giovedì 29 gennaio 2015

Il cuore della storia – Scrittevolezze


In questi anni ho ricevuto un'enorme quantità di consigli sulla scrittura. Alcuni li ho cercati, altri sono arrivati non richiesti. Alcuni si sono rivelati vitali, altri interessanti, altri ancora dannosi.
Di molti l'importanza l'ho capita solo a posteriori o comunque solo a percorso di scrittura iniziata.
Uno di quelli che oggi considero più sensato e che infatti mi è giunto in diverso forme e da più parti si può riassumere così:

Sei davvero consapevole di quello che vuoi raccontare?
Qual è il nucleo della tua storia, quel cuore pulsante intorno a cui ruota tutto il resto?
Hai davvero in mano le redini della tua storia solo quando ne conosci il cuore e sei in grado di esporlo in non più di due/tre righe.

Il cuore della storia – ciò che per noi è davvero importante
Che cos'è che ci spinge a scrivere, qual è la cosa che davvero vogliamo raccontare?
Rispondere a questa domanda non è né semplice né banale. Spesso ci innamoriamo di un personaggio, di una scena o di una trama. Iniziamo a scrivere pieni d'entusiasmo, ma pagina dopo pagina, l'entusiasmo scema fino a scomparire e la storia resta incompiuta.
Forse non avevamo focalizzato bene la risposta alla domanda: perché ho bisogno di raccontare questa storia?
La narrativa non è cosa da poco. Richiede impegno, dedizione, tempo sottratto ad altri. Dobbiamo sentire la necessità di tutto ciò. Perché una storia nasca, deve esserci una motivazione che ci renda necessario scriverla, che giustifichi tutte le attenzioni che dovremo darle. Se non siamo consapevoli di che cosa sia ciò che ci spinge, rischiamo di soccombere alla domanda: chi me lo fa fare?

Il cuore della storia non è la morale della favola
Non è il messaggio che vogliamo lanciare.
È ben difficile che una buona storia nasca dall'intento preciso di lanciare un messaggio, anzi, partendo dall'intento morale è assai più facile che esca una storia piatta e banale. È invece molto più comune che i valori dell'autore escano con naturalezza dal procedere di una narrazione complessa.
Il cuore della storia può nascere come una domanda morale, piuttosto che come un'affermazione. Faccio un esempio su un tema di cui non ho alcuna voglia di scrivere davvero. È molto più facile che esca una buona storia partendo dalla domanda aperta: come reagirei di fronte a una malattia terminale? Piuttosto che dall'affermazione Sono contrario all'eutanasia.
Nel primo caso abbiamo un tema morale da sviluppare che può diventare il cuore di una storia complessa, nel secondo una morale preconfezionata a cui far aderire a forza la storia. Se io sono contraria all'eutanasia, la cosa emergerà ugualmente anche partendo dalla domanda, ma in modo molto più forte a livello emotivo. La domanda aperta, infatti, mi invita a mettermi in gioco e mettere in discussione i miei stessi valori.
Secondo me sotto ogni buona storia c'è un tema morale da sviluppare. Forse non è propriamente il cuore, può anche non apparire esplicitato nelle fatidiche due righe. Più che il cuore potremmo chiamarlo l'anima della storia.

Il cuore della storia è un nucleo narrativo
La domanda dell'esempio precedente come reagirei di fronte a una malattia terminale? (evviva l'allegria) è già un nucleo narrativo, perché porta ad altre domande di tipo narrativo: di chi è la malattia? Del protagonista o di un suo caro? Ha già persino un'indicazione stilistica: è in prima persona. È già una storia.
Il cuore della storia è il nucleo narrativo principale, individuarlo ci aiuta a capire qual è la parte della trama per noi più importante. È la bussola che ci impedirà di perderci lungo la stesura.

Il cuore di ogni storia può essere raccontato in due righe
Abbiamo capito che sotto la nostra esigenza di raccontare c'è la necessità, più o meno consapevole, di sviluppare un tema morale che prende la forma di un nucleo narrativo. Da qui la trama può svilupparsi anche a dismisura, per migliaia di pagine, ma il nucleo narrativo è sempre circoscritto e forte. 
Qualsiasi storia, lo sappiamo, può essere riassunta in pochissime parole. Questo vuol dire che da fuori siamo tutti più bravi a individuare il cuore di una storia. Proviamo a farlo anche con le nostre. Se ci è chiaro perché le stiamo scrivendo/le abbiamo scritte non sarà così difficile!

Avere chiaro il cuore della propria storia aiuta in fase di promozione
Sia che vogliamo proporre il nostro testo a un editore, sia che vogliamo lanciarlo nel mondo del self, dovremo per prima cosa scriverne la sinossi. Ma anche una sinossi è troppo lunga. Per attirare l'attenzione del lettore, sia esso l'acquirente della nostra opera autoprodotta o l'editore da ingolosire, non avremo a disposizione più che due righe. Meglio saperlo da subito e muoversi nella giusta direzione.

Il cuore dei romanzi di Tenar

La roccia nel cuore – Un prete esperto di storia biblica e un ragazzo ateo appassionato di fisica si scoprono complementari nel cercare la verità su una morte misteriosa.

Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico – Accompagnandolo in un'indagine su un misterioso automa, il dottor Watson si rende conto della genialità e delle fragilità di Sherlock Holmes e decide di essergli amico.


Qual è il cuore delle vostre storie? Avete difficoltà ad individuarlo? Ritenete anche voi che aver ben chiaro quale sia il cuore di una storia sia essenziale?

martedì 27 gennaio 2015

Enigma – Letture


Mentre ero al cinema a vedere The imitation game ho vissuto una strana esperienza. Via via che la parte della trama dedicata alla II guerra mondiale procedeva, venivo colta da una strane esperienza di déjà vu e mi rendevo conto di conoscere parecchie cose sulla decriptazione di Enigma, il sistema tedesco che doveva rendere illeggibili i comunicati militari, al punto che alcuni passaggi della trama mi suonavano "sbagliati". Ma da dove venivano quelle informazioni? Leggo abitualmente Le Scienze e quindi Alan Turing non era un perfetto sconosciuto, eppure tante informazioni sull'organizzazione di Bletchley Park, la località dove in segreto si progettavano i "proto computer" in grado di decriptare Enigma non potevano venire da lì.
Scavando e scavando nel palazzo della memoria è saltata fuori la copertina di un romanzo dal titolo "Enigma" che mostrava i tasti di una macchina enigma. Zero sulla trama o l'autore. Gli anni in cui potevo averlo letto dovevano essere quel buco nero che va dalla prima media alla fine del secondo anno di superiori. Anni in cui non avevo una vita sociale e andavo in biblioteca anche due/tre volte a settimana prendendo in prestito praticamente qualsiasi cosa. Il periodo, se non altro, è circoscritto perché all'inizio del terzo anno ho cambiato istituto, scappando dal lindo liceo privato per lo scalcagnato liceo pubblico. Nel giro di poco tempo le letture sono diminuite a favore dei contatti sociali. Delle letture posteriori al gennaio 1997 ho quindi una memoria molto più netta.
Con queste informazioni ho stabilito che il candidato più papabile era Enigma di Robert Harris, edito nel 1995 e di cui è attestata una copertina con la tastiera di Enigma. La nebbia permaneva sulla trama. Però,  ho pensato, doveva essere un buon libro se, a distanza di tanti anni mi ha permesso di fiutare delle imperfezioni storiche in un film (che, ho controllato, sono effettivamente tali). Varrà la pena di rileggerlo, adesso che è solo a un click di distanza da me?
La risposta è sì.

Letto nel 2015 subito a ridosso della visione di The imitation game, Enigma si è rivelato proprio un bel libro.
Il suo pregio maggiore sta, secondo me, oltre che nel certosino lavoro di documentazione, nell'atmosfera generale.
Il romanzo non racconta la fondazione di Bletchley Park e la decriptazione di Enigma. È ambientato nel 1943. La guerra va avanti da anni. Quello che era un progetto un po' folle portato avanti da un pugno di scienziati eccentrici si è rivelato il più prezioso segreto dell'Inghilterra. Ormai migliaia di persone lavorano a Bletchley Park, ognuna confinata nel proprio capannone, con turni di lavoro folli. Perché le "bombe", i proto computer ideati (non solo) da Alan Turing sono sì in grado di decifrare Enigma, ma sono se vengono impostati con le "chiavi" giuste e i tedeschi, subodorando la possibilità di una decriptazione, continuano a modificare le macchine Enigma, tengono codici diversi per i vari reparti militari e cambiano di continuo le regolazioni. Quindi il lavoro estenuante di oggi può essere annullato domani e così via. Per anni. Inoltre quali delle informazioni ottenute vanno utilizzate? Salvare delle vite può mettere a repentaglio un vantaggio tattico vitale.
Quella che grava su tutto il romanzo, quindi, è una pesantissima cappa di stanchezza e disillusione. Il tempo degli ideali e dell'esaltazione è passato da un pezzo ed è rimasta solo la stanchezza.
Tom Jericho, matematico e criptoanalista, non ha retto la tensione ed è stato allontanato dal parco a seguito di un esaurimento nervoso, ma quando le macchine Enigma in dotazione ai sottomarini tedeschi vengono modificate, viene forzatamente fatto tornare al lavoro per cercare di trovare le chiavi necessarie alla regolazione delle bombe per decriptarle. Il ritorno è anche l'occasione per il giovane per vedere la bella Claire, la donna che gli ha spezzato il cuore, anch'essa impiegata nell'enorme centro segreto. Ma la ragazza scompare proprio la sera del suo ritorno. Inizia quindi una doppia corsa contro il tempo, quella per decifrare "squalo", la nuova regolazione di Enigma e quella per scoprire cosa sia accaduto a Claire. In entrambi i casi, ci sarà un altissimo prezzo da pagare.

Enigma è un thriller lento. Quasi metà del romanzo è occupata dalla descrizione del centro segreto e del sistema di decriptazione di Enigma. Se, come me, trovate questa sorta di "prima guerra tra intelligenze artificiali" affascinantissima, queste sono tutt'altro che pagine sprecate. Harris è uno di quegli autori che non scrive un rigo senza essersi documentato (di lui avevo già apprezzato Pompei) e questo è davvero il valore aggiunto del romanzo. Le spiegazioni, oltre tutto, sono chiare e comprensibilissime, il che spiega come ne ricordassi ancora il contenuto e il suo racconto del funzionamento di Bletchley Park è molto più accurato di quello mostrato nel film.
Il protagonista, Tom Jericho, è il classico genio che va tanto di moda oggi (diamo atto all'autore di non aver seguito le mode), completamente inetto nei rapporti umani, ma in grado di straordinarie intuizioni. È non troppo velatamente ispirato a Turing stesso (che infatti non compare mai in scena, pur aleggiando su tutta la narrazione). Ottima la comprimaria, la coinquilina della donna scomparsa, intelligentissima, ma condannata dal suo essere donna a un ruolo subalterno.
Infine ho trovato trattato molto meglio del film il peso morale delle informazioni conosciute. I criptoanalisti sono spesso i primi a conoscere i contenuti dei dispacci nazisti. Vengono a conoscenza di informazioni non filtrate, crude, che dovrebbero solo passare ai capi militari. Loro soli sanno interpretare i retroscena delle decisioni militari, se quella nave o quel paese bombardato potevano essere salvati, se un alleato è in realtà crudele quanto il nemico. Onore al merito ad Harris per aver usato elementi storici che nel 1995 non erano per niente noti al grande pubblico.

Enigma è sicuramente la miglior opera narrativa su Bletchley Park e sulla decifrazione dei codici nazisti. Se non vi spaventa un thriller che ha come protagonista un matematico inetto dalla salute mal ferma (questo per darvi l'idea della quantità di azione che ci potrete trovare), è consigliatissimo.

domenica 25 gennaio 2015

Questa inaspettata voglia di rosa – Scribacchiando


Sarà la stanchezza del PAS che non accenna a lasciarmi, saranno gli ultimi film e gli ultimi romanzi letti, piuttosto avari alla voce "ottimismo", sarà che ci sono giorni in cui il mondo appare un po' più ostile. Sarà... Fatto sta che da qualche giorno ho sempre di più la voglia di una storia a lieto fine. Più precisamente, di una storia d'amore a lieto fine. Insomma, di una storia ROSA!
Fermi tutti! Sto male? Qualche linea di febbre, in effetti, ma nulla che giustifichi il delirio. Sarà l'esaurimento? Probabile. Sta di fatto che la voglia di rosa permane.
Giusto per farvi capire quanto inusitato sia per me questo desiderio, vi riassumo i due racconti lunghi scritti durante il PAS. Uno è un apocrifo sherlockiano (per cui ho già firmato il contratto di pubblicazione!) dove la storia d'amore è motore di delitti. L'altro appartiene alla mia serie fantasy e aveva, in effetti, come tema l'amore o meglio "gli amori impossibili". Infatti in 60000 battute riesco a farne finire male tre di storie d'amore, compresa quella del cane da pastore innamorato della femmina di segugio del lord. In tutta la mia produzione ho tre racconti con una storia d'amore a lieto fine. Una però è in un contesto talmente triste che possiamo anche non contarla. 
Eppure questa inaspettata voglia di rosa permane.

Quindi ragioniamo. Passerà, probabilmente passerà, ma iniziamo a interrogarci. Ci sono, almeno, dei libri che abbia amato sopratutto per le storie d'amore? Sì, ci sono, non sono neanche pochi. Ecco i primi che mi vengono in mente:

Non toccatemi Jane Austen! E poi Elizabeth (come Emma, nell'omonimo romanzo) è un inno all'intelligenza femminile.

Piccolina, non bellissima, senza ricchezze, ma con intelligenza e tenacia da vendere, come non tifare per Jane?

L'onore dei Vor e Barrayan
Dovrebbero essere libri di fantascienza, ma sono di fatto i miei romanzi d'amore preferiti. Lei è comandante di un'astronave con missione scientifica, lui è un militare, per quel che ne sa lei è pure un criminale di guerra. Si trovano isolati su un pianeta tutto da esplorare...
Nel secondo romanzo vanno a vivere insieme, nel militaresco pianeta di Barrayan...
Lieto fine assicurato, con una lei tutt'altro che remissiva, capace di entrare in scena con in mano la testa mozzata di un nemico.

Della mia amata Le Guin, non è solo una storia d'amore. Ma quella tra Tenar e l'ex arcimago Ged è di quelle che non si dimenticano. Romanticissimi anche se ormai non più ragazzini.

Ammettiamolo, a farmi amare questo romanzo non è stato il serial killer o lo stile. È stata la storia d'amore (ecco perché poi i seguiti mi sono piaciuti solo fino a un certo punto). Lei è una poliziotta tostissima, lui un ragazzo cieco riesce a leggere nell'animo attraverso il suono della voce.

Ecco che inizia a delinearsi un trend. Nelle storie d'amore che mi piacciono la protagonista non è necessariamente bella e dolce, ma è intelligente e tosta. Quasi sempre ha un lavoro, spesso considerato "da uomo", non si strugge né si piange addosso, anzi è spesso lei a salvare il principe azzurro.
Di una donna così potrei anche raccontare la storia d'amore. E, per una donna così, pretendo che ci sia il lieto fine.
Ora, come ho già avuto modo raccontare, spesso io mi trovo meglio a raccontare il passato rispetto al presente. Quindi, delineato l'identikit della mia eroina, ho iniziato a scandagliare la storia in cerca di spunti. Avevo già un'idea del tipo di interesse che volevo che la mia eroina avesse, perché trovo che alcune cose siano raccontate spesso molto male.
E, come spesso mi accade, sono inciampata in una storia, praticamente già bella e fatta che chiede a gran voce di essere raccontata. E, come sempre in questi casi, inizio a guardarmi intorno e mi chiedo come mai sia possibile che una storia così bella non sia mai stata raccontata. I personaggi iniziano a bussare alla mia testa e a installarsi nel mio salotto... 
A questo punto non posso tirarmi indietro. Dovrò proprio iniziare a scriverlo, il mio primo esperimento di racconto lungo d'amore (e mi tocca pure un gran lavoro di documentazione)...

A voi è mai capitata una cosa del genere? Com'è andata?

venerdì 23 gennaio 2015

Di mille Oresti il disperato canto – parte 3/3


Qui la Parte Prima


Fedra ha sempre saputo che avrebbe fatto suo qualsiasi uomo avesse desiderato. Quando il suo occhio si è posato su Teseo, signore dei salotti buoni della città, è stato come il compiersi di un destino perfetto. Fedra non si è fatta spaventare dal passato di lui – si dice abbia sedotto un’intraprendete segretaria e poi l’abbia abbandonata dopo essersi fatto passare tutti i segreti industriali del principale di lei – e dalla una precoce vedovanza.
Per anni, dopo il matrimonio, le malelingue hanno teso loro agguati, nella speranza di scoprire una colpa. Ma Fedra, sempre sorridente al fianco del marito, ha finito per diventare prova concreta della possibilità di una felicità terrena.
Adesso, però, che ha l’età della saggezza, Fedra osserva di nascosto il frugoletto rosa che ha tenuto in braccio il giorno del suo matrimonio. Ippolito sarà presto maggiorenne e se sembra che un dio gli abbia elargito il dono della bellezza – credetemi – è proprio perché è così.
Nelle giornate, e sono tante, in cui Teseo è lontano per lavoro, Fedra guarda le proprie mani. Le vene, adesso, sono in rilievo sui tendini, come serpenti attorcigliati intorno a un ramo e la pelle è secca al tatto. Potrebbe posarsi quelle mani su un viso a cui appena spunta la barba?
Fedra scuote la testa e si vergogna, lei che non ha avuto mai un amante, ora si trova impotente di fronte alle proprie fantasie. 
Ci sono sere in cui si dice che non c’è colpa ad avere un sogno, come quando, bambina, immaginava di sposare Tom Cruise. Tom Cruise, però, Fedra non l’ha incontrato mai, mentre Ippolito lo vede ogni giorno. E quello che rende questo sogno crudele non è l’impossibilità a realizzarlo, ma il fatto che la sua realizzazione sia così vicina. 
Ancora un anno, si dice Fedra, poi Ippolito andrà all’università, lontano, e come Tom Cruise, diventerà un pensiero dolce e impraticabile.
Ma gli dei non accettano che i mortali si sottraggano ai loro piani. Uno sguardo di troppo, una cameriera perspicace, una parola detta quasi senza voler far male – Sei così bello, signorino, che anche la signora sembra innamorata di te.
Adesso che lui sa, Fedra è già morta. Uccisa dalle convinzioni nelle quali è cresciuta, da una virtù per troppo tempo rimasta immacolata. Perché è sbagliato agli occhi degli uomini, ma anche a quelli del dio benevolo a cui Fedra è tanto devota – non ai nostri occhi, certo, che così tanto hanno visto – desiderare di amore carnale ciò che dovresti amare di amore materno.
Sdraiata sul letto color albicocca, Fedra conta le gocce dentro il bicchiere. Ha scelto una fine da star capricciosa, vestita soltanto di una vestaglia rosa. Spera che credano che abbia tradito davvero, condiviso il suo corpo con un uomo qualsiasi. 
La troveranno con in mano l’ i-pod e gli auricolari caduti che risuonano ancora delle flebili note di una delle canzone di Orfeo che lei ascoltava per farsi coraggio.

Tutto questo, ve ne accorgete anche voi, è accaduto, accadrà, accade, continua ad accadere, nella vostra città, in qualsiasi città del mondo.
Uscite da casa, dall’ufficio e incrociate Cassandra, Orfeo, Tiresia o Leda. Magari è sul vostro collo che alita il fiato di un dio.
Certo, è proprio della vostra epoca trovare altre spiegazioni. Follia  o sfortuna. Semplici parole a tracciare confini di destini spezzati. 
Non più oro per gli eroi, solo grigi toni sfumati.
Nel vostro mondo pacificato non ci sono epopee, solo eventi squallidi e banali.
Per questo vi raccontavate le storie l’un l’altro, la sera. Non come insegnamento – non c’è nulla di morale, nessun precetto da imparare a memoria, in questi accadimenti – e neppure come monito, poiché è impossibile sfuggire quando un dio ha posto su un uomo lo sguardo. Ma sapevate rendere omaggio, allora, alla grandezza degli uomini e delle donne che vi passavano accanto, impegnati in battaglie che non potevano essere vinte.

Rinnegando gli dei, avete rinnegato voi stessi.

Mi fa tristezza – per voi, non per me – questo vostro mondo normalizzato, nel quale non sapete più vedere la grandezza dell’uomo che vi cammina al fianco.
Chiamatemi Destino, se dovete, chiamatemi Zeus, Giove, Odino, Amon, non chiamatemi affatto. Le vostre preghiere non dette non mi hanno ucciso.
Ma ascoltate di mille Oresti e Cassandre e Lede e Tiresia il disperato canto!
Uomini che tentano di opporsi al volere degli dei, o del destino – dateci il nome che volete – senza neppure sapere contro quali forze si stiano battendo.
Tanto più grandi proprio perché privi di speranza di vittoria.
E se vi chiedete perché mi importi, dall’alto del mio Olimpo come sempre traboccante di nettare e ambrosia, io vi rispondo che posso amarvi, oppure odiarvi, desiderarvi fino alla follia o far di tutto per distruggere la vostra esistenza. Ma non posso trovarvi indifferenti.
Che questo sia benedizione o disgrazia decidetelo voi.

giovedì 22 gennaio 2015

PAScolando: Fine esami!


Ieri ho finito a sorpresa gli esami del PAS. A sorpresa nel senso che avevo un orale ieri e uno venerdì con la stessa docente, ma siamo riusciti a chiudere entrambi ieri. Alla fine c'erano le donne delle pulizie armate di ramazze pronte a scacciarci dall'aula, ma ce l'abbiamo fatta. 
Non ero pronta, non me l'aspettavo.
Ci sarebbe stato da portare almeno una bottiglia, da andare a cena fuori con i colleghi. Ma, come tutto nel Pas, anche la fine degli esami è arrivata a tradimento. Solo una dozzina di noi aveva effettivamente finito (gli altri dovevano correre a casa a studiare per gli ultimi appelli) e, comunque, non ne avremmo avuto la forza.
Da settembre a oggi abbiamo sostenuto sette esami, ciascuno con scritto e orale (in un caso scritto e scritto), spesso e volentieri l'orale prevedeva un progetto/un approfondimento personale. Alcuni esami, come il famoso Docimologia sembravano uscire direttamente da Harry Potter. Quando sul foglio dell'orario ho letto "Modelli e Relazioni" ho invece pensato a una telenovela ambientata nel mondo della moda (il titolo completo "Modelli d'insegnamento e relazioni in classi eterogenee" aveva in effetti molto più senso). Alcune cose le ho trovate utili. Altre interessanti. Sul senso di altre ancora mi sto ancora interrogando.

Se adesso, a caldo, mi dovessero chiedere:
— Ma allora, in base al Pas, qual è la qualità che un prof deve assolutamente avere?
Risponderei:
– Saper guidare con ogni tempo ignorando i limiti di velocità e saper scrivere a super velocità.
La cosa davvero difficile durante gli esami scritti, infatti, non è stata dimostrare di sapere, ma riuscire a scrivere tutto il necessario nel tempo consentito. Io poi, da dislessica, ho i miei personali limiti in questo, ma mi sembra che i colleghi abbiano avuto tutti gli stessi problemi. Siamo arrivati a esercitarci facendoci cronometrare per stabilire esattamente quando potessimo scrivere nel tempo dato. Ci sono stati esami in cui, anche volendo, copiare avrebbe comportato una perdita di tempo tale, tra alzare lo sguardo, controllare dove fosse il prof e cercare le informazioni, da renderlo controproducente. Dopo il temuto e temibile esame doppio italiano/storia mi sembrava di avere fatto una performance sportiva, non intellettuale, e mi sarebbe servito un massaggiatore!
Quindi, cari colleghi che dovrete seguire il corso PAS l'anno prossimo, esercitatevi nella scrittura veloce a mano. Come questa qualità, nel 2015, possa essere determinante nella pratica di insegnamento non lo so, ma so per certo che serve per conseguire l'abilitazione.

Poi c'è stato il processo di "ri-studentizzazione".
Se non altro questo ci ha fatto guardare con più comprensione i nostri studenti. Però vedere un gruppo di cinquanta professori tutti dai trent'anni in su "ristudentizzati" era inquietante. Nei corridoi ci si scambiava dritte su come nascondere i bigliettini, ansie da esame, sfoghi da voti. Noi prof che al mattino sgridavamo alunni scoperti a copiare, che minimizzavamo le ansie da interrogazione degli allievi, al pomeriggio ci trasformavamo in loro.
Nulla di strano che poi di notte sognassi di dover rifare non l'esame di maturità, ma direttamente le scuole medie!

Adesso come adesso sono arenata sul divano cercando di capire se la mia sia solo spossatezza o se sia davvero il caso di raggiungere il termometro e provarmi la febbre. 

Pian piano arriverà anche la voglia di festeggiare.

martedì 20 gennaio 2015

Di mille Oresti il disperato canto – parte 2/3


Qui la prima parte

Cassandra ha un lavoro d’impiegata in un ufficio al quarto piano da cui si vedono soltanto i cassonetti stracarichi d’immondizia al lato della strada. I colleghi la salutano a malapena e il principale non ricorda mai il suo nome. Nessuno dà credibilità ai suoi abiti grigi, senza marca. Ha un fisico minuto che sembra fatto per sparire nelle ombre delle stanze e dei pensieri. 
Alla sera Cassandra spolvera la sua laurea da cento dieci e lode e scrive articoli per una testata on-line, effimera piazza virtuale. Era convinta che il web, con il suo libero e infinito accavallarsi di voci, avrebbe potuto dare uno spazio a tutti. Non si è accorta che un infinito accavallarsi di voci produce una tempesta cacofonica dove i suoni si annullano, più impenetrabile dell’assoluto silenzio. 
Cassandra ogni sera scrive su un computer di seconda mano una precisa verità. Nelle criptiche quotazioni di borsa e tra i dati fluttuanti dei mercati fiuta tesori nascosti, pericoli e scandali in agguato. Come certi cani sanno avvertire un terremoto o un malessere del padrone un attimo prima che esso si verifichi, Cassandra vede una ricapitalizzazione o un crollo prima ancora che un solo centesimo si sia mosso. Ogni sera con caratteri chiari e frasi brevi avvisa i risparmiatori su ciò che è da fare e ciò che è da evitare. Ci sarebbe da diventare ricchi solo a prestarle ascolto. Ma le sue parole sono gocce su rocce aride e screpolate. Quasi nessuno le presta attenzione e i contatti sul suo sito calano invece di aumentare.
Domani Cassandra scoprirà che suo marito ha investito tutto in quell’azienda che, lei già sa, sta per dichiarare bancarotta, e glielo aveva anche detto mille volte – ma cosa ci poteva fare, per lui un uomo ha più istinto, in questo campo. E col mutuo della casa da pagare, la sera dovrà andare fare le pulizie a ore nella villa di un amico del suo principale, terzo o quarto marito di Clitemnestra, che allungherà le mani sulle sue curve così parche di desiderio. Basterà, però, per scatenare l’ira della nuova, gelosa moglie. E chi potrà dire davvero se è stato uno sbaglio, incidente o disattenzione, cosa è davvero accaduto, perché in quella bottiglia è stato messo acido e non detergente?
Non sapranno arrivare a una decisione i giurati, e neppure Cassandra, che in silenzio si chiederà chi davvero debba odiare per le mani e il visto rovinati. 
Sarebbe stato diverso per lei sapere che quel professore che le ha insegnato tutto era un dio in agguato? Forse Cassandra, già fidanzata, con la casa di cui ora il muto la imprigiona già quasi comprata, avrebbe rifiutato ugualmente la singola notte di piacere, preferendo la desueta virtù della fedeltà alle grasse mani generose del dio. Piangerebbe ugualmente, Cassandra, ma per il rimpianto, non per lo sgomento di non sapere quale errore abbia commesso. Forse riceverebbe perfino l’inutile dono dell’orgoglio nel sapere che è stata punita per essere rimasta fedele a se stessa.

Mentre Cassandra viene portata al pronto soccorso a sirene spiegate – l’acido è al lavoro e i medici a stento riusciranno a salvarle la vista  – Castore e Polluce stanno uscendo dall’ospedale.
Nessuno può dubitare che siano fratelli. Hanno uguali capelli dorati e uguali occhi di cielo, ma nelle mani – stessa dimensione, identico perfino in modo in cui le vene scendono e sotto la pelle si intrecciano con i tendini – stringono il verdetto della loro differenza. Uno di essi è già lambito dalla maledizione della mortalità e anche se nulla esteriormente lo dà a vedere – la sua splendente giovinezza lo renderebbe degno di una di quelle statue di efebi nudi che si mettevano in passato al centro delle piazze – il suo tempo ha iniziato a scorrere assai più velocemente di quello del fratello. 
Non era questo ad affliggerlo, non ancora, sicuro com’era che l’altro sarebbe accorso, solerte, in suo aiuto. E così è stato. Salvo poi scoprire, esami alla mano, che sono uguali i capelli, gli occhi color di cielo, sono identiche le mani e ogni minima cesellatura del corpo, ma nelle vene scorre sangue differente. 
Adesso a Leda, loro madre, andranno a offrire il verdetto della biologia, oracolo che non sbaglia. Gli occhi di lei, di un azzurro appena più intenso, color del crepuscolo nelle sere d’estate sopra il Mediterraneo increspato dal vento, si riempiranno di lacrime sgomente. Perché no, non c’è nessuna colpa a macchiare la sua anima, nessun uomo estraneo nel suo letto. 
Vedrà il figlio spegnersi ogni giorno, accartocciarsi il viso in una vecchiaia prematura e ingiusta, perché suo fratello non sa, non può sapere, come dividere con lui l’incerto dono d’una nascita divina. Intanto Leda si chiederà com’è possibile che lei abbia dimenticato un peccato, dal momento che un peccato, è insito nella sua natura proibita, viene compiuto perché viva nei ricordi e infonda chiaroscuri, pennellate conturbanti di non detti, a un presente altrimenti grigio.
 Ricorrerà Leda a uno psichiatra ipnotista per dare un senso al confuso arrotolarsi dei ricordi che a stento si coagulano in frasi spezzate – c’era un cigno, mi pare, ricordo un cigno. 
 Allora, forse, se è abile lo psichiatra e spietato nell’infilare la lama della consapevolezza nella nebbia dell’inconscio – e abile lo è di sicuro, il suo nome è Tiresia – ritroverà il ricordo di una sera, quando ancora era giovane e bella – ah, bella come solo possono essere le donne che fanno impazzire gli dei – e a volte andava in discoteca con le amiche, quando il marito faceva il turno di notte e lei non voleva stare sola coi silenzi di una casa ancora vuota di figli. Ricorderà il momento preciso in cui la bevanda, lasciata sul bancone incustodita per pochi brevi istanti, ha cambiato sapore. Poi neppure lo psichiatra riuscirà a rendere nitido il ricordo offuscato dalla droga. Una mano maschile posata sul suo polso, un bacio che in altri momenti avrebbe rifiutato, che in quel frangente sapeva di sale, pulito e aveva un retrogusto di ambrosia. Poi un corpo nudo di uomo con un tatuaggio a forma di cigno, piccolo, sulla scapola.
Cosa servirà questa consapevolezza se non le ridarà il figlio perduto, salvo farle guardare con altri occhi quello che le è rimasto? Non c’è nessuno che possa offrire oggi a Castore e Polluce un posto tra le costellazioni, né a Leda il conforto dell’orgoglio di avere una sera stregato un dio.
 Parte 2/3

Domani o dopo, salvo imprevisti, la conclusione.

lunedì 19 gennaio 2015

Di mille Oresti il disperato canto – parte 1/3


Spaventati dalle nostre vendette e dai nostri amori, siete fuggiti.
Avete lasciato cadere in rovina i nostri templi. 

Volete un dio che vi ami, sì, ma non alla follia. 
Volete un dio che punisca, sì, ma solo i malvagi. E più avanti, in un nebuloso Ade oltre la morte, non in questa vita.  
Cullati dai vostri desideri, vi coccolate col pensiero che quella che vedete sia effettivamente la realtà e che nulla vi si sia più da temere da dei i cui nomi avete smesso di pronunciare. Rimane solo il ricordo, vago e sempre più indistinto, di un tempo in cui gli uomini temevano l’ira degli dei. Col tempo, la simpatia per quelle genti è diventata commiserazione e infine derisione. 
Siete liberi, adesso, da quelle paure.

Gli dei, però, non sono scomparsi solo perché voi siete fuggiti. Non ci hanno uccisi le vostre preghiere mancate.
Siamo ancora qui, anche se non ve ne accorgete. 
Vi amiamo e vi odiamo esattamente come allora.
Nulla è cambiato da quelle storie che ancora alcuni di voi studiano, sbuffando, sui banchi di scuola. Le leggete annoiati, senza capire perché si sia protratta anche sulla vostra generazione la tortura di doverle conoscere.  
Eppure quegli eventi si ripetono sempre uguali, che ve ne accorgiate oppure no. 

Prendiamo una città, una qualunque di queste innumerevoli polis, così grandi e ipertrofiche al confronto di quelle in cui un tempo ci adoravate. Non importa quale sia il suo nome, né dove sia collocata. Essa è reale e sono reali le storie che vi accadono. E, cosa ancora più importante, queste storie sono reali anche il tutte le altre città del mondo,  in ogni tempo, o potrebbero esserlo.

Oreste – potrebbe essere Giovanni, Marco, Jacob, Luis, Wolfgan, José o avere un qualsiasi altro nome, ma io preferisco, chiamatemi nostalgico, usare il nome che ha avuto un tempo – guarda sua madre, Clitemnestra, cercando il momento più appropriato per ucciderla.
In passato lei sarebbe stata regina, o prostituta sacra. Oggi è presentatrice, ballerina, cantante, attrice in certi film natalizi che sopravvivono l’arco di una stagione. Tutto di lei ha un valore, le sue labbra, le sue natiche, i seni, lo sguardo. Ha cullato Oreste leggendogli i preventivi dei chirurgi estetici, piccoli investimenti necessari ad aumentare il valore delle singole parti, o del tutto. Ha centellinato il cibo di suo figlio declinandolo secondo i dettami della dieta di turno, cosicché a cinque anni Oreste era già stato vegetariano, crudista, vegano e macrobiotico. Lo ha trascinato nell’eterna processione di porta in porta a mendicare attenzioni da produttori e registi, chiudendolo fuori dalla sua camera da letto ogni qual volta era necessario che il compratore testasse di persona la merce. È stato cresciuto da una schiera di baby sitter sempre diverse a ogni capriccio di sua madre.
Oreste non ricorda neppure suo padre. Agamennone, il primo marito di Clitemnestra, è stato abbattuto da una scure di carte di tribunale quando lei ha scoperto che era un intralcio al suo divenire. 
Oreste ricorda, invece, le sere davanti alla porta chiusa del bagno, con sua madre dentro a vomitare, prezzo abituale da pagare in giornate in cui, per sentirsi al massimo, aveva tirato una striscia di troppo. Ascoltava i gemiti, incapace di capire perché lei gli rifiutasse in quel momento una caramella o una carezza. Ricorda quella volta che si è rimangiato le lacrime per un graffio al ginocchio di fronte alla disperazione di Clitemnestra per una scena tagliata, dieci minuti di notorietà non ottenuta, e lui si è finto grande e le ha dato quel bacio sulla fronte che avrebbe voluto ricevere. 
Chi crederà, oggi, che  un dio gli sussurra nella mente dove affondare il coltello? Di sua madre rimarranno i sorrisi stampati sulle locandine e nessuno crederà che suo figlio non li ha mai avuti, diranno che è pazzo. 
Non ci sarà nessun tribunale, per lui, disposto ad affrontare le Erinni, feroci nella sua mente e a trasformarle in Benevoli. Avrà solo la pace di un ergastolo e il disprezzo della gente.
Parte 1/3
Continua

Racconto scritto alcuni anni fa intorno a un tema che mi sta molto a cuore. 
Per la serie, invece, "piccoli giallisti crescono" vi invito a partecipare a un piccolo gioco letterario insieme ai miei alunni sul blog didattico LiberamenteLibrum

sabato 17 gennaio 2015

Letture – Dimentica il mio nome


Zerocalcare

Chiudendo il volume ho avuto la conferma di qualcosa che già sospettavo: Zerocalcare è il vero narratore, l'aedo della mia generazione. Cosa che da una parte mi lascia un po' così, i miei genitori avevano i grandi cantautori come De André e Guccini e alla mia generazione è toccato un tizio che parla con un armadillo immaginario. Dall'altra mi riempie di sollievo. Almeno qualcuno che riesce a raccontarci c'è.
Questo è infatti il valore dei fumetti di Zerocalcare e di questo volume in particolare: riesce a raccontare la nostra generazione di trentenni precari intrisi di cultura pop con la necessaria leggerezza, ma senza evitare di affrontare tematiche toste col giusto equilibrio. Ecco allora che la morte della nonna diventa il punto di partenza per affrontare il tema del "diventare adulti", ma anche l'inizio di un viaggio sulle tracce dell'origine della propria famiglia. Riassunto così potrebbe sembrare una storia di rara pesantezza, ma con Zerocalcare si ride e si riflette. Da una vignetta all'altra si passa da richiami ai cartoni animati anni '80, autoironia e poi stilettate di sentimento, con quell'equilibrio tra commedia e dramma che solo i grandi sanno avere. Il tutto raccontato col tratto ormai caratteristico dell'autore.
Tanto tempo fa, seguii un corso di fumetto e si diceva che in Italia ci sono sempre stati grandi autori solitari, la cui forza sta nell'originalità e nella non adesione in una scuola precisa e che, come tali, difficilmente lasciano eredi diretti. Mi sembra che la descrizioni calzi a pennello a Zerocalcare.

giovedì 15 gennaio 2015

Perché pubblicare un e-book tramite casa editrice – praticamente


Ieri sera ho aperto sull'e-reader il mio primo testo pubblicato esclusivamente on-line, Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso e mi sono chiesta se, in fin dei conti, avrei potuto pubblicare il racconto anche da sola, come autoproduzione. La risposta è stata semplice: no.
Alcune motivazioni sono del tutto personali e si riassumono in un'unica espressione "mancanza di tempo". Oggi ho dato due esami orali, per una fortunata congiuntura astrale sono stata una delle prime a passare e un'ora a fa ero a casa. Non mi capitava, credo, da settembre. Domani ho un altro esame ed è solo per sfinimento e sprezzo del pericolo che in questo momento io sto postando e non studiando. Come mai avrei potuto anche solo pensare ad autoprodurmi?
Ci sono però alcune considerazioni più generali che forse vale la pena di condividere.
ATTENZIONE: non sto dicendo né voglio dire che l'autoproduzione sia il male o che gli autori facciano male ad autoprodursi. Voglio solo mettere l'accento su alcune cose su cui vale la pena di ragionare prima di fare una scelta.

Libertà vs professionalità
Credo che la scelta di un autore vada fatta sulla base di questo binomio. Autoproducendosi si ha piena libertà su tutto, ma si rinuncia all'aiuto di alcune figure professionali. Sta a ciascuno decidere se ne valga la pena.

Essere parte di un gruppo
Non importa se il testo sia cartaceo o digitale, nel momento in cui si entra in una scuderia editoriale si entra a far parte di un gruppo. Come ogni aspetto, anche questo è bifronte. Vuol dire essere riconosciuti come all'interno di determinati standard, quindi devi aver accettato di subire una selezione e devi riconoscerti in quegli standard. C'è da dire, però, che un racconto sherlockiano on-line di uno sconosciuto non lo comprerei, troppa la paura di trovarmi con una cosa illeggibile che sia un insulto ai miei personaggi preferiti. I racconti di Sherlockiana li prendo a scatola chiusa. Magari non tutti mi colpiscono allo stesso modo, ma c'è uno standard di qualità garantita di cui mi posso fidare.

Promozione
Per certi versi ritengo che sia più facile fare promozione a un libro cartaceo. Si contattano le biblioteche, le librerie, si fanno le presentazioni e una decisa di copie a volta si vendono. C'è chi così ne ha vendute parecchie centinaia, senza passare dai distributori. On-line è tutto più fluido. Lo spam, si sa, serve solo a farsi odiare. E quindi avere un ufficio stampa di riferimento non può che aiutare.

Conversione file/disponibilità sugli store/altri problemi tecnici
Ebub, kobo, kindle, Amazon, ibs... Aiuto! Io ho studiato archeologia preistorica, per la serie "i geroglifici sono già un sistema troppo complicato"! Come ne esco? Posso pagare un professionista. Certo. Ma io non ho le competenze per capire se abbia fatto un bel lavoro. E poi quale formato scegliere? Come scegliere lo/gli store?
Da buona preistorica risolvo la cosa con un "non è un problema mio". Ci sarà qualcuno che se ne occuperà (grazie!) se non lo fa, contratto alla mano, posso anche rompergli le scatole.
Alla fine ho visto che il mio e-book è disponibile sui vari store nei vari formati. Il mio kindle lo legge senza problemi, per quello che ne posso capire, non ha nulla da invidiare, a livello tecnico a un qualsiasi altro e-book. E posso continuare a ignorare come tutto ciò sia stato possibile

Grafica
Non ho scelto la copertina. Fino a martedì non sapevo neppure come sarebbe stata. Però avevo a disposizione gli altri numeri della serie per farmi un'idea. Io sono sempre quella che ha studiato archeologia del neolitico. So fare riproduzioni di vasi decorati con le conchiglie. Non è esattamente photoshop. Per me meglio poter contare su un grafico professionista.

Editing
Ok, qui io sono un disastro, ma anche chi riesce a produrre un testo quasi perfetto non si sente più sicuro se può far dare una rilettura a un professionista? Certo, il mondo è pieno di editor free lance. Che non lavorano gratis

Alcune considerazioni economiche
Quando si lavora su una casa editrice si guadagna una percentuale sul prezzo di copertina. Questa percentuale varia, ma, su un e-book venduto a pochi euro parliamo comunque di pochino. Diciamocelo subito. Non diventeremo ricchi. O, quanto meno, è molto, molto, molto improbabile che succeda.
Autoproducendosi la percentuale di guadagno sale. Ma. C'è un ma. I casi sono tre. Siete molto bravi in tutti i comparti tecnici e il vostro e-book ve lo siete fatti in effetti tutto da soli. Avete impiegato molto tempo e otterrete molta soddisfazione. Non siete molto bravi e avete arrangiato la cosa. Poco sbattimento e poco successo. Avete pagato dei professionisti. Vi ci vorrà un po' ad andare in pari.
Lavorando con una casa editrice seria non si paga nulla. 

CONCLUSIONI
Chiunque da casa propria può pubblicare un e-book. Evitando di collaborare con un editore si rinuncia a priori a tutta una serie di professionalità. Ognuno, quindi, deve valutare a cosa tenga di più nello scontro professionalità vs libertà. Ci sono alcuni casi fortunati in cui la professionalità e la libertà vanno a braccetto (ad esempio non aver studiato archeologia del neolitico di solito aiuta). In molti casi per fare dei lavori decorosi bisogna avvalersi di professionisti che, in quanto tali, non lavorano gratis. Di certo c'è un grande investimento di tempo.
Lavorare con una casa editrice significa accettare di essere parte di un gruppo, essere giudicati congruenti o meno con una data linea editoriale, ma di molte cose l'autore può non occuparsi.
Può, ad esempio, dimenticarsi quando il proprio e-book deve uscire, arrivare in ritardo a fare un minimo di promozione (ad esempio dopo un esame), postare la notizia dell'uscita su una pagina fb e sentirsi rispondere da uno sconosciuto "bello, già letto!" perché qualcuno ha comunque lavorato per il tuo testo.

Voi cosa ne pensate?

martedì 13 gennaio 2015

Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso – racconto in e-book per Delos Digital


Da oggi il mio racconto Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso è acquistabile in formato e-book in tutti gli store on-line, pubblicato da Delos Digital all'interno della collana Sherlockiana!

Come i lettori abituali del blog avranno intuito, questo per me è un momento di grande stanchezza a causa del corso che sto seguendo e di generale tristezza. 
Proprio in questi giorni mandavo una mail agli amici interrogandomi sul senso del mio scrivere. Io non so definire verità con le parole. Non faccio Letteratura. Io racconto storie. Il massimo a cui posso aspirare è intrattenere, regalare una mezz'ora, un'ora di mondo altro, di indagine, di evasione. Se riesco a distrarre qualcuno in una sala d'aspetto o su un mezzo pubblico con una mia storia, allora ho fatto quanto di meglio potevo.

Questo è quello che possono regalare i miei racconti, che spero possa fare questo, dare al lettore un'ora di evasione.

Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso credo riesca proprio in questo intento.
Il dottor Watson, bloccato a casa da un malanno, si trova a constatare la scomparsa del proprio coinquilino, proprio quello Sherlock Holmes con cui da nemmeno un anno condivide l'appartamento al 221b di Baker Street.
Non gli resta che denunciare la scomparsa alle autorità competenti e, coadiuvato da un perplesso Lestrade, provare ad applicare il metodo del coinquilino per capire cosa sia accaduto...

Nella mia personale cronologia sherlockiana questo racconto è il seguito ideale del romanzo Sherlock Holmes e il mistero dell'uomo meccanico, come nel romanzo, infatti, è Watson il mio vero protagonista. Se nel romanzo aveva accettato il rischio di diventare amico di Holmes, il questo racconto dovrà rendersi conto che il suo coinquilino, per quanto geniale, non è una macchina pensante. È un essere umano, non immune da errori e di certo non immortale.
Il discorso, ovviamente, può essere ribaltato. Il racconto può essere un ottimo primo incontro con la mia personale rilettura del mito di Sherlock Holmes.

Da un punto di vista tecnico, è un lavoro di cui sono particolarmente soddisfatta perché mi ha dato non poco filo da torcere. È un racconto su Sherlock Holmes in cui l'eroe è fuori scena per metà della narrazione e la sfida era creare una situazione che mettesse davvero in seria difficoltà il nostro consulente detective. A voi giudicare come me la sia cavata.

Qui l'articolo di presentazione sulla Sherlock Magazine
Il racconto è acquistabile (anche) sul Delos Store


Domande e questioni pratiche

Un solo racconto, ma quanto mi costa?
1,99€, neppure due caffè.

In quali store on-line posso acquistarlo?
Tutti. 
Ad esempio qui

Quali formati sono disponibili?
Copio-incollo dal sito:  EPUB per iPad, iPhone, Android, Kobo o altri ebook reader, Mac o PC con Adobe Digital Editions

MOBI per Kindle, Kindle Fire
(potrai scegliere quale formato scaricare direttamente dalla tua pagina di download)

Ma io non ho un e-reader!
Nessun problema. Il formato EPUB è leggibile da qualsiasi Mac, Pc, iPad o dispositivo Android (tablet vari) e il programma necessario per leggerlo è gratuito e si scarica con facilità (del tipo ci sono riuscita pure io)

Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso è edito in Sherlockiana, una collana che ogni settimana pubblica un racconto apocrifo di un autore italiano. Io non oso neppure immaginare quanto lavoro ci sia dietro. Posso solo ringraziare chi rende tutto ciò possibile, l'editore, il curatore della collana, chi si occupa dell'edizione digitale, i grafici. Grazie di cuore.

lunedì 12 gennaio 2015

Visioni - The imitation game


Premetto di essere da poco tornata da un infernale doppio esame del mio corso abilitante che consisteva nel dover scrivere in un'ora a mano il riassunto di un proprio progetto didattico (che in in originale era descritto in dieci pagine word). Doppio esame perché la prima ora era dedicata d italiano e la seconda a storia. La mia lucidità, quindi se n'è andata da un pezzo.

The imitation game è un film che funziona.
Ha lo scopo dichiarato di spiegare in un tempo ragionevole chi fosse Alan Turing, quale sia stato il suo ruolo durante la seconda guerra mondiale nella decriptazione dei messaggi in codice tedeschi, il suo lavoro nella progettazione delle memorie artificiali  e del perché sia morto suicida a seguito di una condanna per omosessualità (che negli anni '50 in Inghilterra era ancora reato).
Lo fa con efficacia, senza annoiare, alternando tre piani temporali, ma concentrandosi sopratutto sugli anni della guerra e il compito affidato (non solo) a Turing: decriptare Enigma, la macchina che i tedeschi usavano per cifrare i propri messaggi.
Benedict Cumberbatch è bravo proprio come ci sia aspetta che sia nel descrivere una personalità al limite tra genio e disagio sociale, insopportabile quanto indifesa (ma lo vedrò un giorno interpretare, che so, un contadino analfabeta e un po' tardo?).
Però, c'è un però.
Non mi torna tutto. Non sono un'esperta né del periodo né della vita di Alan Turing tuttavia sono uscita dalla sala con l'impressione che si sia romanzato molto e quel poco che sono riuscita ad approfondire tra un esame e l'altro ha confermato la mia ipotesi (personaggi la cui importanza è stata ampliata, decisioni militari che non potevano essere prese da un pugno di scienziati, il rapporto al limite della follia di Turing con le proprie macchine, che vengono chiamate col nome dell'amico morto... Magari è tutto vero, però...). La sensazione che una storia già in sé fortissima non sia stata comunque ritenuta abbastanza è rimasta. Il tutto mi è sembrato come quelle interrogazioni degli alunni perfezionasti. Troppo perfetta, troppo bilanciata (in particolare una formazione da "genio incompreso" da manuale) e che alla fine non riesce a graffiare fino in fondo.
Un buon film, quindi, fatto con le migliori intenzioni, ben scritto e ben interpretato e che tuttavia non riesce a dare quel qualcosa in più che lo renderebbe indimenticabile.

sabato 10 gennaio 2015

Oltre il mio universo narrativo – Scribacchiando


Come si diceva nel post Poche idee e in compenso fisse ogni autore ha delle idee ricorrenti che saltano fuori con regolarità dalle sue storie, per motivi che a volte non sono del tutto sotto il controllo dell'autore stesso. Allo stesso modo ci sono zone d'ombra, tematiche che non vengono toccate, aggirate in modo più o meno consapevole. Di alcune cose un autore non si sente di parlare perché non si ritiene preparato, perché non sono nelle sue corde, perché ne ha paura. Di altre, semplicemente, non parla e neppure lui sa perché. Sono al di fuori del suo universo narrativo.
Ecco alcune delle mie "terre incognite".

Cose che, in un modo o nell'altro, nelle mie storie non ci sono, anche se non c'è un consapevole desiderio di evitarle (anzi, spesso c'è stato il tentativo di raccontarle):

– L'infanzia
È la prima cosa che mi è saltata agli occhi quando ho iniziato a pensare a questo post. Io lavoro con i ragazzini tra gli 11 e i 14 anni eppure mi sono accorta che i miei personaggi hanno sempre almeno 15 anni. Ha quindici anni Gabriele de La roccia nel cuore, Coy Sender del mio universo narrativo fantasy mai del tutto abbandonato entra in scena a quindici anni, poi ho tutta una schiera di sedicenni e diciassettenni. Eppure non ho nessun bambino. Ci ho provato una volta, con una storia lunga per pre adolescenti, ma non mi sentivo a mio agio e l'ho abbandonata prima del capitolo 10...

– Le città di oggi
Vivo in un paese di tremila abitanti, quando sono andata a studiare a Pisa (non a Milano) mi sono trovata così bene che sono scappata in Erasmus in Corsica, a Corte, seimila abitanti, dove invece stavo da dio. Non c'è da stupirsi che le mie storie non siano cittadine. Le uniche città che mi affascinano davvero sono Parigi e Venezia, ma dato che non ci ho mai vissuto per periodi lunghi, pur avendole visitate spesso, non le conosco abbastanza da poterle utilizzare.
Va un po' meglio con le città del passato, mi affascina molto la Roma antica in cui ho ambientato il racconto Come foglie nel vento e il famoso thriller inedito. Quando lavoro con Sherlock Holmes ogni scusa è buona per uscire da Londra...
Va da sè che non potrei mai scrivere Urban Fantasy, anche se il "fantasy rurale" mi affascina non poco.

– Fantascienza
Ricapitoliamo, abito in un paesino, odio guidare e ogni occasione è buona per litigare con i computer. Conosco e capisco cosa sta alla base della tecnologia, ma preferisco pensare che ci siano dei demonietti minuscoli che facciano andare tutti i miei elettrodomestici, come posso appassionarmi ad astronavi e robot?
Ho amato molto libri e film di fantascienza, ma quando ho provato a scrivere dei racconti fantascientifici i risultati sono stati quanto meno imbarazzanti.

– L'ossessione
I miei personaggi si innamorano, fanno delle idiozie per amore, ma non rimangono mai ossessionati dall'oggetto del loro desiderio. Non c'è amore/ossessione nelle mie storie e neppure ossessione per altre cose. Nonostante la narrativa sia probabilmente la mia ossessione, è un sentimento che non mi appartiene del tutto. Non capisco fino in fondo chi lascia del tutto l'ancora della razionalità e quindi non riesco a raccontare l'ossessione.

– Luoghi affollati
Il fatto di non amare i luoghi affollati, le discoteche, i negozi nei momenti di punta (sono andata per saldi on-line), ma anche i raduni mastodontici, i concerti etc. non dovrebbe impedirmi di scriverne. Eppure i miei personaggi se ne stanno ben lontani dai bagni di folla, oppure li osservano da lontano, da una posizione sopraelevata... 
Fa eccezione Lucca Comics, manifestazione che amo nonostante la folla (infatti ogni tanto mi sento male) e dove infatti ho ambientato un racconto.
Che su questo punto ci sia materiale per uno psicanalista?

– Horror
Non ho nulla contro l'horror, anzi.
È solo che se penso a una storia horror a un certo punto mi viene da ridere. Riesco perfettamente a sospendere la mia incredulità progettando storie fantasy, guardando o leggendo storie horror, ma non mentre progetto storie horror. Inizio a farmi domande stupide e così i miei licantropi intasano lo scarico della doccia con il pelo, i killer psicotici inciampano sul più bello, le "cose" non meglio identificate iniziano ad avere crisi d'indentità e il mio horror va a rotoli.


Cose che non scriverei neppure sotto tortura:

– Donne in ruoli tradizionali
Per carità, ci sono nelle mie storie bravi moglie e madri soddisfatte del loro ruolo, ma non potrebbero mai essere delle mie protagoniste. Io sono una ex archeologa che adesso per hobby ammazza le persone, mi sono rifugiata dentro tombe pranzando seduta sui sarcofagi, quando vado nel mio pub preferito finisco sempre per parlare di fisica (sempre, stranissimo, quando mio marito è andato in quel pub senza di me si è trovato a parlare di metrica e musica del settecento, sarà qualcosa nella birra?), come potrei mai raccontare la classica brava ragazza? Prediligo protagonisti maschili, quindi è facile fare il giro di quelli femminili: un'antropologa forense, un'addestratrice di cavalli, una guerriera, una trobatriz (una musicista medioevale), un'aspirante assassina adolescente... Proprio tutte casa e chiesa non c'è che dire...

– Storie in stile I love shopping
Mia madre li legge, quindi a volte mi sono trovata con questi libri in mano. Sono la prima a dire che alcuni sono scritti bene e si lasciano leggere con piacere. Però, state certi, se un mio personaggi sta entrando in un negozio per comprare delle scarpe, il suo ruolo sarà quello della vittima dell'assassino di turno.
E per quanto mi piaccia riguardare Pretty Woman, le possibilità che scriva una storia d'amore in un contesto patinato è pari a quella che io vinca al superenalotto

– Racconti erotici
Adesso ce n'è una grande richiesta. Storie erotiche o semplicemente storie rivolte a un pubblico femminile con un pizzico di erotismo. Se devo scrivo una scena di sesso. Se non la scrivo è meglio, ma insomma, se ci sta ci sta. La sola idea di scrivere un racconto erotico, però, mi fa partire le risate isteriche.

– Il drammone famigliare/sociale/la vera dura realtà di tutti i giorni
Dalla finestra della scuola dove insegno si vede l'isola da cui san Giulio ha scacciato i draghi, c'è ancora  la costola di uno di loro. Il mio ruolo ufficiale nell'associazione con cui collaboro e chiudere i gruppi durante le passeggiate con un drago di gommapiuma sulla spalla. Quando parlo di avere scheletri nell'armadio mi riferisco a quelle maledette ossa animali che mi servivano per un esame universitario e che poi non sapevo dove buttare, per non parlare del palco di corna di cervo che sta sopra all'armadio. Nel solaio di mia nonna, invece, ho trovato dei dobloni d'oro.
Questa è la mia realtà. Quella che viene ritenuta la "vita vera" non la posso raccontare.

E voi come siete messi? Cos'è che non scrivereste neppure sotto tortura? E cos'è che invece non riuscite a infilare nelle vostre storie neppure quando volete farlo?

giovedì 8 gennaio 2015

Il silenzio degli adolescenti

Quando diciamo che i ragazzi non sanno tacere non lo pensiamo fino in fondo.
Non vogliamo il loro silenzio. Non davvero.

Oggi c'era un'intera piazza gremita di adolescenti e neppure una parola.
Oggi in quel silenzio molti di loro sono diventati adulti.


9/1/2015
Ieri, purtroppo, si è svolto il funerale di un ragazzo. C'è stato un momento in cui la piazza del paese era pienissima ed erano quasi tutti adolescenti, muti in un modo quasi irreale.
In noi adulti c'erano mille pensieri che non riuscivamo ad esprimere, come non riuscivamo e non siamo riusciti ad esprimere tutto l'affetto e la stima per la famiglia che adesso deve andare avanti.
Tra i mille pensieri che si sono affastellati nella mia testa, c'è stato quello che nessuno di quei ragazzi si dimenticherà mai di ieri. Non tutti erano amici stretti del ragazzo che stavamo salutando, c'erano i compagni dei fratelli, gli alunni del papà e molti altri. Per molti di loro credo sia stato il primo incontro con l'idea della propria mortalità, una di quelle realizzazioni che ci rende adulti.
Ho pensato anche che forse col loro silenzio composto sono riusciti a dire proprio quelle cose per cui noi adulti non troviamo le parole.

martedì 6 gennaio 2015

Letture e visioni di Natale

Letture – Parole di Luce
B. Sanderson


Cosa cerco da un buon fantasy? Un'ambientazione che tenga desto il mio senso del meraviglioso, dei personaggi a cui affezionarmi, due o tre colpi di scena in grado di stupirmi e che il tutto non sappia di già visto.
Per quanto la ricetta sia semplice, non è così facile soddisfarmi. Ci riesce appieno Sanderson con questo secondo, monumentale volume delle cronache della Folgoluce.

In un mondo spazzato da continue tempeste, che ne determinano flora, fauna e società, inquietanti segnali parlano di un'imminente catastrofe.
Questa è la più grande differenza, credo, tra questo volume e tanti altri volumi intermedi di saghe pachidermiche. La minaccia qui non è vaga e lontana. La storia è scandita da un serrato conto alla rovescia che i personaggi trovano inciso negli appartamenti del principe Dalinar al termine di ogni tempeste. I giorni che mancano alla catastrofe sono pochi, anzi, pochissimi e questo costringe tutti a fare i conti con i propri obiettivi  e le proprie possibilità.
Per essere un volume tanto mastodontico, caratterizzato, secondo la moda del momento in campo fantasy dal moltiplicarsi dei punti di vista, Parole di luce è straordinariamente coeso. Se nel primo volume La via dei re ad ogni capitolo o quasi il lettore si trovava proiettato in uno scenario diverso, in questo tutte le trame convergono verso le Pianure Infrante e l'altoprincipe Dalinar. Kaladin, ormai ex schiavo, ne è diventato la guardia del corpo. La giovane nobile Shallan è promessa sposa al figlio dell'altoprincipe. Il misterioso assassino in bianco, invece, lo vuole uccidere e il campione dei nemici non può che cercare in Dalinar un interlocutore o un avversario designato.
Non ci sono momenti morti, quindi, in questa rocambolesca corsa contro il tempo, tra indizi poco chiari,  repentini cambi di prospettiva e misteriosi osservatori esterni che commentano gli eventi.
Se nel primo volume era stata criticata l'eccessiva perfezione di alcun personaggi e in particolare di Kaladin, che a neppure vent'anni sembrava un eroe impeccabile, in questo secondo volume emergono chiaroscuri e zone d'ombra. Tutti i personaggi più giovani, Kaladin, Shallan, Andolin sembrano finalmente dei ragazzi della loro età. Sbagliano, si arrabbiano, pretendono di saperla più lunga degli spiriti stessi, proprio come è giusto che sia.
Altra cosa che ho apprezzato è stato il finale. Se è vero che le domande aperte sono moltissime, per una volta, nonostante questo sia il volume due di non si sa quanti, il finale è un finale. Le trame aperte nel corso del volume trovano una loro conclusione e alla fine si ha l'impressione che ogni personaggio sia proprio dov'è giusto che sia. Come era stato detto all'inizio, uno di loro può salvare il mondo, uno di loro lo può distruggere e sono aperte le scommesse per capire chi farà una cosa e chi l'altra.

NOTA: ho letto il libro in digitale ed è stata una sofferenza. La trama si dipana non solo con la narrazione, ma anche attraverso i disegni di Shallan e i frontespizi dei capitoli. Questi ultimi mancano del tutto nell'edizione digitale e, alla luce dell'evoluzione della trama, sono tutt'altro che una decorazione accessoria. I disegni risultano invece sacrificati, con le scritte spesso incomprensibili. Nonostante il prezzo, questo è un libro che va letto in cartaceo

Visioni - American Sniper


Clint Eastwood mette subito in chiaro, sempre, quale sia il cuore dei suoi film. Questo è un film sul peso delle scelte.
Quello che vediamo è l'effetto che le scelte del cecchino Chris scavano nelle sua anima e di una scelta che non è sua.
Chris non sceglie il proprio ruolo, quello del cane da pastore, che protegge i suoi, gli viene inculcato dal padre, con una durezza che spezza invece il fratello minore, ma è sua, ogni volta, la scelta se premere o no il grilletto.
Nella guerra moderna i nemici a volte sono mostri da odiare, come il macellaio,  a volte sono bambini a cui è stata messa in mano una granata, donne dal volto spaventosamente giovane, civili che si sono trovati dalla parte sbagliata, altri cecchini infallibili, identici a Chris.
A ogni pallottola è l'anima di Chris che viene ferita, nonostante il suo aggrapparsi sincero a valori a cui davvero crede, scava un solco di insormontabile solitudine, nonostante combatta in una guerra in cui è possibile parlare al telefono con la moglie mentre si inquadra nell'obiettivo il bersaglio da abbattere.
Sull'asciuttezza precisione di Eastwood, che riesce a mettere in scena anime dolenti dove a qualsiasi altro verrebbe fuori solo un pippone retorico, non è il caso di spendere ulteriori parole.
Alla fine anche la sua è una scelta, quella di aderire agli ideali del protagonista, pur sapendo che forse hanno davvero ragione gli altri e questa guerra (in un territorio che non a caso viene definito il nuovo west, con tutte le implicazioni che il regista de Gli Spietati può mettere in questa semplice battuta) non è null'altro che un'inutile crociata. E le prime vittime sono proprio i soldati che vi prendono parte.



Da qui a fine mese devo dare tutti gli esami del mio Corso Abilitante a un ritmo di 2/3 alla settimana. Questo potrebbe rendermi assai poco comunicativa. Spero di riuscire ad aggiornare il blog, ma potrei non commentare qui o altrove.