza. – L’ho presa dopo che è morto.
Giacomo annuisce, come se avesse capito tutto. 
Invece non sa proprio niente.

Pigro è stato senza alcun dubbio il miglior gatto di tutti i tempi. Quando dormivo, lui dormiva insieme a me nel letto. Quando ero a tavola, lui mangiava le sue crocchette. Quando guardavo la televisione, lui mi saltava in braccio facendo le fusa così forte che a volte non si sentiva neppure l’audio di ciò che veniva trasmesso. Quando facevo i compiti saltava sul tavolo e cercava di portarmi via le matite e le gomme. È stato l’unico al mondo che abbia mai provato a difendermi dai compiti a casa.
Quando è morto, preso sotto dalla macchina del vicino di casa, per tutti gli altri era solo un gatto. Da dimenticare alla svelta. E quando papà ha trovato il suo corpo nel freezer si è arrabbiato davvero.
Sia chiaro che io nel freezer non lo volevo mettere, Pigro. È che non mi andava che fosse seppellito in fondo al giardino vicino all’insulso pappagallino di mia sorella. Non volevo metterlo in un sacco nero per portarlo in discarica come “rifiuto speciale”. Era speciale, ma non un rifiuto.
– E quindi hai pensato di tenerlo nel freezer della cantina? – ha sbraitato papà.
Era così arrabbiato che gli si erano gonfiate le vene sulle tempie. Forse avrei dovuto mettere Pigro in un sacchetto. Papà era furioso perché lo avevo appoggiato sulle costine di cinghiale. Non credo che ci sia al mondo qualcosa che papà ami di più delle costine di cinghiale. La sua auto, forse. Adesso, aveva detto, avrebbe dovuto buttarle. Dal tono della voce sembrava valutare se fare me a costine. Mi avrebbe servito per Natale sul vassoio bello dalle decorazioni a fiori con contorno di patate arrosto?
– No – ho risposto con una vocina piccola piccola. – Volevo mummificarlo.
Le vene sulle tempie di papà si sono sgonfiate di colpo. Ho capito dal suo sguardo che non  era più arrabbiato. Non voleva più farmi a spezzatino, pensava che fossi matto. Stava cercando di ricordare quale tra i suoi vecchi compagni di scuola ora fosse psichiatra in una clinica. Se avesse il suo numero da qualche parte. Allora ho iniziato a parlare il più velocemente possibile. 
– Non ho trovato il sale giusto. A scuola ci hanno detto che gli egizi adoravano i gatti e per onorarli li mummificavano. Io volevo onorare Pigro. Ho studiato tutto. Ho preparato i canopi con il Dash. Solo che ho bisogno di quattro chili di natron, il sale che si usa per togliere i liquidi, ma in farmacia non l’avevano. Devo comprarlo su internet. Pensavo di farlo dopo Natale, con i soldi che mi dà la nonna. E allora l’ho congelato, fino a Natale.
Non l’avevo rassicurato. Per niente.
A mio padre non piace quando uso delle parole che non capisce. Natron. Canopi.
Avrei dovuto iniziare da principio, dal progetto che avevamo fatto sugli egizi in terza elementare, quando abbiamo preparato un sarcofago di cartone. Abbiamo anche mummificato un würstel,  lo abbiamo disseccato nel sale e avvolto con bende di carta igienica. La maestra era molto fiera dei nostri würstel mummia, tutti rinsecchiti al punto giusto, senza tracce di muffa. Ci dicono sempre che le cose che impariamo a scuola poi le dobbiamo applicare, no? Io avevo fatto il würstel mummia migliore della classe. Ce l’ho ancora in camera mia, dentro il suo sarcofago di cartone, con Anubi e Osiride disegnati di lato. Volevo solo fare la stessa cosa per Pigro: un ottimo lavoro. Ma per spiegarlo avrei dovuto usare altre parole complicate. Con mio padre bisogna usare concetti semplici.
– Mi manca tanto Pigro! Volevo che avesse una tomba speciale!
Questo anche papà poteva capirlo. Almeno a livello basico. Non è pazzo. Solo triste. 
Mio padre è rimasto un attimo interdetto, in dubbio se farmi a spezzatino, chiamare l’amico strizzacervelli o farsi intenerire dal mio sguardo supplichevole. La terza opzione era la più facile. Mi ha abbracciato forte forte.
– Mi spiace tanto per Pigro – ha detto. – Ma non può stare nel freezer.
– Lo so – ho risposto, con la faccia nascosta nel maglione di papà, in modo che lui non vedesse la mia espressione.
Avevo già capito che la contaminazione delle costine di cinghiale non era il guaio più grande che avessi combinato, con il funerale egizio di Pigro.

– Dove andiamo? – chiede Giacomo.
Ha freddo e anch’io ho freddo. Abbiamo messo il cappellino, la sciarpa e i guanti, ma ogni parola è una nuvoletta bianca che si mescola al bianchiccio della nebbia.
– Non lo so – ammetto. – È Ammit che sceglie la strada. 
Spero che questa volta sia vicino. 
Non so se lei abbia freddo. Scodinzola tutta felice e avanza spedita con questa sua andatura buffa. 
– Di solito le piace andare dietro all’ospedale – dico, speranzoso. 
Non è una passeggiata troppo lunga.

Quella sera, dopo l’abbraccio di papà, non me la sono cavata velocemente. Io volevo solo andare di sopra, ma tutti, di colpo, hanno sentito la necessità di parlare di Pigro. Di quanto fosse stato un buon gatto, di come fosse normale che mi mancasse, di come dovessi abituarmi al distacco. Alla mamma, credo, un po’ spiaceva davvero. Papà era preoccupato di non dover buttare via altre costine, in futuro. Mia sorella, invece, non voleva che si sapesse in giro che suo fratello era quello matto che congela i gatti. Alla fine mamma voleva accompagnarmi a dormire come quando ero piccolo e io ho avuto il mio bel da fare a dirle che no, me la cavavo benissimo da solo. Grazie.
Dopo un bel po’ di tempo, finalmente, sono salito in camera mia e ho aperto la porta con cautela.
Lei era ancora lì.
Sdraiata sul mio letto sfatto (il mio letto è quasi sempre sfatto, nonostante le mie continue promesse e di rifarlo al mattino prima di andare a scuola). Si era allungata tutta. Le lunghe zampe anteriori penzolavano di lato insieme al lenzuolo. Quelle di dietro, grosse e tozze, erano allargate sul copriletto, con quel buffo codino glabro in mezzo. E proprio sul mio cuscino era appoggiato il muso scaglioso da coccodrillo. Non c’era nulla di buffo o grazioso nel muso. La bocca semi aperta lasciava vedere i denti da rettile, tutti conici e appuntiti e, sopratutto, tanti. Non ci potevano essere dubbi. 
Era lei.
Ammit. La Sterminatrice.
Il fatto era che quel pomeriggio avevo finito i canopi, i vasi in cui ritirare gli organi di Pigro. Avevo preso il libro sugli egizi che mi avevano regalato per il compleanno. C’era in fondo un capitolo su come leggere i geroglifici, che non sono, come si crede, un vecchio fumetto. Sono per lo più parole con le sillabe fatte a forma di figura. Insomma, si possono leggere. E io avevo letto ad alta voce i papiri riprodotti nelle foto.
Un’invocazione per Ammit, la Sterminatrice. Il mostro in parte ippopotamo, in parte leone e in parte coccodrillo che divora le anime di coloro che non sono degni di accedere all’aldilà.
L’avevo invocata.
E lei era venuta.

Sotto sotto, Giacomo non è scontento dell’uscita. Ammit le piace. Siamo passati dal parco e lui le ha tirato un po’ di volte un ramo, che lei ha riportato. È stata molto brava a non spezzarlo con quei suoi denti fatti per squartare un po’ di tutto, dai carapaci delle tartarughe alle ossa degli ippopotami. All’inizio era molto più maldestra.
– Anch’io lo vorrei un cane – sospira Giacomo.
– Prendilo. I canili li danno gratis.
– I miei non so come la prenderebbero… Tu come li hai convinti i tuoi?

Come si blandisce un demone dio egizio?
È una domanda piuttosto urgente quando il demone dio, con tutti i suoi denti da coccodrillo e i suoi artigli da leone, ce l’hai nel letto. Letto nel quale, per inciso, dovresti dormirci tu.
Sotto, la mia famiglia stava ancora metabolizzando la dipartita delle costine e il ritrovamento del gatto surgelato. Non era un bel momento per dir loro che il problema era un altro. E poi cosa? Una volta era entrata una biscia in casa e mia mamma l’aveva scacciata con la scopa. La nostra massima esperienza in fatto di ospiti sgraditi. Non pensavo che una scopa potesse servire contro Ammit. Forse esisteva qualche altra formula per bandirla. Proprietà transitiva delle formule magiche.
In quel momento lei si è svegliata. Ha aperto un occhio giallo, da rettile, senza espressione. Ha chiuso di scatto la bocca. Il rumore più inquietante che abbia mai sentito. E poi ha iniziato a scendere dal letto.
Dio, com’era goffa!
Nei papiri è sempre rappresentata seduta. Per una ragione. Ha le gambe di dietro più corte. Quindi prima si è puntellata con quelle davanti, eleganti, da leone, e poi ha fatto una sorta di salto sbilenco con quelle di dietro, per poi assumere una buffa postura inclinata. Si è avvicinata. Un passo delle zampe davanti sono tre di quelle di dietro. Certo, il muso da coccodrillo faceva la sua figura, però, ecco, quel sederino grassoccio e ondeggiante, con la coda corta… Ho iniziato a ridere. Una risata isterica, certo, ma pur sempre una risata. E lei si è fermata, offesa, emettendo un verso, una sorta di mezzo ringhio strozzato, l’unico suono che sia in grado di emettere con quella sua povera gola metà da mammifero e metà da rettile.
Sembrava perplessa. 
E come darle torto. Si aspettava, probabilmente, un tempio, un sacerdote pelato con il gonnellino, incenso e statue enormi. È possibile che qualche millennio fa le fosse abituale essere evocata per mangiarsi qualche anima sul posto. Adesso si era trovata in una stanza riscaldata, illuminata da una luce elettrica, con degli abiti sporchi appallottolati su una sedia, piena degli odori sconosciuti della plastica, del detersivo alla lavanda di mia madre e del mio sudore di ragazzino terrorizzato. Ha iniziato ad annusare la stanza come un cane. Ma i suoi occhi gialli non erano da cane. Neppure da coccodrillo. Erano antichi. Capivano.
– Come ti mando indietro? – ho domandato, indicando il libro.
Lei si è avvicinata. Ha dato un’annusata. E poi, giusto per dimostrare che tutti quei dentoni non erano decorativi, s’è mangiata il libro.

  Cos’è che mi ha chiesto Giacomo… Ah… Come ho convinto i miei.
– Glielo ho fatta trovare sul divano.
La prima notte l’abbiamo passata per la gran parte tutti e due svegli a fissarci. Io per vedere se volesse divorarmi anima o corpo, lei, suppongo, per capire dov’era finita. Quando è suonata la sveglia ed è stata ora di alzarmi per tornare a scuola mi sono reso conto che tutto sommato mi ero addormentato. Ero vestito, sopra le coperte, e Ammit dormiva con il muso sulle mie gambe. La parte leone sa fare le fusa e, per un attimo, mi ha ricordato Pigro. Poi ha aperto un occhio, contrariata, mi ha lasciato scendere dal letto, è risalita e si è sistemata comoda. Evidentemente i letti della nostra epoca sono più comodi di qualsiasi cosa si usasse nell’Antico Egitto. E, altrettanto evidentemente, aveva voglia di restare. Che io fossi d’accordo oppure no.
I miei, per fortuna, non mi entrano in camera nei giorni feriali, sia benedetto il loro lavoro, quindi l’ho lasciata lì.

–  Ormai avevo deciso di tenerla – spiego. Anche se sarebbe più giusto dire che lei aveva deciso di tenermi vivo nella sua nuova casa. – Quindi ho fatto in modo che mamma, rientrando, la trovasse sul divano. A mamma, sotto sotto, gli animali piacciono.

Le avevo messo una coperta sul muso, perché non sembrasse troppo rettile, lasciando in bella vista la parte più presentabile, quella da leone. Ma l’avevo ammonita a non fare le fusa: l’ho pesata e siamo sui cinquanta chili. Possibile per un cagnone, impensabile per un micetto.
A dire il vero non è che sia stato difficilissimo. Ho dovuto promettere le solite cose. Di occuparmene io, di darle da mangiare, portarla fuori e pulire eventuali pipì. Ecco, forse non tutti i ragazzini devono promettere di non surgelare il proprio animale, dopo la dipartita, ma, del resto, non credo neppure che Ammit possa, tecnicamente parlando, morire.
È stato più difficile spiegarne l’aspetto. Ho detto che l’ho presa al canile, che un incendio le ha ustionato il muso e il sedere e che per questo lì non ha il pelo. Contavo molto sull’effetto pietà che avrebbe suscitato in mia madre. Il cane che nessun altro aveva voluto, troppo brutto per essere amato. Ci si sente un po’ speciali, credo, all’idea di essere gli unici a voler bene a qualcosa o qualcuno che gli altri hanno rifiutato. O, almeno, mia madre si sente così. Appena ha sentito la storia ha iniziato a farle le coccole. Lei, Ammit, si è un po’ offesa. Penso che si ritenga bellissima, ma in compenso ha sviluppato una vera adorazione per il divano di casa. Lo trova migliore persino del mio letto. Ho idea che l’Antico Egitto fosse un posto assai scomodo.

– Non è stato davvero difficile – spiego. – A papà basta che non dia fastidio. Guardano insieme le partite, ogni tanto. Lei si accuccia ai suoi piedi come una sfinge e papà dice che porta fortuna. Quando fa così, la sua squadra vince sempre. Mia sorella la trova insopportabile. Dice che a me le danno tutte vinte, mi fanno tenere il cane e a lei non prendono l’auto. Papà le risponde che quando ci saranno i canili in cui regalano le auto usate potrà portarsene a casa una. Insomma, un modo si trova per fare in modo che ti lascino tenere un cane. C’è da dire che lei è educatissima.
Ammit non sporca. Un demone dio non fanno pipì o popò. Non beve, se non per educazione. E i miei non hanno ancora capito che non ho mai dovuto riempire la ciotola con crocchette nuove.
Questo, però, non vuol dire che Ammit non mangi.

Siamo arrivati sul retro dell’ospedale.
C’è un piccolo parco, tra la struttura e il fiume. Slaccio il guinzaglio di Ammit e lascio che corra nell’erba già toccata dalla brina. Si diverte un sacco. C’è in lei una gioia speciale nell’affrontare l’inverno. Credo che in Egitto non abbia mai sperimentato nulla del genere. La diverte il fiato che si condensa di noi umani, l’erba che brilla sotto i lampioni, la sensazione frizzante dell’aria. Non c’è sabbia qui che le possa sfregare la pelle esposta delle gambe posteriori, il sole non brucia e vi è una varietà di cose da annusare e da inseguire. Non so. A scuola, nei libri, fanno sempre apparire figo l’Antico Egitto. Un posto maledettamente affascinante. Dall’entusiasmo con cui Ammit affronta il XXI secolo mi permetto di avere qualche dubbio..
– E adesso che fa? – chiede Giacomo.
Lei si è fermata, con la bocca aperta, e poi la chiude di scatto. Poi fa qualche passo, apre la bocca e di nuovo la richiude.
– Non lo so – mento. – Forse sta cercando di prendere delle mosche.
– Con questo freddo?
Sta mangiando. 
Anime.
Il posto in cui è più probabile che vi siano dei decessi è il polo ospedaliero. Qualche volta Ammit mi trascina per le vie della città alla ricerca di una casa in cui vi sia appena stato un lutto, ma spesso veniamo qui. Non visitiamo tutte le case in cui è appena morto qualcuno. Ammit non si mangia tutte le anime che provengono dall’ospedale. Solo quelle che se lo meritano, spero.
A volte, c’è qualcuno che si chiede come sia l’inferno. Io lo so.
È lo stomaco del mio cane.
Ammit torna tutta scodinzolante. Giacomo le mette il guinzaglio e lei si struscia affettuosa contro le sue gambe. Siamo tutti e tre contenti di tornare. Non vedo l’ora di sfidare Giacomo alla play. Ammit sembra altrettanto desiderosa di sedersi con la testa sulle mie gambe.
Mentre stiamo per entrare nel giardino di casa, il vicino ci passa accanto in macchina, veloce e per poco non prende sotto Giacomo.
– Ehi! – grida il mio amico. – È quello che ti ha ucciso Pigro?
– Sì.
– Una maledizione, si meriterebbe una maledizione.
Ammit guarda nella direzione in cui è andata la macchina. Emette un suono inquietante, che non è propriamente un ringhio, è più profondo e più antico. Penso che potrei aizzargliela contro. Penso che sia per quello che esisteva una formula per evocarla. Per, per così dire, velocizzare una pratica. Far divorare un’anima senza attendere il naturale decesso del corpo che la contiene. Non credo che ritroverebbero il cadavere. Lei adesso ha gli occhi rossi, che brillano fiocamente al buio.
Le metto una mano sulla testa e la accarezzo.
– Lascia stare – dico. – Voglio iniziare la partita.
Gli occhi di Ammit tornano del normale giallo inquietante e la codina prende a muoversi con brio. Giacomo sospira, poi annuisce ed entra nel cancelletto di casa mia. 

Io lo seguo portando al guinzaglio l’inferno che scodinzola.