lunedì 29 febbraio 2016

Venere Privata (e seguiti) – Piovono Libri


Ci dev'essere una peculiare maledizione per cui i venerdì del gruppo di lettura sono sempre i venerdì più incasinati della settimana più incasinata del mese. A volte io e mio marito arriviamo al volo da posti improbabili, da labirintiche trasferte torinesi, altre volte, semplicemente, sembra di aver corso con un macigno all'inseguimento, come nell'inizio di Indiana Jones. Questa volta la settimana ci aveva regalato ospedalizzazione suocera (con operazione proprio venerdì), vari malanni nel parentado, due notti insonni per motivi assortiti e vari tetris organizzativi. Il risultato è stato crollare a metà dibattito. Cosa che mi è spiaciuta tantissimo, anche perché il libro del mese si è rivelato, per me come per molti (quando sono andata via i pareri positivi erano in netto vantaggio) un gioiello inatteso e avrei amato sentire tutti.
Ne approfitto per scusarmi ancora, ma il marito mi si è addormentato in auto e io sono crollata appena oltre la porta di casa. Per la sicurezza di tutti è stato meglio così.

VENERE PRIVATA – Giorgio Scerbanenco
Qui una mia recensione.
Qui un interessante approfondimento di un'altra lettrice.
Io, come altri lettori, mi sono avvicinata a questo romanzo con una certa diffidenza. Certo, lo sapevo che Scerbanenco è considerato il padre del noir italiano. Infatti mi aspettavo una cosa triste triste in una Milano triste triste scritta con uno stile triste triste. Altri hanno detto che il fatto che dai suoi libri siano stati tratti film che non si possano definire dei capolavori non ha aiutato ad abbattere il pregiudizio. Mai diffidenza fu più mal riposta.

Milano 1966. Duca Lamberti è un giovane medico radiato dall'albo per eutanasia. Ha scontato tre anni di prigione per aver aiutato a morire una malata terminale. Ora, senza un soldo e con una sorella ragazza madre a carico, accetta il primo incarico che gli venga proposto: riportare alla sobrietà il giovane alcolizzato Davide, figlio di un ricco industriale. Solo che Davide non è un alcolizzato qualsiasi, dopo una sera Duca già capisce che la causa del suo bere è una profonda depressione e la causa della depressione un ancor più profondo senso di colpa per un presunto suicidio che il ragazzo non è riuscito a evitare. Solo che il suicidio non è poi così tale... E da qui inizia l'indagine.

Sono così tante le cose che mi hanno colpito (forse perché, in fondo, vorrei scrivere come Scerbanenco), che è meglio fare ordine.

Tematiche
Eccoci qua, pagina due. Eutanasia, depressione. Poi, avanti, sfruttamento della prostituzione con ricadute economiche e sociali. Ragazze madre e giovani sociologhe che cercano di andare avanti con le proprie gambe. Giustizia contro vendetta.
Quando è stato scritto? 1966. Ah...
Scerbanenco le sue tematiche le prende di prende di petto. Non ha paura di affrontarle a muso duro in tutte le loro sfaccettature, senza risparmiare niente ai propri personaggi, che pagano sempre, fino in fondo.
Duca Lamberti ha ucciso per pietà una donna malata terminale. Ne ha avuto in cambio tre anni di carcere, un padre morto di crepacuore, una sorella abbandonata incinta dall'amato e ogni possibilità di carriera preclusa eppure è davvero, davvero difficile condannarlo. Oggi questa sarebbe una tematica attuale, il fine vita e tutto quanto. Il libro è del 1966 e siamo solo a pagina due.
Mi sono chiesta se questo, come altri libri della serie, oggi potrebbero uscire in questa forma. Forse un editor consiglierebbe di ingentilirli. Rendere meno ambigua la scelta di Duca e, di sicuro, addolcire il finale del libro, che io ho trovato perfetto, ma che per molti lettori è stato troppo duro e insistito. 
Scerbanenco non ha addolcito niente, non nasconde niente e non si cura del buonismo. Vede una Milano piena di brutte cose e brutte persone e di dilemmi morali. Per ogni scelta c'è un prezzo da pagare, che i suoi personaggi pagano sempre per intero. E io ho trovato il tutto di una attualità sconvolgente.

Stile
Io darei un rene per scrivere come Scerbanenco, sia agli atti.
Lo stile è semplicemente perfetto. Perché nonostante tutto, nonostante quello che accade e come accade, non abdica mai all'eleganza e all'ironia. Un'ironia che, proseguendo con la serie, si fa più amara, diventa sarcasmo, ma che non abbandona mai la prosa e i personaggi. 
C'è un passaggio delizioso, in Venere Privata, in cui Duca vuole indagare l'origine della depressione di Davide. Sarà forse dovuta a problemi con le donne? Quindi Duca procura compagnia al giovanotto e poi interroga, a incontro finito, la fanciulla. Il tutto è raccontato senza mai usare una parola che sia meno che elegante (credo per altro che "prostituta", per non parlare di termini più volgari, non sia mai usato e stiamo parlando di un'indagine nel mondo della prostituzione). Da ogni frase traspare il profondo imbarazzo e senso del ridicolo di Duca, il che dà alla scena un connotato quasi comico, che però nulla toglie alla tensione del romanzo.
Io tutto mi aspettato in un noir meno che un'ironia che permette di sorridere e una riga dopo di angosciarsi con un ritmo che è più unico che raro.
Venere Privata, diciamolo, qualche buchetto di trama ce l'ha. Almeno due piccole voragini, ma tutto passa così in scioltezza, condotti per mano da uno stile tanto elegante e piacevole che alla fine vien voglia di fare un applauso all'autore per come si è tolto dai guai, piuttosto che accusarlo per quegli inciampi.

Le figure femminili
Abbiamo molto discusso sulle figure femminili di Scerbanenco. Lui, orfano di padre, è stato cresciuto dalla madre e da una famiglia molto femminile. Per gran parte della sua vita ha scritto sotto pseudonimo romanzi rosa (che mi viene quasi voglia di recuperare) e ha tenuto la posta del cuore in alcune riviste.
Tutto questo deve aver contribuito alla sua capacità di scrivere personaggi femminili. Né qui né nei sequel ce ne sono di scontati, anzi.
In Venere Privata domina su tutti Livia Ussaro. Contattata in quanto amica della vittima, Livia Ussaro si connota, passatemi il termine, come un personaggio "alla Sherlock Holmes". Estremamente intelligente, vagamente annoiata dalla vita, iper razionale, non vede l'ora di buttarsi in un'indagine, anche a costo di rischiare in prima persona e di pagare in prima persona. Sin da subito c'è tra lei e Duca un'alchimia che va ben oltre l'attrazione fisica o il banale innamoramento (il buon Duca, per altro, ci metterà romanzi interi solo per passare dal "lei" al "tu"). È comprensione e fiducia. Si stabilisce un rapporto paritario e una coppia d'indagine in cui è Livia la parte razionale, quella delle deduzioni consequenziali, mentre Duca comprende i più impalpabili moti dell'animo e le emozioni di vittime e carnefici.

Milano
Non so perché, ma la mia introduzione sosteneva che la Milano di Scerbanenco non è una Milano reale. A me, invece, è apparsa verissima, la Milano di fine anni '60 che io non ho potuto vedere, già città, ma non ancora metropoli, con i suoi delitti ancora quasi di paese e già le prime infiltrazioni mafiose. Abitata da tutta una popolazione in piena metamorfosi, nuovi cittadini dall'anima ancora rurale. La descrizione di una porzione della nostra storia spesso trascurata, tra il boom economico e la contestazione, non più l'uno e non ancora l'altra.

Venere Privata è il primo romanzo di una serie, che la morte di Scerbanenco ha bloccato al quarto volume. Questo per me è stato il "mese di Scerbanenco" e di Duca Lamberti, quindi, senza spoiler, ecco qualche flash dai romanzi seguenti.

TRADITORI DI TUTTI
È il seguito che mi aspettato, nel senso migliore del termine. Una trama più solida rispetto a quella di Venere Privata, un'indagine che parte per caso e che porta, come nella migliore tradizione gialla, a svelare una trama più grossa.
A gestire il caso, non ancora poliziotto, ma decisamente non più medico, è un Duca fortemente segnato dai fatti di Venere Privata. A contatto con personaggi molto italiani, quei "traditori di tutti" pronti sempre a saltare sul carro dei vincitori, quali che siano i vincitori, sente sempre più labile il confine tra giustizia e vendetta. Perché, proprio in un paese come l'Italia, a volte la vendetta sembra l'unica giustizia certa. Ma, come sempre, c'è un prezzo da pagare...

I RAGAZZI DEL MASSACRO
Il '68 secondo Scerbanenco.
Questo romanzo, il più duro e inaspettato della serie, oggi, ne sono sicura, non potrebbe uscire così com'è.
Ce lo vedo un editore solo a considerare l'inizio della sinossi: "in una scuola in un quartiere disagiato una maestra viene stuprata e uccisa dai propri alunni, tutti minorenni..." Ecco, no, l'editore, oggi, già scuoterebbe il capo. Almeno maggiorenni. Magari solo uccisa la maestra. Magari...
Invece, sempre con il suo stile elegante (la parola stupro credo mai usata in tutto il romanzo) Scerbanenco ci racconta proprio questo, la prima indagine ufficiale di Duca, peggiore possibile che arriva, per lui, nel peggior momento possibile.
Un libro durissimo, che non risparmia niente, che ci mostra il peggio del peggio dell'animo umano e ci costringe a guardare anche dove vorremmo distogliere lo sguardo.
Un Duca disperato, pieno di angosce e di dubbi, il cui amore per la verità però è più forte di tutto. Perché il buon Duca i suoi pregiudizi li ha. Gli "invertiti" ad esempio gli fanno schifo e certi ragazzi per lui nascono marci. Però questi ragazzi, i ragazzi del massacro, nonostante tutto, se li prende a cuore, almeno alcuni ("i meno marci") e per loro va fino in fondo, per capire cosa davvero sia successo in quell'aula.
Un libro che mi ha fatto stare male, ma che penso si sia preso un pezzo di me.

I MILANESI AMMAZZANO DI SABATO
Per errore l'ho letto subito dopo Venere Privata e forse per questo qualcosa non mi tornava. Probabilmente, dopo I ragazzi del massacro, voleva essere una sorta di pausa, un momento (appena) meno plumbeo. Tornano tanti elementi di Venere Privata, l'indagine nel mondo della prostituzione, qualche elemento di trama un po' poco credibile. Duca è meno presente, meno incisivo, un po' svuotato, forse, dagli eventi precedenti.
Non doveva essere l'ultimo romanzo, eppure chiude perfettamente il cerchio, Duca torna a una nuova, possibile partenza, forse, finalmente, un raggio di sole. E una serie iniziata con come titolo Venere privata, si conclude con le parole "Minerva privata". Che, una sua verità personale, una certezza umana Duca l'abbia trovata?

venerdì 26 febbraio 2016

La cartiera – racconto completo inedito

Per quanto assurdo possa sembrare, tutto quello che leggerete è accaduto davvero.

LA CARTIERA
Dedicato a mio padre
Che queste storie le
Ha viste davvero.

Lasciate che ve lo dica, voi della carta non sapete niente, niente. Per voi sono solo quelle pagine piene di parole e di immagini che si acquistano dalle sei del mattino nell’edicola della piazza o i fogli gialli adesivi su cui annotare “comprare farina e mezzo litro di latte” e poi lasciare a sedimentarsi sullo sportello del frigorifero. Ed è carta, certo, quella su cui scarabocchia vostro figlio e quella appallottolata che si trova dentro le scarpe e le borse quando sono nuove, per mantenerle della giusta forma. Posso ammettere che sappiate riconoscere la carta, quando ve la trovate davanti, ma non ne sapete nulla. Forse vi hanno detto che prima quei fogli bianchi erano alberi, forse siete stati anche fermati, ai lati della strada, per firmare una petizione contro l’abbattimento delle foreste e costretti a comprare, per sentirvi più puliti, quei brutti quaderni dalle pagine grigie fatti di materiale riciclato. Eppure di tutto quello che può succedere tra l’albero e il foglio voi continuate ad ignorare tutto e, vi assicuro, ce ne sono di cose possono succedere.

Io lavoravo in una cartiera, una fabbrica che produceva carta. Era il più grosso edificio della regione, grande come una chiesa, il cui campanile, però, mandava fumo e non suono di campane. Non era brutta come le fabbriche di adesso, la cartiera, se ne stava vicino al fiume, di un bel color mattone e al mattino intorno a lei era tutto un via vai di gente e risate di bambini. Sì, perché mentre gli adulti lavoravano, i bambini andavano alla scuola della ditta, imparando a leggere e a scrivere sui fogli che facevano mamma e papà. E la carta in cui erano avvolti i panini che le mamme preparavano loro e i tovaglioli per pulirsi le mani e i fazzolettini e gli aeroplanini con cui giocavano, tutto veniva dalla grande fabbrica, anche le pagine dei romanzetti rosa che le ragazze leggevano di nascosto e la scatola di cartone dentro cui dormiva il gatto.
Io ero elettricista addetto alla manutenzione e la notte dovevo controllare le macchine fossero a posto, in modo che il mattino tutto potesse mettersi in moto e Frr… Pumf… Pumf… potessero arrivare i tronchi, tonnellate e tonnellate di tronchi per essere sbriciolati e sminuzzati e mescolati e incollati e pressati e sbiancati fino a diventare i candidi fogli pronti a correre sotto la punta delle penne e delle biro e delle matite di tutto il mondo. Di notte però non c’erano rumori, la luce della luna filtrava dalle grandi finestre sui macchinari, giganti addormentati, e io mi sentivo uno gnomo che andava da loro a massaggiare un muscolo o a togliere una spina dalle dita perché all’alba potessero tornare a masticare e a sbriciolare legna. C’era il vecchio Tom, il capo dei manutentori del turno di notte, che diceva che non avevo poi tanto torto, lui del resto con i macchinari ci parlava. Avevano tutti un nome e giuro che l’ho visto, starsene lì, con le mani in tasca a chiacchierare col metallo per allontanarsi e lasciare dietro di sé quell’ingranaggio che proprio non voleva saperne di funzionare rimettersi lentamente in moto. Non bisognava farli arrabbiare però, i macchinari. Tutti ancora ricordano ancora il mattino in cui Teddy non si presentò alle sei a fare relazione. Quella notte era solo lui di turno in quel reparto e nessuno sapeva spiegarsi cosa potesse essere successo. Quando però la produzione fu avviata, le urla degli operai, più forti del tumpf tumpf delle macchine ci richiamarono tutti a vedere la cellulosa che stava uscendo rosa. Tutto fu bloccato, congelato il grande processo produttivo, ma di Teddy non si trovò nient’altro, solo quel rosa gentile della cellulosa. 
Alla moglie fu consegnata una medaglia, alla presenza del direttore, dei proprietari e del sindaco, tutti con il capello in mano e la voce bassa. E noi a guardare di sbieco le macchine come grossi cani diventati di colpo feroci. Tom non volle più parlare con loro per mesi. 
Ma adesso che sono passati tanti anni posso dire, finalmente, che quella storia di Teddy, a me non ha mai convinto. Tutti sapevano che si era sposato solo perché lei era rimasta incinta e da anni ormai, si vedeva con una ragazza dell’altra valle, un peperino dai capelli rossi che aveva il cervello fino e aveva studiato da maestra. Una volta avevo sentito dire a Teddy quanto sarebbe stato bello lasciare tutto e sparire, scappare in America e ricominciare. Ricordo che si era a novembre, quando scomparve, e a novembre, dalle nostre parti, si ammazzano i maiali e la nonna di Teddy era famosa per il sanguinaccio che preparava… Mi dissero, una volta, che la ragazza coi capelli rossi non abitava più con i genitori, era partita per non si sa dove due mesi dopo la scomparsa di Teddy. Per dimenticare, si diceva. Ma altri giuravano di averla vista sorridere, mentre salutava i genitori.
Fosse come fosse, per qualche tempo non fu più la stessa cosa fare il turno di notte. Io, tuttavia, non avevo tanta paura dei macchinari, no, ciò che temevo davvero si trovava nei magazzini. Nei magazzini c’erano i topi. Ebbene, direte voi, che cosa c’è di strano? Tutti i magazzini hanno i loro topi. È vero, ma questi erano speciali. Nei magazzini c’era quasi esclusivamente cellulosa e i topi si erano abituati a nutrirsi di quello, dieta variata, saltuariamente, dalla plastica che avvolgeva la carta già preparata per la spedizione. Quest’alimentazione peculiare aveva formato una nuova razza di topi, grossi e grassi ratti completamente grigio cellulosa, di un colore stinto, quasi da fantasma. Erano completamente grigi, compresi occhi e lingua e soprattutto erano grossi. Giuro di averne visti alcuni che facevano almeno un metro e dieci di lunghezza dal naso alla coda. Il problema, con i topi, era che questa loro dieta evidentemente così corroborante, non doveva soddisfare troppo il palato, così, ogni qual volta trovano qualcosa che non fosse cellulosa o carta o plastica vi ci si gettavano. Spesso interi reparti si bloccavano perché un ratto incauto aveva rosicchiato questo o quel cavo. A volte ne trovavo i cadaveri fulminati con ancora il filo tra i denti. A volte, tuttavia, andando a cercare l’origine di un guasto, mi capitava di trovare loro, vivi e vegeti, e con tutta l’aria di considerarmi una piacevole variante alla carta e alla cellulosa. E allora a calci e a pugni si cercava di venirne fuori e al diavolo il guasto! Quando Ben, che aveva sostituito Teddy, finì all’ospedale per un morso al calcagno, si cercò una soluzione. Alla fine, però, quelli che arrivarono non furono prodi guerrieri armati di ratticida e fiamme ossidriche, come si sperava, ma gli studiosi dell’università di Pavia. Erano giunti chissà come a conoscenza dei nostri ratti e non vedevano l’ora di poter studiare in quali mutazioni esattamente si incorresse nel mangiare solo carta, cellulosa e plastica. Si asserragliarono nel magazzino per quasi una settimana con gabbie ed esche per emergerne, finalmente, scarmigliati ed esultanti, con una coppia di topi imprigionati. Comunque, in attesa dei risultati della ricerca, ci fu consigliato di non disturbare la popolazione di queste “interessanti creature”. Da quel giorno si decise di estrarre a sorte a cui toccasse andare nel magazzino. Ma non dovemmo preoccuparcene a lungo. Poco dopo la partenza degli studiosi di Pavia, iniziò a piovere. 

La cartiera oggi
Fonte: Ecomuseo Valle Olona
Piovve ininterrottamente per giorni e giorni e l’acqua filtrava dal soffitto, andando a gocciolare sui macchinari, filtrava nel magazzino, andando a bagnare la carta pronta, penetrando dai buchi che i denti dei topi lasciavano negli imballaggi. Piovve per settimane e le strade erano impraticabile e gli operai e i bambini non potevano più confluire nella grande fabbrica che sembrava un chiesa. Piovve così tanto che una notte il fiume si arrabbiò. Ruggendo, uscì dagli argini e investì la cartiera, ruppe le vetrate e penetrò dentro, rubando tutta la carta del magazzino, annegando i topi e infiltrandosi con fango e pietre negli ingranaggi delicati dei giganti inermi. 
Quando infine il fiume si fu placato e il sole tornò a farsi vedere tutti accorsero al capezzale della fabbrica. C’era fango dappertutto e ricordo un grosso tronco, con tanto di radici attaccate, proprio in mezzo al pavimento. Tom camminava gravemente da un macchinario all’altro indirizzando loro solo qualche parola, ogni tanto, ma non ci volle molto perché sentenziasse che erano tutti annegati.

Questa fu la fine della cartiera. Si dice che il proprietario si uccise, altri dicono che fu ucciso dagli eredi, altri ancora, forti del fatto che nessun corpo fu mai ritrovato, asseriscono che fuggì in sud america con gli ultimi soldi. Chissà forse adesso è in società con Teddy. Quello che è certo è che la fabbrica chiuse, tutti ci trovammo a dover cercare un altro lavoro e il bambini un’altra scuola. E quando aprivamo un panino incartato, ci pulivamo le mani in un tovagliolo di carta, quando sfogliavamo una rivista o si vedeva un aereo di carta volare, vi giuro, non era più la stessa cosa. 

Tanto tempo fa, mi è stato detto che in questo racconto c'erano tante buone idee fantasiose, ma erano troppe e inverosimili. Peccato che fossero tutti aneddoti raccolti di prima mano dalle persone che hanno lavorato nella fabbrica. Oggi è un edificio in disuso, si trova al bordo del fiume Olona, in provincia di Varese e un bel sentiero gli passa a fianco. Potrebbe essere recuperato in mille modi, ma al momento è fatiscente e pertanto pericoloso, al punto che questo autunno un ragazzo entratovi incautamente ha avuto un incidente mortale.
A voi è mai capitato che una storia vera fosse giudicata troppo fantasiosa?

mercoledì 24 febbraio 2016

Postille a "Il nome della rosa" – Il miglior manuale di scrittura italiano

Da brava echiana, posseggo l'album "Umberto" della serie Dago.
Questa è una mia foto di parte della copertina.

Del mio amore per Il nome della rosa ho già parlato qui
Molte edizioni del romanzo, tra cui la mia, sono corredate dalle Postille, scritti in cui Eco nel 1983 ragionava sul suo romanzo. Ecco, secondo me le Postille al nome della rosa sono il miglior manuale di scrittura creativa italiano. Paragonabile per piacevolezza narrativa e ricchezza di aneddoti al famoso On Wrinting di King, ma con un surplus di approfondimento filosofico che solo il nostro Eco poteva dare.
Non sono molte pagine e si leggono in un sorso, ma per come la vedo io sono imprescindibili per un'aspirante scrittore. Addirittura, per noi scribacchini, valgono l'acquisto a prescindere dal romanzo. Se volete scrivere, saltate pure Il nome della rosa, ma per favore leggete le postille!

Sono di parte e lo ammetto. Io sono cresciuta con i libri di Eco, ho introiettato questi saggi ben prima di iniziare anche solo a ipotizzare di dedicarmi alla narrativa. Sono tra le poche cose sottolineate che vi siano nella mia libreria e torno spesso a riguardarmele. Alcune parti sono davvero quasi manualistiche, altre sono posizioni più personali su come debba essere un romanzo, ma essendo io cresciuta con questo nume tutelare, le ho fatte mie.

Non si può dire che abbiano cambiato il mio modo di vedere la scrittura, perché quando le ho lette non ne avevo uno. Lo hanno indirizzato, formato e forgiato. Se esistesse una corrente di scrittori "echiani" io ne farei orgogliosamente parte. Tutto sommato, mi sembra questo il momento giusto per condividere con voi le frasi che hanno maggiormente influenzato la mia scrittura.

Un romanzo è una macchina per costruire interpretazioni
Le postille partono subito con un'affermazione che è più filosofica che tecnica e che, pure, io considero al 99,999% vera.
Se scriviamo saggistica vogliamo dire quella cosa lì. Se in un articolo archeologico scrivo che un dato strumento è in giadeitite (un tipo di pietra usato nel neolitico per le asce), ebbene è in giadeitite e lo posso dimostrare. Per smentirmi servono dati e prove.
In narrativa il senso è fluido. Si costruisce a partire dal testo, certo, ma insieme al lettore a quello che lui ci mette dentro di suo e dei legami non voluti che si creano con il presente, con altri testi o altre parti del nostro stesso scritto. Eco racconta di una frase di cui era molto fiero, eppure, messa in relazione con un'altra poco distante ecco che acquisisce una luce sinistra. Il legame non era voluto né pensato, eppure alcuni lettori lo hanno colto. Non è possibile smentirli, dire che non hanno ragione. La loro interpretazione non vale meno di quella dell'autore.
Io penso, come Eco, che, se scriviamo narrativa dobbiamo accettare di non essere del tutto padroni del nostro testo. Non possiamo dire "non sono stato capito/apprezzato". Il senso del nostro scritto si costruisce lettore dopo lettore e, entro certi limiti, è mutevole come i riflessi di luce su uno stagno.
Se vogliamo essere compresi al 100% allora, forse, non è la narrativa la nostra strada.

Scrivere un romanzo è una faccenda cosmologica
Nel senso che, sia reale o immaginaria la nostra ambientazione, dovremo costruire un mondo, costruirne o accettarne le regole interne e attenerci ad esse. Queste ci daranno dei vincoli che dovremo rispettare.
Trovate questo spunto in ogni manuale di scrittura creativa, ma raccontato da Eco ha più fascino.
Scoprire perché Il nome della rosa potesse ambientarsi solo a Novembre, come Eco abbia dovuto disegnare mappe dettagliate di tutta l'abbazia e stilare schede per ognuno dei monaci ce lo fa sentire un po' meno distante, un po' meno mito. E poi aiuta a rassegnarci. Se tutto questo lavoro preparatorio l'ha fatto Eco non possiamo lamentarci, se tocca anche a noi.

Entrare in un romanzo è come fare un'escursione in montagna
Occorre, dice Eco, imparare un respiro, un passo. C'è un ritmo preciso a cui il lettore deve abituarsi. Se il nostro romanzo è una corsa a ostacoli non può poi incagliarsi in due capitoli di spiegoni. Del resto se è una lunga e lenta ascesa non può avere brusche impennate. Non solo gli eventi, anche il periodare, il lessico si devono adeguare al ritmo che noi vogliamo dare. I nostri lettori possono dover correre o camminare lentamente, a noi spetta preparare il giusto percorso.

Si scrive pensando a un lettore. Così come il pittore dipinge pensando allo spettatore del quadro
Il lettore ideale non coincide quasi mai con quello reale. La tredicenne solitaria che ero io, lettrice reale del 1993, poco aveva a che fare con il lettore ideale di Eco al momento della stesura nel 1980. Eppure deve esserci. 
Solo pensando al lettore ideale, racconta Eco, ci si pone determinati problemi pratici e, pertanto, si trovano soluzioni. Questo non vuol dire uniformarsi al gusto delle masse o di un target preciso, anzi. Può anche voler dire fare il contrario di quello che quel target potrebbe aspettarsi, per spiazzarlo e (si spera) deliziarlo.

Io ho sempre pensato che, malgrado tutto, un romanzo deve divertire anche e soprattutto attraverso la trama
Questa, ovviamene, è una presa di posizione puramente personale. Io, sia chiaro, sto con Eco. Il poliziesco ha a che fare con la metafisica e si può fare una storia appassionante senza scadere nel banale. 
Le motivazioni di tutto questo vanno parecchio sul tecnico e la lettura del capitolo sul divertimento  delizierà senza dubbio gli appassionati di critica letteraria. Io mi limito a far mie alcune conclusioni. La decostruzione della trama è stata ampiamente sperimentata agli inizi del '900. A un secolo di distanza una trama destrutturata non è certo più una novità. Nella consapevolezza di questo possiamo senza vergogna tornare a imbastire trame strutturate, proprio nella consapevolezza che tutto, ormai, è già stato provato.
Oltre tutto, dopo la lettura di questi capitoli, potrete spiegare chiaramente perché Tarantino è un autore post moderno, così come i fratelli Cohen, mentre Inarritu no, senza più sparare termini a caso. 

Infine, la mia citazione preferita in assoluto:
... Ma con chi si identifica un autore? Con gli avverbi, è ovvio.
Perché ci sono questioni che è assolutamente indispensabile porsi, lavori di preparazione che devono essere affrontati e altre del tutto inutili.
Un buon manuale di scrittura dovrebbe quanto meno insegnare a capire la differenza. Le postille a Il nome della rosa non sono un manuale, ma alla fine della lettura la differenza è chiara!

Voi cosa pensate delle Postille o delle questioni che ho posto? Siete anche voi degli autori echiani?

lunedì 22 febbraio 2016

Il primo fiore


Tutte le foto di fiori del blog le scatto io, armata di macchina fotografica, o, più spesso di cellulare.
Arriva un certo punto dell'inverno, quando proprio sta per finire, in cui entro nella zona rossa. Pur non essendo un'appassionata di botanica frequento volentieri giardini, mostre e esposizioni di floricultori, quindi cerco ogni anno di crearmi un certo archivio. Che però finisce.
Da settembre, poi, nel nostro giardino, scorrazza Nuvola in non più tanto cucciolo di cocker. Creatura deliziosa, sia chiaro, ma un difetto dovrà pur averlo, no? Pare abbia un debole per i fiori, nel senso che mio marito l'ha scoperta a mangiarsene uno (immagino una coraggiosa primula). Inoltre cosa c'è di più piacevole che scavare nelle aiuole dove mia suocera ha piantato i bulbi?
Mi sono stati segnalati dei bucaneve nel bosco vicino e quindi sono partita in missione fotografica. Dei bucaneve neppure l'ombra (eppure da qualche parte devono pur esserci, perché al bar dove vado a prendere il caffè al mattino ne avevano un mazzetto, ma non volevo fotografarli sul bancone...), ma, proprio sul punto di tornare a casa, ecco questa violetta.
Non sarà bellissima, oltre tutto spuntava da un muro e l'angolazione non era il massimo per la foto, ma è la prima. Oggi, poi, sono spuntati anche i fiori del rosmarino.

Ammetto di avere un po' di paura di questa primavera. Non so cosa aspettarmi. 
Attendo per i primi di marzo un responso sulla seconda stesura del romanzo. Attendo per fine febbraio le iscrizioni per il concorso a cattedra, per tentare di catturare un posto fisso. Attendo di partire per il più impegnativo progetto didattico in cui mi sia mai messa, uno scambio con una scuola francese, con conseguente settimana qui dei francesi e settimana nostra in quel di Bastia, in Corsica. Attendo gli ultimi dati per poter prendere una decisione importante.
Attendo.
Ma so che questa è un'attesa invernale. I primi fiori stanno spuntando. Tutte queste attese potrebbero sbocciare in uno splendido prato fiorito oppure in un disastro potenziale.
Per ora aspetto, cerco i primi fiori, scrivo qualche racconto, ma con una lentezza che non è la mia, perché la testa è altrove.

Voi cosa vi attendete dalla primavera?

sabato 20 febbraio 2016

Caro professore

Caro professore,
non sono mai stata tua allieva, anche se questo è un po' colpa tua, e per questo non ci siamo mai incontrati, parlati o scritti. Ti scrivo adesso, che non sei più Di Qua. Chi sa mai che non ci sia, oltre i vincoli del tempo e dello spazio, un modo, per te, di dare una sbirciata. Confido che dalla tua nuova prospettiva non sia poi così importante il fatto che io ti dia del tu.

Avevo tredici anni quando mi hanno regalato il tuo romanzo, Il nome della rosa. Facevo terza media e non avevo la più pallida idea di chi tu fossi, né del caso che si era creato intorno a quel romanzo e neppure che, forse, non era una lettura da tredicenni. Era solo che mia madre era esasperata dal mio continuo "non so più cosa leggere!" e ha pensato che il tuo romanzo mi avrebbe azzittito per un po', quindi per Natale me lo ha regalato.
C'è da dire che a volte le mamme hanno ragione.
Perché quello era proprio il romanzo di cui avevo bisogno.
Perché all'epoca ero un Adso in cerca di un maestro o forse ero l'allievo che il buon Guglielmo avrebbe voluto al seguito (già all'epoca ero un po' più furba e intuitiva di Adso).
Dire "questo romanzo mi ha aperto un mondo" è una frase fatta. Ma, come tu mi hai insegnato, a volte possiamo usare una frase fatta e un po' trita, se usata come ironia o con la consapevolezza del passato che l'ha usurata. Quindi (controlla se ho imparato bene), proprio con l'ingenuità di Adso posso dire "questo romanzo mi ha aperto un mondo"!
Più di uno a dire il vero.

Mi sono buttata a capofitto nell'esplorazione della biblioteca, col piacere di trovare finalmente un giallo che mi invitasse a giocare con l'autore senza condiscendenza, ma con rispetto per la mia intelligenza. Perché alcune cose mi sono state chiare fin da subito. Come il fatto che ci fossero più cose da trovare. Già allora capivo che se un protagonista si chiama Guglielmo da Baskerville, è alto, magro, ha il naso aquilino e ogni tanto ha strani momenti di apatia o stai plagiando Doyle o mi stai avvisando che tutto il romanzo è un collage e mentre si gioca a scoprire l'ingresso della camera segreta della biblioteca, si può giocare anche a trovare tutti i pezzi del puzzle. Non avevo, all'epoca, ovviamente, la cultura per identificarli, ma ho continuato il gioco per anni. Ricordo, ad esempio, che ero all'università e ho trovato il pezzo che hai usato per la descrizione del famoso portale della chiesa e qualche frase che hai messo in bocca all'abate ed è stato bellissimo rendermi conto che stavo ancora giocando a una sorta di grande caccia al tesoro iniziata quasi dieci anni prima.

Il piacere del gioco intellettuale, quindi, è stata forse la prima delle cose che mi hai regalato con il tuo romanzo (e quelli seguenti). Può sembrare una sciocchezza, ma a tredici anni non avevo molta gente da portare con me dentro i labirinti. Mi sentivo un po' una bestia rara. Mi vergognavo dei miei interessi così insoliti in una terza media. Quindi ho chiesto qualche informazione su di te. È risultato che eri uno stimato professore universitario. Quindi, ho pensato, si possono assecondare questi piaceri intellettuali senza doversene vergognare. E mi sono iscritta al liceo classico. 
Anche perché ero un po' irritata da tutto quel latino. Pezzi che avevo dovuto per forza saltare. E quindi mi incaponivo a studiare il latino per rileggere e capire tutto il tuo romanzo. A tredici anni immagino che sia una motivazione come un'altra per iscriversi al classico. Oltre tutto lasciavi intendere che la letteratura greca fosse meravigliosa. 
Insomma è colpa tua se non ho studiato qualcosa di più pratico come volevano i miei. 

Credo che sia stato uno dei primi libri un po' fuori dagli elenchi tipici dei "libri per ragazzi" che mi sia capitato in mano. Dopo tutto ero all'inizio della terza media ed ero ancora iscritta alla biblioteca dei ragazzi.
Mi hai mostrato un mondo un po' meno edulcorato di quello a cui ero abituata. Credo che quella di Adso con la strega sia stata la prima scena d'amore che io abbia mai letto, prima le storie si fermavano a casti baci. E difficilmente la bella del protagonista poi finiva al rogo. Per non parlare del fatto che alcuni monaci non fossero poi così casti. E non andassero, però, a donne.
E che dire delle eresie, le torture (così ben descritte!) e gli inquisitori? Il problema della giustizia e della verità. L'amarezza di fra Guglielmo, ex inquisitore che non si sente più in grado di giudicare nessuno.
Mi hai dato un bel po' di cose a cui pensare. 
Mi sa, quindi, che hai delle colpe anche sul mio modo di pensare. Sul mio vedere il mondo come un sistema complesso in cui non è facile dare giudizi netti.
Ovviamente non ho capito tutto tutto quello che mi raccontavi. Probabilmente mentre ragionavi insieme a Guglielmo sui movimenti ereticali e il loro sfociare anche in violenza, pensavi ai nostri anni '70. Io allora conoscevo poco il medioevo e per nulla gli anni '70. Ma imparavo a pensare. Pure troppo, per il mio benessere interiore. Già allora, come scrivevo prima, mi sentivo più vicina a Guglielmo che ad Adso e mi rendevo conto che da adulto Adso sarebbe stato più sereno di quanto non fosse Guglielmo.

Per fortuna c'era ironia! A volte amara, a volte graffiante, ma c'era sempre. Non avevo ancora letto, allora, Diario minino o le Bustine di Minerva, ma capivo che l'ironia era parte del tuo modo di essere e, anche qui, una cosa di cui non vergognarsi.
Perché, sì, insomma, mi piaceva conoscere e capire le cose, ma i secchioni noiosissimi o certi professori seriosi non mi sembravano proprio dei modelli da copiare. Non volevo essere seria e triste come loro. Ma, dopo tutto, mi dicevano, ti eri sposato e avevi degli amici. Quindi eri, sì, un professore universitario, ma non un disadattato (scusa per aver pensato a te come a un disadattato, ma una tredicenne sola che si legge Il nome della rosa durante le vacanze di Natale ha delle fondate preoccupazioni sul futuro della sua vita relazionale e affettiva).

Quindi, sì, forse potevo andare a studiare per mio piacere cose oscure e dimenticate, potevo non vergognarmi nell'appassionarmi a complicati gioco intellettuali, potevo guardare il mondo come a una cosa complessa da indagare da diversi punti di vista, ma senza dimenticarmi di sorridere, scherzare e magari anche sperando in una vita non solitaria.

E quindi ecco, mi sono iscritta al classico, finendo talmente invischiata in quelle anticaglie da trovarmi poi a studiare archeologia (invece che venire magari a studiare da te). Adesso scrivo gialli dalla forte componente storica e intellettuale. Mi sforzo di indagare il mondo con precisione e onestà intellettuale e l'ironia è parte di me.
Non dico che sia tutta colpa tua, sia chiaro.
Però ci sono libri che arrivano in un dato momento nella vita di una persona e la orientano. Il tuo è stato uno di questi. Poi posso dirti che sono tra quanti considerano Il pendolo di Foucault un capolavoro quasi superiore al primo per molti versi. Ma rimane il fatto che il tuo Il nome della rosa abbia cambiato la mia vita. 
Cosa banale a dirsi, eppure vera.

mercoledì 17 febbraio 2016

Il bello dei rendiconti


Questa si sta rivelando una settimana un po' impegnativa, tra complicatissimi moduli di burocrazia scolastica, verifiche da correggere e da preparare e qualche altro impegno da incastrare, manca alla fine il tempo per sedersi un istante al computer per scrivere post o narrativa.
Però c'è una cosa bella che volevo condividere: mi è arrivato il pagamento dei diritti d'autore del 2015 di Delos Digital.

Non scrivo per guadagnare. In passato l'ho fatto. Ho scritto cento articoli sull'idraulica, con il risultato che non so aggiustare un rubinetto che perde, ma so che i romanzi avevano una dea delle fogne (Venere Cloacina) o che le inquietanti "tombe morte" possono essere solo dei sifoni in disuso. Ho scritto un libro intero sulla storia della 500 fiat, pur odiando guidare. È stato a suo modo divertente, ma tutto sommato, pur con qualche angoscia causata da concorso e riforma, insegnare mi dà uno stipendio dignitoso. Il semplice fatto che riesca ogni anno a mettere da parte qualcosa senza rinunciare a ciò che mi piace mi dice che non ho la necessità di guadagnare di più.

Se scrivo, però, è per essere letta. E il pagamento dei diritti d'autore, con relativo rendiconto è il modo più ovvio per sapere in quanti mi hanno letto e che probabilità ho di essere letta ancora. Scrivo ciò che mi piace, so di rivolgermi a una nicchia, ma vorrei quanto meno avere la certezza che questa nicchia ci sia, in caso contrario spedisco i miei scritti solo a quei quattro o cinque amici che so che li leggono e mi stresso molto meno!

La rendicontazione è il punto debole di molti editori. Editori che prima ti inondano di mail gentili e poi spariscono alla data prefissata. Termini vaghi, tante parole e per farti sganciare un assegno anche misero dei inseguirli con il bastone. Considerato poi quanto guadagna un esordiente spesso far mandare una lettera da un avvocato costerebbe più di quanto spetta come diritti e passa la voglia. È anche per questo che piacciono a tutti gli autori così tanto gli anticipi, perché almeno quelli sono soldi sicuri. Peccato che per un esordiente l'anticipo sia quasi utopia (quasi, per il mio primo romanzo un piccolo anticipo l'ho avuto, ma mi si fa notare che il 2013 è già "altri tempi").

Sorpresa e gaudio mi ha colto, quindi, quando ho scoperto che Delos Digital aveva organizzato un vero portale per la rendicontazione. Ogni autore ha la sua pagina, vede tutte le sue pubblicazioni digitali, può scaricare la propria copia omaggio nel formato che preferisce, la copertina in alta definizione. E, sopratutto, controlla le vendite e può tener sotto controllo tutti gli store contemporaneamente. Vede quanto ha incassato la casa editrice e quanto gli spetta in termini di diritti d'autore. Ogni sei mesi (credo), se si raggiunge una cifra minima, si può approvare il rendiconto e ottenere il pagamento. Se non si è raggiunta la cifra, i diritti d'autore continuano ad accumularsi e si sommano a quelli del successivo semestre fino a che non si arriva al pagamento. Nulla va perso.
Questo perché si tratta di racconti venduti mediamente a meno di 2€ e capisco anch'io che a fare mille bonifici di pochi euro diventerebbero tutti pazzi. Quindi magari si deve aspettare qualche mese in più, ma poi tutto viene pagato.

Martedì ho ricevuto il primo bonifico!
Se volevo diventare ricca non scrivevo di Sherlock Holmes. Già i gialli sono una nicchia, qui siamo alla nicchia della nicchia. 
Qualsiasi risultato va analizzato tenendo conto di questo. Il mercato dei racconti in Italia è minoritario. L'e-book è ancora solo il 5% del mercato. Sherlock Holmes è la nicchia della nicchia.
Ma posso comunque pagarmi una bolletta, o portare il marito in pizzeria.
Sopratutto, circa 200 persone nel 2015 hanno letto i miei racconti in e-book.
Dal contratto è escluso il romanzo, Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico, che avendo avuto il cartaceo è pubblicato da Delos Book (che non coincide al 100% con Delos Digital) e di cui attendo il rendiconto per marzo/aprile.
Quindi le 200 copie sono divise tra:
Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso che ha venduto più di tutte. È anche il primo ad essere stato pubblicato e ogni volta che ne è stato pubblicato un altro, qualcuno è tornato a recuperare anche questo, segno che gli e-book, più dei cartacei, si trainano molto a vicenda.
Sherlock Holmes e il caso della morta scomparsa che però è uscito a novembre. Quindi alcune vendite saranno rendicontate nel 2016.
Fuori dal rendiconto è anche Uno studio a sei zampe, che è stato pubblicato nel 2016.

È vero che in siti specializzati per la condivisione dei racconti non è difficile arrivare a 200 visualizzazioni, è anche vero che l'attenzione di un lettore che ha deciso di investire, sia pure una cifra minima, su racconto è diversa. Personalmente sono soddisfatta, questo rendiconto mi ha regalato un sorriso in una settimana un po' concitata. Perché i sistemi limpidi che permettono riscontri certi mi piacciono.
E anche perché, tutto sommato, questi soldi sono davvero tutti miei. La cifra è davvero quella di una cena in pizzeria, ma con il 25% su 0,99 o 1,99 non è realistico pensare ad altro. D'altro canto non ho avuto alcuna spesa. Personalmente le copertine mi piacciono. Io non avrei saputo come realizzarle. Non conosco neppure 20 appassionati di Sherlock Holmes, forse dieci, facciamo quindici, quindi direi che la maggior parte dei lettori è arrivata grazie al lavoro di promozione dell'editore. Insomma, con il fai da te non so quanti lettori avrei avuto e se sarei andata in pari.

Questo non per raccontare Delos Digital come un mondo perfetto. Ma è un mondo che conosco e che volevo condividere.
Perché a volte il mondo dell'editoria viene descritto anche peggio di com'è. Del tutto chiuso agli esordienti e volto solo a truffarli. Qui c'era un contratto che diceva determinate cose e tutto è stato fatto secondo i giusti termini. Forse la cosa strana è che io stia raccontando quella che dovrebbe essere una normalità.
In ogni caso, il mio grazie va allo staff di Delos Digital per tutto il lavoro svolto nel 2015.

E un grande grazie a tutti i lettori, che hanno investito il loro tempo e il loro denaro nelle mie storie!

domenica 14 febbraio 2016

Cinque storie d'amore che non ti aspetti – letture

Non sono tipo da post di san Valentino, generalmente scrivo di omicidi, il che non è proprio il massimo del romanticismo.
Oggi, però, sarà che piove e si sta bene in casa a scrivere, ho voglia di fare un'eccezione, ovviamente alla mia maniera.
Non sono tipo da cercare delle storie d'amore. Tuttavia capiti che incappi in storie d'amore che mi incantano, tanto più sorprendenti, quanto del tutto inaspettate.
Oggi vi offro quindi una selezione delle storie d'amore del tutto inaspettate che più mi hanno colpito. Solo, rigorosamente, letteratura di genere.

Tenar e Ged
L'isola del drago – U.K. Le Guin
Iniziamo dal romanzo e dalla protagonista a cui ho preso in prestito il nome.
Lei un tempo è stata sacerdotessa di divinità oscure, ma ha rinunciato al potere e ora è solo una vedova di mezz'età. Lui è stato arcimago, è tornato dal regno dei morti, ma ha lasciato lì la sua magia ed è convinto che non lo attenda altro che la morte.
Alla fine di tutte le storie, quando sembra che non resti null'altro da raccontare, rimane ancora una vita da scoprire e condividere. 
È una storia che rileggo sempre volentieri, perché vi trovo sempre nuovi spunti. Storia d'amore, di guarigione, di consapevolezza. 
Non è detto che le storie d'amore che commuovono debbano essere per forza tra protagonisti giovani e belli.


Cordelia e Aral
L'onore dei Vor,  Barrayan – L. McMaster Bujold
Lei è a capo di una missione scientifica, lui (non troppo a capo) di una militare. Si trovano soli in una terra contesa. Ne risulta una storia d'amore.
Non basata sulla bella fanciulla da salvare, ma su una comune visione del mondo, su uno stesso concetto di onore.
La storia prosegue anche nel romanzo successivo che vede i due, ormai sposati, nel mezzo di una rivolta nel bellicoso pianeta di lui. La storia d'amore si evolve in un'altrettanto bella storia di maternità. Cordelia, colpita da un gas velenoso nel corso di un attentato, rischia di perdere il proprio figlio o, meglio, rischia di metterlo al mondo gravemente menomato, cosa, in una società militaristica, ancora peggiore. Lei risolve la cosa in modo molto femminile. Tagliando la testa al responsabile della rivolta e dimostrando di poter proteggere così anche suo figlio. Che, per inciso, sarà il protagonista dei romanzi successivi, ragazzo geniale dal fisico fragile.
A volte anche le belle storie d'amore hanno bisogno di qualche testa mozzata.

Livia e Duca
Venere privata e romanzi seguenti – G. Scerbanenco
Ultima scoperta, ma già molto amata. Lui indaga e vuole arrivare alla verità, costi quel che costi. Lei vuole stimolo intellettuale e, probabilmente, una bella scossa di adrenalina. Lei gli dice subito che non ci sarà alcuna storia d'amore, lui se ne innamora proprio per quello e le dà quello che lei desidera: il ruolo più pericoloso nell'indagine. Lei finisce sfregiata, lui se ne innamora sempre di più.
In una Milano sempre pericolosa e spietata, si puntellano l'un l'altro, indagano insieme, sempre più affiatati.
Perché in un mondo che cerca solo veneri, a volte c'è bisogno invece di una minerva.


Grazia e Simone
Almost blue – C. Lucarelli
Lei è una poliziotta (fin troppo) arrabbiata, lui un ragazzo cieco che associa voci e sentimenti ai colori, l'unico in grado di riconoscere la voce di un serial killer. Indagine e storia d'amore si fondono, ma questa volta è lui (fin troppo) quello indifeso da salvare e lei il cavaliere in grado di sconfiggere il drago.
Ho molto apprezzato che la storia d'amore sia stata portata avanti anche nei romanzi successivi, con scampoli di normalità a raccontare come la disabilità non sia poi questo grande ostacolo per l'amore. Forse poteva essere portata avanti anche un pochino meglio, senza relegare Simone in un ruolo marginale e a volte ingrato.



Alexis e Liside
Le ultime gocce di vino – M. Renault
Storia d'amore alla maniera dell'antica Grecia, con un'evoluzione a tratti surreale per il lettore moderno (ma filologicamente impeccabile), con Liside che dopo aver giurato eterno amore ad Alexis gli raccomanda la sua amante di fiducia o Alexis che chiede consiglio a Liside su come si corteggi un uomo più giovane.
Al di là dell'impeccabile ritratto storico, di questo romanzo rimane impressa la storia d'amore che dura una vita tra Alexis e Liside, che si trasforma senza drammi da passione a complicità. Perché, forse, vale più uno stesso modo di vedere il mondo del fuoco della passione.



Queste sono, probabilmente, le mi storie d'amore preferite tra quelle incontrate nei libri NON d'amore (in caso contrario come non citare Orgoglio e Pregiudizio?). Ma a volte trovo che sia bello così, aprire un libro cercandovi indagini o battaglie spaziali e finire per attendere con ansia il bacio dei protagonisti. Impossibile non notare, poi, come tutte le donne di queste storie non siano esattamente fanciulle innocenti e arrendevoli. Con la parziale eccezione dell'eroina di Lucarelli, tutte si trovano uomini altrettanto forti, con cui costruire legami paritari. E questo, suppongo, è molto indicativo del mio carattere e del mio modo di vedere il mondo.
Ho scritto il post senza troppa fatica, prendendo proprio le prime cinque storie d'amore inaspettate che mi venissero in mente, sono sicura che con un attimo di riflessione ne troverei altre altrettanto belle, se non di più.
Non mi resto che passare a voi la patata bollente.
Quali sono le più belle storie d'amore inaspettate in cui vi siete imbattuti, in romanzi in cui la parte romantica con costituisca l'ossatura della storia? C'è qualcosa che le accomuna?

Buon san Valentino a tutti.

venerdì 12 febbraio 2016

Assaggia il saggio!


Di essere una bestia strana lo so da tempo. Fortunatamente faccio branco con altre bestie strane. 
Di solito le altre bestie strane e rare con cui faccio branco sono altri lettori. Tuttavia a volte mi sento anche all'interno di quel branco di una tipologia sbagliata. Una zebra tutta bianca.
Capita anzi che la sensazione sia quella di essere, che so, sorpresa a spolpare una costina di maiale a un buffet vegano.
Il fatto è che io sono onnivora (anche) a livello di letture.
Non conto le pagine di ciò che leggo in un mese, ma credo che solo metà delle mie letture sia costituita da narrativa. Il resto si divide in parti variabili tra fumetti, articoli e saggistica.

Ecco, la saggistica.
Non potrei vivere senza narrativa, ma neppure senza saggistica.
Sono una letterata che legge saggistica, per lo più scientifica. Io e mio marito leggiamo Le Scienze e spesso prendiamo anche il libro opzionale allegato. Così può capitare che un mese si legga di dinosauri, il mese dopo dei modi di rilevare pianeti simili alla terra (a dire il vero noiosissimo), il mese dopo ancora su come insegnare scienze ai bambini. Inoltre io amo anche la storia e, in modo meno sistematico, l'antropologia culturale. L'immagine che vedete sopra è di un consigliatissimo saggio sull'antropofagia nel medioevo europeo. Un libro solido e ben documentato, ma scorrevole, piacevole a dispetto dell'argomento. Alla fine non potrete più pensare a Riccardo cuor di leone nello stesso modo, rivalutando non poco il bistrattato principe Giovanni!
Eppure la saggistica, esclusi i libri per universitari, vende pochissimo, persino meno della narrativa, il che è tutto dire.
E allora ecco

4 MOTIVI PER ASSAGGIARE IL SAGGIO

Un altro livello di comprensione del mondo
È il più banale dei motivi, il più scontato. Però il saggio aiuta a capire il mondo, ad approfondire un interesse, ad avere una visione più chiara e profonda di un dato argomento.
Spesso a frenarci è la paura di una lettura troppo approfondita e noiosa. Vecchi ricordi di scuola con pagine e pagine da studiare riemergono. Però, salvo rare eccezioni (ciao, saggio sugli esopianeti), la saggistica contemporanea è molto più agile. Il buon divulgatore sa che deve esporre le sue argomentazioni in modo comprensibile e, se possibile, stuzzicanti. Il cattivo divulgatore di solito neppure arriva in libreria. Quindi la paura del mattone insopportabile non è del tutto ingiustificata, ma va almeno ridimensionata.

La saggistica spesso permette una lettura più sincopata
Odio dover interrompere la lettura di un capitolo appassionante, magari con il protagonista in pericolo di vita. La saggistica, invece, si presta molto di più a una lettura frammentata, con pause e interruzioni. Di solito i capitoli sono suddivisi in paragrafi di lunghezza non eccessiva. E raramente alla fine di un saggio si scopre chi è l'assassino.
Io amo leggere saggistica di giorno e narrativa di sera. Di sera ho più tempo, di giorno, invece leggo o mentre pranzo o mentre cucino, nelle pause di preparazione. La saggistica si presta moltissimo a queste piccole pause, per una lettura interessante e senza ansia.

Uno spunto per la narrativa
Salvo casi particolari, non compro un saggio per documentarmi su ciò che voglio scrivere. Leggo un saggio o un articolo che mi interessa e mi viene in mente un racconto. Sono tantissimi i miei racconti nati perché mi sono imbattuta in qualcosa di interessante. Ne beneficia maggiormente la mia produzione di apocrifi sherlockiani, ma solo perché le innovazioni scientifiche di fine XIX secolo mi affascinano e quindi cerco maggiormente saggi e articoli su quegli argomenti. Voi potreste trovare spunti dalla sociologia, dalla psicologia o da qualsiasi altra cosa vi appassioni.

Effetti inaspettati di una conoscenza approfondita
La nostra vita è fatta di connessioni. Ed è incredibile quante connessioni crei un buon saggio. Si approfondisce un argomento che ci piace. Poi, magari, per caso incontriamo al bar, in coda, a casa di amici qualcuno con la stessa passione. Non c'è nulla come discutere di un argomento tecnico e poco noto per saltare convenzioni sociali e convenevoli. Un appassionato di meteoriti tratterà un altro appassionato di meteoriti incontrato per caso come un fratello da lungo tempo lontano. Ho visto nascere amicizie profonde, ma anche amori così.
Un buon saggio cambia la vita!

Voi leggete saggistica? Cosa ne pensate?

mercoledì 10 febbraio 2016

Di svolte di trama violente e di insoliti equilibri emotivi – Scrittevolezze


Negli ultimi tempi ho avuto una sorta di folgorazione sulla strada del noir italiano.
Grazie al gruppo di lettura ho scoperto Scerbanenco
Mi vergogno persino, adesso, al solo pensiero di aver tentato di scrivere giallo in Italia senza aver letto Scerbanenco, ma tant'è. Inutile dire che parlerò diffusamente dei libri che sto leggendo più avanti, anche se potete trovare già una mia recensione a Venere Privata qui.

Come spesso mi accade in questi casi, letto il primo libro di una serie, Venere Privata, appunto, dovevo leggere anche gli altri. Il secondo, Traditori di tutti, è, più o meno, il seguito che mi aspettavo. Poi sono arrivata al terzo romanzo, I ragazzi del massacro
Riparlerò sicuramente di questo romanzo. Per ora basti sapere che è un pugno nello stomaco. Io non mi impressiono facilmente. Per diletto mi leggo saggi sull'antropofagia o sugli infanticidi nell'antichità, ma l'indagine presentata ne I ragazzi del massacro è di quelle da non fare dormire la notte (sopratutto per una prof). 
Le prime sessanta pagine di romanzo sono sostanzialmente un lungo, interminabile interrogatorio delle persone coinvolte nel massacro che dà il titolo al romanzo. Mentre questo interrogatorio fiume prosegue, però, sta accadendo anche qualcos'altro, che è narrato tramite concitate telefonate e che ha a che fare con la vita privata del protagonista, Duca Lamberti. Eppure, fino almeno a pagina 40, ero convinta che almeno quell'aspetto si sarebbe concluso positivamente. Invece c'è un ulteriore pugno nello stomaco, tanto più violento quanto più del tutto inaspettato.
Perché inaspettato?
Superato lo shock emotivo (vi assicuro, una notte di incubi, giusto per dire fino a che punto ero coinvolta) mi sono chiesta, però, perché non mi aspettassi per niente quell'evento.
Ebbene siamo abituati, ormai, a giudicare un libro anche da un punto di vista metanarrativo.
Cioè non a considerare ciò che nella realtà potrebbe accadere, ma ciò che ci aspettiamo che accada perché "narrativamente corretto".

C'erano diversi motivi per cui non mi aspettavo quell'evento e tutti avevano a che fare con questioni narrative, cioè:
– È improbabile che un evento altamente traumatizzante per il protagonista avvenga a pagina 60, a vicenda appena avviata. Ci si aspetta che il peggio avvenga a ridosso della fine, in quello che viene definito "il momento di massima difficoltà". Del resto se spari il colpo più forte all'inizio, cosa devi fare, poi, per il finale?
– Il romanzo è un giallo/noir, verte su un'indagine e questo evento è invece del tutto esterno. Non mi aspettavo che l'autore piazzasse a pagina 60 un evento in grado di destabilizzare del tutto il protagonista. Pensavo che il fulcro emotivo della storia dovesse rimanere l'indagine, che, per altro, è già abbastanza disturbante di suo.
–Pensavo che i personaggi coinvolti fossero intoccabili. Mi è stato spiegato che in una serie gialla i personaggi di contorno ricorrenti servono ad alleggerire la tensione e a dare, appunto, un senso di continuità, quasi di famiglia al lettore. Al massimo possono essere coinvolti nella trama gialla (presi di mira da un assassino sadico che vuole vendicarsi del protagonista, ad esempio), non essere colpiti da strali del destino senza un perché. 

Insomma, ciò che avviene è assolutamente plausibile nel mondo reale (anche se ammettiamo che il buon Duca Lamberti, il protagonista, non brilla per fortuna), ma nell'ambito di una narrazione che verte su un'indagine io non me la aspettavo.
I ragazzi del massacro è del 1968 e sono convinta che oggi farebbe fatica ad essere pubblicato in questa forma. 
Scerbanenco se ne fa un baffo del politicamente corretto, abbiamo tredicenni assassini, stimate intellettuali che hanno torbide storie con minorenni, altri minorenni che ricattano coppie lesbo. Insomma, a proporlo oggi io già mi immagino l'editor che cerca di convincere l'autore a smussare un po' almeno alcuni angoli. Mi immagino ancora di più l'editor che cerca di convincere l'autore a togliere quel particolare colpo di scena, perché un po' di speranza deve pur rimanere, anche all'interno di una storia così desolata e cupa, e così, invece, sembra proprio di ucciderla tutta. Infine, ricorderebbe proprio quelle regole narrative che mi facevano pensare quella svolta impossibile.
Ma l'editor avrebbe ragione?

Può funzionare una svolta violenta e inaspettata a pagina 60?
È inevitabile che I ragazzi del massacro risulti un romanzo emotivamente sbilanciato. Di solito vi è un crescendo di emotività, la tensione sale sempre più fino al finale.
Qui il picco di emotività è a pagina 60. Nulla di quanto accade dopo può davvero essere peggio. Anche se il protagonista dovesse morire male non sarebbe peggio.
Eppure la scelta di Scerbanenco dà a tutto il proseguo del romanzo un sapore peculiare. Come il protagonista, Duca Lamberti, usciamo dalle prime 60 pagine stremati. Alla disperata ricerca di un senso, anche di un solo innocente da salvare, di un cattivo da incolpare. Quella che segue non è più, non solo, la ricerca della verità o dell'assassino, ma è la ricerca di un senso. La ricerca di un barlume di speranza.
Ogni altro evento traumatizzante (e non è che manchino) viene visto come insopportabile. Diventa necessario, per il lettore come per Lamberti, arrivare in fondo, cercare un senso. Alla fine, sia chiaro, un senso vero e proprio non si trova. Ci sono interrogativi che, però, proprio perché si è passati dai traumi precedenti, acquistano un peso diverso.
Ci sto pensando da un po', ma non so dire se la scelta narrativa di Scerbanenco sia stata necessaria o possa essere archiviata come "violenza gratuita di un autore ai danni dei propri personaggi". Sicuramente il romanzo sarebbe stato ugualmente d'impatto. Un po' meno disperato, certo. Quanto quel "po' meno" avrebbe inciso sulla mia esperienza di lettura non so dirlo. Di certo questo non è stato un libro scontato e prevedibile.

Le conclusioni che come al solito non so trarre
In questo periodo non raggiungo grandi verità, anzi. Però vi posso proporre i miei interrogativi.
Tutti noi, chi più chi meno, sappiamo come va strutturata una trama. Il problema è che spesso per il lettore (o lo spettatore) diventata facilissimo prevederne le svolte su basi prettamente metanarrative. Ormai sappiamo tutti che il primo indiziato in un giallo difficilmente sarà l'assassino. Capiamo facilmente chi vivrà e chi ha il destino segnato (come il povero Piton in Harry Potter, che già dal libro primo aveva una falce enorme che gli aleggiava sulla testa...).
Forse a volte dovremmo osare di più. Non avere paura di inserire qualcosa che fa a pugni con il "percorso dell'eroe" o con qualsiasi altra cosa ci abbiano insegnato.
Forse.
Perché non posso fare a meno di notare che questo è il terzo libro di una serie. Non il primo. Non si può destabilizzare così un lettore prima di averlo fatto entrare pian piano in un mondo narrativo. E non si può agire alla cieca. Forse Scerbanenco si può permettere una trama del genere perché si muove benissimo nei meccanismi narrativi.
Di certo io non ho mai costruito una storia con un equilibrio emotivo così insolito. Il massimo della struttura emotiva insolita l'ho scritto con Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso, dove il picco emotivo è circa a metà vicenda e non alla fine e tutto sommato mi pare che funzioni.
E voi? Il picco dell'emotività delle vostre storie è sempre verso la fine della vicenda?
Che ne pensate?


lunedì 8 febbraio 2016

The hateful eight – Visioni


Il mio rapporto con Tarantino è complicato.
Da un lato penso che lui sia un serial killer mancato, uno che, grazie al cielo, sublima con il cinema la sua compulsione a uccidere, squartare e far esplodere le persone, in grado di ragionare, ma non di provare empatia. Insomma, un pochino mi disturba.
Dall'altro è uno dei più grandi registi che il cielo ci abbia mandato, uno che non sbaglia un'inquadratura che sia una e il mio sommo amore per il cinema non può che ringraziare per la sua esistenza.
A complicare il mio rapporto con questo film in particolare è il fatto che l'idea di spararmi per il secondo fine settimana consecutivo un western gelido dalla durata immensa un po' mi spaventava. Sentivo di aver già dato con The Revenant (soffrendo anche un po').

La prima cosa che ho pensato, quando dal crocefisso di legno innevato l'immagine si allarga è che siamo tornati negli anni '50, quando il western lo sapevano fare.
Tarantino rispolvera un tipo di pellicola desueto (qui per uno scanzonato ma completo giudizio tecnico) per creare immagini che al giorno d'oggi nessuno fa più perché nessuno sa più fare. Come sempre, Tarantino è un dio della regia e non c'è nulla di ciò che è inquadrato che non abbia senso. I campi lunghissimi dell'esterno con un uso della luce che è completamente diverso da quello di Inarritu, ma altrettanto bello, gli interni densissimi di particolari di sfondo, i giochi di messa a fuoco e di sfocatura. I "difetti" tipici della vecchia pellicola che vengono usati per creare senso narrativo. C'è poco da fare. È cinema allo stato puro. Impietoso il contrasto con le mille, splendide inquadrature prive di senso narrativo di Inarritu, qui non c'è una sfocatura fuori posto.

La storia è uno strano miscuglio di giallo classico e western cattivo. Otto personaggi si trovano chiusi in un emporio durante una tempesta. Tutti mentono. Ogni racconto che sentiamo è falso, su più piani di falsità e sarà difficile (eufemismo) uscirne vivi.
Io non amo i monologhi tarantiniani. Quindi l'ambiente western, con i suoi personaggi chiusi, che costringe la scrittura di tarantino a farsi sincopata, più botta e risposta, a mio gusto migliora la cosa. Il  balletto della falsità regge alla grande e devo dire che mi sono sommamente divertita, fino a che il sangue non ha iniziato a scorrere davvero.
Non so se è il mio scarso amore per le mattanze tarantiniane, che ho trovato la cosa così fortemente fuori luogo, tutta questa lunga costruzione in punta di fioretto che finisce in modo così poco sottile. Così tanrantiniano.

Ecco, alla fine siamo sempre lì. Mi piace Tarantino quando dirige e fa parlare (non monologare) la sua umanità sporca e bastarda, meno quando inizia a massacrarla, sempre con delle inquadrature perfette, sia chiaro, sempre con coerenza, persino con le racchette da neve che diventano ali, io smetto di divertirmi.

C'è da dire, però, che se devo scegliere tra un'umanità brutta, incattivita dalla sorte, dall'incapacità di uscire dai propri stereotipi e instupidita dal gelo, scelgo quella di Tarantino, piuttosto che quella di Inarritu.
Da una parte abbiamo un film con vette di perfezione tecnica, girato con boria estrema e una semplicità di contenuti a tratti fastidiosa. Dall'altra Tarantino che per certi versi non innova, prosegue semplicemente il proprio percorso, mette in scena con perizia spettacolare un'umanità miserevole, ma guardata con ironia. L'ironia, almeno per me, fa la differenza.

Infine, una prece per la chitarra storica spaccata davvero sul set al posto della sua ricostruzione.

venerdì 5 febbraio 2016

Le nostre storie e il test di Bechdel – Scrittevolezze


Chi vive dal di fuori il mondo della scuola dubito sappia davvero cosa c'è dietro una pagella. Gli studenti immaginano gli insegnanti riuniti più o meno come in un meeting di cattivi di un film di Bond che malignamente sogghignano contando le insufficienze. Le realtà degli scrutini sono altre. Ci si riunisce, ci si interroga, si discute. Spesso i toni sono tra la psicanalisi e la seduta spiritica: "come reagirà il ragazzo a questo o a quel voto? Con quale scelta influiremo di più e meglio sul suo processo di crescita?". A volte insorgono delle preoccupazioni pratiche: "Io quella pagella non la consegno da sola alla famiglia, il padre di X non sarà contento e pesa due volte più di me!". A volte si discute più che animatamente. Ma mai si danno insufficienze a cuor leggero. E mai o quasi si fa in fretta. 
Non del tutto guarita dall'influenza oggi mi sono fatta gli scrutini di cinque classi. Avevo intenzione di fare un bel post, ricco e sentito, ma le forze un po' mi mancano. Come sempre faccio quel che posso.

Sapete cos'è il test di Bechdel?
Qui un bel post informativo.
Per i più frettolosi, la spiegazione made in Tenar.
Il test di Bechdel non è nulla di scientifico, nasce da un fumetto, ma è un semplice e veloce indicatore per capire se in una storia è stato dato spazio alle figure femminili.
In pratica una storia supera il test se:
– Tra i personaggi ci almeno due personaggi femminili con un nome proprio
– Le due donne parlano almeno una volta tra loro, ma non di un uomo (non importa se marito, figlio, amante o capo).
Insomma, una storia passa il test se due personaggi femminili importanti parlano tra loro di affari loro che non abbiano un uomo come argomento principale.

Il test di Bechdel NON  è un indicatore di qualità...
Un sacco di ottime storie non passano il test, che tra l'altro è nato da alcune battute di un fumetto, non da alti studi filosofici. Molte di quelle opere sono tra le mie preferite: Il signore degli anelli, Il nome della rosa, Il segno dei quattro, I tre moschettieri... Potrei continuare quasi all'infinito, ma sono stanca. Ho solo dato un'occhiata alla mia libreria.

... Ma dà un'idea dell'importanza che la storia attribuisce alle donne.
In pratica una storia che non supera il test è una storia che considera:
a) le donne in funzione degli uomini, e quindi solo in grado di parlare tra loro di uomini
b) le donne non importanti o non interessanti se non come funzioni narrative
c) le donne importanti come personaggi forti delle eccezioni che nel migliore dei casi non sono destinate a incontrarsi. 
In passato era praticamente impensabile, se non nei rari casi di storie scritte per un pubblico femminile, che una storia passasse il test. I personaggi femminili erano o funzioni narrative (la bella da salvare, piuttosto che il premio da raggiungere) o erano viste solo in funzione maschile (la moglie di, la figlia di, la fidanzata di, al meglio la segretaria di) o eccezioni e quindi sole.
Molto spesso anche nelle storie pensate per le donne, il cuore dei dialoghi dei personaggi femminili erano comunque uomini. 

Oggi le cose sono cambiate?
Ni.
Sicuramente le cose cambiano, ma vecchi pregiudizi permangono, anche nei luoghi più impensati. Immaginate i seguenti dialoghi: due manager d'azienda che parlano delle fluttuazioni di borsa. Un investigatore e il medico legale che parlano della vittima di un omicidio. Due chirurghi che discutono di un caso clinico. Un mafioso e un sicario che prendono accordi. Uno spacciatore interrogato da un poliziotto. Tutti dialoghi credibilissimi in una narrazione. Alzi la mano chi d'istinto ha immaginato due donne. Non è implausibile, anzi. Eppure spesso non ci pensiamo.
È curioso come nessun editor mai questionerebbe sul fatto che in un giallo l'investigatore, il giudici istruttore e il medico legale siano tutti e tre uomini, mentre se fossero tutti e tre donne direbbe probabilmente che non è plausibile. Anche se sappiamo tutti che ci sono giudici, detective e medici legali donne. Eppure avere tutte e tre queste figure chiave insieme femminili sarebbe quanto meno peculiare. Di sicuro una cosa subito notata. In effetti a me non viene in mente nessuna storia gialla in cui tutte le figure chiave della squadra investigativa siano donne. Se ce n'è già una forte è tanto. Se è la protagonista è un mezzo miracolo. Al suo fianco però al 99% dei casi ha il rude poliziotto tutto d'un pezzo con quale presto o tardi si crea tensione sessuale.

Le storie di Tenar e il test di Bechdel
Le mie storie sono le prime vittime del test di Bechdel.
Per tutto il comparto sherlockiano è pura utopia. Stiamo parlando di un'epoca in cui le donne non avevano diritto di voto, raccontata in prima persona da un personaggio maschile. Ogni volta che riesco a inserire un buon personaggio femminile grido al miracolo. Sono molto soddisfatta dei personaggi femminili del romanzo Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico e di Avventura a Parigi, ma in nessuna di queste due storie le donne si trovano da sole per parlare dei fatti loro.
Il problema è anche che il romanzo La roccia nel cuore non supera il test. I protagonisti sono uomini. Le donne vengono narrate per lo più quando interagiscono con loro.
Il romanzo che ho appena finito di revisionare supera il test, ma non è stato così ovvio. La protagonista è una lei, ma a conti fatti ho solo tre scene in cui delle donne parlano tra loro (non di uomini). È un giallo e, come dicevo prima, è difficile per molti motivi immaginare un giallo nell'Italia di oggi in cui tutte le figure chiave siano femminili. La protagonista stessa è guardata come un'eccezione in quanto donna e tutti i carabinieri graduati con cui si rapporta sono uomini. Vi sono (per fortuna) altri personaggi, testimoni, parenti delle vittime, amiche, con cui la protagonista si rapporta e di certo non sono solo propaggini maschili. Tuttavia mi fa ragionare il fatto che, se mai sarà pubblicato, questo romanzo sarà considerato "molto femminile", eppure in 450000 battute ci sono solo tre scene esclusivamente femminili. Sono molte di più quelle esclusivamente maschili.

Le conclusioni che non so trarre
Tutto ciò mi ha fatto pensare. Posto che il test di Bechdel non è un indicatore di qualità, mi ha colpito costatare sulla mia pelle quanto sia difficile e/o poco comune in una storia non necessariamente rivolta a un pubblico femminile avere più donne sole in scena che non parlino di uomini. I motivi sono molti. Alcuni hanno a che fare con la realtà della nostra società che vede ancora le donne minoritarie in certe posizioni. Altri hanno a che fare con la percezione che ci fanno ancora immaginare più facilmente uomini piuttosto che donne in determinate posizioni. Altri ancora sono più sottili. Se già molti lettori uomini diffidano delle storie scritte dalle donne, figuriamoci se sono interessati a storie cui gruppi di donne parlano dei fatti loro! Come se le storie femminili non potessero essere interessanti. Eppure noi donne leggiamo normalmente storie in cui gruppi di uomini parlano dei fatti loro (magari anche scritte da uomini) e lo troviamo normale.
Insomma, non sono arrivata ad alcuna conclusione, ma alcuni pensieri si sono messi in moto.
Di certo farò più attenzione a questo aspetto. 
Voi che ne pensate?
Le vostre storie superano il test di Bechdel?

mercoledì 3 febbraio 2016

The revenant – Visioni


L'anno scorso, uscendo dalla sala dopo la visione di Birman, mi ero chiesta cosa avrebbe fatto Inarritu con un film d'azione.
The Revenant è la risposta, ma forse non è la risposta che speravo.

Premessa.
Ho l'influenza, che deve passarmi al più presto perché gli scrutini incombono e gli scrutini non si possono saltare e questo non migliora la mia già scarsa capacità di moderare i giudizi.

La storia è nota. Siamo in nord America nel primo ottocento. Una guida in una spedizione di cacciatori di pellicce è abbandonata come morta dopo essere stata mezza mangiata da un orso. Di più. La persona che, insieme a suo figlio, doveva vegliare su di lui, uccide il ragazzo e lo abbandona. Ma l'uomo non è morto e con ogni mezzo cercherà di vendicare suo figlio.

Ci sono sequenze che sono a dir poco superlative. L'attacco indiano alla spedizione e in generale tutte le scene d'azione sono fenomenali con brevi piani sequenza montati con raccordi fantastici. Il tutto è girato in luce naturale in una natura incontaminata e splendida, vera protagonista della pellicola.
Ci sono però almeno tre MA grossi come una casa.

Il primo, più grosso MA è una imbarazzante mancanza di profondità. Il film è lunghissimo, ma non abbiamo modo di affezionarci al protagonista. Tutti nella spedizione parlano benissimo di lui, ma non non capiamo perché, non abbiamo visto quella parte di storia. Del suo passato conosciamo solo frammenti onirici che sembrano presi a forza da New Word di Malick. Troppo poco davvero per affezionarci a lui, tanto che a volte si inizia a pensare alla morte come a una liberazione per lui e per noi spettatori. Persino il traditore cattivissimo ha più profondità e ci si interessa quasi più a lui che non all'eroe. Non è colpa del povero Di Caprio, che più che grugnire non può fare. È proprio un problema di scrittura, di personaggio non costruito.
Stessa cosa per il resto dei conflitti.
Ci sono storie ambientate in territori desolati in cui però gruppi di personaggi continuano a incontrarsi nel nulla, come neppure il sabato pomeriggio in un centro commerciale. Qui ci sono i cacciatori statunitensi, i cacciatori francesi, un gruppo di indiani giustamente arrabbiati e altri indiani assortiti. Il regista vorrebbe raccontare, lo si vede, il dramma dei nativi americani e della natura violentata, ma rimane tutto estremamente superficiale. Lo spettatore fatica a provare empatia o a capire davvero i drammi che sono in atto. 

Il secondo grosso MA è la lunghezza.
Il film è lunghissimo, cosa che amplifica tutti i problemi del punto uno. Ci sono scene splendide, come quella dell'attraversamento del fiume con la cascata gelata che non apportano assolutamente nulla a livello di trama. Forse sono io che fatico a vedere la poesia, ma alla centesima bellissima alba mi innervosisco. Non è una questione di minutaggio. 
È che è difficile raccontare così poche cose in così tanto tempo con immagini così belle.

Il terzo grosso MA è la credibilità.
Qui non è questione di orso o non orso, di volontà e desiderio di vendetta. È umana impossibilità. Non puoi raccontarmi una storia "vera" ripresa tutta in luce naturale, in cui un uomo massacrato a dicembre finisce in un fiume ghiacciato, scende giù dalle rapide e se la cava da solo. Poi a un certo punto sale su un cavallo, viene preso a frecciate, finisce in un burrone e se la cava. Da solo.
Se mi vuoi raccontare una storia "più vera del vero" non puoi poi presentarmi un protagonista più indistruttibile di Capitan America. La mia sospensione dell'incredulità va a farsi benedire.
Come ha detto un mio amico: "a un certo punto inizi a capire che l'orso aveva le sue ragioni".

C'è poi un quarto MA, più piccolo e personale. Era stato detto che il film è tratto da una storia "vera" da cui a sua volta era stato tratto un romanzo nel 2003. Dopo 20 minuti ho iniziato però ad avere un fortissimo senso di dejà vù. Il mio dejà vù si chiama "Uomo bianco va' col tuo dio", film del 1971 in cui un tizio in una spedizione di caccia di primo ottocento viene tradito e massacrato da un orso, ma sopravvive e si vendica. Adesso vedo che Wikipedia è stata aggiornata e segnala che il soggetto è lo stesso, ma ho visto un intero documentario sulla lavorazione di The Revenant e non mi pare che questa pellicola sia stata nominata. Mi è sembrata una discreta mancanza di tatto.

A conti fatti The Revenant è un film che va visto. È in molte parti un virtuosismo tecnico. Non a caso agli oscar se la vedrà in molte categorie con Mad Max, un altro virtuosismo tecnico. Solo che in Mad Max la tecnica è funzionale a qualcosa, qui non sempre. Io ho un debole per i virtuosismi e in particolare per i piano sequenza che Inarritu ama tanto, ma ho comunque bisogno di una storia forte.

Ma, per carità, l'oscar a di Caprio datelo, che se no la prossima volta si fa mangiare davvero da un orso.