lunedì 27 febbraio 2017

La la Land, Whiplash e la felicità che si sacrifica all'altare del successo


Sono stati assegnati gli oscar e La La Land ne ha vinti sei.
Non posso dire se siano pochi o tanti, dal momento che non ho visto gli altri candidati. L'unica fuga a due che io e mio marito ci siamo concessi in questi ultimi mesi, però, è stata proprio per andare a vedere La La Land.
Prima che diventasse un caso e la pellicola favorita per la notte degli Oscar, già desideravo vederlo. Il regista si era già imposto alla mia attenzione per Whiplash. Si chiamo Damien Chazelle, sa costruire film tecnicamente ineccepibili, di raro rigore tecnico ed è nato nel 1985.
Sì, nel 1985. Ha cinque anni meno di me, dovrebbe averne 31 o 32 e ha già diretto due film da oscar. Da questa notte è il più giovane regista ad aver vinto la statuetta per miglior regia.

Apparentemente i suoi due film da regista sono diversissimi. Il primo è un film cupo in cui un giovane talento della batteria si imbatte in un maestro sadico, da far invidia ai peggior addestratori delle truppe d'assalto. Il secondo è un musical colorato e un grande omaggio al cinema d'altri tempi ambientato in una Hollywood magica.

– ALLERTA SPOILER ON –

In realtà sono storie molto simili. Entrambi i film raccontano la storia di giovani di grande talento, alla ricerca dell'affermazione e del prezzo che dovranno pagare per ottenerlo.

Benché Whiplash sia un film sulla musica, non ci sono allegre canzoncine a spezzare la tensione della storia del giovane Andrew, che arriva a farsi sanguinare le mani pur di raggiungere la perfezione tecnica con il suo strumento. Il film è incentrato sul rapporto conflittuale tra Andrew e il suo maestro che continua a porre il ragazzo davanti a sfide sempre crescenti, sempre con maggior durezza, e non è chiaro neppure allo spettatore, fino a che punto ci sia nel maestro il desiderio di levigare una gemma grezza e dove inizi il puro sadismo. Certo è che Andrew per il suo sogno sacrifica tutto, amici, famiglia, amore (la fidanzata viene lasciata senza troppi giri di parole in quanto distrazione). Anche se il finale ci mostra la rivincita di Andrew su tutta la vicenda aleggia il fantasma del precedente allievo del maestro, morto suicida e lo stesso protagonista arriva ben oltre il punto di rottura, con un evidente esaurimento nervoso e il vuoto sociale intorno.

Il tono di La La Land è completamente diverso, è un film in cui si sorride, si ride perfino, ma spogliata dei (bellissimi) numeri musicali e dei suoi colori allegri, la vicenda non è molto diversa. Sebastian è un musicista jazz che sogna di aprire un locale dove far rivivere il genere, Mia è un'aspirante attrice. Si conoscono, si detestano e poi si innamorano quando non sono nulla, Mia si mantiene facendo la cameriera e subendo dei provini imbarazzanti, Sebastian suona in dei ristoranti dove il suo talento è più un ostacolo che un aiuto. Dei due, per una volta, il più sognatore è Sebastian che non solo insegue il suo sogno con una purezza da cavaliere medioevale, senza voler scendere ad alcun compromesso, ma sprona Mia a fare altrettanto, a lanciarsi come autrice e a proporre un proprio spettacolo. Ce la faranno? Sì, ma non insieme.
Sebastian è assolutamente sincero e realistico in questo. Quando a Mia viene offerto un ruolo per un film da girarsi all'estero lui ha già capito tutto. Per entrambi la loro passione è più del desiderio di successo, è quasi una religione, una vocazione a cui è ovvio che tutto vada sacrificato, compresa la felicità.

Quello che è evidente a chiunque guardando Whiplash è che Andrew non è felice. Non sarà mai felice. Sarà, probabilmente un grande batterista, forse una leggenda della batteria, ma non sarà mai un uomo felice. La felicità è fuori dai giochi. Non è neppure ricercata, anzi è di ostacolo. Un uomo felice è appagato e non cerca più di migliorarsi. Qui siamo alla ricerca di un ideale di perfezione quasi sovrumano, totalizzante, che sublima tutto il resto.
Meno evidente è che, alla fine, neppure Mia e Sebastian sono felici. È meno evidente perché ce l'hanno fatta in un mondo in cui il successo impone anche una parvenza di felicità. Mia è l'attrice ammirata, bellissima, Sebastian è il musicista famoso che si è permesso di aprire un locale. Nell'ultima sequenza, tuttavia, c'è il racconto di tutta la felicità mancata.

Nel 2014 Chazelle aveva 29 anni (fa quasi impressione considerata la maturità tecnica del film) e nel suo film la felicità non entrava neppure nell'equazione. Andrew non se l'aspetta e neppure la ricerca, anzi, la fugge appena è possibile. In La La Land fa capolino il rimpianto di quella felicità mancata. Si affaccia il dubbio e si apre la porta alla domanda se, in fondo, ne sia valsa la pena.

A me sorge spontanea la domanda se Chazelle sia felice. Per farsi strada in quel di Hollywood come regista così giovane, per padroneggiare così bene i mezzi tecnici (non fatevi ingannare dall'apparente leggerezza, La La Land deve essere stato un incubo da girare, specie le scene in esterno con i numeri musicali) cosa avrà sacrificato?
E sopratutto, è necessario?
Forse sì. È chiaro che i suoi protagonisti non lo fanno per il successo, i soldi o la fama. Lo fanno perché devono, per certi versi la loro natura li spinge a quello. Ci sono talenti e vocazioni così totalizzanti che richiedono di sacrificare tutto il resto e pochi grandi artisti, in ogni campo, sono stati anche delle persone risolte e felici.
Forse è una cosa che mi racconto per giustificare la mia mediocrità, chi può dirlo, ma tra successo e felicità preferisco di gran lunga la seconda. 
Di certo nessuno di noi vorrebbe essere davvero Andrew di Whiplash. Ma forse, tolte le luci, i colori e i begli abiti, neppure Mia e Sebastian, che alla fine regalano sogni agli altri ma non ne tengono per sé.
Questa è la mi opinione, la vostra qual è?

venerdì 24 febbraio 2017

Seguendo la cometa 14 – Il labirinto degli Enti


Mi raccomando, cliccate sulle immagini per ingrandirle!

Questa rubrica vuole raccontare sdrammatizzando, ma anche dare informazioni il più possibile veritiere su un mondo complicato.
Chi di voi lunedì sera in prima serata ha guardato  su Rai3 Presa Diretta ha visto un reportage sulle adozioni internazionali che raccontava tante brutte cose a cui io solo alluso, questa volta con dovizia di nomi e particolari. A chi volesse approfondire consiglio di recuperare il servizio che spiega, tra le altre cose, cosa c'era dietro il pasticciaccio del Congo, cioè il forte sospetto che alcuni bambini fossero stati comprati dalle famiglie d'origine o che queste fossero state convinte che il bimbo sarebbe andato solo all'estero a studiare per poi tornare a casa. Ovviamente all'insaputa delle famiglie adottanti. All'inizio erano state date alla stampa le più varie versioni perché non si sa quanti di questi casi ci siano e potete immaginare che impatto possa avere per un ragazzino giunto in Italia molto piccolo il sospetto che la sua famiglia d'origine ci sia ancora, in Congo, e magari sia stata imbrogliata e non lo volesse assolutamente abbandonare. Devastante. 
Dai commenti al post precedente mi sono resa conto anche che la situazione generale delle adozioni internazionali non è molto chiara.
Questo non è un momento facile per le adozioni internazionali per vari motivi:

– Ci sono paesi troppo instabili per poter anche solo pensare di mandarci delle coppie, ovviamente sono i paesi in cui ci sono più orfani e in cui questi sono più in difficoltà.

– Ci sono paesi con moltissimi problemi e scarsa stabilità politica, come quelli africani, dove da un lato si ha la sensazione di poter davvero offrire a un bambino delle opportunità che nel proprio paese al momento non ci sono, dall'altro sono gli unici paesi dove si possono adottare bambini piccoli non classificati come adozioni speciali, quindi presumibilmente sani e anche questo, umanamente, ha un peso sulla decisione.

– Ci sono paesi in cui le condizioni socio-economiche stanno migliorando oppure in cui la cultura delle adozioni sta iniziando. Sono più stabili e sicuri, ma sono adottabili solo bambini classificati come "adozioni speciali" cioè, semplificando, che abbiano più di 8 anni (di solito), gruppi di fratelli o con patologie gravi o croniche (la definizione di patologia grave o cronica varia però molto da paese in paese). Russia, Cina, Vietnam e Sud America al momento sono aperti solo per adozioni speciali. In alcuni di questi paesi (Russia e Cina) le condizioni effettive di salute del bambino le scopri là (in Cina per prassi, in Russia per totale inaffidabilità delle diagnosi). È vero che spesso si tratta di problemi facilmente risolvibili in Italia (già la necessità di scarpe ortopediche in alcuni paesi fa rientrare nelle adozioni speciali) o che a volte, specie in Russia, bambini sani hanno le più varie diagnosi, ma ci sono casi in cui il bambino ha patologie davvero molto gravi e bisogna decidere sul posto, dopo averlo già conosciuto se uno se la sente oppure no.

– Ci sono pochissimi paesi senza particolari problematiche socio-economiche (che io sappia con certezza solo la Corea del Sud) che per motivi di politica interna vengono dati in adozione internazionale bambini piccoli e sani. In questi casi, ancora più che negli altri, lo stato si permette di scegliere i requisiti per le coppie e di vagliare con attenzione caso per caso.

Infine, va segnalato che è una situazione molto fluida. Basta un cambio di governo in un qualsiasi stato per cambiare la politica sulle adozioni. Alcuni paesi usano le adozioni internazionali come merce di scambio per aiuti economici, altri le considerano una vergogna perché la necessità di mandare dei bambini all'estero mette in luce le difficoltà del paese e preferiscono contingentare o chiudere le adozioni nel tentativo di mostrarsi più forti. 
È un mondo complicato. Io ho percorso il cammino fino all'approvazione del nostro dossier in Colombia e spero che il racconto del percorso possa essere utili a chi magari cerca informazioni in merito.

mercoledì 22 febbraio 2017

Le difficoltà nello scrivere racconti – Scrittevolezze

Con il primo fiore del nuovo anno, fotografato andando a passeggio con la pupattola, torno a parlare di scrittura.

Torna ciclica la domanda se sia più facile scrivere racconti o romanzi. Se ne è parlato di recente anche da Helgado, qui.

Io non lo so se sia più facile o più difficile scrivere racconti o romanzi. Al contrario del sentire comune io ho più difficoltà a pubblicare romanzi. Ho pubblicato 2 romanzi, invece di racconti ne ho pubblicati, vediamo... 5 sherlockiani, 2 su Giallo Mondadori, 4 sulle antologia della serie Delitti di Lago, 10 nell'antologia La Spada, il Cuore e lo Zaffiro, 1 su Kultural, più quelli preparati per la radio, per un sito con cui collaboravo, per un'associazione di cui facevo parte. Insomma ho decisamente più esperienza di racconti editi che di romanzi (gli inediti contano fino a un certo punto, non avendo avuto riscontri esterni, mi piace pensare di avere dei capolavori nel cassetto, ma ho il sospetto che sia più sogno che realtà).
Quali sono le difficoltà specifiche che riscontro nelle scrivere racconti?

Avere ben chiari i propri obiettivi narrativi
In un racconto non ci può entrare tutto. Un romanzo può essere un calderone di tematiche. Nei due romanzi che ho pubblicato ho messo dentro più cose di quante avessi previsto. E va bene. Il romanzo è il regno del molteplice.
Un racconto non può esserlo, rischia di essere inconcludente. Non posso permettere che in un racconto un personaggio secondario acquisisca troppo peso, in un romanzo sarebbe magari una ricchezza, in un racconto lo farebbe deragliare.
Quindi bisogna avere le idee chiare su cosa si voglia raccontare. Quale sia il cuore emotivo del nostro narrare.
Non solo chiederci chi sia il protagonista, ma perché proprio lui. Non solo che cosa dobbiamo far succedere, ma perché vogliamo che quei fatti accadano. Qual è il nostro intento? Come deve uscirne il lettore?
Sto finendo di sistemare un racconto per un concorso. Forse non è il racconto giusto per quel concorso (chi mai può dirlo), ma credo sia uno dei miei migliori racconti. Alla fine il lettore deve avere le lacrime agli occhi e ragionare sul proprio concetto di eroismo. Non so se è quello che accadrà al lettore, ma è quello che voglio che accada. Il sentimento dominante è la malinconia. Il protagonista (e qui sta il difficile) non è chi compie l'azione, ma il morto su cui si indaga e riga dopo riga, nel ricostruire la sua storia, il lettore deve veder crescere la propria ammirazione per questo personaggio che pian piano si mangia il racconto e lascia i vivi in secondo piano.
Questi sono i miei obiettivi, che ci sia riuscita è un altro discorso, ma, secondo me, una delle cose più difficili e importanti dello scrivere un racconto è definirli prima.
La brevità obbliga alla chiarezza d'intenti.

Circoscrivere la trama e fare in modo che funzioni alla perfezione
Un romanzo può avere una lunghezza tendente a più infinito. Può arrivare alle migliaia di pagine o addirittura essere diviso in tomi da centinaia o da migliaia di pagine. Un autore può iniziare senza conoscere con precisione la mole finale della sua opera, sapere che, rispetto ai suoi standard, sarà "breve" o "lungo", ma senza quantificare meglio questo sentire.
Un racconto è per sua natura breve. Diciamo sotto le 100000/150000 battute (no, secondo me 100000 battute non sono un romanzo). Quindi bisogna decidere innanzi tutto cosa NON raccontare.
Ho pubblicato parecchi racconti ma ce ne sono infiniti altri che stanno nei miei cassetti, per i più vari motivi. Uno che non è rientrato nell'antologia doveva intitolarsi "tre cavalli sordi". Il titolo mi piaceva parecchio. La storia si svolgeva durante una gara equestre. La protagonista a un certo punto scopriva che uno dei concorrenti montava un cavallo sordo, addestrato in modo particolare e il rendersi conto che quello non era l'unico cavallo addestrato in quel modo le dava degli indizi per capire i legami tra i loro possessori. Il problema era che la storia era quella della protagonista, non quella dei cavalieri dei cavalli sordi né tanto meno dei cavalli. E non importava quanto bella fosse la storia dei cavalli, la vicenda doveva essere circoscritta. Doveva ambientarsi all'interno della gara, che era importante, perché parteciparvi era il sogno della protagonista da che era bambina. E solo uno dei cavalli sordi partecipava alla gara. Il secondo ci entrava di striscio. Il terzo e il suo cavaliere sono stati del tutto tagliati dalla versione definitiva. E il titolo è stato cambiato (infatti quello attuale fa schifo ed è uno die problemi del racconto). Il racconto nella mia testa è nato dalla storia dei cavalli, ma nel momento in cui ho deciso che la protagonista sarebbe stata l'unica donna a partecipare alla gara ho capito anche di dover tagliare qualsiasi svolta narrativa che non la riguardasse direttamente.
In un romanzo si può trovare spazio per tutto e per tutti, in un racconto no.
D'altro canto la trama circoscritta di un racconto deve funzionare alla perfezione. Lo scricchiolio di trama che in un romanzo passa inosservato in un racconto si impone come un elefante rosa all'occhio del lettore.
Ho molto amato Venere Privata di Scerbanenco, ma in quel romanzo c'è una delle svolte di trama più deboli che io abbia mai visto in un giallo. Il protagonista trova una rubrica della morta. Lui non è un poliziotto, è un medico radiato dall'albo appena uscito di galera che si impiccia in fatti che non gli competono. È nel migliore dei casi un tipo ambiguo, almeno a primo impatto. Sceglie un numero a casa, quello di una donna. È la testimone chiave, ha letto gli articoli riguardanti il processo per cui il protagonista è stato incarcerato (che si è svolto anni prima), riconosce immediatamente il nome di lui, lo collega agli articoli e decide di fidarsi ciecamente. Il tutto nel giro di una telefonata.
Ma Scerbanenco sa scrivere, ha creato una certa atmosfera, strizza anche l'occhio al lettore chiedendogli perdono e poi lei, la ragazza, Livia, è un personaggio così bello che pur di averlo in scena accettiamo anche questo ingresso grossolano.
In un racconto questa cosa NON SI PUÒ FARE.
Anche se non è un giallo, un racconto deve scorrere liscio e perfetto. 
Se il lettore dubita della coerenza interna di un avvenimento esce immediatamente dal racconto a livello emotivo. Non c'è stato tempo per creare quel patto duraturo di sospensione dell'incredulità, l'autore non ha un credito di credibilità da spendere. Scerbanenco si permette uno scivolone dopo più di cento pagine. Ormai o abbiamo abbandonato il romanzo o ci siamo affezionati al protagonista e vogliamo sapere come andrà a finire la vicenda. Livia entra in scena male ma non abbandoniamo la lettura per quello, perché l'autore ha lavorato così bene prima che gli possiamo perdonare un errore. L'autore di un racconto non ha lavorato abbastanza per farsi perdonare quindi non può permettersi di sbagliare.

Scegliere che cosa approfondire e cosa lasciare sullo sfondo
Quanti personaggi possiamo approfondire in un romanzo? Tutti quelli che vogliamo.
Quanti in un racconto? Uno? Due? Pochissimi racconti scavano davvero la psicologia di più di tre personaggi.
Questo, attenzione, non rende scrivere racconti più facile, ma più difficile.
È più difficile preparare una piccola valigia per un lungo viaggio, piuttosto che una grande. 
Ache quando abbiamo definito i nostri obbiettivi e la trama del racconto dobbiamo ancora scegliere. Immaginate. Sapete dove volete andare in vacanza e cosa volete fare, ma potete portare sono due paia di scarpe. Se le sbagliate saranno dolori.
Tanti racconti amatoriali, secondo me, cercano di fare tutto, essere né più né meno che dei romanzi bonsai. Il rischio è che ci sia tutto, ma trattato con superficialità.
Per la mia esperienza, in un racconto riesco ad approfondire non più di due personaggi. Gli altri rimangono sullo sfondo. E una sola tematica. Non più di due ambientazioni, tre se una è solo accennata. 
Mi sembra sempre di dover cucinare per un ospite importante potendo contare solo tre ingredienti. Se li ho scelti bene e li so trattare, però, possono bastare.

Ma alla fine, difficile o no che sia, tutti possono scrivere racconti?
Certo, ma dipende come e con che velleità.
Il racconto è come i cento metri rispetto alla maratona. Non tutti possono correre una maratona. Bisogna controllare cuore e muscoli e anche mettere in conto il tempo per allenarsi. A nessuno che sia sano di mente verrebbe mai l'idea di improvvisare una maratona, alzarsi dal divano per la prima volta e correre tutto d'un fiato quarantadue e passa km.
Cento metri li possono fare tutti senza ammazzarsi e senza riportare gravi danni. Ma non tutti possono competere alle olimpiadi per i cento metri. Bolt non è meno campione perché non corre le maratone, anzi.
Tutti possono scrivere racconti, ma scrivere racconti davvero belli è difficile.
Scrivere racconti memorabili è difficilissimo.
Non so se sia più difficile che scrivere grandi romanzi, purtroppo non scrivo cose memorabili, ma so per certo che i racconti di Borges o di Carver o di Buzzati o della Munro una volta letti non te li dimentichi più. E no, non è facile scrivere racconti del genere, così come non è facile diventare dei bravi centometristi.
Anche se, ovviamente, se non si è mai corso, è più facile farlo per centro metri piuttosto che per quarantadue chilometri.

lunedì 20 febbraio 2017

Profumo di primavera

Nell'aria c'è profumo di primavera, o, meglio, è iniziata la fioritura del nocciolo e io starnutisco, segno che è iniziata, se non la primavera, almeno la stagione dell'allergia.
Un attimo fa era settembre, con le sue rivoluzioni e ora ho già dovuto firmare per la maternità facoltativa, perché quella obbligatoria è agli sgoccioli.
La pupattola è cresciuta al punto che non la reggo più. Fisicamente. Giovedì mi è ceduto un polso. Credo che il problema sia strutturale. Oggi sono andata in farmacia a cercare una fascia. Il farmacista mi ha guardato il polso, lo ha misurato ed è andato a prendermi una fascia taglia 0, che mi sta larga. Più piccola c'era solo con gli orsetti e più o meno adatta ai coetanei della pupattola. Lei, poi, non ha decisamente la mia ossatura, iniziamo a presumere che sia imparentata con gli orsi e nessuno più si preoccupa che non mangi abbastanza. Non che sia ciccia, si badi bene, è solo grossa, più lunga di quanto previsto dalle tabelle di crescita e proporzionata di consistenza. 
Quindi sali le scale con lei in braccio, scendi le scale con lei in braccio, sistema le cose con lei in braccio, sali e scendi le scale con lei all'interno dell'ovetto, alla sera scopro l'esistenza di muscoli a me ignoti e bramo il fine settimana per mollarla, fisicamente intendo, al marito. Se dovessi dare un consiglio, adesso come adesso, a una futura mamma adottiva, me ne uscirebbe uno dal cuore: fai palestra, cerca di arrivare fisicamente preparata, perché i figli sono un peso, letteralmente!
Muscoli doloranti a parte, il nuovo passeggino da sterrato ci ha cambiato la vita e ora ci sentiamo padrone delle colline, con il corso di acquaticità da poco iniziato per l'estate contiamo di diventare anche padrone dei laghi. 

È una vita strana questa, con dei ritmi a cui non ero abituata. Le pappe e i biberon scandiscono il tempo, con un ritmo quasi da monastero (fortuna che abbiamo ormai abbandonato il latte di compieta). Ascoltiamo oziose le chiacchiere al bar con un mezzo sorriso sotto i baffi a chi si lamenta delle palme in piazza Duomo a Milano che "non sono tipiche" quando qui fino a qualche decennio fa la palma era segno di ricchezza e ce n'è una praticamente in ogni giardino (a un certo punto, suppongo, devono essersi svalutate).
Questa sensazione di essere in una bolla oziosa dove le notizie sono i nomi dei nuovi vitelli del pastore o l'apertura, dopo tanto tempo, di un ristorante in paese, mi piace ma a tratti mi sta stretta. Mi manca un poco il contatto col mondo, con i ragazzi e i colleghi. A settembre mi darò della cretina per aver solo osato formulare questo pensiero, ma forse è anche questa l'essenza della primavera. Un risvegliarsi del pensiero, degli interessi, della voglia di fare. Ora, appunto, non c'è più la compieta del biberon e anche il mattutino si svolge in orari più umani, c'è la possibilità di pensare. 
La maternità impone gesti lenti ma continuativi e in mezzo si insinuano i pensieri, abbozzi di trame, desiderio di scrivere o riscrivere. Si insinua poco il tempo per farlo, ma se una cosa mi hanno insegnato le storie è che, se sono forti, trovano comunque un modo di farsi strada. Magari prenderanno la forma di filastrocche per la pupattola, magari di racconti o addirittura di romanzi. Ancora non so. Nell'aria c'è profumo di primavera, ma ancora non è sbocciata.
Per il momento faccio sollevamento bimba, ascolto le chiacchiere al bar e starnutisco.

sabato 18 febbraio 2017

Istantanee dal Leynlared by Viola

In questi giorni gira il bel meme iniziato da Silvia. L'idea è quella di mostrare delle cartoline inviateci dai nostri personaggi. Il problema è che i miei mi riempirebbero quasi di sicuro di insulti. A parte Holmes e Watson, che maltratto certo, ma solo in limiti ragionevoli e comunque permetto anche loro di fare quel che più amano, risolvere dei crimini, gli altri miei personaggi potrebbero farmi causa per quel che tiro loro addosso. Preferisco evitare che si rivolgano direttamente a me e che prendano coscienza della loro natura di personaggi (troppo Pirandello in età adolescenziale deve avermi segnato). 
In compenso la bravissima Viola è andata come reporter nel Leynlared e nelle zone limitrofe e ha scattato alcune foto da cui ha tratto delle splendide illustrazioni.

Mappa di Valeria De Caterini,
la bravissima illustratrice delle antologie RiLL
Il Leynlared e le sue vicinanze è la zona del mio mondo mentale in cui sono ambientati gran parte dei miei racconti fantasy, compresi i quattro racconti finale dell'antologia La Spada, il Cuore e lo Zaffiro.

Dapprima Viola si è recata a sud nell'Impero di Mar-Tial e si è imbattuta nel racconto Elisandre, che potete leggere qui


Tre giorni dopo, quando giunsero al monastero, la bambina aveva fatto amicizia col cavallo e sedeva in sella davanti a Morn con in mano Tippy due. Era solo un sasso ricoperto di stoffa su cui erano stati disegnati due occhi e una bocca col carbone, ma se la bambina l’aveva promossa a bambola, bambola era.

Poi Viola si è recata a Nord, nel Leynlared, da qualche parte nella Ley del centro e si è imbattuta in Quello che gli uomini sognano, un racconto che è stato per qualche tempo on-line e ora si trova nell'antologia. Il protagonista è Amrod, lo stesso giovane che la bravissima Valeria De Caterini ritrae in copertina.

“Ehi, cosa vuoi per cena?”
La voce che aveva parlato era giovane e riscosse lo straniero dal suo quasi sonno. La cameriera fu una sorpresa. Più che graziosa, quasi elegante. Poteva avere al massimo sedici anni, ma sotto gli abiti si indovinava un corpo già da donna. Aveva un viso pulito, cosa notevole considerata la locanda, illuminato dal sorriso delle labbra sottili e gli occhioni verdi. Anche i capelli erano puliti, ricci, rossi, ribelli.

A questo punto non posso che ringraziare moltissimo Viola, che ha la mia ammirazione sconfinata, e invitarvi tutti nel Leynlared attraverso la mia antologia.
L'antologia è in questi giorni disponibile anche allo stand di Rill a BUK, a Modena, stand 8

giovedì 16 febbraio 2017

Seguendo la cometa 13 – Sognando l'Africa


Il che dimostra come le adozioni internazionali a volte si complichino senza che gli enti ci mettano lo zampino. Entrambi questi eventi sono capitati prima che noi scegliessimo un ente, anzi, quello dell'Etiopia molto gentilmente al telefono mi disse che non era proprio cosa e che non avevano intenzione di spillarmi denaro per tenermi anni in stallo. Le famiglie che però avevano già depositato la documentazione hanno vissuto dei gran brutti momenti. Adesso per entrambi questi stati le cose sembra che abbiano riprese a muoversi, ma si sono persi dei mesi, in alcuni casi ad abbinamenti avvenuti. Insomma, quando ci si lancia nell'adozione internazionale si è proprio un po' in balia del caso, perché tutto può accadere.

martedì 14 febbraio 2017

Il lungo viaggio dei miti

A casa mia si legge Le Scienze. 
Prima una madre biologa e poi un marito farmacista. Le Scienze per me è parte del normale arredo di casa, una cosa che do quasi per scontata, come che ogni giorno si debba cenare. Io non leggo tutti gli articoli, ma sono affascinata dall'infinitamente piccolo, sono cresciuta con la biologia e l'etologia e sono deliziata dall'evoluzione umana e dagli articoli più attinenti con quello che fu il mio campo di studi, l'archeologia preistorica.
Questo mese, però, c'è un articolo di Julien d'Huy che ha deliziato la narratrice che è in me.
Che alcune storie mitiche si ripetessero quasi uguali in popolazioni molto diverse è un fatto noto da tempo. Jung spiegava questo fatto con "l'inconscio collettivo", un inconscio simbolico condiviso da tutti gli uomini, derivato forse da comuni antenati.
Un approccio un po' più analitico ha fatto osservare che alcuni miti, come quello della "grande caccia", in cui un cacciatore sta per uccidere un animale che scopre però essere un suo parente/una creatura sacra e viene fermato da una divinità che trasforma cacciatore e animale in costellazione è presente in Africa, in Europa, in America del Nord, in alcune regioni dell'Asia, ma non in Australia (dove non c'è alcun canguro celeste). Gli animali cambiano di poco, o sono orsi o sono cervi o simili e anche le costellazioni interessate sono sempre quelle, Orione per il cacciatore, l'Orsa Maggiore per l'animale, qualche volta si inseriscono le Pleiadi. 
Secondo gli studi paleontologici, la migrazione che ha portato l'uomo moderno in Australia è avvenuta prima di quella che ha portato l'uomo dalla Siberia al Nord America. 
L'ipotesi di lavoro è quindi che il mito della Grande Caccia si sia creato in un qualche momento tra la migrazione in Australia (indicativamente 60000 anni fa) e quella in America (indicativamente tra 28000 e 13000 anni fa in più ondate) e abbia viaggiato insieme ai migranti, trasformandosi e adattandosi all'ambiente che essi trovavano, fino ad arrivare fino a noi.
Lo studio è stato poi applicato ad altri miti che in base all'area di diffusione sono stati messi in relazione con le migrazioni umane per cercare di capirne l'età e l'origine.

La cosa che trovo estremamente affascinante è che noi continuiamo a raccontarci storie che hanno almeno 20000 anni, se non di più. Nate in un'epoca in cui ancora i mammut calpestavano la terra e i Neanderthal abitavano l'Europa e che tuttavia ancora ci parlano e ci raccontano qualcosa di noi.
Il mito della Grande Caccia ci sembra lontano, appartiene a un mondo perduto in cui la sopravvivenza derivava dalle prede catturate e sentiamo tutti i millenni che ci separano da quel tempo. Un'altro dei miti analizzati, però, si è rivelato assai antico e moderno insieme.
Diffuso anch'esso più o meno ovunque ad eccezione dell'Australia ha almeno 30000 anni e pare nato da qualche parte verso l'attuale Somalia. Parla di un uomo che, per alleviare la propria solitudine, scolpisce una statua dalle fattezze di una bellissima donna e tramite la magia/l'intervento divino la statua prende vita, con esiti a volte lievi, a volte nefasti.
Frankestein? 
O il recentissimo film Ex Machina che di fatto riprende quasi paro paro la versione primigenia del mito.
Mi ha colpito l'idea che oggi si possa andare al cinema a vedere una storia che gira da 30000 anni. 
Ho pensato a quante futili siano le divisioni che oggi ci paiono insormontabili. Se è 30000 anni che ci raccontiamo sempre le stesse storie è perché l'umanità è evidentemente sempre uguale a se stessa. All'epoca dei mammut e dei cacciatori raccoglitori sognavamo ed avevamo paura di creare un uomo artificiale, esattamente come ora. Poco importa se allora a dargli autocoscienza erano gli dei e oggi l'informatica. Se tornassimo indietro a quel tempo, quindi, tolte le barriere linguistiche non troveremmo persone tanto diverse da noi, addirittura scopriremmo di avere già una mitologia comune.
Quindi non venitemi a dire che non potremo mai capire chi ha una diversa origine, una diversa religione o una diversa cultura perché "sono diversi". Siamo sempre noi, esseri umani, che intorno al fuoco o seduti sulle comode poltrone di un cinema ci raccontiamo le stesse storie di sempre.

Tutto ciò mi ha fatto pensare anche all'intrinseca forza delle storie. Se questo studio ha ragione (è una ricerca agli inizi, di cui questo articolo è una delle prime pubblicazioni), qualcuno in Somalia, circa 30000 anni fa, forse prima, ha raccontato una storia che è piaciuta così tanto che qualcun altro, spostandosi l'ha rinarrata. Di gruppo in gruppo, di villaggio in villaggio, qualcuno ha aggiunto qualcosa o ha cambiato un nome. La donna scolpita nel tronco di un albero sacro è diventata qui una statua di pietra, là un'effige d'argilla. Da qualche parte la donna e l'artista vivevano felici, altrove hanno preferito un finale drammatico. Eppure qualcuno ha avuto l'idea, ha narrato per primo la storia che oggi ancora circola. Credo sia un pensiero che metta nella giusta prospettiva le nostre misere velleità letterarie. Noi cosa sogniamo, 100 lettori, 10000 lettori, 10000? Valer due righe su Wikipedia? Che misera forza possono avere, anche nel migliore dei casi le nostre storie rispetto a quella del cacciatore africano di 30000 anni fa!
Oppure, magari, storie simili nascono ancora. E non sono, si badi bene, grandi opere letterarie, ma nude storie, che i padri raccontano ai figli e questi ai loro figli e così via. In non so più quale film si presentava un futuro post apocalittico in cui i sopravvissuti, intorno al fuoco, si raccontavano e mettevano in scena Guerre Stellari. Ecco, se penso alle storie di oggi che possono avere la forza di sfidare la storia e essere raccontate e riraccontate, penso più al cinema popolare che alla letteratura. Penso che tra mille anni è più probabile che girino ancora delle versioni di una complicata relazione che finisce con una donna che dice "domani è un altro giorno", o di un cattivo mascherato che, sfidando il giovane eroe a duello gli riveli "io sono tuo padre", piuttosto che i così detti grandi romanzi.

Al di là delle mie divagazioni sui miti che potranno sopravvivere tra mille o diecimila anni, questo articolo mi ha profondamente affascinato e anche consolato, col pensiero che, oltre qualsiasi barriera geografica e culturale, potremo sempre riconoscerci nelle nostre storie archetipe, e volevo condividerlo con voi.

sabato 11 febbraio 2017

Due parole sulla scuola e gli universitari analfabeti


Un cucciolo d'uomo in casa impone ritmi lenti, cosicché si arriva in ritardo su tutto, anche sulle polemiche. Pochi giorni e il dibattito sugli docenti universitari che denunciano il sostanziale analfabetismo di molti studenti è già montato, si è sgonfiato ed è già sulla via del dimenticatoio. Tuttavia, essendo io, tra le altre cose, un'insegnante, ci tenevo a dire la mia.

Una percentuale non indifferente di studenti universitari fanno errori grammaticali che sarebbero gravi in terza elementare? Sì

La scuola ha delle colpe? Sì

La scuola ha delle gravissime colpe, riassumibili in due punti principali.


IL PRECARIATO

Il sistema delle graduatorie per gli aspiranti insegnanti è delirante e fino a questo momento ogni tentativo di migliorarlo lo ha di fatto peggiorato.
Ogni anno rimangono migliaia di cattedre vacanti (circa duecento in media solo nella mia provincia) i provveditorati si muovono per riempirle, attingendo ai precari sono ad anno scolastico iniziato. Se va bene convocano tutti gli aspiranti, se va male ogni scuola contatta singolarmente gli insegnanti. Questo porta a un caos generalizzato che spinge i precari ad accettare il primo posto che viene loro offerto, con buona pace della continuità didattica. Tranne pochi casi fortunati, quindi, significa per lo studente perdere i primi giorni di lezione e avere un insegnante diverso rispetto a quello dell'anno prima. Due insegnanti ugualmente validi avranno comunque metodi differenti, inoltre serve un certo periodo di assestamento per conoscere una classe. Nel migliore dei casi, quindi, si perdono 15/20 giorni aggiuntivi di lezione.
Il caos di queste nomine fa sì che nel 90% dei casi ci siano errori. Nel restante 10% dei casi le graduatorie vengono aggiornate ad anno in corso oppure il governo introduce una qualche nuova norma di cui tenere conto. In ogni caso la prima nomina non è definitiva, è su "avente diritto". Tra ottobre e gennaio vi è di solito un'altra tornata di nomine che causa inevitabilmente altri spostamenti di insegnanti. Altri 15/20 giorni di assestamento. In anni particolarmente sfortunati le tornate di nomine sono di più, regole improbabili obbligano i docenti ad accettare posti fuori regione con preavvisi minimi. Alcuni di questi docenti si trasferiscono, altri cercano ogni escamotage per evitarlo. Non è così raro vedere classi che iniziano a tutti gli effetti i programmi dopo Natale. Perdendo quasi metà anno scolastico. Come volete che apprendano i ragazzi in queste condizioni?

Un altro punto dolente è la valutazione dei docenti e dei precari in particolare, categoria a cui ho fatto parte fino a ieri e quindi lungi da me fare di tutta l'erba un fascio, ma guardiamo in faccia alla realtà.
Ammettiamo anche che gli insegnanti abilitati siano tutti molto validi, il fatto che per molti anni non ci siano stati modi per abilitarsi fa sì che le scuole attingano alla così detta "terza fascia".  Alla terza fascia si accede solo con la laurea. Di più. Con l'autocertificazione della laurea. Io sono uno delle poche ad aver avuto il controllo a campione dei titoli, ma c'è gente che insegna da anni con come unico titolo la propria dichiarazione di essere laureato e di aver dato gli esami richiesti. So per certo di insegnanti che non sono in regola con gli esami (anche perché le regole sono cambiate in corsa). Ora, alcuni degli insegnanti migliori che io conosca sono tutt'ora in terza fascia e tutti siamo partiti da lì, ma la terza fascia è un marasma senza controllo dove girano dei totali incompetenti come mine vaganti. 
Chi vi è inserito da poco finisce sbattuto in classe ad anno iniziato, spesso senza una parola sulla situazione dei ragazzi, senza la minima preparazione in pedagogia o psicologia. Io mi sono comportata in modo terribile, nei miei primi anni, per pura inesperienza nel trattare con dei ragazzini. 

Ora, in queste condizioni, come può esserci un insegnamento di qualità?


LA SVALUTAZIONE DELLA SCUOLA

In una delle mie prime esperienze scolastiche ho avuto una preside che era un'istituzione. Chiunque bazzicasse il mondo della scuola in provincia la conosceva per nome. 
Come spesso capita nella scuola italiana, in una delle classi in cui insegnavo eravamo quasi tutti precari e lei al primo consiglio di classe ci disse:
"Se pensate di dover bocciare un ragazzo dovete iniziare a muovervi a novembre".
Qualcuno obbiettò che non si poteva certo decidere a novembre il destino di un ragazzo conosciuto a settembre. Lei rispose che non si trattava di prendere una decisione, ma di pararsi le spalle. Eravamo giovani, precari e quindi più attaccabili. Se non si voleva incappare in un ricorso o in una denuncia da parte della famiglia bisognava avere prove documentate di aver fatto tutto il possibile per salvare il ragazzo e avvisare la famiglia. Bisognava aver mandato tot lettere a casa, averlo inserito nei corsi di recupero, avergli offerto tot possibilità di rimediare, recuperare, riprendersi. Insomma, per essere tranquilli bisognava muoversi a novembre. In caso contrario, se poi a giugno ci fosse stata una bocciatura e la famiglia avesse avuto da ridire, saremmo stati noi dalla parte del torto.
Non è questa la sede per discutere se la bocciatura alle medie possa servire oppure no, ma sono abbastanza sicura che la promozione non possa essere un atto dovuto. Né che le famiglie possano imporre la promozione attaccandosi a una lettera non ricevuta, a prescindere dal rendimento del ragazzo.
Oltre tutto stiamo parlando di dieci anni fa. Ora ci sono genitori che muovono guerra non per un rischio bocciatura, ma per un'insufficienza. Una singola insufficienza e te li trovi a minacciare. Ora, io sono dislessica, nessuno più di me sa che è necessario diversificare la didattica, offrire una valutazione formativa e delle prove che possano essere svolte. Tuttavia è ora di far capire anche che un 4 significa "così non va", ma non è la fine del mondo.
Sempre che la lamentela sia per un insufficienza.
Il momento più critico della mia carriera di insegnante, anni fa, ben prima della scuola col pontile, l'ho avuto per un sei. Una sufficienza. Ma il ragazzo, secondo la famiglia, si meritava di più. Il voto lo aveva depresso e scoraggiato. Famiglia influente, minacciate le vie legali. Che si fa in questi casi? Sei giovane, sei precaria, che potere hai? Inizi una guerra impari o regali il 7 e non ci pensi più? 
Molti genitori pensano che il loro dovere sia salvare i figli da ogni dolore e ogni frustrazione, spianando loro la strada e pretendendo traguardi che dovrebbero essere conquistati con l'impegno come atti dovuti. 
Si può e si deve rendere l'insegnamento più interessante, anche divertente, ma c'è una parte di impegno e di fatica che non si può togliere. E certi traguardi non possono essere regalati.
Se alle elementari e alle medie è necessario tener conto di tutti gli effetti psicologici che una valutazione negativa può dare, questo non può continuare in eterno. 
Non so voi, ma io non voglio attraversare un ponte progettato da un ingegnere divenuto tale "perché  se no ci rimaneva male", né essere operata da un chirurgo laureatosi "perché se no ne avrebbe avuto un danno psicologico". Ci dev'essere un momento, possibilmente prima della laurea, in cui si accetta il fatto che alcuni traguardi vanno conquistati, oppure non si otterrà mai quel dato titolo.
Dobbiamo però cambiare la percezione che abbiamo della scuola. Dobbiamo iniziare a dire ai ragazzi anche che la fatica è inevitabile e che l'impegno è un valore.

Quindi sì, molti studenti universitari sono di fatto analfabeti.
La cosa non mi stupisce per nulla.
La scuola ha enormi responsabilità in questo.
Tuttavia la questione non è semplice né risolvibile con un manicheismo alla buona (tutti gli insegnanti sono incapaci oppure tutti i ragazzi sono sfaticati).
Sia le istituzioni che la società civile dovrebbero avere il coraggio di guardarsi negli occhi e decidere una buona volta che futuro vogliono per le nuove generazioni e agire di conseguenza.
Considerare la scuola come una mera fonte di spesa, gli insegnanti in toto dei fannulloni (senza un valido sistema di controllo), non preoccuparsi dei problemi strutturali, svalutare in generale la cultura e il tempo necessario per padroneggiarla, pensare che sia più importante salvare i ragazzi dalla frustrazione che non dall'ignoranza ha portato a questa situazione.
La lettera dei docenti universitari, purtroppo, influirà ben poco su questo stato di cose.
È già polemica di ieri, quasi dimenticata.

mercoledì 8 febbraio 2017

Seguendo la cometa 12 – Misteriosi Enti

... Ed è il motivo per cui neppure io chiamerò gli Enti Abilitati con cui sono venuta in contatto per nome, per quanto assurda mi sembri la cosa...

lunedì 6 febbraio 2017

SRDN, dal bronzo e dalla tenebra – Il fantasy italiano che aspettavo

Eccolo, finalmente, il fantasy italiano che aspettavo di leggere da decenni.
Intendiamoci, negli anni ho letto delle belle cose scritte da italiani anche in ambito fantastico. Aislinn e Tarenzi hanno sdoganato un urban fantasy italiano e maturo, che leggo con piacere. Io, però, ho sempre preferito un fantasy in grado di portarmi totalmente in un mondo altro, senza relazioni immediate col presente. Per quanto mi piacciano i treni che partono dai binari 9 e 3/4 o l'idea che girando per Milano ci possa imbattere in dei o angeli caduti, il mio animo sogna da sempre territori in cui la natura la faccia ancora da padrona e il meraviglioso o il tenebroso abitino il cuore oscuro delle foreste millenarie. Bonus aggiuntivo è, per me, quando questo mondo altro prenda spunto da leggende o tradizioni esistenti, giochi con queste tradizioni e il loro contesto storico. Tra i libri che hanno segnato la mia adolescenza ci sono, ad esempio, due rivisitazioni, molto diverse tra loro, ma ugualmente affascinanti, dei miti arturiani, La grotta di cristallo di M. Stewart e Le nebbia di Avalon di M. Zimmer Bradley. 
Possibile, mi chiedevo, che nessuno o quasi in Italia facesse un'operazione simile, attingere al nostro ricco patrimonio di leggende per intessere una storia sospesa tra passato mitico e totale fantasia e che questa fosse oscura e adulta come molte delle nostre leggende sono. Perché, oltre tutto, una cosa che detesto è il ridurre il fantastico a mera favola per bambini, frullando una mitologia che spesso e volentieri gronda sangue per adattarla al palato di quelli che vengono considerati i fruitori naturali di fantastico
Andra Atzori fa esattamente quello che ho sempre sognato un autore italiano facesse, dimostrando che la Sardegna è la nostra Terra di Mezzo. Del resto, ho pensato prendendo in mano questo romanzo, da tempo già sappiamo che la Sardegna è la nostra terra di frontiera, perfetta per reinventare il western. Perché quindi non il fantasy?

Si parte da un evento che quasi solo noi archeologi ricordiamo. L'Egitto, sotto i regni di Ramesse II,   Mermptah e soprattutto Ramesse III, sconfisse (secondo gli egizi) o più probabilmente evitò con un po' di fortuna l'invasione da parte dei misteriosi Popoli del Mare. Le cronache egizie riportano i nomi di tali popolazioni, tra cui gli Shardana, che si presume fossero i sardi. Cosa accadde poi a questa armata di invasione, che gli archeologi mette in relazione con una serie di migrazioni e guerre e segnarono la fine di molte grandi civiltà dell'età del bronzo, non è dato sapere.
Atzori riempie il vuoto. All'alba dell'attacco decisivo all'Egitto un oscuro presagio richiama in Sardegna il capo della flotta, Karnak. Qui finisce la storia e inizia la fantasia. 
Il lettore scopre così che i nuraghi, o almeno alcuni di essi, sono dei sigilli posti su una frattura del mondo che da verso il "regno dell'Oltre" da cui demoni/giganti fuoriescono e solo un pastore folle, condizionato da un rito crudele ma indispensabile può renderli inoffensivi. Uno dei sigilli, però, è crollato, il pastore si è perduto e gli Incubi dell'Oltre stanno falcidiando i villaggi. La grandezza dei Shardan è finita, ma Karnak e i suoi compagni forse possono ritrovare il pastore e sigillare nuovamente la frattura.
Inizia quindi una cerca in una Sardegna oscura, segnata da una ritualità crudele, ma che ben si adatta alle logiche brutali della tarda età del bronzo.
Un mondo, quello tratteggiato da Atzori, che mi ha profondamente affascinato. Difficile, del resto, non subire il fascino del Meredeùle, il pastore folle che percorre la Via seguito dal suo gregge di Incubi.
Se ho un rammarico è che un tale mondo venga utilizzato per una vicenda che si dipana troppo veloce per permettere un pieno approfondimento dei personaggi coinvolti, tanto che i compagni di Karnak, con l'eccezione della sacerdotessa Saurra, rimangono solo abbozzati. C'è anche da dire che alle mie antenne di paletnologa è stato subito chiaro quale fosse l'unico modo per chiudere il sigillo, togliendomi un po' di  sorpresa (ma non di impatto emotivo), ma questo non è un difetto.

Essendo io, appunto, una paletnologa, sia pure in disarmo, un discorso a parte merita l'ambientazione, così insolita. Sul suo blog, presentando il romanzo, l'autore mette le mani avanti dicendo di aver voluto scrivere un romanzo fantastico e non una storia "archeologicamente corretta". Ebbene, partendo dall'assunto che si tratta di fantasy che affonda nella storia e non un romanzo storico, l'archeologa, qui, ha ben pochi appunti da fare, giusto due quisquiglie. Avrei evitato il termine "fenicio", prematuro nel XIII sec a.C. e mi ha lasciato un po' perplessa la scelta di mettere in bocca i protagonisti un sardo riconoscibile, davvero troppo moderno alle mie orecchie. L'autore però ben giustifica la sua scelta nella nota finale, dopo tutto è bene sottolineare che ci sono fior fior di romanzi con pretesa di storicità, con ambientazioni molto più facili e ben documentate che mi hanno fatto rizzare assai di più i capelli.

Da leggere, quindi, e da sbattere in faccia a chi dice che l'Italia non ha una tradizione fantastica. 

venerdì 3 febbraio 2017

In un altro tempo, un'altra storia – Scrittevolezze

Ragionando su "I duellanti" mi sono accorta che la vicenda non avrebbe potuto svolgersi in altro tempo che le guerre napoleoniche. Solo in quel momento due persone di estrazione sociale così diverse avrebbero potuto trovarsi ad essere ufficiali nel medesimo esercito e quindi a scontrarsi per anni, scoprendosi quasi complementari. Oggi uno farebbe carriera in ufficio, magari in banca, l'altro sarebbe uno sbandato da bar. 
Credo che così funzioni nella realtà. In un altro luogo, in un altro tempo, le nostre storie sarebbero ben diverse, i destini non si potrebbero incatenare nel medesimo modo. In un altro tempo, temo, avrei fatto una brutta fine come eretica e strega o semplicemente non avrei raggiunto i cinque anni di vita, vittima della mortalità infantile. In letteratura, invece, è vero solo in parte. Ci sono storie più o meno eterne, archetipi validi in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, pensiamo a Romeo e Giulietta e agli infiniti adattamenti di cui l'opera è stata oggetto. Alcune opere rivelano la propria attualità proprio perché, riadattate per un altro tempo rivelano una forza sorprendente proprio nel mantenere il proprio meccanismo drammatico (Cuore di tenebra/Apocalypse Now). Altre storie, invece, sono incatenate al proprio tempo e in un altro contesto suonerebbero assai diverse. Oggi voglio giocare con queste e immaginare come sarebbero in un'altro luogo e/o in un altro tempo.

A questo gioco, l'anno scorso, hanno primeggiato i miei alunni, inventando un "I promessi sposi" alternativo in cui Renzo e Lucia volevano aprire un'attività insieme, ma venivano osteggiati dal rivale Don Rodrigo che temeva la concorrenza e sopratutto la professionalità di Lucia. Come hanno fatto notare loro, oggi non si sogna più il matrimonio, ma il posto di lavoro...

Queste invece sono le mie storie in altro tempo:

Le infinite chat di Jacopo Ortis
Jacopo è uno studente fuori corso, dagli amori infelici e dalla vaga militanza politica (deluso dalla situazione italiana si avvicina a vari gruppi politici via via più estremi). Esterna i suoi pensieri tramite  interminabili chat wa e fb con l'amico Lorenzo. Alla fine non si suicida, perché oggi nessuno più si uccide per una donna e per la patria, ma è Lorenzo che lo banna da Fb. L'esclusione dai social, ormai equivale alla morte fisica.
Un romanzo sperimentale, che fa letteratura del modo di comunicare che hanno i giovani e che descrive la deriva morale di una generazione allo sbando.

L'Iliade – un'epopea di mercenari e regole d'ingaggio
Le guerra in medio oriente, purtroppo, non sono mai finite e Achille partecipa a una di queste. È un mercenario infantile quanto spietato. Al primo screzio con il suo superiore si rifiuta di continuare a combattere, appellandosi alle regole d'ingaggio. Non è d'accordo il suo amico Patroclo che a capo della pattuglia che avrebbe dovuto essere Achille a guidare, viene ucciso da Ettore, il capo dei ribelli. L'attenzione dell'autore si rivolge quindi su quest'ultimo che si rivela non un terrorista assetato di sangue, ma un uomo con un suo codice morale, intento a difendere la propria terra. 
Un'opera controversa e di rottura, che affronta di petto l'attualità e ha il coraggio di mostrare le forze armate occidentali come un branco di feroci assassini e le ragioni dei nemici.

Amleto – Fantasmi informatici
Alla morte di un magnate dell'informatica, il controllo dell'azienda passa a Claudio, il suo vice.
Tornato per le esequie, Amleto, figlio del defunto, si convince che il padre abbia lasciato un messaggio nascosto nelle stringhe di programmazione del suo ultimo prodotto in cui accusa Claudio di voler attentare alla sua vita.
Amleto è una figura problematica, eterno studente dedito all'uso di droghe, schiacciato dalla fama del padre, alla sua età già riconosciuto genio dell'informatica. C'è del fondamento nei suoi sospetti o si tratta del delirio di un figlio trascurato, la cui unica colpa è sempre stata la normalità? E se anche Amleto avesse ragione, cosa prevarrebbe, la giustizia o il bene dell'azienda? Polonio, che si occupa del marketing, non ha intenzione che un'ombra gravi sul band proprio nel momento del lancio di un nuovo prodotto. Che Amleto abbia o no ragione, il giovane va messo a tacere.
Amleto viene quindi rinchiuso in una clinica con la scusa di volerlo disintossicare dalle droghe di cui fa uso, mentre Polonio diffonde ad arte la voce della sua follia.
Il romanzo mantiene l'ambiguità sul presunto omicidio del padre di Amleto, ma, del resto, in un mondo in cui tutto è immagine, la verità non interessa più a nessuno. Amleto diventa quindi una vittima sia della fama del padre che degli spietati meccanismi dell'industria, un'anima pura alla ricerca della verità in un'epoca in cui la verità non ha più ragione d'esistere.

Queste sono le mie altre storie in altro tempo, a chi altro va di giocare?

(PS: immaginatevi il mio Amleto moderno caratterizzato come una sorta di Lapo Elkann, dai comportamenti imbarazzanti per l'azienda e difficile da prendere sul serio qualsiasi cosa dica o faccia)

mercoledì 1 febbraio 2017

I miei primi pensieri – pappe e omicidi



Mi cimento anch'io con l'invito di Chiara sulla scrittura di getto "I miei primi pensieri". Da qui in poi quel che viene viene e che il dio dei refusi abbia pietà (darò una rilettura, però, perché io sono accecata, ma la mia dislessia ci vede benissimo).

È iniziato lo svezzamento a casa Tenar e cucino pappe e delitti. Preparare le pappe obbliga a gesti precisi, scelte consapevoli tra innumerevoli filosofie, molte delle quali neppure pensavo esistessero. C'è l'autosvezzamento, che da quel che ho capito in teoria consiste nel lasciare che la natura faccia il suo corso, si lascia che il bimbo assaggiucchi quello che gli capita a tiro. Nella prassi bisogna essere sicuri che ciò che gli capita a tiro vada bene e il rischio è che si mangi tutti come neonati. Alla mia pediatra piace, comunque. Gli omogeneizzati sono il male, questo l'ho capito, tranne che per le ditte che li producono, che comunque sul sito ti mettono le ricette per fare tutto da sola, solo che sono studiate in modo tale che al terzo passaggio già ti passa la voglia e corri a comprare il prodotto pronto. Io provo a naso, sperando di metterci buon senso. E niente sbuccio la mela e penso a chi o cosa posso ammazzare in un racconto. Cucinare, muovermi tra i fornelli, lavorare con gli alimenti mi piace e mi fa venir voglia di pensare. Solo che pensare vuol dire pensare a una storia. Io le storie le rubo. Nel senso che sento una cosetta qui, una cosetta là e poi le metto insieme. Come quando faccio la torta salata, che è mia, ma intanto la sfoglia l'ho presa già pronta, la mozzarella non l'ho fatta in casa, giusto giusto cuocio io la verdura (ma se è già pulita è meglio). Così nascono le mie storie, con cose già fatte che assembro. Quindi ieri ho letto una recensione su un film il cui protagonista è un giovane disturbato che potrebbe essere un serial killer, perché ero un po' stufa di leggere di svezzamento e sono finita su un sito che assai mi piace di cinema, I 400 calci, anche se parla di film che al 90% non vedrò mai. Prendere un'idea da una recensione di un film che non guarderò mai non è diverso che usare la sfoglia Buitoni per la torta di verdura, credo. In ogni caso mi viene in mente un titolo.
Un giorno ucciderò qualcuno.
Penso che c'è un'età, intorno ai sedici anni, in cui chiunque può diventare ancora qualunque cosa, compreso un serial killer. O una brava persona. E non è così facile capire chi diventerà l'uno o l'altro. Mi sembra una buona idea per un racconto. Mi piacerebbe usare la prima persona, la voce narrante di un adolescente disturbato a cui una perizia psichiatria prospetta un fosco futuro. Ma non è detto che questo fosco futuro si realizzi, magari è quello ammirato da tutti a nascondere un segreto più oscuro.
Intanto devo ammorbidire la mela e penso alle infinite possibilità della giovinezza, anche a quelle della pupattola, sperando che lei non mi diventi un serial killer. Ho un sottofondo di musica classica, Il ballo in maschera, forse la mia opera preferita, ma anche quella è una storia di delitti, sotto melodie fintamente allegre. A lei sembra piacere (le piace un sacco, la classica, l'altra sera, per la presentazione, ho lasciato il marito in ostaggio de Le nozze di figaro, non è riuscito a metterla a letto se non a opera finita e il marito non è esattamente un melomane). 
Pappe, delitti immaginati e musica classica, il Cielo solo sa cosa ne verrà fuori.

Ecco qua. Quindici minuti non consecutivi di scrittura libera. Quindici minuti consecutivi sono utopia, quindi è stata una scrittura di getto del tipo: due frasi, raccolgo un sonaglio, due frasi, canto una canzoncina, due frasi sistemo la tapparella perché le va il sole negli occhi. Frasi gettate negli interstizi del tempo, più che scritte di getto.  Alla fine credo che ne sia uscito uno spaccato piuttosto realistico del mio pomeriggio.