lunedì 26 febbraio 2018

Il morso della reclusa (e considerazioni sparse)

Non credo di riuscire a fare una recensione dell'ultimo romanzo di Fred Vargas, anche se ci sono parecchie considerazione più o meno legate a questo romanzo che vorrei condividere con voi.
Diciamo quindi che non è una recensione, è un pretesto.
Del resto c'è poco da recensire di un romanzo di Fred Vargas che funzioni, e questo, al netto di un'improbabilità ancora maggiore che in altri della seria di Adamsberg funziona. Ci sono gli ingredienti che il lettore ormai si aspetta di trovare, una bella scrittura, un tono che fa passare dal sorriso alla malinconia (diciamo anche alla tristezza) in mezza riga, personaggi bislacchi, ormai ben noti al lettore e un'indagine improbabile in cui il medioevo si insinua prepotente quando uno (in teoria) meno se lo aspetta. Decisamente più riuscito del romanzo precedente, Tempi glaciali, non ha, ne potrebbe ormai avare quel che di sorprendente dei primi romanzi della serie. 
Ormai non ci si stupisce più dei pensieri ondivaghi di Adamsberg, né che le sue ipotesi più improbabili si rivelino invece punti saldi dell'indagine. Anzi, ormai il lettore se lo aspetta, quello slittare da una vicenda realistica a un finale quanto meno improbabile dal sapore di medioevo. Del resto dopo assassini novantenni, cacciatori di vampiri ed elisir dell'eterna giovinezza dovrebbe stupirci che la reclusa del titolo abbia più di un significato letterale?

Ma la domanda che mi ponevo leggendo è: un buon romanzo deve per forza stupire? E ancora di più, deve andare oltre? Proporci nuove visioni del mondo? Sempre?

In generale un gran libro dovrebbe. Eppure io ho preso in mano questo sperando di trovarci un'indagine improbabile, personaggi bislacchi, una buona buona prosa e zero impegno mentale. Esattamente quello che ci ho trovato. E no, non penso che Fred Vargas vincerà mai un nobel per questo. Peggio, credo che Fred Vargas abbia genialità e talento puro, ma preferisca giocare, piuttosto che sporcarsi le mani con la scrittura e andare sul sicuro. Peggio ancora, io gliene sono infinitamente grata.
Ho bisogno, un bisogno quasi fisico, di un intrattenimento che non mi tratti da cretina. Che solletichi il mio essere intellettuale, giochi con la mia erudizione (perché, ammettiamolo, io sto con Dangland), ma che rimanga intrattenimento. Mi ha divertito giocare sul senso della parola "reclusa", subodorando le varie implicazioni già al primo capitolo e ho apprezzato anche che la torbida storia che sta alla base dei delitti su cui si indaga rimanga un pretesto. Non c'è alcun desiderio di approfondimento socio-culturale/storico, anche se il tema che fa da pretesto è tostissimo. Ma, almeno ogni tanto, va bene così.

In Italia, forse non solo ma sicuramente in Italia, sembra che ci debba essere solo l'intrattenimento becero o il socialmente impegnato. L'intrattenimento culturale è guardato con sospetto, ammesso che esista. L'intellettuale in Italia deve sempre essere impegnato e offrire una sua visione del mondo. Deve essere di destra o di sinistra. Deve essere schierato, sempre.

Ora, la buona Fred Vargas è sicuramente un'intellettuale con una sua visione del mondo e che non la manda a dire. Ma non con tutti i suoi romanzi e sicuramente non con questo che rimane solo un giallo bislacco che gioca con lettore, senza voler essere niente di più. E menomale, penso io.

Mi sono venuti in mente dei recenti commenti su Camilleri che, per certi versi, è l'autore italiano che più le può assomigliare. 
Ecco, alcune critiche mosse a Camilleri si potrebbero girare alla Vargas. Non penso che ci sia nulla di meno realistico della Parigi di questo romanzo, dove i poliziotti fanno riunione al bar o al ristorante. Dove, certo, si sbattono per trovare gli assassini, ma in generale sembrano avere ritmi di lavoro assai rilassati, chi con il pesce da sezionare sulla scrivania, chi con i ripetuti attacchi di sonno tollerati dai colleghi, senza dimenticare il gatto sulla fotocopiatrice. Dà un'idea della Francia come un paese in cui la vita è dolce persino se lavori all'anticrimine, una visione, insomma, da cartolina e a favore di turisti. E anche qui mi chiedo, che male c'è?

Ci sono libri che hanno una vocazione nello scavare nella verità ma non sempre abbiamo bisogno di quelle storie. Abbiamo anche bisogno di storie consolatori e ben scritte, in cui ognuno, pur con le sue stranezze trova un proprio posto, in cui gli amici dopo un pungo in faccia tornano amici, il tutto in una città Parigi di cui quasi tutto quello che sappiamo è che si mangia assai bene.
C'è bisogno anche di questo, di storie che facciano bene al cuore anche se parlano di orribili delitti.
Il punto, secondo me, è non confondere i due piani, non pretendere analisi sull'oggi a libri che non hanno questo intento narrativo.
A volte un romanzo è solo un romanzo e per me va bene così.
Per voi?

sabato 24 febbraio 2018

La fontana della felicità – parte prima, racconto inedito


Il racconto che vi propongo oggi nasce da un concorso in cui bisognava scrivere un racconto secondo questa indicazione: "la pozione della felicità esiste, è economica e non ha effetti collaterali".  Il racconto non è entrato nella selezione finale, perché ha, in effetti, una struttura anomala. Tuttavia a me non dispiace neppure così com'è. È, in effetti, anomalo ed eccentrico da qualsiasi parte lo si guardi. Spero comunque che possa essere una lettura piacevole.

LA FONTANA DELLA FELICITÀ

Ormai era, per tutti, La città della felicità, e quasi nessuno ricordava che il liquido che sgorgava dalla fontana della piazza non era stato né voluto né cercato e neppure era stato facile far continuare a vivere una città intera intorno a una felicità inesauribile. 
Era accaduto un paio di secoli prima, quando la locale squadra di calcio invisibile, sport molto in voga in cui giocatori e pallone, unti con uno speciale olio, continuavano a diventare visibili o invisibili in modo casuale, aveva vinto la coppa continentale. Un gruppo di studenti di alchimia aveva voluto festeggiare trasformando l’acqua della fontana in un liquido che desse un blando e transitorio stato di euforia. Avevano agito d’impulso, ubriachi, senza pensare di tener traccia del processo. Riavutisi, non avevano idea delle formule utilizzate, né era stato possibile, lì o altrove, replicare l’esperimento. Di certo c’era solo che la fontana al centro della piazza ora era un arcigno Nettuno armato di tridente i cui destrieri marini sputavano però la pozione della felicità.

Che un’intera città di cittadini felici fosse un problema era parso subito chiaro al consiglio cittadino, riunitosi d’urgenza un paio di mesi dopo, quando era diventato evidente che gli effetti di una bevuta non erano poi così transitori.
Di sicuro ai soldati doveva essere impedito l’accesso alla fontana. Soldati felici non combattono, dividono il rancio col nemico e smontano i proiettili per riutilizzare la polvere pirica per fabbricare fuochi artificiali. Da principio i padroni delle fabbriche avevano pensato che operai felici fossero più docili, come già si stava sperimentando con le mucche. Gli operai, però, checché ne pensassero i padroni, non erano mucche. Operai felici non organizzavano rivolte violente, non sabotavano le macchine. Smettevano di presentarsi al lavoro, tornavano in campagna, riscoprivano l’attitudine per la musica o l’arte, in allegria formavano cooperative e decidevano di mettersi in proprio. Gli studenti si applicavano già poco se spinti dall’ambizione, dal desiderio di accedere a una professione o di non scontentare i genitori, quindi nella speranza di una felicità futura. Regalando loro una felicità presente si avrebbe avuto un’enorme massa di allegri fuoricorso sfaticati. In breve ci si rese conto che l’economia della città e in definitiva quella del mondo, era basata sull’infelicità.
Il consiglio cittadino, quindi, si vide costretto, per la prima volta nella storia, a normare la felicità, vietandola ai più per il bene di tutti. Il clero si dichiarò d’accordo con l’intervento legislativo, giacché non c’era religione che non si basasse sul dare una risposta all’infelicità terrena. Alcuni teologi obiettarono che in realtà un dio benevolo si augura per i suoi adepti la serenità. A livello pratico, tuttavia, era innegabile che l’infelicità aiutasse il culto. 
Da quel momento, quindi, la fonte fu accessibile a tutti gli animali e agli uomini e alle donne sopra i settant’anni o ai malati gravi, previo certificato di un comitato di medici indipendenti. L’idea dei legislatori era che la vecchiaia e la malattia avrebbero cessato di essere inevitabili disgrazie, trasformandosi in condizioni indispensabili per la felicità.

Nelle intenzioni degli illuminati legislatori la fonte sarebbe stata gratuita per tutti coloro che avevano i requisiti per bere. Nei fatti rimase gratuita, ma l’intera economia della città iniziò a basarsi su di essa. Giacché la pozione se non consumata in loco perdeva efficacia e non era possibile confezionarla in alcun modo, sorsero alberghi e locande di lusso, compagnie di trasporto e agenzie di viaggio. Di fatto, se non si aveva la fortuna di nascere nella vicinanze, solo gli anziani o i malati più ricchi potevano accedere alla felicità. Anche solo visitare la città divenne un piacere esclusivo che pochi potevano permettersi. In tutto il continente si favoleggiava della Città della felicità, dove gli uccelli non cantavano, giacché i canti sono espressione di territorialità e conflitto, e passeri, merli, fringuelli e pettirossi erano troppo intenti ad accoppiarsi in una gioiosa promiscuità per perdere tempo a farsi la guerra. Dove le mucche si recavano da sole al pascolo e persino al macello, troppo felici per pensare a fuggire e un branco di lupi usciva dai boschi per giocare con i bambini. Dove si levavano i canti allegri dei vecchi e degli invalidi, che terminavano i propri giorni sfidandosi in gare di poesia e morivano per lo più d’infarto mentre facevano l’amore. 
Per la maggior parte delle persone, vecchie o malate che fossero, tuttavia, la felicità rimaneva un sogno elusivo da cui erano esclusi.

Per Horace Saltarospo, settantaquattrenne magnate dell’acciaio, misantropo e gottoso, non parevano esserci problemi di sorta nell’accesso alla felicità. Era lui che non voleva saperne.
– Felicità la chiamano, ma non è altro che una forma di demenza – era solito dire.
Aveva tutta una serie di esempi a sostegno della sua tesi. Il vecchio Mangiasalice aveva passato la vita ad accumular ricchezza, ma dopo aver bevuto alla fontana aveva dato tutto in beneficienza e ora viveva in un sottotetto con la fiamma della sua giovinezza, una ex cantante che gli anni avevano trasformato in un’orribile megera guercia. Veriglio Troncamolle era stato il campione indiscusso di briscola alchemica del circolo del carbone e ora giocava per lo più con i bambini, nel parco della sua villa adesso aperto al pubblico, senza preoccuparsi di vincere o perdere.
– Ma il tuo vecchio amico, il professor Prunus, continua a lavorare e i suoi studi sull’alchimia quantica sono più mirabili che mai – obiettava l’unico nipote di Horace, Melagro.
– Quello era già matto anche prima e i matti è meglio averli felici – chiudeva la questione Horace.
In realtà anche Melagro era più che convinto che la felicità donata dalla fontana non fosse che una qualche forma di demenza, ma sapeva anche che gli uomini che avevano bevuto erano più generosi e inclini agli affetti famigliari. Senza alcuna attitudine, né desiderio di lavorare, tutta la sua strategia di sopravvivenza si basava sulla generosità dello zio e sulla possibilità di essere il beneficiario di un lascito testamentale. Allo stato delle cose, aveva più probabilità di successo chi cercava la pentola d’oro al termine dell’arcobaleno. Tuttavia Melagro era certo che se lo zio avesse bevuto si sarebbe trasformato in un amorevole vecchietto, pieno di riconoscenza per quel nipote che tanto aveva avuto a cuore il suo benessere. Bisognava quindi, in qualche modo convincerlo.
– Sono stati fatti degli studi medici accurati, zio. Il quoziente intellettivo non cambia dopo aver bevuto dalla fonte. 
– Sono le azioni delle persone che hanno bevuto che mi preoccupano, non la loro intelligenza. Adalfonso Sanguinetti ora dice che gli abiti sono inutili convenzioni e va in giro nudo. Non sono arrivato alla mia età e alla mia posizione per mostrare a tutti il mio deretano.
– Ma non c’è davvero nessuna condizione che ti farebbe cambiare idea, così, solo per mera ipotesi?
Il vecchio ci pensò su.
– Se sapessi di avere una malattia mortale e dolorosa, allora sì, forse, preferirei una felicità artificiale alla realtà dei fatti – disse infine.
Si grattò ancora un orecchio, pensieroso e poi tornò a leggere la lettera dei sindacalisti che gli intimavano di alzare i salari dei minatori, prendendo delle note su come indirizzare i propri avvocati per avere la scusa, proprio da quella lettera, per ridurli.
Horace Saltarospo godeva di ottima salute. Persino la gotta, sospettava Melagro, non era reale. Ogni tanto il vecchio zoppicava perché ci si aspettava che un ricco possidente ne soffrisse. La malattia era legata al suo status e quindi era giocoforza necessario averla o mostrare di averla. Si poteva però convincerlo di essere con un piede nella fossa? Si consultò con la servitù dello zio e saltò fuori che non c’era nessuno che non avrebbe barattato il proprio tirannico padrone per un vecchietto gioioso e bonario. L’idea di avere un sorriso e, ogni tanto, un giorno libero aggiuntivo in caso di eventi eccezionali, come il matrimonio del figlio o il funerale della madre, solleticava tutti. Un aumento di stipendio neppure osavano sognarlo, ma vedere anche un poco alleggerito quel regime di totale tirannia era un obiettivo per cui erano giustificate la frode e l’inganno.
Iniziò quindi la cameriera, al mattino, col chiedergli se avesse dormito bene. Il vetturino insistette per portarlo fin sull’uscio dell’acciaieria, negandogli l’abituale passeggiata. Con quella brutta cera era meglio che non si esponesse alla pericolosa brezza di tarda primavera. Il cuoco insistette per cucinare in bianco per non gravare il suo stomaco. In breve, tutti si sforzarono di essere oltremodo gentili e accomodanti, come si fa con chi è molto malato, nel vano tentativo di alleviarne le sofferenze.
In capo a due giorni Horace sentì la necessità di vedere il proprio medico, che non trovò nulla di preoccupante, salvo i normali acciacchi dell’età. Constatò, tuttavia, l’aspetto non proprio roseo del paziente, dovuto alla preoccupazione che tutte quelle premure gli procuravano. 
Nonostante i giorni di assoluto riposo prescritti dal medico, il comportamento degli abitanti di casa Saltarospo non cambiava. Tutti continuavano a trattare il vecchio Horace come se ogni minuto potesse essere l’ultimo. Anche i conoscenti occasionali, vedendo le attenzioni che la servitù gli dedicava e sapendo che ben difficilmente il vecchio avrebbe potuto meritarsele, presero a trattarlo come se fosse moribondo. Di sera, Horace leggeva avidamente i testi medici della propria biblioteca, ormai convinto di avere qualcosa di talmente grave che il medico non osava rivelarglielo. La lebbra, scoprì, si manifesta all’inizio con un poco di cefalea e uno strano formicolio alle mani. La maggior parte dei tumori non hanno come sintomi iniziali che un generale senso di stanchezza. Di fatto, ad esclusione di patologie prettamente femminili, poteva avere qualsiasi cosa e persino un alluce valgo, in determinate condizioni, poteva rivelarsi fatale.
Melagro si insinuò lieve nella paranoia del vecchio commentando che quello stato d’ansia era già di per sé un morbo che rovinava le giornate dello zio. Passare le nottate a spulciare le enciclopedie mediche sentendosi addosso la rosolia dell’asino non era un comportamento meno strano di quello dei suoi coetanei felici e di sicuro meno appagante. Il problema non era tanto la malattia, quale che fosse, ma la presa di coscienza della propria mortalità che avvelenava quegli ultimi, ma potenzialmente ancora felici, giorni.
Il tempo passava, le attenzioni della servitù aumentavano, Horace si sentiva sempre peggio, fino a che anche il medico iniziò a preoccuparsi, ad ascultarne cuore e polmoni con un viso grave, indispettito per il fatto di non trovare niente. Convinto anch’egli che Saltarospo fosse affetto da un qualche oscuro ed elusivo male, finì per pronunciare le fatidiche parole di resa:
– Non ho idea di cosa abbiate, ma so per certo che se foste felice stareste meglio.

A quel punto non c’era più nulla da fare, a Horace Saltarospo non restava che rassegnarsi alla felicità. Fu organizzato il viaggio, occasione anche per rivedere il vecchio compagno di studi, il professor Prunus. Melagro non stava più nella pelle, pregustava la vacanza, la possibilità di vedere le meraviglie della città e la fine delle ristrettezze.
Alla decisione del vecchio fece seguito una festa privata nell’area della servitù e anche nelle fabbriche e nelle miniere Saltarospo il diffondersi della notizia diede vita a balli improvvisati e abbracci incontenibili. Era opinione di tutti che la felicità, persino quella altrui, non potesse che portare del bene. Nel caso specifico, poi, c’era la ragionevole certezza che la situazione non potesse peggiorare.

– Continua e finisce settimana prossima –

mercoledì 21 febbraio 2018

Dita incrociate e selezioni in corso


Non più tardi di lunedì mattina ragionavo su Gita al faro e il personaggio di Lily che rivendica per se un ruolo di donna alternativo a quello che andava per la maggiore e che si ostina a dipingere nonostante l'opinione comune dicesse "le donne non sanno dipingere e non sanno scrivere".
Ragionavo sul fatto che lei rivendichi il suo diritto a dipingere a prescindere dai risultati. Non sappiamo se esponga, cosa pensi la critica dei suoi dipinti, sappiamo che lei sente di avere un suo centro d'equilibrio solo nella pittura e tanto le basta per portare avanti una scelta tanto controcorrente.
Mi ha colpito Lily, ovviamente, perché in questa mia nuova vita piena spesso mi chiedo se abbia senso il mio ostinarmi a scrivere. Ha senso che io butti via sonno ed energie mentali se poi non riesco a raggiungere una massa critica di lettori? Non è egoistico, in questo momento della mia vita, scrivere solo o principalmente perché io ne sento il bisogno?
Prima ancora che intervenisse il buon senso del marito a dirmi che, comunque, i miei lettori li ho, non saranno decine di migliaia, certo, ma ci sono, è anche arrivata una risposta dal mondo esterno. Continuo a non essere come Lily, ho bisogno di conferme esterne.

Sono in finale al premio Tedeschi di Giallo Mondadori con un romanzo, per altro, che è figlio del blog. 
Nasce dagli esercizi di Michele e dalla sua biblioteca (ormai quasi non più) immaginaria e in particolare dalla suggestione "Piccole Nonne" e poi è passato sotto gli amorevoli occhi di Chiara Solerio.
Che ne sarà? Non so. Siamo in finale in cinque, ne pubblicano uno. Quindi ho quattro probabilità su cinque di non farcela.
Oltre tutto non è la prima volta che partecipo a questo premio e neppure la prima che arrivo in finale. Se poi considero le finali ai concorsi per racconti di Giallo Mondadori, ne sto collezionando parecchie, anche se con una sola vittoria. Non so, incrocio le dita e cerco di prenderli per sfinimento.

Sono stata selezionata anche all'interno di un altro progetto, un po' più complicato, A caccia di storie.
Qui ci sono dieci autori che dovrebbero partecipare a un corso intensivo per sviluppare un progetto. Uno dei dieci progetti vedrà la luce. Come potete leggere nel link i partner sono tali da ingolosire qualsiasi autore. Dovrebbero, però, perché io al corso intensivo non posso andare. Devo dire che ho trovato degli interlocutori gentilissimi e quindi, almeno nella mia testa, lo sviluppo del progetto è tutt'ora in corso. Anche qui, ovviamente, che ne sarà? Non so.

Quello che so è che comunque ho dei lettori, che mi hanno fatto sapere che tifano per me. 
So che comunque ho fatto e sto facendo un percorso che mi porterà comunque più lontana rispetto al punto di partenza.
So comunque che ho superato due selezioni da parte di editor professionisti.
So comunque che scrivere fa parte di me, come respirare e al massimo ci sarà da dormire meno, ci sarà da scrivere meno, ma magari meglio.
So che entrambi questi progetti sono sono stati creati e realizzati adesso, a pezzi e a bocconi e sono sicuramente perfettibili (il romanzo è quello che ho inviato senza l'ultimo giro di revisione causa malanni), ma forse schifo non fanno.
So che forse non sono forte come la Lily di Gita al faro, io ho bisogno di conferme esterne e non ho intenzione di sacrificare la mia famiglia all'arte, ma so che continuerò a scrivere.
E quindi, in ogni caso, qualcosa a livello di autostima scrittorea l'ho già portato a casa.

lunedì 19 febbraio 2018

Gita al faro – Piovono libri


Gruppo di lettura con puppatola infiltrata, anche lei a suo modo lettrice e anche lei a suo modo in tema, come si deduce dalla foto. Questo grazie a una riunione pomeridiana, la prima a cui ho potuto partecipare dall'inizio alla fine, cosa che per me è stato un godimento intellettuale non da poco.

Gita al faro, dunque.

Gita al faro mi faceva, prima della lettura, un sacro terrore. Incanalata fin dalle medie allo studio del francese, non ho mai affrontato in modo sistematico la letteratura inglese, ho piluccato qua e là e ho letto a mio esclusivo gusto quello che mi pareva. Questo vuol dire che alcuni mostri sacri sono rimasti come tali mostri sacri che si annidano con i loro occhiacci rossi in fondo alle caverne della mia ignoranza. Virginia Wolf è sempre stato uno di quei mostri dagli occhi rossi in fondo a una caverna. Un'autrice troppo grande perché mi azzardassi a leggerla. Ma, si sa, arriva un momento in cui nelle caverne bisogna addentrarsi e i mostri vanno guardati negli occhi. Il fatto di non essere sola in questo viaggio, anzi, in questo caso accompagnata anche da una collega con cui potevo farmi forza  ogni giorno in aula insegnanti, aiuta a trovare il coraggio.
Che poi, ho scoperto, la grotta non era una grotta, ma una spiaggia di uno dei posti che ho più amato al mondo, l'isola di Skye.
A libro concluso non ho la certezza che il faro sia questo.
Però questo per me è il faro più bello di Skye.
Faro o grotta che fosse, non è stata per me, almeno all'inizio, una gita facile. Ho iniziato il libro in quello che al momento è stato il periodo più duro dalla ripresa del lavoro, con la pupattola malaticcia che vomitava quasi tutte le notti e le incombenze di fine quadrimestre a soffiarmi sul collo.
Desideravo disperatamente trovare ariose visioni di Skye e la purezza dell'isola scozzese. Invece c'era, giustamente, la prosa per cui la Woolf è diventata famosa. Il suo saltare disinvolto da una mente all'altra delle persone che popolano la casa dei Ramsay.

Il romanzo, infatti, come i più sapevano e io ignoravo, racconta nella prima parte una giornata nella casa di vacanza dei Ramsay, lui, filosofo di fama, lei, la signora Ramsay, bellissima nonostante i suoi otto figli, i figli, appunto, e gli ospiti e gli amici, tra cui Lily, donna nubile per sua scelta, dedita alla pittura. Una giornata, quella raccontata, illuminata dalla promessa di una gita al faro. Gita che non si realizzerà se non anni dopo, dopo la guerra, la morte di molti di loro.

Una lettura, quindi, tutt'altro che facile, con la prosa che ci porta ora nella mente di uno e ora dell'altro, senza stacchi o avvertimenti di cambio di punto di vista. Eppure una prosa meravigliosa.
Questo mi è stato subito evidente. Non era il momento giusto, per me. Non bastava il mio amore per Skye e per tutto i suoi fari per entrare a casa Ramsay, ma avevo per le mani un libro epocale.
C'è una profondità di sguardo nella prosa della Woolf, che ci porta con delicatezza nella mente dei suoi personaggi fino al limite del non raccontabile (penso all'odio edipico del piccolo James nei confronti del padre o a una cerca ambiguità nelle osservazioni di Lucy) che sicuramente era ineguagliata all'epoca e forse lo rimane anche adesso. Come ha detto una lettrice, che fatica doveva essere essere Virginia Woolf e avere dentro di sé così tanti e così profondi e così contraddittori animi umani.
E poi c'è la prosa, una prosa bellissima. In un libro così incentrato sull'interiorità dei personaggi fa quasi impressione come uno dei pezzi più belli sia dedicato invece alla descrizione della decadenza della casa, una descrizione che rimane dentro e che fa, semplicemente, inchinare di fronte alla bravura dell'autrice.

Al gruppo di lettura abbiamo avuto la fortuna di avere una docente di letteratura inglese che ci ha inquadrato meglio il libro, non solo nell'opera della Woolf, ma anche in un momento di trasformazione della società inglese. Un momento in cui si incontrano persone nate e formatesi in epoca vittoriana, come la signora Ramsay, dove l'apparenza è tutto, dove una donna non è che la retrovia del proprio marito, non ha neanche nome, vive solo dell'idea che gli altri hanno di lei, e donne come Lily, che rivendicano, con fatica e tentennamenti, un ruolo autonomo. Un momento, se vogliamo, in cui le donne sono le protagoniste e gli uomini si disgregano. Incapaci di camminare con le loro gambe, come il signor Ramsay o spazzati via da una guerra lontanissima e inconcepibile nella luce dell'isola di Skye.

Per certi versi questo libro mi è parso, anche, la controparte femminile di Festa Mobile di Hemingway che abbiamo letto qualche mese fa. Là c'era la "generazione perduta" dei giovani andati al fronte. Qui c'è chi resta, i troppo anziani, i troppo giovani e le donne, le uniche a uscirne più forti.
Sono le donne, infatti, a dominare la scena. Due su tutte, la signora Ramsay, che incombe anche dopo la sua morte, e Lily. La signora Ramsay donna vittoriana perfetta, percepita da tutti perfetta tranne che da se stessa, apparentemente senza cedimenti, ammirata, ma senza nome, quasi senza identità propria, forse infelice senza poter ammettere di esserlo (così simile, ai miei occhi, alla mia nonna materna). E Lily. Lily dai mille dubbi, lei che inizia prima di altre la via dell'indipendenza, non senza tentennamenti, con i giudizi che pesano sulle sue spalle (e su quelle di Virginia, certo) le donne non sanno scrivere e non sanno dipingere. Lily che sceglie nonostante tutto di cercare un suo punto di equilibrio interiore che sta nella sua arte, nei quadri che dipinge. 
Mi ha colpito il fatto che la scelta di Lily non dipenda e non cerchi un riconoscimento esterno. Non sappiamo se Lily sia una grande pittrice. Non sappiamo neppure se lei voglia essere una grande pittrice, se esponga, se la critica conosca le sue opere. Noi sappiamo che lei vuole dipingere e rivendica, pure con mille dubbi e tentennamenti, questo ruolo per lei. Non moglie e madre, ma donna che dipinge. 
Mi ha fatto pensare perché io mi dico spesso che se scrivo, rubando tempo agli affetti, allora deve valerne la pena. Devo scrivere bene, devo avere un riconoscimento, perché in caso contrario non ho il diritto a farlo. Ecco, forse devo seguire un po' di più Lily. Quel centro di equilibrio che lei vede nel riflesso di una saliera, quando capisce come il quadro possa funzionare per lei le basta per dare un senso alla sua arte e alla sua esistenza. Forse questo deve bastarmi a dare un senso e a rivendicare lo spazio. Negli ultimi giorni ho lavorato in modo ossessivo a un progetto per cui c'era una concreta possibilità. Possibilità che non ho potuto cogliere, perché prevedeva una trasferta per me impossibile. E adesso mi sembra futile continuare a lavorare su quell'idea, per quanto buona mi sembri. Ma dovrei, credo, essere un po' come Lily. Rivendicare per me il tempo necessario, senza dipendere da un giudizio esterno. Forse.
O forse è la prova, ennesima, che ogni grande libro ha qualcosa di specifico da dire al lettore, al di là del tempo e dello spazio in cui è stato scritto.

Di certo, nonostante la fatica, il libro rimane sulla torre.
Ed è pure tornata la voglia di andare in gita al faro. A Skye

venerdì 16 febbraio 2018

Lo strano caso di Star Trek Discovery – parte seconda

Lo avevo già scritto a metà stagione e non posso che ribadirlo dopo l'episodio finale. Quello di Star Trek Discovery è uno strano caso.
Così strano che andrebbe osservato con curiosità da chiunque si occupi di scrittura, perché le sue stranezze stanno tutte lì, nella scrittura e nel gioco con gli spettatori.

Ogni storia si basa su un patto tra autori e fruitori. In qualche modo noi spettatori conosciamo le regole entro cui gli autori devono giocare e ce ne andiamo offesi in caso di fallo. Se poi si parla di un universo narrativo condiviso le regole sono più ferree e più esplicite.
Quando scrivo di Sherlock Holmes non posso far apparire in scena il mio personaggio a Londra in compagnia del dottor Watson nel 1893. Perché nel 1893 Holmes è dato per morto, può apparire in solitaria in Tibet, ma non con Watson a Londra. Il 221b di Baker Street ha un modo tutto singolare di non esistere. Non esiste, ma guai a sbagliare il posto di una mensola. Le lettere finiscono pugnalate sopra al camino, non altrove.

Quello di Star Trek è un universo condiviso con le sue regole esplicite e non. È un universo futuristico ottimista, che mostra l'umanità al suo meglio e ha una gestione dei conflitti in più possibile non sanguinosa. 
Quando è stata annunciata questa nuova serie è stato annunciato, anche, che sarebbe stato in linea con quanto visto nelle altre serie, serie classica in particolare.
E poi ecco i primi episodi.
La protagonista causa la distruzione della propria nave trascinando tutti in una guerra sanguinosa. Poi finisce su una nave che viaggia con una tecnologia di cui non c'è traccia nelle altre serie. Con un comandante che sembra non disdegnare per niente la forza bruta.
La rete e i fan si scatenano.
Che ne è dell'ottimismo di fondo?
Ma questo capitano Lorca che sembra essere uscito da un altro universo narrativo?
Ma quale utopia di convivenza, che qui tutto sembra spingere al massacro finale?
Sinceramente i primi episodi sono sembrati un deliberato suicidio. Un suicidio ben fatto, tirato a lucido, ma che sostanzialmente ha fatto urlare i fan "questo non è Star Trek".
Ora, a serie conclusa io immagino gli sceneggiatori spiegarla così ai produttori:
– Allora, metà del fan ci abbandoneranno prima dell'episodio 4. Ma chi resisterà sarà in nostro potere fino alla fine.
Perché è così che è andata.
Al di là del giudizio globale sulla serie, a livello narrativo è interessante vedere come qui si proponga allo spettatore l'esatto opposto di quello che lui si aspetta e su questo slittamento si giochi tutto.

SPOILER ALLERT

Il personaggio che "ma è impossibile che sia capitato lì per caso, cosa si sono fumati gli sceneggiatori?" non era lì per caso.
E persino il capitano Lorca che sembrava uscito da un altro universo narrativo era, in effetti, originario di un altro universo narrativo.

E così a un certo punto lo spettatore attento ha iniziato a fiutare nelle dissonanze un disegno voluto e ha iniziato a giocare con gli autori.
Perché era questo che gli spettatori volevano. Trattare per una volta lo spettatore non come un decelebrato, ma come un risolutore di enigmi. Ci hanno fatto fiutare le dissonanze per farci capire che era un inganno.
Da primo terzo in poi le lamentele degli appassionati, in rete, si sono tramutate in ipotesi. Ci siamo accorti che gli autori giocavano con noi e abbiamo iniziato a ribattere.
E allora questo capitano così anomalo aveva per forza qualcosa da nascondere. E il personaggio capitato troppo opportunamente sicuramente qualcos'altro. E la tecnologia che doveva sparire (non è ancora sparita del tutto, in effetti, ma lo farà...)
Nello scorso post ero a metà visione. Le carte si stavano scoprendo, pregustavo e prevedevo i colpi di scena (alla fine li ho azzeccati quasi tutti, tranne il destino dell'imperatrice) e parlavo di una serie affascinante ma poco coinvolgente emotivamente.
A tre episodi dalla fine l'unico personaggio a starmi simpatico, per cui tifavo, era Lorca, quello che si è rivelato un impostore arrivista proveniente dall'universo ombra.
E nell'ultimo episodio, retorico, senza dubbio, invece questi maledetti sceneggiatori mi hanno preso anche sul lato emotivo. Costruendo un finale volutamente anticlimatico. Dove nulla va come nei soliti film americani, neppure gli ultimi di Star Trek (quanto mi ero arrabbiata quando lo scontro al vertice Spock/Kahan si era risolto a pugni in faccia...). I conflitti non scoppiano, gli amanti non si incontrano, nessuno si sacrifica eroicamente, i nemici vengono salutati civilmente e nessuno diventa capitano. Di colpo, sul finale è tornato quell'ottimismo umanista, anche se venata da una malinconia che lo rende più vero, che alla fine è l'essenza di Star Trek.

Al di là del fatto che la serie mi è piaciuta, quello che mi è piaciuto davvero è il gioco rischioso e spudorato degli autori con le aspettative degli spettatori. Farli arrabbiare, convincerli pian piano a giocare con loro, fino a stringerli nelle spire della loro storia.
Alla base di tutto c'è una scommessa. Una scommessa sull'intelligenza dello spettatore e anche, sì, sulla sua pazienza. Alla base c'è sicuramente non solo una conoscenza del proprio pubblico, ma anche una stima di fondo.
Noi, quando scriviamo, quanto stimiamo il nostro pubblico? Quanto lo invitiamo a giocare con noi?

martedì 13 febbraio 2018

Gotico milanese


Succede, raramente, come un mistico allineamento di pianeti, ma succede.
Si sta tutti bene. Il nido è aperto, ma i grandi possono invece stare a casa.
E se poi la cosa capita in un carnevale che è a ridosso di San Valentino cosa si può fare, se non scappare?
Scappare il più lontano possibile, perché essere famiglia è bellissimo, ma a volte non è male neppure essere solo coppia, solo in due e coccolarsi un po'.
E se si è campagnoli come noi, fuga in due non può che voler dire città, con quel suo fascino esclusivo di musei/mostre/negozi/ristoranti, in cui inebriarsi una volta ogni tanti. Perché persino lo smog, se respirato 3/4 volte l'anno, ha un altro profumo.
E allora via.
Il piano originale era di andare a Torino, ma poi a Torino la mostra che volevamo vedere (i samurai al MAO) era chiusa e Torino è a quasi due ore, Milano a 45 minuti e la nostra libera uscita limitata. E poi c'era stato il post di Sandra, giusto qualche giorno fa, che mi aveva lasciato un retrogusto di desiderio milanese.

Ci ha accolto una Milano nebbiosa, gotica già dalla periferia. Una Milano di rito diverso, dove il carnevale non è ancora scoppiato, in una giornata lavorativa in cui il freddo inibisce i pochi turisti.
Ci siamo trovati in piazza Duomo senza averlo progettato, che ultimamente si va per lo più sui navigli ed eccolo lì, davanti a noi, grigio, imponente e gotico. E perché no? Perché non buttarci sul Duomo? Perché non lo facciamo mai? Perché lo abbiamo visitato in qualche gita scolastica di un'infanzia ormai lontana? Perché siccome siamo italiani snobbiamo sempre le cose vicine, le mostre di Palazzo Reale su qualche artista esotico sì e il museo del Duomo no? Su questo probabilmente, ci sarà da scrivere più avanti. Perché no, sopratutto, visto che non c'è coda alcuna, nonostante i controlli estenuanti? Certo, fa freddo, e non ci sarà una gran vista lassù, ma è il gotico che vogliamo, no? E cosa c'è di più gotico di una cattedrale gotica in una giornata grigia?

E allora eccoci, come turisti giapponesi, entusiasti a salire i duecento e più gradini per salire sul tetto e scoprire nuove e strane prospettive cittadine.
Santi vecchi di secoli guardano un po' perplessi i nuovi quartieri, con la supponenza di chi sa di essere destinato a durare, mentre il nuovo, chissà...
E intanto noi ci inventiamo le nostre storie in testa. Immaginiamo gli scultori tutti contenti per la commissione, salvo poi scoprire che il loro santo sommitale, in cima a una guglia, nessuno lo guarderà mai.
E i portatori di santi? Insomma, qualcuno li avrà ben istallati lassù? Il portatore di santo su guglia diventa rapidamente nella mia testa uno dei mestieri peggiori della storia. Chissà, magari ci scriverò anche un giallo. Intanto mi chiedo se "tirar giù tutti i santi" per loro non fosse diventato qualcosa di più letterale o se il modo di dire non venga proprio da un operaio tardomedioevale scocciato che inizia a buttar giù statue di santi, imprecando...

E poi veloci, che il tempo passa e la libera uscita finisce, verso il museo del Duomo, con le sue strane ombre e i suoi inquietanti abitanti
Sembrano mordaci, chissà se sono contenti della loro nuova sistemazione? Se si animano di notte?

Noi, da bravi turisti giapponesi, abbiamo giusto il tempo di un ultimo selfie, di un pranzo più romantico e chic del solito sopra la Rinascente (dove per altro incontriamo una vicina di casa, che noi paesani siamo tutti uguali), prima di tornare, ben carichi di storie e suggestioni. A futura memoria di tutte le volte che si dice "ma sì, tanto ci sono già stato, tanto è sempre qui..."

domenica 11 febbraio 2018

NEL REGNO DI SORELLA MORTE –racconto inedito, ultima parte


Parte prima
Parte seconda

Riassunto breve
Nell'Italia devastata dalla peste, Ruggero è in cerca del fratello, scomparso nei pressi di Viterbo. Durante le ricerche, Ruggero si imbatte in due monaci, impegnati nel compito di recuperare i cadaveri degli appestati per dar loro una sepoltura cristiana. Insieme ai monaci, Ruggero raggiunge Viterbo dove spera di trovare notizie del fratello e del misterioso tesoro che aveva trovato a Costantinopoli e che stava portando con sé.
A Viterbo Ruggero scopre che il fratello aveva lasciato la città già una ventina di giorni prima. È probabile, quindi, che gli sia accaduto qualcosa nelle immediate vicinanze della città. Setacciando le campagne circostanti, Ruggero identifica un covo di banditi. Qui trova della refurtiva, tra cui delle monete Veneziane presumibilmente appartenute a suo fratello.

NEL REGNO DI SORELLA MORTE – PARTE TERZA


Quando uscì non avrebbe saputo dire quanto tempo era rimasto nella grotta. Il sole non sembrava essersi troppo spostato nel cielo, ma il suo mondo era cambiato. Se era tutto volere di Dio, pensò, cos’era quello, uno scherzo crudele? Far guarire una persona da un morbo che per quasi tutti era una condanna certa solo per farlo uccidere qualche mese più tardi da volgari banditi. Scosse il capo, pentendosi della propria rabbia blasfema. Ormai, però, quel pensiero era stato formulato. Sentì le parole di suo fratello nella propria mente.
Ci sono cose, basta pensarle e ti ritroverai cambiato, per sempre.
Non c’era null’altro di suo lì. I predoni non erano interessati che alle monete e ai gioielli. Non si erano resi conto di cosa stavano distruggendo. Una delle menti migliori d’Italia. Uno dei medici più capaci, proprio nel mezzo di un’epidemia. Con Giffredo se n’era andata persona buona, un fratello e un figlio affettuoso, ma anche tutta una montagna di conoscenza faticosamente accumulata. Tutto ciò che aveva appreso a Costantinopoli e ancora non aveva messo per iscritto.
Si costrinse a muoversi.
Doveva avvisare le autorità cittadine. Forse sarebbero riuscite a prendere gli assassini. Ruggero ne dubitava. Avrebbero capito che qualcuno era stato lì e avrebbero spostato il proprio rifugio. D’altro canto non poteva rimanere solo ad attenderli. Era un uomo di cultura, difficilmente avrebbe avuto la meglio contro un solo sicario, se fossero stati due sarebbe stata morte certa. La vendetta era un peccato che non gli era concesso. Prese la moneta veneziana. L’unica cosa che gli restava di suo fratello e scese verso la strada principale. Non avrebbe mai saputo cosa Giffredo aveva acquistato a Costantinopoli ed era tanto ansioso di mostrargli, il suo tesoro. Evidentemente i predoni non l’avevano reputato tale. 

  Anche durante il ritorno, non incontrò nessuno. Si chiese cosa ne fosse stato del corpo di suo fratello. Se fosse rimasto insepolto in qualche anfratto tra le colline, o se i frati lo avessero raccolto e fosse finito nelle fosse comuni, insieme ai morti di peste. Almeno avrebbe avuto una preghiera, se non un rito funebre.
Come se il suo pensiero li avesse evocati, vide i due frati, con i loro carro dal macabro carico. Si intravedevano già le case di Viterbo e la campagna era costellata di casolari. I frati avevano abbandonato la strada principale per avvicinarsi a uno di questi, in mezzo a un prato. Non si erano accorti, però, che il terreno, riscaldato dal calore del giorno si era ammorbidito in fango tenace e ora faticavano a liberare le ruote del mezzo. Fra Domenico aveva il saio quasi del tutto ricoperto di fango e fra Ottavio dava l’impressione di un uomo sul punto di imprecare.
Ruggero fece deviare il cavallo, consapevole che presto anche i suoi abiti sarebbero stati nelle stesse condizioni dei sai del monaci. 
– Il Signore ti benedica! – si illuminò fra Domenico. – Fate forza sulla ruota di dietro, insieme ce possiamo fare, a Dio piacendo.
Il prato era ingannevole. Quello era un pantano bello e buono e dopo tre passi Ruggero era già affondata fino al calcagno.
– Non riusciremo a liberarlo! – protestò.
– Con la fede e il favore di Dio nulla è impossibile! – ribatté fra Domenico.
Ruggero sospirò. In ogni caso i clienti di quel carro non si sarebbero lamentati e tra tutte le cose inutili che aveva pensato di fare, molte delle quali avevano a che fare con vendette che non sarebbe stato in grado di portare a termine, cercare di liberare un carro carico di cadaveri sembrava la meno sbagliata.
Con un grugnito si mise a spingere.
– Ce la facciamo! – incoraggiò fra Domenico.
La ruota si era mossa per forse un palmo, ma era qualcosa.
Spinsero di nuovo.
Fra Ottavio, di fianco a lui, grondava sudore, nonostante la fresca aria autunnale. Si era rimboccato le maniche e sul suo braccio spiccava una lunga cicatrice, lasciata senza dubbio da una lama, un colpo di spada che alcuni anni prima doveva avergli spezzato il braccio. C’era anche un graffio più recente, che stava appena guarendo. Ruggero avrebbe giurato che era stato lasciato da un pugnale.
– Ancora uno sforzo! – li incitò di nuovo fra Domenico.
Se fosse stato un capo militare, sarebbe stato il tipo di condottiero da concepire solo vittoria o morte. Fra Ottavio mormorò tra i denti qualcosa che Ruggero sospettò essere assai poco adatta alla vita monastica. Tuttavia si rimise a spingere. Era forte come un toro. Ruggero diede il proprio contributo, ma fu principalmente merito del suo compagno se il carro uscì dalla fossa in cui si era impantanato. Dando l’ultima spinta, il giovane incespicò e cadde, finendo disteso nel fango. Pensò che poteva rimanere lì, lasciarsi avvolgere dall’acqua che trasudava dal terreno e poi dalla notte e raggiungere Giffredo. Accettò, invece, la mano che fra Ottavio gli porgeva.
– Vi siete sporcato per bene – commentò il frate, guardando i suoi vestiti.
Ruggero stava guardando invece la sua mano. Come tutti, vi aveva scritto la sua vita. Niente macchie di inchiostro. Vi erano, invece, i calli tipici dell’uomo d’arme.
– Ottimo lavoro, Dio ne terrà conto! – disse fra Domenico, avvicinandosi.
– Da quanto siete al convento di san Tommaso. fratello Ottavio? – chiese Ruggero.
Fra Ottavio seguì il suo sguardo.
– Dall’inizio della peste – disse. – Sono tra quelli a cui il castigo di Dio ha aperto gli occhi.
– Sì – confermò fra Domenico. – Lui e fratello Alberigo, che il Signore l’abbia in gloria, sono arrivati l’anno scorso, all’inizio dell’epidemia. Hanno servito bene il Signore e nessuno ha fatto domande sulla loro vita precedente.
– Quello, però, è recente – obiettò Ruggero, indicando il braccio ancora scoperto del frate.
– Mi sono graffiato con uno spillone che stava su uno dei cadaveri – rispose questi, aspro.
Ruggero vide che fra Domenico si accigliava, guardando il taglio.
– Non sembra un graffio lasciato da uno spillone. È piuttosto profondo – commentò.
Tuttavia, se fra Ottavio faceva vita di comunità e usciva sempre con fra Domenico… Non poteva guardare tutti con gli occhi del sospetto. A meno che…
– Quando è morto questo fratello Alberigo? – chiese.
– La pestilenza miete vittime anche tra di noi – rispose fra Domenico. – Fratello Alberigo è tornato alla casa del Padre dieci giorni fa, dopo un’agonia di due giorni.
– E voi avete deciso di sostituirlo?
– Siamo rimasti in pochi e molti di noi sono vecchi o malati.
– Che assurdità sono queste? – protestò fra Ottavio.
Ruggero vide che stava sudando e i suoi occhi saettavano a destra e a sinistra come come quelli di un coniglio che abbia fiutato i predatori. Un’anima candida non avrebbe capito dove si voleva andare a parare.
– La pestilenza è un’ottima opportunità per chi abbia la necessità di sparire per un certo tempo, fingersi morto e riapparire poi ad epidemia conclusa con un altro nome – ragionò Ruggero. – Tu e questo compare siete giunti a Viterbo quando i frati di san Tommaso avevano già iniziato a raccogliere i cadaveri, vero? Quale splendida occasione per depredare, velocizzare il trapasso a qualcuno di non così malato e poi nascondere il corpo con gli altri, dentro la fossa comune! Durante una pestilenza è così facile perdere il conto dei morti…
Fra Domenico aveva la fronte aggrottata nello sforzo di accettare il significato di quelle parole. Ruggero stesso si rese conto tardi di essere troppo impegnato a convincere il vero frate per prevedere l’attacco di Ottavio. 
Gli arrivò una gomitata in piena faccia, seguita da una ginocchiata nello stomaco. 
Si trovò in ginocchio nel fango, mentre il finto frate fuggiva con in mano il pugnale che gli aveva sottratto.
Era l’assassino di suo fratello.
Con un grugnito, Ruggero si rimise in piedi, lanciandosi all’inseguimento. Ottavio aveva il fisico robusto del guerriero di professione, ma il giovane era più veloce, inoltre il saio zuppo di fango non era la veste ideale per la corsa. In poche rapide falcate, Ruggero gli fu alle spalle.
Rotolarono insieme a terra.
Morirò qui. Disarmato contro un assassino professionista, morirò da idiota.
Provò a mordere e a calciare alla cieca, ma quel poco di scherma che aveva imparato non aveva nulla a che fare con quella lotta sporca. Sentì le costole incrinarsi sotto i colpi ben piazzati del sicario. Quando vide il bagliore dell’acciaio pensò che non gli restava tempo neppure per una preghiera. Un’altra delusione per fra Domenico.
Ottavio si sollevò un poco per vibrare il colpo e poi ricadde sopra Ruggero, mentre la lama del suo stesso pugnale gli mancava di un soffio la gola.
– Non trovavo un bastone adatto, scusate – disse fra Domenico, apparendo nella visuale di Ruggero con in mano il manico di una vanga.

Il colpo non era stato certo abbastanza forte da ucciderlo, ma pochi istanti dopo la situazione era ribaltata. Era Ruggero che poggiava il pugnale sul collo di Ottavio.
– Non macchiate la vostra anima di un peccato capitale! Lo consegneremo alla giustizia! – disse fra Domenico.
Era l’assassino di suo fratello, pensò Ruggero. Ricordò agli occhi si sua madre. Quando erano arrivati i cacciatori con il corpo di suo padre erano diventati del colore di un cielo che non avesse mai conosciuto il sole. Ci avevano messo anni per tornare a illuminarsi. Affondare il pugnale sembrava giustizia, non peccato. Quale Dio avrebbe salvato Giffredo dalla peste per poi farlo uccidere a quell’uomo? 
– Mio fratello aveva delle cose con sé, libri. Non erano nel vostro covo, cosa ne avete fatto? – ringhiò.
Giffredo avrebbe voluto che si occupasse di quello. Dei libri.
– Troppo riconoscibili per venderli – rispose l’assassino.
Nella frazione di un battito di cuore in cui l’uomo ci mise a riprendere fiato, Ruggero capì che se li aveva distrutti il coltello sarebbe affondato.
– Li abbiamo gettati nella scarpata, dall’altra parte della collina rispetto al nostro covo.
Ruggero affidò il coltello a fra Domenico.
– Portalo tu alla giustizia. O all’inferno, come preferisci.

*

Fra Domenico e Gualtiero Gatti sembravano fatti per intendersi. Il frate era venuto a riferire che Ottavio si trovava ora nelle prigioni cittadine e lui e l’anziano nobiluomo avevano preso a discutere. L’imminente giubileo. La peste come purificazione divina.
– Questo paese rinascerà – stava dicendo Gatti. – Dio non l’ha abbandonato, l’ha purgato, così come un medico per salvare un corpo deve tagliare un arto infetto.
– È tutta volontà del Signore. Il Suo disegno è troppo complicato per i nostri occhi – concordò il frate. – Anche il tuo lutto, messer Malaspina, devi accettarlo come parte del Suo volere e essere felice per l’anima di tuo fratello, che ha abbandonato questa landa di miserie e tentazioni.
– Sì – rispose distrattamente Ruggero. – Questo paese rinascerà.
Giffredo aveva avvolto il suo tesoro in buon tela cerata e imbottito la sacca di stracci, cosicché il libro era arrivato in fondo alla scarpata senza alcun danno e l’umidità non aveva raggiunto le pagine.
Si trattava di un trattato di matematica e geometria che dal greco antico era stato tradotto e ampliato in arabo, tradotto poi il greco moderno a Costantinopoli e poi di nuovo in latino da Giffredo, durante la propria convalescenza a Venezia.
Fra Domenico avrebbe detto che era il disegno di Dio. Giffredo non era morto di peste per poter portare a termine il lavoro. La sua ora era stata posticipata. Ruggero sentiva di non avere una fede abbastanza grande per accettare la perdita di suo fratello. Per le strade di Viterbo, come nel resto dell’Europa intera, la peste continuava a mietere le proprie vittime. I lupi ululavano ogni sera più vicini alle case. Tuttavia, come ogni pestilenza, anche quella sarebbe passata. Grazie al libro che Ruggero aveva tra le mani sarebbero stati possibili nuovi calcoli. Nuove costruzioni. Un mondo nuovo, che forse era nei pensieri di Dio, ma che sarebbero stati gli uomini come suo fratello a realizzare.

L'ANGOLO DELLE CURIOSITÀ
Questo racconto nasce a Viterbo, unico luogo in Italia dove vi è una Piazza della Morte. Il nome deriva dalla presenza di una confraternita che, in occasione delle pestilenze, si occupava di dare degna sepoltura ai morti che rischiavano di rimanere insepolti.
Da questa suggestione non ho saputo fuggire, anche se probabilmente la confraternita è posteriore alla peste del 1348, non ho potuto non immergermi in questo cupo paesaggio medioevale, ossessionato dal castigo di Dio, ma in cui già si respira l'aria del primo umanesimo.
Infine, la famiglia Gatti era una famosa famiglia guelfa di Viterbo che si disputava il controllo della città con altre famiglie. Queste rivalità sfociavano in vere e proprie battaglie per le strade cittadine, che ancora ne portano un'eco nei loro nomi (via del macello, ahimé pare non avere a che fare con i bovini...). Nel 1348, con il papa ad Avignone immagino però Viterbo già in decadenza, in una solitudine aggravata dalla pestilenza e in questa solitudine si insinua l'indagine di Ruggero, con tutte le sue suggestioni proto rinascimentali.
Ed ecco due scatti dalla Viterbo medioevale