domenica 25 novembre 2018

Sono solo parole...



... Adesso che è papà non dovrebbe girare in quel modo, con la moto, poi, che idea si fa la gente?

... Questi militari in missione all'estero, tacchini giulivi, non potrebbero proteggere la sicurezza qui da noi? E dire che ce ne sarebbe bisogno, che so, di vigili urbani. Vanno in certi posti, è chiaro che poi succede qualcosa...

... No, dico, se vai in discoteca con la maglietta aderente e per di più bevi, è chiaro che poi ci provano. E non mi dire che non era consenziente. È salito lui sulla macchina di lei, non l'ha obbligato nessuna.

... Va a giocare a calcetto solo per farsi vedere, invece che stare a casa a sistemare il garage, come un uomo sposato dovrebbe fare...

... No, va bene studiare, dico io, ma se la tua vita è tutta ingegneria e informatica, poi chi ti sposa?

...Usciva con gli amici, anche se era fidanzato, fino a sera tardi. Certo, lei avrà esagerato, ma un po' di gelosia ci stava tutta, no?

Vi hanno fatto sorridere? Forse non avrebbero dovuto, perché sono le frasi in cui le donne vivono immerse. Pronunciate da uomini, ma anche da donne.
E prima del primo schiaffo, prima della prima minaccia, prima dello sputo in faccia e del "sei una stupida puttana" ci sono queste frasi. Che, una a una, instillano l'idea che lei sia già colpevole.

Una recente indagine ha messo in luce che una percentuale ragguardevole dei nostri adolescenti, studenti delle scuole superiori, ha già avuto modo di attuare comportamenti variamente violenti nei confronti delle coetanee. E che una maggioranza di ragazze, subendoli, li abbia minimizzati e perdonati. Perché, in fondo, le colpevoli sono loro.

Questo è un blog che parla per lo più di scrittura, letto da un pugno di persone, molte delle quali donne. Sembrerebbe quindi un pubblico che ha poca o niente influenza sulla violenza subita dalle donne.
Siamo persone di parole.
E le parole pesando, sempre. Sono l'humus su cui germogliano le idee che poi si tramutano in azioni.
Ogni tanto è bene ricordarlo e ricordarcelo.

venerdì 23 novembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 8

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7


San Pietroburgo – Giugno 2002

– Vieni con me, dobbiamo parlare – disse Y. a K.
All’interno del palazzetto il tecnico aveva una sorta di ufficio che di fatto usava pochissimo, se non per riporre e compilare le scartoffie. Aveva scatoloni che strabordavano dall’unico armadio e un’unica fotografia alle pareti, di quando ancora gareggiava, che ogni volta che entrava si riprometteva di togliere. Fu lì, comunque che condusse il ragazzo.
Ragazzo che aveva il naso gonfio e uno zigomo viola.
– Allora, cos’è successo? – chiese, dopo che ebbe chiuso la porta e indicato a K. una sedia.
– Niente, sono caduto.
Y. sbuffò.
– Il mio lavoro è veder la gente cadere. So riconoscere i lividi dovuti ai pugni. È la prima volta?
K. si fissava intensamente le mani.
– Così, sì – borbottò.
– Quando è iniziato?
Il ragazzo scosse il capo. 
– Quando è iniziato? – ripeté Y., alzando la voce.
– Dall’inizio. Da quando il mio primo compagno di camera ha frugato tra le mie cose e ha trovato…
Il tecnico sospirò.
– Se non è roba illegale non mi importa cos’ha trovato, vai pure avanti.
– Era il catalogo di un parrucchiere – ringhiò K., alzando lo sguardo. – Solo uno stupido catalogo di parrucchiere. E da allora sono iniziate le prese in giro. E gli scherzi. E le notti chiuso fuori dalla camera. Anche adesso che dormo in singola. Mi mettono le cicche masticate nella toppa e non riesco a inserire la chiave. 
Y. annuì. Nulla che non avesse già visto. Il ragazzo non era riuscito a farsi nessun amico. Era isolato e questo da solo faceva di lui una vittima perfetta per altri ragazzi lontani da casa e annoiati. Faceva pattinaggio, aveva il fisico esile dei pattinatori e persino a lui, molti anni e molti chili prima, avevano dato della ragazzetta. 
– Non ti avevano mai picchiato prima, però – commentò.
– Non le ho proprio solo prese – sbuffò il ragazzo. Mentendo, molto probabilmente. – Comunque prima almeno gli amici di G. mi lasciavano stare.
– Prima di cosa?
Aveva litigato anche con G., quindi, che, in effetti, era in ritardo, per la primissima volta. Ci voleva un bell’impegno. G. non si offendeva mai, a meno che non si parlasse male della ragazza di cui era innamorato in quel momento. Non si era offeso neppure qualche giorno prima, quando aveva chiesto a V. un parere sulla propria coreografia e il siberiano aveva risposto che era un bell’esercizio adatto alle bambine del gruppo di D. 
Adesso però K. era arrossito e si stava di nuovo guardando le mani.
– Siamo andati al cinema e un suo amico più grande mi ha toccato il sedere. Io l’ho insultato, sono andato via. E il giorno dopo ne ho trovati tre di quelli soliti ad aspettarmi.
Anche quella era una storia già sentita. Al pensionato con K. e G. stavano parecchi universitari. Qualcuno di loro aveva vigilato fino a quel momento perché la situazione non degenerasse. Nulla di disinteressato, a quanto pare. Che lo accettasse oppure no, a K. piacevano i ragazzi. Era abbastanza evidente. Quando pensava di non essere visto si mangiava con gli occhi D., con suo grande disappunto. Il suo protettore occulto aveva gli stessi gusti, ma visto che era stato rifiutato aveva abbandonato K. al proprio destino. Una storia già vista e piuttosto squallida. Da cui, però, non era così facile uscire. Lividi a parte, il ragazzo aveva delle occhiaia che, unite al naso affilato, contribuivano al suo aspetto da rapace smagrito. Si allenava con rabbia, cercando di canalizzare lì la propria aggressività. Non si era fatto male, ma non ci voleva un fine occhio medico per capire che era sull’orlo dello sfinimento.
Y. sospirò.
– Senti un po’ ragazzo, sei simpatico come la peste bubbonica e questo non aiuta. Ma quello che stai passando non è colpa tua. E finirà. Dimmi i nomi di chi ti ha pestato.
Il ragazzo prese un respiro, come prima di iniziare salto difficile.
– Puoi ospitare anche me, almeno per qualche tempo? – chiese.
Il tecnico rimase un istante immobile, interdetto. Non ne aveva alcuna voglia. 
– Io… Potrei mettere una brandina nella stanza dove sta V. Ma devo sentire cosa ne pensa mia moglie e anche V. – prese tempo.
Il siberiano sarebbe stato entusiasta, di sicuro, di dividere la camera, la prima che avesse avuto tutta per sé, con uno che lo odiava. E sua moglie altrettanto di avere per casa uno perennemente arrabbiato con il mondo.
Intanto, però, Kirill stava già scuotendo il capo.
– Lascia stare. Sono stato stupido a chiederlo. Lo so che è lui il preferito di tutti. Anche se è del tutto fuori di testa e parla col proprio peluche.
Lo sguardo del ragazzo era così spento, così disilluso, che Y. si trovò proprio malgrado a deglutire l’aria. Perché aveva ragione. Il suo dovere di allenatore era l’imparzialità. Oltre tutto quei due al momento si equivalevano. K. aveva più tecnica, V. più espressività. Il suo dovere era proteggerli entrambi allo stesso modo. Un allenatore, a volte, non dovrebbe essere anche un essere umano.
– Ho bisogno di chiedere, anche al fuori di testa – si sforzò di dire. – Intanto forse D. ha una stanza.
D, che sarebbe stato felicissimo di portarsi a casa uno schifoso pervertito...




lunedì 19 novembre 2018

Scrivere e pubblicare una fanfiction




Mi sento un po' come se dovessi rivelare chissà quale torbido segreto, del tipo che ieri sera ho cenato con carne di bambino. Eppure mi sembra ancora più sciocco non discutere di scrittura in un blog nato per discutere di scrittura.
Venerdì ho finito di pubblicare a puntate una fanfiction su un sito specializzato.

Le fanfiction, per chi non lo sapesse sono racconti scritti da fan, appunto che proseguono storie note o utilizzano personaggi altrui. Ci sono alcuni siti specializzati, io da tempo immemore ho un account su EFP, che segnalano quali autori hanno espressamente vietato la creazione di fanfiction a partire dalla loro storia e mettono in automatico tutti i necessari avvisi, cioè che sono storie scritte senza fini di lucro e che intendono omaggiare, non certo sfruttare l'originale.

Inevitabilmente quello delle fanfiction è un mondo strano e spesso torbido. Non c'è censura e quindi va da sé che ci sia un sacco di porno. Si è invitati ad avvisare il lettore su ciò che si troverà a leggere, non solo con un avviso colorato (da verde "per tutti" a rosso "solo maggiorenni e vaccinati") ma anche con una serie di avvertenze. Solo scorrere l'elenco di questa avvertenze e leggere l'avviso dei divieti apre un mondo di possibilità a cui io non avevo neppure pensato.
Non c'è alcun filtro editoriale e quindi c'è un sacco di robaccia illeggibile, ma proprio illeggibile, nel senso che quei testi e la grammatica non si sono mai incontrati.

Non tutto è illeggibile, ci sono un paio di successi editoriali globali che sono nati come fanfiction, anche se non sono proprio un esempio di alta letteratura: 50 sfumature di grigio (che però credo abbia usato la fanfiction per testare il target) e Shadowhunter.

C'è anche della roba bella. Ma bella davvero. Un mio grande rammarico è di conoscere di un'autrice solo il suo nikname e quindi non sapere se abbia pubblicato qualcosa nel mondo dell'editoria reale, perché di lei credo leggerei qualsiasi cosa. È riuscita a colpirmi persino con il dramma di un calzino spaiato che piange la perdita del proprio compagno (!). Un'altra fanfiction che mi ha folgorato e che uso nei corsi di scrittura ha una storia che si dipana in oltre 20 capitoli fatti solo ed esclusivamente di scambi di sms. Partiva dal più banale degli espedienti, un sms mandato a un numero sbagliato e riusciva a descrivere poi la nascita di un'amicizia e a delineare due psicologie tutt'altro che banali. Di più, quello è uno dei pochi racconti che mi abbia raccontato davvero la crisi economica e il drastico ridursi delle prospettive di chi è nato qualche anno dopo di me. Ribadisco, si narrava tutto ciò solo con scambi di sms.

Ma perché mai mi sono trovata a scrivere e a postare una fanfiction?
In realtà sono domande molto diverse.
Mi sono trovata a scrivere un racconto sentivo di dover scrivere, suppongo. Perché lo spunto dato dalla storia di partenza mi era piaciuto molto e, di sicuro, gli autori dell'originali, anche volendo fare un seguito, andranno in un'altra direzione. La loro storia non vuole scontentare nessuno e quindi racconta una sorta di mondo ideale, io d'altro canto non vedevo l'ora di calarla nella realtà.
 L'ho pubblicata per un motivo molto più semplice. Volevo dei lettori. Lettori neutri, che non mi conoscessero in nessun modo. E vedere come andava.
È andata bene. Nel senso che il sito permette di monitorare i lettori capitolo per capitolo. E quindi vedere che tutti coloro che hanno aperto il secondo capitolo sono arrivati in fondo è stato molto bello. Così com'è stato bello essere contattata dai lettori. Recuperare, insomma, un aspetto più ludico della scrittura, in cui si scrive ciò si sente di voler scrivere e si legge per puro piacere.
Non ho tempo e denaro per investire nell'autopubblicazione e non mi sognerei mai di far pagare per qualcosa che non ha una veste editoriale professionale. Ma una cosa scritta per sfizio personale è bello, suppongo, che possa essere letta per sfizio personale. Il fatto che mi sia stato segnalato che ha raggiunto il suo scopo, cioè intrattenere, era una cosa di cui, in questo momento, avevo bisogno.

Ah, ecco, mi sembra doveroso linkarla.
È una fanfiction in tutto e per tutto, cioè poco comprensibile senza il pregresso, dà per scontato che il lettore conosca già personaggi e contesto. Ci sono degli avvertimenti che è il caso di leggere e decriptare (il rettangolino non è verde, ma arancione, tanto per dire). È una storia sentimentale, la prima in assoluto di questo tipo che renda pubblica in una qualsasi forma. Per chi volesse, è qui

venerdì 16 novembre 2018

Padrone del tuo destino – Racconto a puntate, capitolo 7

     
Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

 – Ok, basta così. Andate a cambiarvi tutti e due – disse Y.
L’allenamento in pista sarebbe dovuto terminare venti minuti prima, ma né K. né V. volevano mollare. Entrambi avevano deciso di inserire una combinazione che partiva con un salto che non dominavano ancora del tutto e entrambi avevano deciso che lo avrebbero padroneggiato prima del rivale. Erano dieci giorni che provano e riprovavano con ostinazione. V. aveva allungato anche gli allenamenti in palestra e quelli di danza, per aumentare potenza ed elasticità. Si era beccato un voto pessimo perché si era addormentato durante una lezione e la sera prima era praticamente crollato sulla cena. K. stava tenendo più o meno i suoi stessi ritmi, ma aveva più resistenza. Prima che Y. terminasse di parlare era già partito per il salto. Un triplo Axel perfetto, da sei tondo, con atterraggio impeccabile. G., a bordo pista, applaudì di cuore e anche E., che stava provando dei passi sotto la supervisione di D., accennò a un mezzo inchino. Quello era un triplo Axel da campionato del mondo senior.
– E con questo possiamo dire di aver chiuso in bellezza – approvò Y.
Era bello vedere K. soddisfatto, per una volta. Non era simpatico, era un dato di fatto, ma non era colpa sua. Y. doveva essere oggettivo. Era un ottimo pattinatore e bisognava che lo sapesse.
– Andiamocene – disse.
V., però, non aveva nessuna intenzione di uscire dalla pista.
– Un ultimo tentativo e arrivo.
Aveva saltato maluccio ed era caduto un paio di volte. Ma dare la vittoria morale della giornata a K. gli scocciava da morire.
– Ultimo – concesse Y.
Errore. Il ragazzo era stanco e ammaccato. Non avrebbe dovuto permettergli di saltare ancora.
Il tecnico vide subito la partenza fuori asse, il tentativo maldestro di completare le rotazioni e poi la caduta, con le gambe una sotto l’altra… Una caduta così simile a quella di I. che per un istante Y. si sentì mancare.
– Non riesco ad alzarmi – disse V. un attimo dopo.
Aveva le mani appoggiate sul ghiaccio e la fronte corrucciata, con i capelli lunghi che gli ricadevano sul viso. Era atterrato col sedere sul pattino destro e caviglia e ginocchio…
– Datti un attimo, può essere solo la botta – disse Y., con una sicurezza che non sentiva.
K. era solo a pochi metri da lui, lo guardava imbambolato, ma col cavolo che faceva un movimento per dargli una mano. Fortuna che D. era in pista con i pattini ai piedi e si stava già muovendo. Raggiunse V. in pochi movimenti e controllò immediatamente la gamba.
– È una distorsione al ginocchio. Farà male, ma non è nulla che non possa guarire – disse un attimo dopo.
– Sei sicuro? – mormorò il ragazzo, con voce flebile.
Aveva la stessa espressione di quella sera, il terrore che fosse tutto finito.
– Cos’è, è la prima volta che ti fai male? – chiese K., che finalmente si era degnato di avvicinarsi.
V. non replicò. Era la prima volta che Y. lo vedeva davvero a un passo dalle lacrime.

– È terrorizzato, non l’ho mai visto così – sussurrò E.
Y annuì. Si fidava di D., ma aveva comunque chiamato il medico che seguiva i ragazzi e in quel momento si stava occupando di V. nell’infermeria del palaghiaccio.
– Non lo facevo un piagnone – disse ancora la ragazza.
– Non è per l’infortunio in sé – replicò Y. – Dorme nella stessa camera di I e lui non ha nulla a cui tornare.
E. annuì.
– È così brutto là dove stava? – chiese.
– La Russia è piena di posti peggiori in cui crescere – rispose il tecnico. – Ma non è il posto per lui, non dopo aver provato tutto questo.
Y. un paio di volte aveva chiamato I. Il ragazzo si era sempre sforzato di mostrarsi positivo. Sua madre stava meglio, il padre lavorava di nuovo. Nella fabbrica apprezzavano la sua precisione, l’abitudine alla fatica. Si era fatto degli amici, usciva anche con una ragazza. Se la sarebbe cavata. Sarebbe diventato magari capo reparto, magari meglio. Si sarebbe fatto una famiglia, avrebbe comprato un appartamento in un casermone di periferia. Lui che, nella mente di Y., a febbraio di quell’anno avrebbe dovuto vincere le olimpiadi. E I. era solido, ancorato alla realtà e con una buona dose di senso pratico. V. in una fabbrica sarebbe durato quindici giorni.
Sospirando, il tecnico si mosse verso l’infermeria. Incrociò il medico sulle scale.
– Lo stai spremendo troppo quel ragazzo – gli disse l’uomo, sistemandosi gli occhiali. – Il ginocchio torna a posto in due settimane di riposo, il resto sono solo lividi. Sta piangendo come una fontana, però, ma credo sia sollievo. È crollato quando ha capito che davvero sarebbe andato tutto a posto. Non sono ritmi per ragazzi di quest’età. Dovresti farli seguire anche sul piano psicologico. Quasi tutte le squadre europee, di qualsiasi disciplina, ne hanno uno.
Y. grugnì qualcosa di incomprensibile. Odiava gli psicologi.
– Una volta non avevamo di questi problemi – ringhiò.
– Erano altri tempi. Si veniva su indottrinati, questa è una generazione persa, nati in mezzo al guado, non più sovietici, non ancora russi. 
Il tecnico scosse il capo. Sapeva che il medico aveva ragione, a sessantacinque anni aveva visto generazioni di sportivi. Era anche uno dei pochi che vedesse gli atleti come individui e non come macchine da medaglie. Evitava di somministrare certi farmaci che in Russia giravano con troppa facilità e Y. sapeva che quando si fosse ritirato avrebbe perso un tassello fondamentale del proprio staff. E tuttavia gli psicologi per lui rimanevano quelli che ti dicevano che era normale sognare di portarsi a letto la propria madre.
V. era ancora in infermeria e Y. si fermò appena fuori dalla porta socchiusa, da dove poteva sbirciare dentro senza farsi vedere.
Il ragazzo era sul lettino, il ginocchio era stato fasciato e inserito in un tutore, anche la caviglia era fasciata e aveva un aspetto gonfio. Lui si stava asciugando quasi con rabbia le lacrime che suo malgrado continuavano a colargli dagli occhi, estraendo uno dopo l’altro i fazzoletti dal cagnolino. E. gli teneva una mano sulla spalla e guardava preoccupata ora lui e ora D., in piedi al suo fianco. Con sorpresa, Y. si accorse che anche K. era nella stanza, in un angolo, come fosse lì per caso, ma non riusciva a staccare gli occhi dal compagno di allenamento.
– Odio farmi vedere così – stava dicendo V.
Y. non stentava a crederlo, il ragazzo era vanitoso come un gatto. Forse era meglio rimanere lì, senza imporgli anche la propria presenza.
– Guarda che lui non ti lascerà andare – disse D. – Non importa cosa ti abbia detto o quanto abbia ringhiato. Di una cosa potete essere certi, tutti quanti, qualsiasi problema abbiate, qualsiasi cosa vi possa capitare, Y. non vi lascerà andare, a meno che non siate voi a voler partire.
– Ma I… – iniziò K.
Tutti avevano sentito la sua storia. E ne erano terrorizzati.
– Non poteva più pattinare – raccontò D. – E voleva tornare dalla sua famiglia. Chi pensate che abbia smosso mari e monti per trovare qualcuno disposto ad assumerlo da un giorno all’altro e con stipendio pieno? Io ho trovato il contatto, ma è stato lui a ungere gli ingranaggi. E se invece I. avesse voluto studiare si sarebbe trovata un’altra soluzione.
Anche dalla sua posizione, Y. vide l’incredulità negli occhi dei ragazzi. Bene, quindi lo pensavano davvero senza cuore? Beh, lui ci si metteva davvero d’impegno perché lo pensassero. Ma non era così bello constatare che l’obiettivo era stato raggiunto.
– So di cosa parlo – continuò D. – Io sono uno di quelli che non ce l’hanno fatta. Ho avuto sfiga, pura e semplice sfiga. Dovevo andare a Lillehammer. Non avrei vinto, questo no, ma avevo vent’anni ed era un sogno che si realizzava. Ma mi sono fatto male durante quella stagione, una brutta caduta in una tappa del Grand Prix. Ho dovuto essere operato e hanno sbagliato qualcosa. Ho provato a imbottirmi di farmaci, ma non c’è stato niente da fare, la schiena non regge più il contraccolpo dei salti. Avevo vent’anni, il che vuol dire essere giovane per un sacco di cose, ma vecchio per altre. Non avevo uno straccio di titolo di studio, tanto per dirne una, allora non si dava peso a queste cose. Y. non era il mio allenatore, anche se ovviamente nell’ambiente ci si conosceva tutti e mi ha preso su, come si prende un cucciolo abbandonato, offrendomi un lavoro che proprio allora non sapevo fare, ed eccomi qui, otto anni dopo. Credetemi, ragazzi, vi sembreranno tanto fighi gli europei e gli americani, con i loro tecnici a contratto, con le loro università, ma in tutto il mondo non potevate capitare meglio che con Y.
L’allenatore fece un passo indietro. Adesso, pensò, non era proprio il caso di entrare. 
– Grazie – disse più tardi a D., quando anche lui fu riemerso dall’infermeria. – Ho sentito quello che hai detto hai ragazzi.
– E di che? Ho detto la verità – replicò l’uomo, facendo ondeggiare i capelli lunghi, che portava legati in una coda.
– Pensi che sia il caso di farli seguire da uno psicologo, come fanno in Europa e in America?
– Dio, no. Così quello convince K. che andare con gli uomini sia bello e normale!
Yakov si strinse nelle spalle.
– Guarda che per un tecnico un atleta gay è più facile da gestire, lo puoi sempre ricattare.
– Sì, ma io nella stessa stanza con uno di quelli non ci voglio stare. K. è ancora salvabile e di certo non voglio che qualcuno lo incoraggi!
– Noi siamo cresciuti con la consapevolezza di essere soldati. Non era bello, non era giusto, ma sapevamo cos’eravamo. Loro non lo sanno. Combattono, senza neppure la consapevolezza della battaglia.
L’uomo più giovane scosse il capo.

– Lo scopriranno. Cadranno, si faranno male. Qualcuno lo perderemo come atleta. Ma tutti diventeranno adulti.



– Quasi quasi ti invidio – sospirò E., leccando il proprio gelato, minuscolo e alla frutta. – Ancora dieci giorni di riposo assoluto. Vorrei quasi farmi male io…
    – Non dire sciocchezze – replicò V., secco.
    Era sabato pomeriggio e il ragazzo aveva zoppicato dietro a E. fino al centro, dove finalmente lei aveva accettato di fermarsi su una panchina del parco dietro la cattedrale. Aveva caldo, odiava la stampella, il tutore, odiava stare lontano dalla pista, sentiva la mancanza dei pattini ai piedi quasi gli avessero amputato un arto, e odiava dover farsi offrire il gelato da E.. Non che Y. non gli passasse dei soldi, se glieli chiedeva, ma aveva dimenticato di farlo, o forse lo aveva evitato, perché era sempre un momento imbarazzante. Doveva tornare al più presto in pista. E doveva vincere. Da juniores con le vittorie si iniziava a guadagnare. Insomma, non si poteva in nessun modo sentirsi a proprio agio con una bella ragazza se non si aveva neppure la possibilità di offrirle un gelato o si indossavano i vestiti smessi di suo fratello. Mentre si allenava non pensava mai a quelle cose, al mondo fuori dal palazzetto. Anzi, era più giusto dire che non pensava. Stando fermo, però, i pensieri riemergevano. E non sempre era un bene.
    Lei guardò l’orologio.
    – Andiamo a casa mia – propose la ragazza.
    Abitava nel pieno centro cittadino, in un palazzo antico proprio sulla Prospettiva Nevskij.
    – A quest’ora non c’è nessuno, mio fratello è a studiare da un amico, mio padre è via per lavoro e mamma è col suo amante – spiegò, come fosse la cosa più normale del mondo.
    Vi. la guardò, senza commentare.
    – Le famiglie sono cose complicate, ragazzino – disse, stringendosi nelle spalle. – Sopratutto le famiglie ricche, dove ognuno ha il suo ruolo da interpretare. Io sono quella graziosa da esporre, come la ballerina di un carillon, e un giorno da far sposare a qualcuno che voglia imparentarsi con gli affari di papà.

    V. non era mai stato nella stanza che un adolescente aveva abitato fin dalla prima infanzia. C’era tutto lo stratificarsi dell’esistenza di E., lì. Dei peluche sui toni del rosa abitavano il fondo del grande letto. Sugli scaffali, serie di libri di scuola, alcuni consumati, altri quasi nuovi. Quaderni in disordine sulla scrivania di legno scuro sopra cui era appesa una lavagnetta di sughero dove delle puntine dalla capocchia in plastica colorata tenevano ferme delle foto. E. da bambina a delle competizioni, o sul podio, sui dodici anni, con delle amiche in un parco divertimenti, con un abito lungo nero e il volto truccato a una qualche cerimonia. Sulle ante degli armadi erano appesi poster raffiguranti cantanti che lui non conosceva. Era un territorio del tutto nuovo, pieno di fascino e di pericolo.
    Su uno scaffale c’era uno stereo nuovissimo, che la ragazza accese con un gesto noncurante. Ne uscì della musica ad altissimo volume, che fece sobbalzare V.
    – Che roba è? – chiese, quasi urlando.
    E. rise.
    – Non è possibile che non li conosci! È musica vecchissima, i Nirvana, un cd di mio fratello.
    V. scosse il capo, a disagio.
    – Da Y. e L. solo classica, vero? – chiese la ragazza.
    Lui annuì. E gli piaceva. Quando aveva accesso alla radio preferiva il pop o certe canzoni in italiano, di cui non capiva le parole, ma gli piaceva il suono di quella lingua. Quella roba urlata lo disturbava. Eppure, in qualche modo, si adattava bene a E., che ora muoveva la testa a ritmo, facendo fuggire i capelli neri dalle forcine. Lui rimase a guardarla ipnotizzato, in bilico sulla gamba sana come un fenicottero, fino a che lei si avvicinò, gli diede una spinta che lo sbilanciò e lo fece cadere sul letto. V. si attendeva di vederla saltare al suo fianco, regalandogli una vicinanza che gli faceva nascere al solo pensiero una sorta di tremore a metà del petto, che per fortuna rimaneva interiore, del tutto segreto. E. invece, sempre muovendosi a tempo, cercò qualcosa sotto il letto e un attimo dopo estrasse da una scatola uno spinello e un accendino.
    – Ancora con quella roba? – esclamò V.
    Il ricordo di quanto era stato male era ancora vivido. Per non parlare della reazione di Y. Non era affatto sicuro di voler ripetere l’esperienza.
    – Non è forte come quella che girava alla festa – disse lei. – E non abbiamo bevuto niente. È solo per lasciarsi andare, non pensare… Tu cosa fai quando vuoi smettere di pensare?
    – Pattino – replicò V. sulla difensiva.
    – Ma adesso non lo puoi fare. E non lo farai neppure questa sera o domani. Un tiro a testa. Non gareggi fino ad agosto. Non può farti male in nessun modo.
    – Ma tu…
    – Io secondo Y. devo fare il triplo Axel – disse E., accendendo lo spinello. – Devo. Non posso o devo provare. Devo. E sono stanca. E ho paura di farmi male. E quel salto alle donne porta sfortuna. E non ci voglio pensare.
    V. pensava che sarebbe stata splendida su quel salto che pochissime al mondo erano state in grado di completare in gara. Doveva essere bellissimo essere tra i pochissimi al mondo a riuscire a fare qualcosa, anche solo uno stupido avvitamento sul ghiaccio. Forse, però, E. non aveva bisogno di essere tra i pochi al mondo a fare qualcosa per sapere di essere speciale. Lo era già.
    Il fumo, buttato fuori dalle labbra di E. gli arrivò proprio in faccia, con quel suo odore inconfondibile, facendolo tossire.
    – Dai, ragazzino, un tiro soltanto.
    E poi, senza sapere bene come fosse successo, E. era a cavalcioni sopra di lui, i Nirvana ancora a tutto volume e il mozzicone spento che fumava su uno specchietto adibito a portacenere, sul comodino. V. sentiva il respiro accelerato di lei e la guardava fisso negli occhi color della crepuscolo. Sentiva il cuore che martellava e una vaga sensazione di fluttuare. E. gli prese le mani e le portò ai propri fianchi, facendole insinuare sotto la maglietta.
    – Baciami, e non pensare a niente – sussurrò. – Ma prima dimmi se almeno è la prima volta che ti trovi in una situazione così.
    – È la prima volta.
    – Bene.
    La pelle di E. era calda sotto le sue mani. I suoi fianchi erano magri, la punta delle sue dita sentivano gli addominali tonici, quasi come quelli di un ragazzo. Questa volta un brivido percorse tutto il corpo di V., mentre lei si chinava per baciarlo. E davvero non c’era più modo di pensare.


SULLE LAME DELLA STORIA: la storia avanza, le gare si avvicinano e V. si scopre più fragile di quanto gli piacerebbe. Anche E, però, sta vivendo una crisi più profonda di quanto non vorrebbe dare a vedere. Il salto che sta preparando, il triplo Axel è stato a lungo considerato un salto maledetto per le donne. A dire il vero ormai è stato quasi sdoganato (lo si è visto alle olimpiadi e lo si sta vedendo al Grand Prix). Semplificando, leggenda vuole che quando una donna riesce a fare il triplo Axel, comunque non riesca  a vincere la gara, perché qualcos'altro andrà storto. Il salto, poi, è legato alla storia di Tonya Harding (su cui è stato recentemente girato un film, che però non ho ancora visto), atleta in grado di fare il triplo Axel, la cui carriera è però finita con l'accusa di aver organizzato un'aggressione ai danni di un'avversaria. Per chi volesse saperne di più, qui un articolo completo. E chissà se anche E. sarà vittima della maledizione?



 

lunedì 12 novembre 2018

Tra memorie e memorial – Trottole, letture



Il mio ricordo più triste legato al mio passato sportivo coincide con quello del mio miglior risultato.
Subito dopo la gara dei tremila ai campionati italiani a squadre, sotto un cielo che prometteva diluvio nell'autunno del mio primo anno di università. Ero arrivata settima, avevo fatto del mio meglio, che coincideva con il mio primato personale, eppure avevo negli occhi solo desolazione. La stessa che riconoscevo nello sguardo della ragazza arrivata quinta, che per altro era stata mia compagna di liceo (notare l'ironia di essere tra le prime dieci in Italia, ma comunque secondi nella propria scuola...).
Perché settima o quinta faceva poca differenza. Per entrare nel giro che contava davvero bisognava arrivare quanto meno terze. E non l'avevamo fatto, pur con tutto il nostro impegno. Il nostro tempo era finito. Ormai, per mantenere quel livello, bisognava scegliere, o lo sport o tutto il resto e, semplicemente, non valeva la pena di scegliere lo sport. 
Lo sapevo anche prima, per carità, quel risultato era meglio del prognostico di partenza, eppure era comunque la fine, la fine di una carriera agonistica, per quanto minore, che comunque aveva caratterizzato tutta la mia adolescenza. E la consapevolezza mi metteva una tristezza infinita. Avrei continuato a gareggiare ancora per qualche anno, ma sapevo già allora che non mi sarei mai più qualificata per una finale nazionale.
Non ho nessun altro ricordo triste dell'atletica. Per anni, il momento di uscire per andare a fare allenamento è stato il più bello della mia giornata. Perché la pista di atletica è stata uno dei primi posti a cui ho sentito di appartenere. 
Quanto ho iniziato ero alle medie. Ero più marginale che emarginata. Non ero bullizzata o presa in giro. Ero lasciata lì, a fare il soprammobile, con la sensazione di non capire quando i compagni mi parlavano e di non essere capita quando parlavo io. Loro leggevano Cioè e io, in quel periodo, l'epica medioevale. Al campo di atletica, per la prima volta, ho avuto la sensazione di avere il diritto di stare lì, di appartenere al gruppo. Sia pure di un argomento circoscritto, sapevo sempre di cosa si stava parlando. Persino le mie stranezze erano guardate con simpatia e valevano come quelle di qualsiasi altro.

Anche allora, tuttavia, ero consapevole che lo sport potesse essere un inferno. I più sfortunati, dal mio punto di vista, erano i figli dei campioni mancanti. Obbligati a forza da genitori che pensavano di saperla più lunga di tutti, allenatori compresi. Ragazzi che alle medie non potevano andare in gita perché non avrebbero potuto seguire la dieta imposta da papà, per dire. Poi c'erano gli allenatori tiranni. C'era una ragazza che in gara dovevo distanziare per forza, perché la sua allenatrice la insultava per tutto il tempo e quindi, se le stavo vicina, gli insulti li sentivo anch'io. Infine, c'erano le zone d'ombra più profonde, nelle quali non sono mai incappata direttamente, in parte per mera fortuna (allenatori sensati), fatte di farmaci presi sottobanco e infortuni trascurati, di cui pure ero consapevole.

Questa lunga introduzione per spiegare lo spirito con cui mi sono avvicinata a Trottole, che sapevo essere la storia autobiografica di una ragazza che ha vissuto il pattinaggio come un incubo (ovviamente non potevo perdermi, in questo periodo, la storia di una pattinatrice).
Ecco, forse è stato quello il mio errore di fondo, Trottole è la storia di un'adolescenza da incubo di cui il pattinaggio è solo una parte.
Per tutto il (ragguardevole) tomo non ho fatto che chiedermi perché mai Tillie non lasciasse uno sport che non le dava nulla. E che nessuno la obbligava a praticare.

Tillie esordisce dicendo di essere stata una campionessa di pattinaggio, ma, in tutta onestà, non è vero, o, meglio, lo è stata come io lo sono stata di atletica. Un'onesta praticante di medio livello. Non è quindi condannata dal proprio talento. Non è obbligata dalla famiglia, che anzi, vive in pattinaggio come un peso anche economico. Non è obbligata dall'allenatrice.
Semplicemente, il pattinaggio ha sempre fatto parte della vita di Tillie, è parte della sua identità. E quando capisce che in realtà quel mondo non le piace per niente (Tillie odia i costumi, non ammira nessun'atleta, trova umilianti le esibizioni) non riesce a staccarsi. E questo ovviamente non la aiuta. Alzarsi alle quattro del mattino, obbligata a due allenamenti al giorno non la aiuta a crearsi un giro di amici al di fuori dello sport, né ad andare bene a scuola.
La conosce bene quella sensazione di inseguire costantemente gli altri, non avere mai il tempo di fare tutto, di essere costantemente stremati (c'è stato un periodo in cui mi addormentavo ovunque, sopratutto nell'aula di scienze, più confortevole della nostra...).
A questo stato di costante spossatezza si aggiungono il bullismo, le molestie sessuali e le difficoltà di accettare e far accettare la propria identità sessuale. 
Nulla di strano che Tillie viva in uno stato che forse è più esaurimento che depressione, avviluppata in una spirale di tristezza da cui di fatto potrebbe liberarsi, ma non ha la forza di farlo.
Il risultato è tanto più vero quanto più incomprensibile. Il disagio di Tillie è palpabile, ha la forza del racconto della vita vissuta e spesso si ha la sensazione che possa andare a finire molto peggio di come in realtà è andata.
Dall'altra parte si vuole urlare a Tillie di piantarla lì di pattinare. Perché, davvero, non ha alcun motivo per farlo (se non, forse, la sua unica vera amicizia). Nessuno la obbliga. Eppure è così, a volte gli adolescenti sono i peggiori carnefici di se stessi. Tillie si obbliga a pattinare così come un'anoressica si obbligherebbe a non mangiare, solo per non perdere la sensazione di avere un minimo di controllo su se stessi.

Ne risulta una lettura intensa e a tratti insostenibile che ben dà l'idea, però, di quanto disagio possano provare adolescenti sorridenti, ragazzine che apparentemente hanno tutto per essere felici. E sono bravissime a simulare la felicità.

È un memorial, una storia personale che, come tale, non può essere presa come paradigma per tutti gli adolescenti che praticano uno sport a livello agonistico. La migliore amica di Tillie, ad esempio, avrebbe ben altro da dire sul pattinaggio. Lo sport, come qualsiasi altra cosa, a quell'età può essere una salvezza o una rovina.
Quello di cui io, ex adolescente sportiva, non mi ero mai resa conto, forse, è che può essere una rovina anche senza genitori o allenatori fanatici, senza infortuni disastrosi o torbidi retroscena.
Le gabbie peggiori ce le costruiamo sempre noi stessi.

giovedì 8 novembre 2018

Padrone del tuo destino – racconto a puntate, capitolo 6







San Pietroburgo – Maggio 2002

– Adesso abbiamo smesso di giocare – disse Y. ai suoi tre atleti, riuniti in una delle salette del palaghiaccio. – Sono arrivate le assegnazioni per il Grand Prix Juniores. L’anno scorso avete fatto una stagione di prova. Adesso si fa sul serio e mi aspetto che uno di voi tre vinca il Grand Prix.
G., K. e V. annuirono all’unisono, con gli sguardi seri. G. appollaiato sulla sedia in una di quelle sue posizioni assurde in cui gli arti si attorcigliavano tra loro ma da cui in qualche modo sapeva sempre districarsi, K. rigido e attento, pronto a balzare sull’attenti, V. in apparenza rilassato, ma con le mani che tormentavano il portafazzoletti di peluche. Bene, pensò Y., stavano prendendo la cosa sul serio. Il Grand Prix apriva la stagione internazionale e psicologicamente era un banco di prova fondamentale. Per gli juniores i ritmi erano un po’ meno serrati che per i senior, ma si veniva comunque sballottati per il mondo, costretti a gareggiare ancora sottosopra per il fuso orario e obbligati a dei testa a testa con gli altri atleti. Per esperienza, Y. sapeva che le rivalità peggiori nascevano durante il Grand Prix. E, in questo senso, le assegnazioni non li avevano favoriti.
– Partiamo subito con la prima tappa – spiegò. – Sia K. che V. vi parteciperanno, in Francia, a Courchevel, dal 21 al 25 agosto
I due ragazzi si guardarono, V. un po’ spaesato, K. minaccioso.
– G. andrà invece negli Stati Uniti un mese dopo e poi ognuno di voi si farà una tappa diversa, con mia grande gioia, che a ottobre non faccio un fine settimana che sia uno a casa, K. in Germania, V. in Cina e G. in Italia. Tutti e tre avete le carte per arrivare alla finale e sarei molto deluso di scoprire che il vincitore non sta adesso qui in questa stanza.
G. sospirò, stirandosi le braccia.
– Io mi chiamo fuori da questo – disse. – Farò del mio meglio e voglio entrare in finale, ma per vincere devo far fuori i miei compagni di allenamento.
– Puoi vederla come una sfortuna o una fortuna, G. – replicò Y., serio. – Se fossi nato in un qualsiasi altro stato del mondo saresti il migliore della tua nazione. Ma qui ti confronti ogni giorno con il meglio. Se riesci a tenere il loro passo, riesci a tenere il passo di chiunque e non ci sarà nessuno, là fuori, che potrà mai intimidirti.
Il ragazzo fece un sorriso poco convinto nel volto magro e affilato. Non era facile per niente la sua posizione. Lavorava più degli altri due, studiava più degli altri due, era l’unico ad avere dei voti decenti a scuola, e comunque non riusciva a primeggiare. Non era ancora riuscito a fare un triplo Axel come si doveva, mentre gli altri pensavano già a mettevano già nelle combinazioni. Y. al posto suo avrebbe pensato seriamente ad avvelenare il cibo della concorrenza e invece G. cercava in tutti i modi di farsi amici le due primedonne. 
K. invece sbuffò.
– Voglio modificare i programmi – disse. – Sono il più grande e il più bravo. Ho diritto a portare un programma più difficile di quello di V.
– Ah, sì? – replicò il tecnico. – I diritti voi tre ve li conquistate sul ghiaccio. Se potete fare una cosa dovete farla e poche storie. Mi aspetto di vedere il vostro meglio e solo la classifica finale ci dirà chi di voi è il più forte.
K. sostenne il suo sguardo.
– Vincerò io, non certo un bambino con il pupazzetto – sbuffò.
– Hai qualcosa da dire, V.? – chiese Y.
Il ragazzo era rimasto per tutto il tempo a fissare il peluche, ma ormai il tecnico lo conosceva abbastanza per sapere che stava ribollendo di rabbia.
– Voglio partire nel libero con una combinazione con due tripli – disse, alzando lo sguardo. – Triplo Lutz e triplo Toe Loop.
Yakov lo guardò perplesso.
– Non è che sia proprio il tuo cavallo di battaglia, il Lutz – commentò. – Ma sei libero di provarci. K?
– Io lo faccio dopo l’Axel il triplo Toe Loop.
Con una difficoltà ancora maggiore della combinazione proposta da V.
– Molto bene. La sfida è aperta.
I due ragazzi si fissarono senza parlare.
Nessuno dei due sarebbe progredito in quel modo senza l’altro. E tuttavia Y. doveva capire anche quale fosse il momento di fermarli, per evitare che si distruggessero a vicenda.
– Adesso filate a cambiarvi, vi aspetto in pista tra dieci minuti.


Era in ritardo, ok. I dieci minuti erano passati e V. avrebbe dovuto essere già in pista e non diretto ai distributori nell’atrio del palaghiaccio. È che aveva bisogno di schiarirsi le idee. E di caramelle alla menta. Poche cose non potevano essere migliorate dalle caramelle alla menta, quelle gommose, a forma di ditale, con la polvere di zucchero sopra. Ne teneva sempre un pacchetto infilato dentro al portafazzoletti, per averle a disposizione e evitare che gli venissero fregate. Non che ce ne fosse davvero il rischio, era solo una vecchia abitudine dei tempi in cui poteva trovarsi a scuola senza neanche l’ombra di un mozzicone di matita nell’astuccio. Si cacciò subito una caramella in bocca. Non aveva una gran voglia di andare in pista a schiantarsi con il Lutz. Era di gran lunga il salto che gli veniva peggio. Peggio perfino dell’Axel, che richiedeva più forza e concentrazione. Non avrebbe avuto davvero difficoltà, lui, a mettere a punto la combinazione che aveva proposto K. e questo era proprio il motivo per cui sapeva di doversi concentrare sul Lutz. Perché il Grand Prix voleva vincerlo. Non per battere K. Non gliene importava niente di lui, non davvero, anche se sul momento poteva essere irritante.
«Chi è quello?» avevano chiesto in molti, alle nazionali, la stagione precedente, quando era arrivato secondo. E lo avevano chiesto gli amici del fratello di E, due settimane prima, alla festa. E le risposte che aveva sentito sussurrare erano una variazione del tema: «il siberiano. Vive con l’allenatore perché pare che il padre sia un poco di buono. Era in istituto». Non era una cosa che volesse rinnegare, ma non sopportava le illazioni che seguivano, sopratutto quelle che aveva sentito a casa di E. «Tua sorella se lo porta in casa? Con tutto quello che si potrebbe portare via?». Non sarebbe stato molto più semplice se la risposta alla domanda «Chi è quello?» fosse diventata «Quello che ha vinto il Grand Prix Juniores al primo tentativo, a quattordici anni». Le illazioni sarebbero state diverse. «Y se lo tiene stretto, eh, il campioncino, non vuole neppure che stia in pensionato, vive con lui». «Ah, non era la stessa competizione che ha vinto anche tua sorella?». Sarebbe stato tutto più facile. E se avesse vinto abbastanza, a un certo punto non gliene sarebbe importato più niente a nessuno delle sue origini e certo avrebbero smesso di preoccuparsi per l’argenteria. Persino Y, i primi tempi, aveva tenuto tutti i cassetti e tutte le ante chiuse a chiave. Come se, per altro, appena arrivato a San Pietroburgo avesse già saputo come e dove rivendere gioielli e cucchiaini d’argento.
– Eh, ragazzino, hai intenzione di ignorarmi ancora per molto?
V sobbalzò, sentendo la voce di E.
Lei stava entrando in quel momento. Aveva indosso una banalissima tuta da allenamento, non era truccata, aveva i capelli raccolti in uno chignon e persino gli occhiali riposavista. Era l’E che lui era abituato a vedere tutti i giorni, bellissima così com’era. Non la ragazza nell’abito scintillante, con le labbra virate al violetto e le ciglia lunghe il doppio della sera della festa, con cui non sapeva bene come interagire. Non sapeva neppure dire se gli piacesse. Di certo non quanto gli piaceva ora.
– Non ti sto ignorando, pensavo che non mi volessi tra i piedi, non quando hai… B?
Il ragazzo con cui aveva ballato, che era al primo anno di università e certo non indossava vestiti di seconda mano. Lui era rimasto a guardarli inebetito, mentre il fratello di E, con quei suoi occhi così uguali a quelli della sorella, lo prendeva in giro e gli passava quella maledetta canna.
E. si strinse nelle spalle.
– Non sono abbastanza elegante per lui. E non ho abbastanza tette – disse, accennando al petto quasi piatto.
– A me piaci così.
Gli si avvicinò e gli passò una mano sulla guancia.

– Bene. Quindi vedi di smetterla di ignorarmi. Io odio essere ignorata.

CURIOSITÀ SULLE LAME DEL RACCONTO:
I nostri baby pattinatori hanno all'incirca l'età di Carolina Kostern che, infatti, V. e G. nel mondo reale avrebbero incontrato nella gara in Francia. Sì, ho controllato date e location dell'edizione juniores del 2002.
Il Grand Prix è la competizione principale della prima metà della stagione di pattinaggio. In pratica ogni atleta fa due gare in giro per il mondo e poi, intorno all'8 dicembre, c'è la finale, che assegna il primo premio importante della stagione.  Il Grand Prix Juniores si svolge da agosto ai primi di ottobre, quello Senior a ottobre e novembre, mentre la finale avviene all'interno dello stesso evento. In questo momento è in corso l'edizione 2018 e se volete avere un'idea di come stia andando, consiglio l'aggiornatissima pagina fb dell'ISU. Tra l'altro questo fine settimana esordisce nel circuito l'italiano Matteo Rizzo (nel pattinaggio di coppia alcuni italiani hanno già ben figurato nelle scorse settimane).
Questo vuol dire che un giovane pattinatore di belle speranze a 13 o 14 anni è già sballottato in giro per il mondo quasi ad ogni fine settimana. Non oso neppure immaginare quanto possa essere stressante.
Gli elementi tecnici che i nostri progettano di fare sono il top delle possibilità per gli juniores di quegli anni (un grazie a Manu che mi ha smontato i programmi di un paio di mondiali juniores d'annata).