lunedì 30 gennaio 2017

Seguendo la cometa 11 – Visita a casa

Il momento più temuto dell'iter di valutazione pre adottivo è la visita a casa degli assistenti sociali...


sabato 28 gennaio 2017

Piovono libri – I duellanti


Con la pupattola da poco vaccinata e febbricitante, questa volta ho dovuto saltare la riunione del gruppo di lettura. Mi è comunque arrivata la foto del libri, con il suo carico di mia invidia, dato che oltre che letteratura trasuda cibo e convivialità. Dopo una settimana passata a trascinarmi con l'amica febbre al seguito (finalmente partita per altri lidi, si spera a lungo) in una serie di impegni non rimandabili devo dire che ho voglia sia di cibo spazzatura che di chiacchiere e sì, anche di buoni libri, dato che quello che mi sono incaponita a finire non mi sta soddisfando molto.
Sarà un post monco, questo, quindi, dato che ho potuto confrontarmi sul libro solo col marito.

Gli ultimi libri del gruppo di lettura ero sempre arrivata a finirli a ridosso della riunione, addirittura il giorno stesso. Sia Gadda che Queneau sono state letture interessanti, ma in nessun modo definibili come leggere. Pagine da rileggere più volte, cercando un senso nelle affascinanti, ma a volte criptiche  invenzioni linguistiche degli autori. Sere in cui stanchissima pensavo "ho letto un sacco" per poi scoprire che ero avanzata di tre pagine.
I duellanti di J. Conrad l'ho iniziato e tre giorni dopo l'ho finito. Così, senza nemmeno accorgermene. Conrad non è Gadda o Queneau e questo raccontone, perché definirlo romanzo non solo è eccessivo, ma va pure contro la volontà dell'autore che l'aveva inserito primo in una raccolta di racconti, scorre veloce e piacevole senza chiedere particolare sofferenza linguistica.
La trama è nota per lo più grazie al film che ne ha tratto Ridley Scott nel 1977 e che purtroppo non sono riuscita a vedere. 
Durante le guerre napoleoniche due ufficiali, un biondo e posato ufficiale del nord e un focoso guascone, si sfidano a duello per futili motivi. Non soddisfatti del primo scontro, il duello si ripete e si ripete ancora, cosicché tutta l'epopea napoleonica viene scandita dagli scontri ferocissimi e futili dei due ufficiali che sembrano non riuscire mai a giungere alla resa dei conti.
Un soggetto semplice e forte che, in effetti sembra fatto apposto per essere trasposto in un film.
La resa è piacevole e lineare. 
La mia vecchia edizione possiede un'introduzione di Vittorio Amoruso che mette in luce tutta una serie di tematiche presenti nell'opera. I due protagonisti, all'apparenza così diversi, uno razionale e di buon carattere, l'altro focoso fino alla follia come due anime complementari che esistono solo in funzione l'una dell'altra. Per questo il duello non può avere una conclusione perché la sconfitta di uno sarebbe la sconfitta anche dell'altro. L'inutilità del duello come simbolo dell'inutilità della guerra stessa, che ha una sua bellezza distruttiva, ma non porta a nulla. La stessa epopea napoleonica come un lungo e distruttivo duello contro il mondo intero. Il mondo napoleonico come l'ultima epoca in cui l'onore, con le sue regole sciocche e rassicuranti ha avuto casa.
Non metto in dubbio che tutto ciò ci sia, ma l'impatto simbolico che questa lettura ha avuto sulla mia mente è stato molto più limitato. Siamo ad anni luce dalla potenza di Cuore di Tenebra o de La linea d'ombra. Siamo in una piacevole opera minore, che si fa leggere, intrattiene, ma, almeno con me, non riesce a fare altro. Non ho neppure pensato che Conrad volesse regalare di più che qualche ora di lettura piacevole. 
D'Hubert, il protagonista, mi è parso un bravo ragazzo un po' limitato e il suo avversario un pazzo attaccabrighe a cui la guerra ha dato un ruolo. In un altro tempo sarebbero stati un perfetto impiegato e un rissaiolo da bar destinati a non incontrarsi mai. Durante le guerre napoleoniche diventato i protagonisti di un duello leggendario, un'impresa più grande e più affascinante di loro. Del resto il periodo napoleonico è stato anche questo, uno spazio di possibilità anche per le leggende.
Mi ha incuriosito, a latere della vicenda, la figura della sorella di D'Hubert, sua confidente, a cui l'ufficiale affida, di fatto, il controllo della sua vita. Del resto, ho pensato, chi rimaneva in Francia a mandare avanti una nazione intera? Le donne, ovviamente. D'Hubert chiede alla sorella di organizzargli un matrimonio e lei, fiutando dove tirava il vento, ne organizza uno con una ragazza di famiglia lealista e in buon ufficiale napoleonico non ci trova nulla di male, cosicché viene traghettato con naturalezza dalle sue donne verso la restaurazione. Così mi sono immaginata queste donne francesi, mentre i mariti, i figli, i fratelli e gli amanti erano in giro a giocare a conquistare il mondo, attrezzarsi al dopo e cercare di capire come salvare i cocci di famiglie comunque distrutte da decenni di guerre.

I duellanti è un libretto esile e piacevole. Sono anch'io affetta dal fascino dei duelli e dell'epopea napoleonica (ripensandoci ho letto moltissimi romanzi ambientati in quel periodo, tra cui consiglio l'altrettanto breve e dolorosamente amaro L'ombra dell'aquila di A. Perez-Reverte). Si tratta comunque di una piacevole opera minore di un grande. Viene con me sulla torre, ma non giuro di ricordarmi di spolverarlo.

mercoledì 25 gennaio 2017

Quello che mi serve per scrivere un racconto – scrittevolezze


I giorni scorsi sono stati un pochetto incasinati, mio padre ha finalmente fatto un'operazione chirurgica da troppo tempo rimandata e io ho scoperto di non avere il dono dell'ubiquità. Ospedale o casa di mamma o casa con pupattola, toccava scegliere e la pupattola non poteva essere portata in ospedale, né poteva stare sola con mia mamma; a casa mia, con i lavori in corso non c'era la possibilità di ospitare mamma, a casa di mamma non c'era la possibilità di ospitare quella tonnellata e mezza di roba che serve per un esserino di neppure settanta centimetri. Alla fine papà, a parte essere stato sgridato dal chirurgo per aver aspettato tanto, se l'è cavata alla grande e io mi sono trovata con trentanove di febbre, forse, dico forse, perché mi sono stancata e stressata un pochetto.
Nei giorni precedenti al ricovero di babbo mi sono fatta un regalo, però, ho scritto un racconto.
Un racconto con cui avevo un conto in sospeso da circa dieci anni, perché fa parte di quella saga a cui appartengono i quattro racconti conclusivi de La spada, il cuore e lo zaffiro. È stato strano riuscire finalmente a mettere su carta eventi che sono stati pensati da più di dieci anni e questo mi ha fatto pensare a cosa sia per me un racconto e a cosa mi serva per scriverne uno. Ovviamente vale per me e solo per me, ma mi piace condividere con voi il mio ragionamento.

Per scrivere un racconto non mi basta conoscere i fatti che devo raccontare.
Non mi basta conoscere in dettaglio i personaggi che vi devono apparire.
Non mi basta conoscere l'atmosfera e il tono del racconto.
Né scegliere il punto di vista e definire fabula e intreccio.

Nel caso specifico andavo a lavorare su un contesto definito da anni. Oltre tutto avevo già tentato due volte di scrivere questo racconto, senza riuscirci, quindi mi era ben chiaro cosa dovesse accadere, quali fossero i personaggi coinvolti, quale il punto di vista.
Per scrivere un racconto ho bisogno di stabilire quale sia il suo nucleo tematico. 
Perché, ho scoperto, il "di che cosa voglio parlare" spesso non coincide al 100% con "il che cosa succede". Questa probabilmente è una fissazione mia. Io amo, ad esempio, i film pieni di sottotesti in cui c'è una vicenda e una vicenda sotterranea. 
Un film che ho adorato, ad esempio, è La talpa, in cui quello che succede è una storia di spionaggio e quello di cui parla è una serie di rapporti traditi, di fiducia, addirittura amori impossibili, e se ne sia valsa la pena. Io ovviamente non sono così brava da creare un sottotesto così forte, ma mi piace sviluppare completamente un tema all'interno del racconto.
Cioè il finale non deve solo concludere una vicenda, anzi, può anche non chiuderla e rimanere un finale aperto, ma deve sviluppare del tutto il tema narrativo. Alla fine il lettore può anche non conoscere la sorte dei protagonisti del racconto, ma il tema narrativo è stato sviscerato.
Sono riuscita a scrivere il mio racconto, di cui da anni conoscevo personaggi ed eventi, quando ho trovato il tema che volevo trattare, o il tema adatto ad essere trattato da questo racconto. In questo caso, come spesso mi accade, il tema ha preso la forma di una domanda, che può essere riassunta più o meno in: fino a che punto conformarsi alle aspettative di chi ci ama? Che mi sembrava interessante o comunque più interessante di un generico "fino a che punto conformarsi alle aspettative degli altri?". Anche chi ci vuol bene, sopratutto chi ci vuol bene, si aspetta qualcosa da noi e ci propone, spesso con le migliori intenzioni, dei modelli di comportamento ma non è detto che questi ci si adattino. Trovato questo scrivere in racconto (se sia venuto bene o male non lo so) è stato facilissimo, 51000 battute buttate lì in una manciata di ore di lavoro, durante le nanne della pupattola e mi è sembrato ridicolo aver impiegato dieci anni per riuscire a scriverlo. Addirittura, appena capito di cosa volessi davvero parlare mi è anche venuto naturale l'incipit, che tutto sommato mi piace anche  e vi riporto:
Le onde lievi riflettevano la luce del sole, dando l’impressione di essere su una distesa di ardente metallo fuso. Il mare era invece freddo e popolato di squali.
Incipit che per altro non ha nulla a che vedere col nucleo tematico, ma con il fatto che le cose andranno per il mio protagonista dannatamente male.

Un'altra cosa mi ha colpito.
Per scrivere un racconto devo lasciare aperta la porta dell'imprevisto e del non conosciuto.
Quando parto a scrivere qualcosa io di solito l'ho lungamente pensato, ho modulato nella mia mente almeno le prime frasi, conosco i passaggi principali, la scansione del racconto e ho un'idea abbastanza precisa della lunghezza (qui stimata infatti tra le 50000 e le 60000 battute). Però non tutto può essere calcolato e calcolabile, se no non è più scrittura, è contabilità. Un sacco di autori fanno della buona contabilità narrativa, tot pagine, tot colpi di scena, tot dialoghi, tre atti, picco drammatico e tutto il resto. Se ci devi campare lungi da me dire che non sia giusto. Io però vivo la narrativa anche come uno spazio di libertà. Qualcosa nello scrivere mi deve stupire. In questo caso gli eventi erano già decisi da anni, ma di fatto c'era un personaggio che non avevo mai portato in scena.
Di lui credevo di sapere tutto, l'aspetto e il carattere, l'ho anche modulato su un personaggio storico per me parecchio affascinante. E niente, ho scoperto che mi è antipatico. Ho scoperto, mentre lo scrivevo, che non era poi così idealista o lineare nel suo agire. Cosa che me lo ha reso subito più interessante e più umano, ma che non mi aspettavo. Il mio protagonista ne è innamorato, ma io, scrivendo, ho avuto il forte sospetto che il sentimento non fosse poi così ricambiato. Ma non indago oltre, lascio l'ombra, il non detto e il non narrato, perché forse non tutto deve essere noto agli autori, che conoscono i destini, ma sulle anime forse è bene che lascino aperti spirargli di interpretazione.

Tutto questo discorso è partito da un racconto che probabilmente non pubblicherò mai, ma mi ha dato modo di pensare. Più o meno ho capito cosa mi serve per scrivere un racconto.
A voi cosa serve?

DOMANI, ALLE ORE 21, VI ASPETTO TUTTI PRESSO LA BIBLIOTECA DI BRIGA NOVARESE!


sabato 21 gennaio 2017

Dieci incipit per dieci racconti


La spada, il cuore, lo zaffiro contiene dieci dei miei racconti fantastici.

Ecco quali sono e come cominciano.

La locanda dell'ippogrifo
Sulle colline intorno a Glavis c’è sempre un gran via vai di gente in cerca di fortuna. Le vecchie miniere naniche sono state abbandonate, ma questo non fa che renderle più appetibili per i cacciatori di tesori. C’è chi dice che ci siano sacchi di gemme dimenticate e chi racconta di tunnel profondi che comunicano con tombe antichissime e rigurgitanti di ori e di gioielli. Nei boschi ci sono strani monoliti grigi, a coppia o a circoli, e le leggende vogliono che siano porte per dimensioni lontane, regni di fate e folletti, da cui si può tornare folli o ricchi. Sulle cime più alte, poi, un tempo vivevano i giganti e tra le rovine dei lori ciclopici palazzi nessuno sa cosa esattamente si può trovare.
Anche se nessuno l’ha mai visto da decenni, si dice poi che sulle colline intorno a Glavis viva un drago. Dove c’è un drago, si sussurra, c’è una tana e c’è un tesoro.

Anche se ti uccide

La montagna. La neve. La roccia. La vetta. Sono tutti nomi femminili.
Menzogne.
Create per giustificare il mito maschile della conquista.
Non c’è nulla di più sterile e implacabile della neve, della roccia e delle vette.
Arrivare in cima non è una vittoria, è una concessione, la tolleranza verso l’intrusione di una creatura aliena. La si può percorrere, una montagna, non la si può colonizzare o addomesticare. Rimane arida e altera, patria di dèi, allucinazioni, leggende.
Non si può vivere sulle vette, si può sopravvivere, solo per il tempo in cui si è tollerati, fino al prossimo cambiamento d’umore del vento.
Non si può conquistare una montagna.
La si può assecondare, con l’ossequio rispettoso di chi è ospite.
Perché la montagna è bellissima, anche quando ti uccide.

Notte stellata
Ci sono case che sembrano fatte apposta per essere infestate. Costruite su un qualche cimitero abbandonato, circondate da un grande parco. Hanno stanze dai soffitti alti e sono sempre provviste di solaio, cantina e ripostigli. In quegli spazi ampi si sono consumati torbidi delitti e per questo vengono poi vendute sottocosto a famiglie numerose, con bambini che invadono le scale con i loro giochi rumorosi e adolescenti silenziosi che leggono poesie guardando gli alberi fuori dalla finestra.

Ulisse e la tartaruga
In una terra dominata dalle scommesse essere sempre vincenti non è un vantaggio, è una maledizione.
Il pubblico anela la tua sconfitta, la attende con ansia spasmodica e, dato che fortune e destini dipendono da questo, fa di tutto per renderla inevitabile.
La tartaruga, tuttavia, non riusciva a perdere.

Caccia all'orso
Il sole della mattina estiva brilla già caldo sulla piazza gremita, sul palco, il ceppo pronto e il castello retrostante.
Nel cielo terso la brezza tiepida fa sventolare l’unicorno dello stemma reale e non la bandiera del podestà. È la giustizia del re quella che si esercita nella piazza.

L'albatros vola più lontano
Quand’ero bambino, appena possibile, correvo alla scogliera. Senza esserci dati appuntamento ci trovavamo tutti lì, alti sul mare ruggente a immaginarci grandi al confronto delle nubi.
Il nostro gioco preferito era prendere una pietra e cercare di colpire uno degli uccelli marini. I più comuni e facili da prendere erano i gabbiani. A volte, le donne, credendolo di buon auspicio, buttavano loro qualche avanzo di cibo e così c’era sempre qualche gabbiano speranzoso che si avvicinava troppo. Le sule, le alche e le rondini di mare erano più rapide e timorose e dunque erano un nemico di pregio. Chi le colpiva si sentiva già degno di impugnare la lancia e raccontava la propria impresa come fosse appena sceso dalla nave Argo, ricco di vittorie in terra lontana.

La recluta muta
Ketti sbuffò mentre le sue nuove reclute si avvicinavano.
Anche questa volta erano venticinque uomini tra i sedici e trent’anni, tutti variamente goffi e ottusi.
Mentre si disponevano in fila, Ketti estrasse la spada.
“Sì, ho le tette” esordì, intercettando gli sguardi perplessi della sua truppa. “E, sì, vuol dire che sono una donna. Di questo dovete dimenticarvi. Guardatemi.”

Come tela di ragno
Il leylord era tornato nel Sal.
  Quando più di due anni prima era uscito da quello stesso castello dai muri ricoperti di lastre di marmo era solo un ragazzo che per la prima volta seguiva il padre in viaggio. Quel giorno vi aveva fatto ritorno da legittimo sovrano, passando per le vie della capitale sotto una pioggia di petali di fiori. In mezzo vi erano state morte e guerra, ma aveva vinto ed era tornato a casa.
  Per la prima volta da quando era riuscito a radunare una parvenza di esercito, aveva potuto camminare sentendo l’erba sotto i piedi, senza guardie solerti a fiatargli sul collo. C’erano, certo, ma controllavano il perimetro del parco, dandogli almeno la sensazione di essere un animale in semi libertà. Aveva lasciato che la rapida sera d’autunno lo avvolgesse come un mantello di velluto pregiato, in grado di nasconderlo alle brutture del mondo e, per la prima volta da due anni, aveva avuto la sensazione, fittizia e preziosa, di essere solo. Aveva stretto tra le mani quel privilegio di solitudine, aveva trovato la pietra grigia sotto l’acero, la sua preferita quand’era bambino, e l’aveva usata per fare una cosa che ai leylord è proibita. 
  Piangeva.

Quello che gli uomini sognano

Tutti gli uomini, almeno una volta, sognano di essere personaggi influenti, potenti sovrani di grandi nazioni.

Nessun sovrano si sarebbe fermato in un rifugio tanto misero come quella locanda al limitare del bosco. Era un basso edificio umido, con muri di legno macchiati di muffa e un tetto di paglia con urgente bisogno di manutenzione; da un camino che aveva tutta l’aria di tirare poco usciva fumo che puzzava di torba.
Era quasi notte, stava per piovere, e il suo cavallo era stanco. Lo straniero soppesò la strada che si inoltrava di nuovo sotto gli alberi e la stalla malmessa della locanda. Scese di sella. Forse i suoi inseguitori non l’avrebbero cercato in un posto simile.

Nulla che non sia già mio
A molti sovrani piaceva avere un animale domestico. L’Imperatore di Mar-Tial aveva un leopardo che dormiva ai piedi del suo letto. Il signore delle Isole Suanil si diceva portasse sempre un serpente avvolto intorno al braccio, sotto la manica della veste. Era noto che il re del Reymal amasse più il proprio cavallo della moglie o dei figli. Il Leylord del Leynlared, invece, si era portato a corte due cuccioli di allevatore di pecore e cercava di addomesticarli come meglio poteva.


Questi sono i racconti che compongono l'antologia, raccolti tra quelli premiati al Trofeo Rill e altri premi letterari. I primi sei sono totalmente indipendenti da loro, mentre gli ultimi quattro appartengono a uno stesso corpus narrativo, la saga del Leynlared, di cui i lettori più attenti del blog ricorderanno qualcosa.
Se volete saperne di più, cliccando sulla copertina dell'antologia, a lato del post, accedete alla pagina Amazon del libro, dove potrete trovare anche alcune (belle!) recensioni. Il libro è in vendita anche sul sito di Rill (www.rill.it).
Oppure potete venirmi a trovare

Giovedì 26 gennaio alle ore 21 presso la Biblioteca di Briga Novarese.

giovedì 19 gennaio 2017

Visioni – Sherlock stagione 4


Per un'appassionata sherlockiana con il difetto di non amare scaricare illegalmente film, telefilm o libri (effetto collaterale dell'apprezzare il pagamento dei diritti d'autore) non avete idea di quale sollievo sia stato Netflix.
Seguire in tempi ragionevoli Sherlock è sempre stata un'impresa, farlo nella legalità quasi impossibile. Fatta eccezione per lo speciale natalizio distribuito al cinema (in solo due date, in poche sale) in tempi ragionevoli, gli altri episodi sono passati in tv dopo eoni e con un doppiaggio che non si può ascoltare. Io sono sempre quella che difende il doppiaggio italiano, abbiamo doppiatori bravissimi, ma la voce attribuita a Sherlock è semplicemente sbagliata. Stridula e isterica, quando nella versione originale è bassa e controllata, modifica il senso stesso di molte scene.
Poterlo vedere in lingua originale sottotitolato a poche ore dalla messa in onda è stato, quindi, meraviglioso.

Difficile adesso recensire questa quarta e probabilmente ultima stagione, difficile persino dire se, al netto delle aspettative e delle paure, mi sia piaciuta. Sono stati episodi strani, che hanno fallito dove pensavo mi avrebbero esaltato e mi sono piaciuti dove pensavo non ci fosse via d'uscita possibile.

Questi tre episodi avevano l'arduo compito di chiudere tutte le molte (troppe) linee narrative aperte e dare una conclusione o, meglio, l'unica conclusione possibile, a una serie che non si sa se e quando potrà andare avanti. Quasi inaspettatamente lo fa, chiude tutti i conti in sospeso, rinunciando ad essere una detective story per focalizzarsi sulla storia del detective e delle persone che più sono vicine. Abbandona totalmente la sua vocazione di serie gialla, lasciando tutti gli elementi di questo genere tra l'abbozzato e l'improbabile, per andare a scavare nella psicologia e nelle motivazioni profonde dei personaggi riuscendo a reggere, su questo fronte, anche gli azzardi più incoscienti.

Il primo episodio, ispirato al racconto "I sei Napoleoni", che qui diventano "Le sei Thatcher" dimostra un paradosso ben noto a chiunque abbia provato a scrivere di Sherlock Holmes. Mary Watson funziona meglio da morta che da viva. Funziona fino a che non è sposata, ma come moglie di Watson è una iattura. E lo scrivo con estremo dolore, perché lei è, nella sua versione originale, così come appare ne "Il segno dei quattro" un bellissimo personaggio. Doyle se ne è accorto subito e quindi prima continua a spedirla da improbabili madri già morte (Mary si presenta come orfana, ma pochi racconti dopo va a trovare la madre) e poi la fa sparire in silenzio il prima possibile. Della sua presunta sostituta non viene mai detto neppure il nome. Questo per una mera questione di ritmo narrativo. Le storie di Sherlock Holmes sono un ellisse a due fuochi, ad averne tre la figura non viene. La si può rigirare come si vuole, Mary o rimane sullo sfondo o diventa un problema narrativo. In questo caso hanno azzeccato l'attrice, perfetta per il ruolo, che non si fa mangiare dai fin troppo carismatici protagonisti, hanno costruito una storia che, per quanto improbabile è in linea con il tono della narrazione, ma non c'è niente da fare, non funziona mai del tutto, se Mary appare troppo il ritmo salta. Questa è la puntata di Mary e su Mary e ha problemi di ritmo. Delle buone idee, dei bei momenti, ma zoppica.
Certo, il pubblico italiano non è aiutato. Il tema della puntata è la leggenda che è all'origine della canzone "Samarcanda" di Vecchioni. E niente, tu guardi la puntata e la tua mente canta "Oh oh cavallo" in sottofondo. E a quel punto col cavolo che ti emozioni.

Il secondo episodio è il più cupo e teso dell'intero serial, pervaso da un'aura di tragedia incombente e disperazione. È tratto dal racconto "il detective morente" che è uno dei racconti più strani e ambigui del corpus sherlockiano, in cui Holmes finge di essere moribondo, ma non è chiaro, neppure lì, fino a che punto il rischio sia calcolato. Tra lui e Watson c'è dell'astio e del non detto più che in qualsiasi altro momento del canone. Questa ambiguità e questo non detto è portato qui ai massimi livelli.
Watson è in lutto ed è furioso, una furia rivolta contro Sherlock e alimentata da tutto il dolore trattenuto e tutto quello che Sherlock, magari con le migliori intenzioni, gli ha fatto in questi anni.
Sherlock è drogato al punto da arrivare a dubitare della propria mente e a non controllarla del tutto. È fragile come mai lo è stato, inerme contro la rabbia dell'amico e assolutamente disposto, nel caso tutt'altro che improbabile che il suo piano non vada a buon fine, a lasciarsi morire.
La parte gialla è imperfetta, anche se alla luce del finale di stagione potrebbe esserlo meno, alla fine la parte improbabile potrebbe essere una mera invenzione di Euros, ma quella emotiva funziona alla grande. Forse il mio episodio preferito, tra i tre, di certo il dialogo finale tra Sherlock e Watson, di rara umanità e delicatezza è tra le cose più belle che si siano viste in quattro stagioni.

Il terzo episodio mette in campo il più improbabile degli elementi narrativi. Il fratello, o meglio la sorella, segreta. Una cosa da far cadere le braccia appena lo si nomina, da far ululare alla luna che gli sceneggiatori hanno raschiato il fondo del barile e poi scavato ancora.
L'inizio per quanto mi riguarda è insalvabile. La prima parte della puntata è la fiera dell'improbabilità con una persona che, per quanto geniale, non si sa come e in assoluta segretezza ha preso il controllo di una super prigione segreta e riesce ad attirarvi le sue vittime con disarmante facilità. Al confronto Moriarty nella torre di Londra con la corona in testa era il massimo del neorealismo.
Accettato l'assunto di base, Sherlock, John e Mycroft si trovano in sotterraneo comandato dalla misteriosa Euros, sbalorditivamente, le cose iniziano a funzionare. Un minuto dopo che hai smesso di crederci, i giochi psicologici iniziano ad acquisire un senso. Si dipinge un giallo, la morte del cane barbarossa (?), il trauma fondante della personalità di Sherlock. E via via che i particolari iniziano ad apparire e si inizia a intuire cosa sia davvero successo e cosa stia succedendo, la cosa inizia a funzionare. Almeno a livello emotivo. 
No, la super base segreta messa ko, Sherlock e John teletrasportati nella casa degli avi continuano ad essere improbabili, ma la sorella segreta, inizi a sospettare che sia stata pensata sin dall'inizio. L'ossessione di Sherlock per l'utilizzo del termine "gioco", le frasi ricorrenti di Moriarty, il primo caso che attrasse Sherlock e lo mise in rotta di collisione con Moriarty, in ragazzino annegato, iniziano ad essere elementi di un quadro più vasto. E arrivi a pensare che la sorella segreta, se se la sono giocata alla fine per chiudere, se la sono giocata bene.
Si arriva a un finale che soddisfa e commuove, fin troppo accomodante verso il pubblico  (la piccola Watson davvero l'avrei evitata, non oso pensare che ne sarà di lei nelle fanfiction, qualcuno la salvi!).
Che sia il finale definitivo oppure no ci si scopre grati per il viaggio, anche se non tutto è stato perfetto, se le sbavature si sono viste e la scrittura ha traballato qualche volta di troppo.

PS: su regia, fotografia e recitazione non dico nulla. Sono il TOP. Con altri attori semplicemente non avremmo avuto la serie Sherlock.

lunedì 16 gennaio 2017

Presentazione La spada, il cuore, lo zaffiro GIOVEDì 26 GENNAIO

GIOVEDì 26 GENNAIO – ORE 21
BIBLIOTECA COMUNALE DI BRIGA NOVARESE
PRESENTAZIONE DELL'ANTOLOGIA
LA SPADA, IL CUORE, LO ZAFFIRO

Per ovvi motivi pratici non ho molto la possibilità di andare in giro a promuovere la mia antologia, cosa che è un peccato per molti motivi. Ho già avuto modo di dire che questi racconti sono quanto di più intimo fino ad ora io abbia pubblicato. Inoltre l'antologia sta raccogliendo recensioni che non avrei mai neanche sognato. L'ultima su FantasyMagazine, sito che leggo abitualmente e che non si fa scrupoli, quando sente di dovere, a stroncare. La potete leggere qui.
Quindi sono davvero felice di fare (salvo imprevisti), almeno questa presentazione e di invitarvici tutti.

Prima della pubblicazione ero arrivata a pensare che il mio amore per il fantasy e sopratutto la mia idea di fantasy fosse senza futuro. Poca magia, poche battaglie, tanta psicologia. Adesso che gli amici di Rill hanno voluto darmi fiducia, sembra che lo cosa non sia poi così folle.
Pubblicazione o no, non ho mai smesso di tornare ciclicamente nel Leynlared e in particolare dal tizio che vedete in copertina, il personaggio più ostinato che mi sia capitato di incontrare (che a confronto Sherlock Holmes è arrendevole e dolce). E pensare che, qualcosa come dodici anni fa, era nato con lo scopo di apparire ultra sessantenne con il ruolo di "ingombrante figura del passato che deve morire prima della fine". Ecco, in questi giorni ce l'ho di nuovo tra le mani, in versione diciassettenne. 
Io di solito sono piuttosto cinica di fronte alle affermazioni sui personaggi che fanno quello che vogliono e che stupiscono il loro autore. Ma ammetto che alcuni personaggi fanno solo quello che vogliono e la sanno più lunga di loro stessi del proprio autore. Avevo pensato, quindi, prima di mettermi a scrivere, che la versione adolescente di questo personaggio sarebbe stata ingenua e idealista. Mi sbagliavo. Meno consapevole di come va il mondo, certo. Più insicuro, ovvio. Idealista, a modo suo. Ma ingenuo no. Già fatto d'acciaio, a modo suo e con uno sguardo di una lucidità a volte insostenibile.
A voi è capitato di trattare con personaggi che la sanno più lunga del loro autore?

Se invece volete venire a conoscere i miei personaggi problematici, venite a Briga Novarese il 26 gennaio!

giovedì 12 gennaio 2017

Stranger Things – Giocare a D&D salva la vita

Gli ultimi giorno sono stati piuttosto disagevoli. È stata aperta la porta che collega l'appartamento con la parte in ristrutturazione della casa, con conseguente invasione delle ultrapolveri, mi sono presa l'influenza (i cui strascichi pare si siano particolarmente affezionati alla mia persona, gracchio come un corvo e, come comprensibile, la pupattola è insoddisfatta del servizio canzoncine offerto) e la batteria della mia auto ci ha lasciati.
In tutto questo, consolazione o disgrazia ancora non so, ho scoperto Netflix.
Dato che la nuova serie di Sherlock è disponibile in tempo reale sul sito e che per me vederla è imperativo, l'abbonamento è stato un passo obbligato. L'effetto collaterale è che io e il marito ci siamo imbattuti in tutta una valanga di altre serie, tra cui il piccolo cult Stranger Things. 

Vedere in ritardo una serie, permette di arrivare informati, non di spoiler, ma di spunti critici. 
Effetto nostalgia, dicono tutti gli articoli a riguardo. 
La serie è ambientata negli anni '80 e si rifà a livello di contenuti e di estetica a tutta una serie di film del periodo, arrivando a volte a ricalcare alcune sequenze di E. T. o personaggi che sembrano usciti dai Goonies 
L'effetto nostalgia c'è, è evidente, non sono estetico, ma per il tipo di storia. In un paesino a ridosso di un misterioso centro governativo un ragazzino scompare. I suoi amici, il fratello adolescente e due adulti, la madre e un poliziotto, continuano a cercarlo a dispetto di tutto. Le tre linee narrative procedono indipendenti, perché ovviamente le generazioni non si parlano, salvo convergere nel finale. Proprio come un film per ragazzi degli anni '80, il mistero/horror/sovrannaturale c'è, ma è intuito più che mostrato, lo sviluppo è in fin dei conti assai prevedibile e i buoni sentimenti vincono. Eppure, proprio come certi film di quel periodo, si rimane a guardare tutte le otto puntate con un piacere vivo, proprio a causa di queste caratteristiche. Un'operazione analoga, con idee di partenza praticamente identiche e sbavature in un finale troppo visivo era già stata provata con il film Super 8.
Non credo che sia stata solo l'atmosfera anni '80 a colpirmi, sono due gli elementi che mi hanno conquistata.

Il non aver paura di mettere in campo i buoni sentimenti.
I protagonisti sia nella loro scrittura che nelle interpretazioni, sono ineccepibili. Sono incasinati, più cresce la loro età e più hanno vite sballate, commettono errori, ma sono fondamentalmente buoni.
Sono buoni, ovviamente, i ragazzini, con la loro fede incrollabile nell'amicizia, con le regole da loro stabilite a cui si attengono con ineccepibile dedizione.
Sono buoni gli adolescenti, confusi nei confronti dei propri sentimenti e maldestri nel manifestarlo, ma perfino pronti a cambiare strada e a rimediare in un modo che, purtroppo, nella realtà ho visto raramente.
Sono buoni gli adulti. A volte distratti, per lo più segnati da tragedie personali e da vite sballate, ma non per questo non in grado di interrogarsi, mettersi in gioco, prendere decisioni. Sono adulti, figure di riferimento che tutti i ragazzini dovrebbero avere, al di là delle apparenze. La madre sballata che vive ai limiti della soglia di povertà è una leonessa quando si tratta di difendere i propri figli. L'insegnante di scienze all'apparenza svampito si offre volontario per cercare il ragazzo scomparso e interrompe un appuntamento galante per rispondere ai suoi ragazzi. Il capo poliziotto perso tra i suoi demoni personali si riscuote per difendere la propria comunità.
Ovviamente a questi buoni fanno da contraltare dei cattivi assai poco approfonditi, bulli senza speranza, agenti governativi e mostri assetati di sangue.
Eppure quello che traspare è che questi sentimenti saranno anche semplici, magari i cattivi hanno ragioni che non vengono spiegate, ma sono anche veri. Esiste l'amicizia, esistono adulti che credono ai ragazzini e professori che si fermano ad ascoltare i ragazzi. Forse, dopo anni all'insegna dell'ambiguità morale, avevo voglia di una serie semplice e impeccabile che mi ricordasse che esistono i mostri, ma esistono anche i buoni. E che non ha paura di farci vedere i suoi buoni dall'aspetto da "sfigati" per quello che sono. Eroi che affrontano tutti i giorni i mostri senza paura.

Infine una nota di apprezzamento puramente personale. Questa serie è un inno di lode a D&D, il più famoso gioco di ruolo, con cui anch'io sono cresciuta.
Nelle critiche si parla in generale di cultura anni '80, ma è vero solo in parte. È D&D a fare la parte del leone. 
Nella primissima sequenza vediamo i ragazzi giocare, intenti ad affrontare un mostro. Inevitabilmente, quello che sbaglia il tiro di dado è quello che scomparirà, ma nella sua intelligenza pacata, nel suo essere "Will il Saggio", c'è già la speranza della sua salvezza.
I ragazzini affrontano lo smarrimento per la scomparsa dell'amico e le successive indagine applicando gli schemi mentali appresi nel gioco di ruolo. E funziona.
Sanno quando chiedere aiuto ai saggi (il professore) e quando consultare i libri. Il mondo fantasy in cui si muovono le loro fantasie non li distacca dalla realtà, anzi, permette loro di affrontarla con entusiasmo. La scienza sarà anche vista come una specie di magia, ma la praticano con dedizione e rigore, così come un pizzico di fantasy rende loro più accessibili teorie di fisica avanzata che sfuggono al senso comune. Conoscono il valore della cooperazione e della complementarietà, hanno caratteri e attitudini diverse e tutte necessarie. Emblematico, in questo senso, il ragazzino più cicciottello, che all'inizio sembra a rimorchio degli altri, interessato sempre e solo al cibo, e invece si scopre essere il vero collante del gruppo, un leader nei momenti di difficoltà. Infine, nelle situazioni di emergenza conoscono la regola aurea (mai separarsi!) e hanno un modo estremamente pragmatico di affrontare i problemi.
Io ho iniziato a giocare a D&D all'età di quei ragazzini, poco dopo quegli anni, quando farsi vedere con dei manuali voleva dire preoccupare i genitori, perché "vive in un mondo tutto suo", "non distingue la fantasia dalla realtà", "si mette su una cattiva strada". Quanto avrei voluto che miei genitori avessero visto allora questa serie!
Perché anche se non ho mai cercato amici spariti in altre dimensioni, tutti questa attitudine mentale alla risoluzione di problemi l'ho vissuta. Non conosco giocatore di ruolo che non sia mentalmente aperto e curioso di scienze. Molti hanno affinato le loro conoscenze linguistiche sui manuali. Per non parlare di legami d'amicizia e di auto aiuto nati intorno a un tavolo da gioco. Se affronti insieme a un amico un demogorgone poi non lo abbandoni quando ha l'auto in panne. Può sembrare una sciocchezza, ma è una verità che io vivo ogni giorno.

martedì 10 gennaio 2017

Vivere il presente


Ecco che casco anch'io nei buoni propositi per l'anno nuovo. Di solito per me li evito e ammetto di guardare con sospetto quelli altrui. Forse perché so quanto è difficile imporsi un cambiamento dall'oggi al domani, forse perché diffido dalle potenziali fonti di disillusione.
Forse, però, quest'anno ho bisogno anch'io un buon proposito.
Gli anni appena trascorsi sono stati belli, ma impegnativi, sono stati una continua corsa a ostacoli almeno su tre fronti, lavoro, adozione, scrittura. Ho fatto corsi, superato test e concorsi, mi sono fatta scandagliare l'animo, ho fatto maratone burocratiche, il tutto mentre correggevo compiti in classe, cercavo di tenere il passo col blog, facevo progredire le mie storie, cucinavo, cercavo di mantenere casa vivibile. Ho vissuto costantemente proiettata in avanti e guardare non a uno, non a due, ma a tre obiettivi più in là era una necessità. Ho una mente programmatrice, penso agli inconvenienti che possono capitare e mi attrezzo con una, due, tre strategie diverse. 
Non sono ritmi che si possono tenere tutta la vita, ne parlavo con un'amica giunta anche lei a un traguardo importante. Il fatto è che le strategie mentali utili in determinate situazioni possono essere dannose in altre.
Il mio proposito per il 2017 è di rallentare, preoccuparmi un po' meno per il futuro, che per altro è sempre meno programmabile e per nulla controllabile e godermi un po' più l'oggi, imparare a vivere il presente.
Dopo anni passati a fare sempre quattro o cinque cose in contemporanea non mi è naturale. Mi incarto su me stessa, cerco nuove cose per cui preoccuparmi e, se non ce ne sono, me le invento.
Ma i guai, inevitabilmente, arriveranno, la vita di certo mi riverserà addosso tutto ciò che deve, di bello e di brutto, ma non godersi il bello pensando al brutto che arriverà è una sciocchezza.
Ritmi più lenti, dunque, e sguardo più focalizzato all'oggi.
Sembra facile, ma per me, me ne rendo conto, non lo è così tanto.
Immagino che questo riguardi anche la scrittura. 
Negli anni scorsi ho scritto tanto. Molto più di quanto abbia pubblicato. Ho due dignitosissimi romanzi nel cassetto che non ho più neanche cercato di portare a pubblicazione. Ho racconti per partecipare a due anni di concorsi. Anche scrivendo mi sono sempre data obiettivi chiari, da rispettare , con pochissima auto indulgenza. Questo mi ha permesso di terminare parecchi progetti. Più di quanti possa poi occuparmi per la fase post scrittura. Quindi, senza angoscia, scriverò meno. Il senza angoscia è tutto relativo, perché c'è già la vocina che chiede: "ma poi sarò ancora capace?".
Quest'estate ho iniziato un romanzo e non l'ho ancora finito. Voglio finirlo, ma senza correre, diciamo entro fine anno. Potrei parteciparci al Tedeschi 2018, magari. Nel mentre, se mi vengono delle buone idee per dei racconti voglio scriverli. Ma solo se mi vengono in mente. Lunghi, brevi, di genere o no, senza angoscia. Se mi va, voglio riprendere in mano il romanzo fantasy. Se mi va.
Il blog invece voglio tenerlo il più possibile aggiornato. Perché mi serve a fare il punto con me stessa, tra le altre cose, come adesso, che sto formalizzando un proposito. Perché "Seguendo la cometa" mi piace un sacco. Perché è un contatto quasi quotidiano con la scrittura che non voglio perdere. Perché ogni aggiornamento è un momento di gioia e me lo voglio vivere fino in fondo.

E voi riuscite a vivere il presente?

mercoledì 4 gennaio 2017

L'avanzata dell'Impero dell'Oblio, dalla Forza ai vaccini

Brindi, ti distrai un attimo ed è già il quattro gennaio. 
Essendo in maternità non dovrei preoccuparmi troppo della fine delle vacanze, ma vacanza vuol dire marito a casa, amici e parenti a casa, possibilità di muoversi lenti e pigri come gatti pasciuti, regalarsi colazioni al bar, passeggiate al lago, brevi fughe a due per un film o una mostra.
Come sempre quando entro in modalità vacanza ho fatto meno di un quarto della metà delle cose che avrei voluto fare. Non ho scritto, né per il blog né per altro, ho letto meno del previsto, ho sistemato meno della metà degli armadi da sistemare, la mia guerra perenne alla burocrazia si trascina in una trincea di posizione da cui sparo stanchi colpi.
Qualche volta, raramente, ho pensato.

Il pensiero si attiva, a volte, dalle cose più banali. Come tutti i nerd che si rispettino, questo è stato il Natale di Rogue One – Star Wars. Il regalo che io e il marito abbiamo chiesto ai suocere è stato di tenerci la bimba due orette, tempo di recuperare i miei (perché nerd si nasce) e andare al cinema.
Ormai anche i profani più profani sanno che l'assunto delle storie di Star Wars è che la galassia è pervasa da una forza mistica, la Forza, appunto e che con un qualche addestramento si può imparare a usarla per spostare oggetti, dare semplici comandi mentali o combattere con le spade laser. I più famosi adepti della forza sono i Jedi, monaci guerrieri (a mio avviso spesso di rara stupidità) che mettono le loro abilità al servizio de più. I cattivi ordiscono la loro trama, però, più o meno tutti i jedi vengono fatti fuori, bimbi in addestramento compresi, e la conoscenza stessa della Forza e di ciò che poteva fare sparisce. 
Rogue One, come il film primigenio, Guerre Stellari - Una nuova speranza, è ambientato una ventina d'anni dopo il fattaccio e nessuno in pratica ricorda più la Forza. Vent'anni prima c'era gente che spostava cose con la forza del pensiero e ora la cosa è derubricata a "superstizione". I Jedi "se pure ci sono stati" sono considerati dai più una massa di invasati o truffatori di cui nessuno sente la mancanza. In vent'anni. Questo in un universo altamente tecnologico, dove c'è un'equivalente di internet, girano documenti, immagini, riprese video.
E quindi la discussione. Ok la propaganda imperiale, ma è possibile che una cosa altamente coreografica come l'uso della Forza venga dimenticato in una generazione? I nerd, si sa, poi tendono a ragionare più per universi fittizzi che per esempi reali. Ma come, ci si chiedeva, ne Il trono di spade tutti ricordano per filo e per segno la guerra di vent'anni prima, mica si sono dimenticati la precedente dinastia e suoi veri o presunti poteri mistici (e dragheschi) in vent'anni.
Quindi, di primo acchito, uscendo dal cinema, ho pensato che fosse una forzatura. Una cosa importante come la Forza non può essere dimenticata in vent'anni, propaganda imperiale o meno.

Poi, per caso, mi sono trovata a fare uno dei nuovi discorsi da mamma in cui ultimamente mi addentro con circospezione e curiosità. E una signora mi dice che no, i suoi nipoti non vengono vaccinati, che i vaccini portano solo rischi e che un bambino sano mica muore per certe malattie come il morbillo.
E io, di colpo, mi sono trovata a chiedermi com'è possibile che in due generazioni, senza peraltro alcuna propaganda imperiale, ci siamo dimenticati della mortalità infantile. Una cosa cosa pervasiva, che toccava ogni ogni classe sociale. Ok, io e mio marito siamo un po' dei casi limite. Io sono quasi morta di pertosse, presa a un mese di vita e mio marito ha con ogni probabilità avuto danni a lungo termine da un "banale" morbillo, quindi la nostra memoria in fatto di malattie infettive infantili e di rischi connessi è ben incisa nei nostri corpi. Ma chiunque di noi, visitando le tombe di famiglia o sfogliando i vecchi album trovati in soffitta può rendersene conto. La prozia, sorella di mia nonna, morta di tetano, gli altri prozii morti di malattie di cui neppure è stato appurato il nome. In molti cimiteri c'è ancora una parte separata dedicata alle tombe dei bambini e gli anziani ancora ricordano il suono peculiare delle campane per i funerali degli infanti.
Sono passati sessantanni da quei tempi e, appunto, non si trattava di un fenomeno isolato. Eppure ho provato a parlare con persone impossibili da convincere del fatto che il morbillo posso dare complicazioni tutt'altro che banali o che di alcune malattie si possa morire. Checché ne dicano gli studi, non vogliono correre il rischio che il vaccino causi autismo. Il fatto è che non hanno alcuna esperienza diretta, alcun ricordo di bambini morti di morbillo, mentre hanno qualche esperienza diretta di bambini autistici. E hai voglia a dire che i vaccini non hanno nulla a che fare con l'autismo, che ora è più visibile perché meglio diagnosticato, perché chi ne è affetto non viene più nascosto.
Mi sono resa conto con terrore che Star Wars ha ragione. L'Impero dell'Oblio, senza bisogno di propaganda alcuna, agisce in due generazioni. Quando di una cosa non abbiamo più esperienza diretta né abbiamo più sotto mano qualcuno che l'abbia avuto, ce ne dimentichiamo.

Questo pensiero mi ha fatto sorgere un'inquietudine pesante. Di quante altre cose ci stiamo dimenticando? E non sto pensando alle cose macroscopiche, alle dittature o al nazismo, ma di quelle piccole e vitali come l'importanza di difendere i nostri figli da certe malattie.
La risposta di mio marito è stata ancora più inquietante. 
Sulla salute stiamo perdendo la cognizione del perché si fa cosa e del cosa serva davvero, cosicché si passa da un eccesso all'altro, c'è chi va in overdose di antibiotici e chi pretende di curare il cancro con l'acqua di rose, chi travisa la necessità di limitare le proteine animali fino a imporre diete sbilanciate che finisco per essere deleterie, sopratutto su organismi in sviluppo. La facilità di accesso all'informazione non ci permette di renderci conto che stiamo dimenticando i fondamentali.

Come sempre, quando ci si addentra in questi ragionamenti, si scoprono sono delle banalità, ma sono stata colpita dalla fragilità intrinseca della nostra società che dopo due generazioni di benessere è già pronta a dimenticarsi alcune delle basi stesse dell'attuale benessere. 
Grazie al cielo gli scienziati e i medici sono più dei jedi e nonostante non manchino i campioni dell'oscurantismo nessuno mai potrà fare strage di tutti gli studenti di medicina o dei futuri scienziati. L'Impero dell'Oblio si spanderà da solo a macchia di leopardo e con un po' di vigilanza di potrà impedire che faccia troppi danni.

Però. 
Però, da storica, ora mi spiego molto meglio il tracollo tecnologico seguito alla fine dell'Impero Romano. In una società che aveva raggiunto un livello di benessere uguagliato in occidente solo nel XIX secolo erano relativamente poche le persone depositarie della tecnologia e della conoscenza. Nel giro di poche generazioni, la gente dell'Alto Medioevo guardava acquedotti che non sapeva più far funzionare, archi di trionfo con iscrizioni che non sapeva più leggere e statue di bronzo che non avrebbero più saputo replicare.

L'Impero dell'Oblio vince in due generazioni. I suoi adepti sono già all'opera. Sarà il caso di attrezzarci alla resistenza.