martedì 27 ottobre 2015

La mano sinistra delle tenebre – riletture (retrospettiva Le Guin)


Dopo il post dedicato alla saga di Earthsea e a quello sul romanzo fantascientifico I reietti dell'altro pianeta, siamo arrivati a quello che è il romanzo che in assoluto amo di più della mia autrice più amata.

Avevo sognato di scrivere questo post con calma, in un pomeriggio ozioso, con una tazza di the in mano, scegliendo le parole a una a una. Ma è il tempo che sceglie noi e non viceversa, quindi tra lo splendido (ma impegnativo) Girolago Bimbi di domenica, il collegio docente e la riunione di programmazione, si rubano i minuti dove si può, scrivendo più d'istinto che di testa.

La mano sinistra delle tenebre. Difficile raggrumare in poche parole coerenti l'intrigo di suggestioni, emozioni e pensieri di un libro che mi ha colto di sorpresa, rivelandosi diverso da qualsiasi altra cosa avessi letto, tutt'altro rispetto a quello che mi aspettavo, imprimendosi con forza non solo nel mio immaginario, ma nel mio modo di vedere il mondo.

Quando parliamo non tanto o non solo di un capolavoro riconosciuto, ma di un affetto, c'è tanto di emotivo, individuale e circostanziale.

Estate 2003. Chi non la ricorda? L'estate passata alla storia come la più calda di sempre. Ha segnato per sempre il mio ingresso nell'età adulta. Mia madre è stata sottoposta a un primo intervento chirurgico, il primo di tanti che si sarebbero susseguiti negli anni. Io vivevo a Pisa, all'epoca, dove studiavo, ma non disdegnato di passare semestri interi all'estero, usufruendo di tutti quei meravigliosi programmi di scambi studenteschi. In quell'estate ho capito che non c'era una vita all'estero nel mio futuro ma che, da figlia unica quale solo, sarebbe stato il caso di attrezzarmi per un domani più vicino alla mia famiglia. Ho smesso di vivere a braccio, programmando i passi successivi dell'esistenza, una tesi da svolgere in Piemonte, anche se la mia università continuava ad essere quella di Pisa, un futuro professionale che non poteva essere quello della ricercatrice. Una presa di coscienza che non mi sento certo di definire traumatica, ma che ha comunque diviso il tempo dei sogni puri da quello dell'essere.
Nell'estate 2003, mentre ero al madre con mia madre, in convalescenza, ho letto I relitti dell'altro pianeta e La mano sinistra delle tenebre che hanno segnato, anche sul piano letterario, il mio passaggio all'età adulta. Un'autrice, la Le Guin, che avevo conosciuto a nove anni con il primo romanzo de La saga di Earthsea. Come a dirmi "ecco, adesso sei grande, queste sono le storie con cui puoi confrontarti".
I reietti dell'altro pianeta, che ho letto per primo e che molto mi era piaciuto, non mi aveva comunque preparato all'impatto che questo romanzo avrebbe avuto.

La mano sinistra delle tenebre
Si presenta come una relazione, quella di Genly Ai, Primo Mobile sul pianeta Gethen. Il Primo Mobile altro non è che l'inviato dell'Ekumene (una sorta di ONU interplanetaria) che ha il compito di dire ai nativi di un pianeta: "salve, non siete soli nell'universo, io ad esempio vengo da un altro pianeta. Va tutto bene, non vogliamo invadervi, solo comunicare, dopo tutto siamo comunque quasi tutti umani" e sperare di non essere ucciso.
Di provenienza terrestre, Genly Ai è quindi un alieno su Gethen, un pianeta glaciale dal clima estremamente rigido cosa che (forse) ha portato gli esseri umani che vi abitano a un peculiare adattamento, sono ermafroditi e quindi, per la maggior parte del tempo, di genere neutro.
Il Primo Mobile si è preparato una vita intera per la sua missione, ma conoscere a livello intellettuale non significa capire davvero una civiltà, è il caso di dirlo, così aliena.
Quando il lettore si abitua alla relazione di Genly (inframmezzata da vari documenti da lui racconti) ecco che l'io narrante cambia completamente. Ci vuole un attimo a capire che nella relazione è stato inserito un diario personale di Therem Harth rem ir Estraven, nobile di Karinde, una delle nazioni di Gethen. Di colpo l'essere umano è l'alieno. Non solo, di colpo il lettore si trova a guardare il mondo con gli occhi di un personaggio che ha un sistema di valori e di certezze completamente diverso dal nostro, provando quasi in prima persona lo shock culturale dei personaggi.
Tutta la vicenda è narrata con un'eleganza raffinata che da sola e la metà del fascino del libro. La Le Guin ha la capacità unica di modificare la sua prosa per adattarla all'ambiente che narra. La prosa secca de I reietti dell'altro pianeta, lascia spazio a un periodare arioso e fluido. La bellezza fredda e aliena di Gheten viene resa in descrizioni che hanno lo splendore dei fiocchi di neve e da un punto di vista puramente stilistico questo romanzo per me è sempre rimasto un modello inimitabile.

Una questione di genere
La cosa più macroscopica, che a nessun lettore può sfuggire, è che questo romanzo è una riflessione su come la nostra società sia condizionata dalla differenza di genere dell'umanità e di quanto questa sia (o non sia) culturale.
Ursula Le Guin immagina un pianeta senza genere, in cui ogni individuo possa essere padre o madre, cercando di immaginare quali società una situazione simile può creare. Come sempre le riflessioni della Le Guin non sono mai né semplici né banali. Gethen è un pianeta complesso, con società diverse e in competizioni tra loro, la presenza di una popolazione ermafrodita non semplifica la società e non abbatte le differenze sociali che, tuttavia, si esprimono in modo diverso. Non è un'utopia né un mondo ideale. Anche quello che viene presentato come assunto all'inizio del romanzo "su Gethen la guerra non esiste" viene smentito nel corso della storia e si trasforma in un molto più sinistro "su Gethen la guerra ancora non esiste". 
Tuttavia, lo sguardo di Genly Ai ci rende subito consapevoli di quanto sia difficile astrarre un individuo dal genere di appartenenza. Come ci viene fatto notare, è la prima cosa che chiediamo di un neonato, prima di sapere qualsiasi altra cosa di lui. Determina la nostra identità in un modo troppo profondo da poterlo negare del tutto. Poi ci sono le sovrastrutture mentali. Come Genly tendiamo a trarre conclusioni diverse da un comportamento se a metterlo in atto è un uomo o una donna. Tehrem Hart è, per buona parte del romanzo, indecifrabile agli occhi di Genly che cerca di incasellarne il comportamento in un'ottica terrestre, riconducendolo a riferimenti terrestri (un nobile feudale) che non hanno ragione di essere su Gethen. D'altro canto Genly Ai è vivisezionato con crudele imparzialità da Therem Hart, che lo vede come puro essere umano.
L'effetto è particolarmente spiazzante per il lettore.
L'autrice ha fatto un peculiare esperimento. Il romanzo usa il maschile per i Gethiani, ma in seguito è stato scritto un racconto Re d'Inverno, in cui viene usato il femminile. Il lettore (io in primis) immagina i personaggi in modo diverso. Questo, immagino significhi come sia impossibile per chiunque di noi immaginare davvero un essere umano senza dargli una connotazione femminile o maschile. Del resto, come spesso accade nelle sue opere, la Le Guin non impone una visione del mondo, ma obbliga a scontrarsi con degli interrogativi.

Non solo una questione di genere
La riflessione sul genere è l'aspetto più macroscopico in un romanzo densissimo.
Ursula Le Guin è figlia di un antropologo e, anche se poi ha scelto un altro campo, è cresciuta respirando antropologia e forse questo è il romanzo in più questo aspetto è evidente.
La mano sinistra delle tenebre è una storia di incontro di civiltà. Tra tutti i mondi immaginari di cui ho letto Gethen è tra i più peculiari, con civiltà molto diverse al suo interno, descritte con una profondità sociologica e filosofica che non ha pari.
Genly Ai è uno straniero che ha molto studiato queste civiltà, ma non le conosce fino in fondo. Arriverà a capire che è stato mandato solo, come Primo Mobile, non solo perché non rappresenti una minaccia, ma perché la sua solitudine lo obblighi a entrare in contatto profondo con i locali, fino pensare come loro, a sognare come loro.
Questo è il senso della frase che ho scelto come copertina del blog
Stenderò il mio rapporto come se si trattasse di una storia, perché mi è stato insegnato, quand'ero bambino, sul mio pianeta natale, che la Verità è una questione di immaginazione.
Non ci può essere comprensione profonda senza coinvolgimento emotivo. L'immaginazione, l'immaginarci nei panni dell'altro, in un altro punto di vista, ci porta verso l'empatia e quindi verso una comprensione più profonda. 
Non si può capire una popolazione diversa se la si guarda attraverso un vetro, come fossero batteri al microscopio. Non si può capire l'altro da noi senza mettere in campo la propria emotività, senza che diventi anche un rapporto personale, tra un io e un tu.
Per capire l'altro bisogna sporcarsi le mani, mettersi in discussione. E poi accettare che il proprio punto di vista sia comunque parziale. Due visioni opposte possono essere ugualmente vere. I fatti non sono solidi, coerenti, reali. Come le perle, hanno una loro sensibilità.
Questo aspetto, la riflessione sull'intelligenza emotiva e le sue implicazioni nell'apprendimento sono forse gli elementi della narrazione che mi hanno colpito di più, molto più che la macroscopica questione del genere.
Infine questo romanzo è un continuo susseguirsi di suggestioni. È un libro denso, in cui quasi non c'è pagina che non evochi immagini, sogni, riflessioni. Sono stata stregata da una delle filosofie di Karinde, l'unica nella galassia ad aver trovato un modo per ottenere profezie affidabili. Peccato che lo scopo di tali profezie sia la dimostrazione di quanto sia inutile conoscere il futuro. C'è un'unica certezza importante nel futuro di ciascuno: che si debba morire. C'è un'unica domanda importante: cosa c'è dopo? E a questo non c'è risposta (questa frase l'ho citata a memoria, abbiate pietà).

Solo la storia di due individui
In tutte queste suggestioni, alla fine, a livello emotivo, questo romanzo è la storia di due individui. Genly Ai e Therem Hart, che per tre quarti di libro non si capiscono, si insultano senza volerlo, si inseguono senza trovarsi e poi sono costretti a convergere per qualcosa che trascende le loro personalità (convincere gli abitanti di Gheten che ci sono altri esseri umani nell'universo può forse distogliere i governanti del pianeta dai propositi di guerra), ma che pure non può non coinvolgere sul piano personale.
Il cuore emotivo del romanzo è la lunga fuga dei due attraverso un ghiacciaio. Due alieni, che vengono letteralmente da mondi diversi, costretti da dividere una tenda e le poche attrezzature di sopravvivenza. Nella loro assoluta semplicità, questi capitolo hanno una forza emotiva enorme. È difficile non sentirsi con loro, terza presenza non vista nella tenda, partecipi della loro solitudine e dei tentativi, in parte maldestri, in parte strazianti, di gettare una corda oltre l'abisso delle reciproche differenze.
Nella maggior parte delle storie ci viene detto che l'amore è ciò che fa superare le differenze. In questo romanzo, c'è invece una precisa volontà intellettuale. Genly Ai e Therem Hart non si piacciono e certo non si desiderano, ma hanno in comune lo stesso progetto che, se vogliamo, possiamo definire politico. È questo il motore che li porta a convergere e solo in un secondo momento la relazione si fa personale, di amicizia, stima, pur nell'impossibilità di una completa comprensione reciproca.
I sentimenti, ho pensato leggendo questo libro, possono essere profondi anche senza essere semplicistici. Si può stimare qualcuno senza capirlo fino in fondo e la fiducia è comunque, in ogni caso, un azzardo. Può sembrare una banalità, sicuramente lo è, ma leggendo questo romanzo a ventitré anni ho capito davvero per la prima volta che la totale comprensione e conoscenza tra pari non solo è impossibile, ma persino non necessaria. Nel rispetto dei silenzi e delle distanze incolmabili, negli anni successivi, ho stretto alcune dei rapporti più solidi e arricchenti.

Io piango spessissimo quando guardo i film, ma assai raramente quando leggo. Posso dire di aver amato questo romanzo per il suo spessore filosofico e la profondità dei temi che tratta, ma la verità che leggendo le ultime pagine ho pianto e singhiozzato senza ritegno.

Curiosità: La mano sinistra delle tenebre e Darkover
Quand'ero adolescente, negli anni del liceo, giravano tra le ragazze dal carattere ribelle e amanti del fantastico i romanzi della saga di Darkover, di M. Zimmer Bradley. Credo che a modo loro abbiano segnato una generazione. Sono ambientati su un pianeta gelido, che si scopre essere una perduta colonia terrestre, dove vi è una razza ermafrodita e vi è diffusa la telepatia.
Pianeta gelido, razza ermafrodita, telepatia è uguale a Darkover, ma anche a Gheten.
Ho scoperto in seguito che Darkover doveva esser un mondo caldo e coperto da giungle (ce n'è ancora traccia in uno dei romanzi editi), prima che l'autrice leggesse La mano sinistra delle tenebre. A seguito della lettura fece una sostanziale riscrittura, dando a Darkover la sua fisionomia definitiva.
Di questo vi è traccia in numerose interviste, M. Zimmer Bladley non ha mai nascosto da dove avesse preso le idee (e immagino che la Le Guin ne fosse informata, forse anche soddisfatta), ma la scoperta mi ha lasciato un fondo di irritazione non da poco. Perché gli elementi che la Le Guin tratta con estrema delicatezza, senza entrare mai nello scabroso, diventano nella saga di Darkover la base per storie molto più commerciali, con intrighi amorosi degni delle peggiori telenovele. Inutile dire che la saga di Darkover ha venduto infinitamente di più di questo raffinato romanzo.
Benché  abbia amato molto alcuni capitoli della saga di Darkover (alcuni li sto rileggendo proprio ora), il fatto che gli elementi che avevo trovato più intriganti e originali alla fine non fossero per niente originali non mi mai andato giù del tutto. Non plagio, certo, forse neppure appropriazione indebita, ma una mancanza di delicatezza, come maneggiare una farfalla col maglio di un fabbro.

Ho scritto un post lunghissimo, non poteva essere diversamente, temo.
Giovedì partirò per Lucca e domani mi attendono ancora verifiche da preparare e da correggere. Ci si rileggerà, quindi, a novembre, sui venti dell'autunno inoltrato.
Non mi resta che chiedervi quale sia il libro che ha un posto speciale nel vostro cuore. Mi raccomando, che sia una scelta di cuore e di pancia più che di testa. Gli incontri speciali, del resto, sono tali anche perché avvengono nel momento giusto, perché quelle pagine erano proprio ciò di cui avevamo bisogno in quel momento.

venerdì 23 ottobre 2015

Scorci di storie di incerto destino

L'autunno si sta posando dolce sulla sponda del mio lago. Un tizio alla radio oggi diceva che per colpa di non si sa bene cosa quest'anno lo spettacolo del foliage, per i profani i colori delle foglie in autunno, è meno bello del solito. Sarà. Probabilmente non è passato da noi. Io e cigno, questo è certo, la pensiamo diversamente.

In queste giornate di quiete temporanea (non mi hanno ancora confermato per tutto l'anno, così, per dirne una) è bello indugiare, quando si esce da scuola, e passeggiare guardando nell'acqua i riflessi delle mie storie.

Ho inviato il romanzo scritto quest'estate per la valutazione. Oltre alle professioniste, anche dei volenterosi amici lo stanno leggendo (GRAZIE). Penso a quella storia già con nostalgia. Ripenso ai personaggi, a quanto mi manchino, come amici tangibili, con i loro gesti e i loro modi. R.D., che non è capace di iniziare una discussione senza farla sembrare un interrogatorio, con quella sua delicatezza nell'entrare nelle situazioni degna di un elefante. A, che si perde in mille suggestioni, ha bisogno di avventurarsi nella vita una metafora alla volta. R.S., che quand'è nervoso tamburella sul tavolo solo con le ultime dita della mano.
Vorrei scrivere di nuovo di loro, una storia diversa, dai toni più leggeri, da commedia sofisticata. Ho il sospetto che R.D., che è il personaggio senza dubbio più drammatico, potrebbe dare molto in un ruolo alla Cary Grant.
D'altro canto non ho la forza fisica neppure di iniziare la documentazione per un ulteriore romanzo senza alcuna speranza per questo. Qualsiasi cosa io possa scrivere con questi personaggi sarà senza possibilità d'errore un seguito dall'imprecisato tasso di indipendenza. Non voglio trovarmi poi con ulteriori pile di romanzi nei cassetti virtuali. Ho bisogno almeno dell'illusione che le mie storie possano volare.

Sono tornata a Baker Street, quindi. La trovo perfetta per l'autunno, quando il camino del salotto è accesso e anche il fumo della pipa di Holmes mi dà meno fastidio (sempre che non preferisca invece i sigari, dato che la pipa è più un cliché che un'effettiva preferenza del personaggio). 
Non ho programmato gran che di questa storia. So chi è l'assassino, perché ha ucciso e come deve finire e ho una bellissima location da esplorare. Per una volta scrivo a braccio, perdendomi nel piacere puro della narrazione.
Mi sembrava di non riuscire a lavorare. Cioè, ore al computer, ma la storia era solo agli inizi. Poi mi sono accorta che questi inizi erano lunghi 25000 battute e mi sono fatta una risata. Alla faccia della scarsa produttività.

Intanto una parte della mia mente butta uno sguardo ad altre storie, nella speranza, devo ammettere, di incappare in un racconto (che al peggio rimane nel mio archivio senza troppo strazio) che in un romanzo. C'è una storia letterario/fantascientifica che da un po' mi frulla in testa. Al momento è cristallizzata in un'immagine. Un uomo in una tunica rossa appoggiato a una parete guarda un ragazzo biondo che dorme, mentre la finestra dà sullo spazio infinito. So chi è l'uomo, chi il ragazzo, cosa è accaduto prima. Non so cosa accadrà poi e sopratutto non so come raccontarlo. C'è una frase, però, che continua a risuonarmi in testa:
L'umanità ha bisogno di un nuovo poema d'espiazione.

C'è anche un ragazzino, in un'altra storia, che porta a spasso un cane nei pressi di un ospedale. Solo che il cane non è un cane e decisamente non mangia crocchette. 

Non ho moltissime idee, invece, per racconti gialli contemporanei, cosa che mi spiace, dato che tra i concorsi che amo di più ci sono quelli di Giallo Mondandori. Anche se c'è sempre il tizio che viene ritrovato seppellito nel fango con un cappio al collo che immagino abbia dietro una storia interessante...

Io sono così. Passeggio, osservo le foglie, le onde, il vento e i fantasmi. Non vedo chi mi passa accanto e magari si braccia per salutarmi. Vedo riflessi di immagini su cui intessere storie. Non posso farne a meno.
Potrebbe non sembrare ma in questo periodo o pochissime idee per delle narrazioni. Non arrivo neanche a una decina...

Voleranno presto, invece, i racconti dell'antologia Non di solo pane
Non ho un racconto nuovo da regalarvi per questo fine settimana, ma perché non darvi in anteprima le primissime righe di entrambi i racconti?

NOTTE STELLATA

     Ci sono case che sembrano fatte apposta per essere infestate. Costruite su un qualche cimitero abbandonato, circondate da un parco arioso. Hanno stanze dai soffitti alti e sono sempre provviste di solaio, cantina e ripostigli. In quegli spazi ampi si sono consumati torbidi delitti e per questo vengono poi vendute sottocosto a famiglie numerose, con bambini che invadono le scale con i loro giochi rumorosi e adolescenti silenziosi che leggono poesie guardando gli alberi fuori dalla finestra. 
Dimore ariose, dove le essenze dei vivi e dei morti possano sfiorarsi, lasciare un brivido freddo, uno sguardo perplesso in direzione di un rumore avvertito solo a livello preconscio. Case dove rimangano sempre polle dolenti di silenzio, angoli ombrosi dove la polvere può posarsi senza fretta su oggetti e anime. Luoghi in cui questo lento sbiadire dell’io non sembri di per se stesso una maledizione.


CACCIA ALL'ORSO

     Il sole della mattina estiva brilla già caldo sulla piazza gremita, sul palco, il ceppo pronto e il castello retrostante.
Nel cielo terso la brezza tiepida fa sventolare l’unicorno dello stemma reale e non la bandiera del podestà. È la giustizia del re quella che si esercita nella piazza.
Il condannato viene portato, quasi trascinato, da due guardie. È colpevole di furto e di caccia di frodo. Una settimana nelle segrete del castello gli hanno fatto crescere la barba e capelli sono unti e scarmigliati. Macchie di sporcizia gli segnano gli occhi arrossati che guizzano a cercare un’inesistente via di fuga. Le labbra sono screpolate e il naso è tumefatto e gonfio per un colpo subito. Ha il viso orribile dei colpevoli, fatto apposta per essere deriso.
La folla gli urla insulti e lancia fango e sporcizia. Con i visetti all’insù, i bambini ansiosi di assistere all’esecuzione. I piccoli sono sulle spalle dei papà, mentre i grandicelli gridano e lanciano fango insieme agli adulti. 
I più attenti di tutti sono quattro ragazzini, appollaiati ai rami della quercia, sul limitare della piazza. 

Se vi ho incuriosito, non vi resta che leggere come proseguono sull'antologia, presto disponibile anche su Amazon

Io, invece, vorrei conoscere qualche scorcio delle vostre storie e del loro (incerto?) destino.

mercoledì 21 ottobre 2015

I risultati del XXI Trofeo RiLL e i miei racconti nell'antologia "Non di solo pane"


Ci sono luoghi, persone, circostante a cui si torna sempre volentieri.
Una buona abitudine, per me, è partecipare al Trofeo RiLL. Come i concorsi legati a Giallo Mondadori, anche il Trofeo RiLL è un premio letterario a tema (il fantastico, in tutte le sue declinazioni) che si distingue per partecipazione e professionalità. Ormai ogni anni sono quasi 300 i racconti che vi partecipano, una mole immensa di lavoro per i giurati e delle probabilità di vittoria, matematica alla mano, che pareggiano quelle del gratta e vinci.
Ma Rill è Rill. La premiazione si tiene a Lucca Comics (e bisogna pur avere una scusa per andarci, specie se si deve motivare alla dirigente un cambio orario), è uno dei pochi concorsi per racconti che promuove anche all'estero il vincitore e l'antologia annuale è sempre splendida. Io, poi, sono assolutamente innamorato delle copertine. Al momento la mia preferita rimane sempre quella de Il carnevale dell'uomo cervo. Ma anche quella di quest'anno non mi sembra per nulla male. Il titolo poi, collegato all'immagine, risulta particolarmente suggestivo. 
L'antologia viene spedita a tutti i partecipanti, ma anche promossa in Italia e all'estero e ogni anno riceve moltissime recensioni. Ma come si entra nell'antologia? 
Ci sono tre strade, che, raccontate così, sembrano parimenti impraticabili, ma l'esperienza dimostra che ce la si può fare.
Si può essere selezionati tra i 10 finalisti e poi ri selezionati tra i 4/5 pubblicati.
Si può essere vincitori di uno dei concorsi esteri gemellati con RiLL (ammetto, questa è un po' ostica per gli autori italiani).
Si può essere tra i vincitori di SFIDA, il concorso riservato a chi è arrivato almeno una volta in finale a trofeo.

Oggi sono usciti i risultati ufficiali di RiLL 2015 e sono oltremodo orgogliosa di dire che non uno, ma due miei racconti saranno presenti nell'antologia.

NOTTE STELLATA
Si è classificato al quarto posto.
Se solo penso alla quantità di racconti partecipanti (297, se non mi sbaglio) sembra incredibile che questa mia cosetta così atipica sia arrivata fino alla pubblicazione. Per presentarla passo direttamente la parola ai giurati, che così l'anno presentata:
"- Una ghost-story che mischia politica e fantastico, tratteggiando inoltre con molta cura i diversi personaggi.

- Condotto con mano sicura, ha un finale inaspettato e per questo particolarmente apprezzabile.

- Una storia di fantasmi a Milano, fra politici corrotti e “buona società”. L’autore cattura l’attenzione dei lettori puntando sull’interazione (virtuale) fra i due personaggi principali, veri pilastri del racconto."


CACCIA ALL'ORSO
È tra i vincitori di SFIDA, il premio riservato agli ex finalisti di RiLL. La particolarità del premio è che gli autori vengono "sfidati" a confrontarsi con un tema, un titolo o degli elementi da inserire. Ogni anno, poi, al momento della premiazione, viene svelato un vincitore assoluto del concorso, premiato dagli organizzatori di Lucca Comics.
Quest'anno, per il decennale di SFIDA, il tema era "Una perfetta esecuzione".
Quindi tutto parte da un'esecuzione all'ombra di un castello, offerta quasi come uno spettacolo dal podestà ai cittadini. Tra la folla, gli spettatori più attenti sono quattro bambini...


Non mi resta che invitarvi alla lettura di un'antologia ricca, con racconti di autori italiani e stranieri. L'antologia è già disponibile sul sito di RiLL o sui principali store on-line.
Un enorme grazie all'organizzazione che ormai da più di vent'anni si distingue per professionalità, simpatia e trasparenza e rende possibile l'esistenza di una realtà bella e vitale come RiLL.
Infine, segnalo che la premiazione si svolgerà venerdì 30 ottobre alle ore 16 presso la sala Ingellis del padiglione Games di Lucca Comics.


lunedì 19 ottobre 2015

A cosa servono le regole di scrittura creativa

Devo essere affetta da qualche oscuro problema genetico che mi rende del tutto incapace di programmare i post del blog. Ormai non ci tento più se non a livello di meri appunti mentali. Tanto anche quelli finiscono accartocciati e buttati.
Il post di oggi nasce dai commenti seguiti alle mie osservazioni sul libro L'esorcista e in particolare dai commenti di Marina da cui è sorta una riflessione su cui avevo già fatto un post taaaanto tempo fa sul vecchio blog, che forse è il caso di rivedere e di correggere.

MA A COSA SERVONO LE REGOLE DI SCRITTURA CREATIVA DI CUI SONO PIENI I MANUALI?

Sostanzialmente a rendere un testo il più fruibile possibile.
Volendo proprio semplificare al massimo (mi perdonino teorici, grammatici e grandi letterati tutti), le possiamo dividere in tre grandi macroaree.

Regole di scrittura, ortografiche e sintattiche.
Servono a garantire una comprensione base. Che una parola abbia proprio quel significato, che "casa" sia casa e non "cassa", identificare chi compia l'azione, chi la subisca, quale sia l'azione e chi dice cosa. Seguirle permette a chi legge di capire un testo e di seguire il percorso mentale dell'autore. Non seguirle crea grossi fraintendimenti di base. 
Ricordiamoci il famoso "salva la nonna": "vado a magiare, nonna" NON equivale a "vado a mangiare nonna" che è roba per cannibali.

Regole di gestione della trama.
Studi approfonditi su un numero impressionante di narrazioni orali e scritte hanno mostrato che in qualsiasi luogo e in quasi qualsiasi epoca le narrazioni sono più facilmente comprese se strutturate in un certo modo. Si tratta, semplificando all'osso, della famosa e famigerata "struttura a tre atti" che si può girare, smontare e riassembrare più o meno all'infinito, ma quando si cerca di eliminarla del tutto sono guai. Stesso dicasi per le altrettanto famose e famigerate funzioni di Propp. Anche qui possiamo giocarci all'infinito, ma alla fine quasi in tutti i testi le troviamo e al 90% c'è il "ritorno a casa con l'elisir" (ho fatto un po' fatica a individuarlo, ma alla fine sì, anche nel La luna e i falò è presente)

Tecniche di gestione del testo narrativo.
Gestione del punto di vista, narratore e narratario, lettore ideale, gestione delle linee temporali etc.
Permettono al lettore di capirci qualcosa, aiutano lo scrittore a creare un testo fruibile.
Non sono scritte col sangue e col fuoco, ma, del resto, neanche le altre. Semplificano la vita a chi legge.

Se un testo è scritto in modo conforme alla grammatica, alle regole della gestione della trama e del testo narrativo sarà un testo fruibile e facilmente leggibile. 
Banalmente, il lettore capirà cosa c'è scritto e cosa lo scrittore voleva raccontare. 
Il testo sarà bello o brutto a seconda dell'abilità dello scrittore, ma almeno sarà chiaro.
Come nei temi "corretto, pertinente ma poco personale" è meglio di "buone le idee, ma trattazione confusa e piena di errori". Da prof nel primo caso do la sufficienza, nel secondo no.

MA È POSSIBILE SCRIVERE DEI BUONI TESTI INFRANGENDO QUESTE REGOLE?

Assolutamente sì!
La letteratura non è una scienza esatta. Non solo, a volte infrangendo volontariamente alcune regole si creano dei testi assai suggestivi.
I futuristi se ne fregano della grammatica, anche di quella base, anche dell'ortografia.
Saramago scrive i dialoghi come gli pare e i piace, di fatto come se non fossero dialoghi. Ha comunque vinto il nobel.
Tutto il flusso di coscienza va in direzione contraria rispetto alla scansione in tre atti classica.
L'Iliade, il più antico testo della letteratura occidentale, non segue la scansione in tre atti e se ne frega delle funzioni narrative, eppure sono millenni che viene letto e apprezzato.
Vi sono miriadi di autori che fanno quello che vogliono con il punto di vista, sabato ho citato L'esorcista, potrei tirare in ballo un sacco di mostri sacri, ma il primo esempio che mi viene in mente è Almost Blue di Lucarelli che truffa in modo bieco con la gestione del punto di vista.

In letteratura tutte le regoli sono frangibili, nel senso che possono essere infrante. Più ci allontaniamo dalla "norma", tuttavia, e più creiamo un testo respingente. La leggibilità e la fruibilità del nostro testo cala. Sta a noi autori decidere se la cosa ci stia bene oppure no.

Da millenni L'Odissea è più letta dell'Iliade, perché più fruibile, ci si perde meno nella lettura. Nell'Odissea è ben riconoscibile la struttura in tre atti (anche se intrecciata in modo non banale).
I testi futuristi non sono il massimo della fruibilità e un sacco di epigoni di questa strenua lotta alla grammatica sono finiti nel dimenticatoio perché risultavano di rara pesantezza.
Io amo molto Saramago, ma ammetto che la sua prosa ha la densità del plutonio. Personalmente non ho letto nessun altro che non segnali neppur minimamente i dialoghi.
Proust è notoriamente molto citato e poco letto.

Più ci allontaniamo da quelli che sono "gli standard" e più richiediamo attenzione al lettore. Difficilmente si proseguirà nella lettura di un testo respingente se questo non ha caratteristiche di eccezionalità.

TENAR E LE REGOLE DI SCRITTURA CREATIVA

Basta scavare un poco nel mio animo per trovare una vena di anarchia, tuttavia il mio consiglio sincero è di pensarci non una, non due, ma mille volte prima di buttare al macero le regole della scrittura narrativa.
Scrivere infrangendole è come sciare fuoripista, cosa che ogni anno causa un bel numero di incidenti. Prima di farlo sarebbe utile essere degli sciatori esperti. Stessa cosa con la scrittura. 
Qualcuno si è dannato per capire come rendere un testo il più comprensibile possibile al lettore. Ringraziamo il cielo di avere questa messe di informazioni e usiamola al meglio. Quando poi ce ne sentiamo pienamente padroni, possiamo anche sperimentare e lasciare le piste più battute.

Personalmente non so se mi sentirò mai così brava. Non è nei miei programmi vincere un nobel, né rivoluzionare la letteratura. A me già basta fare letteratura di intrattenimento ben congegnata. Pertanto, al momento, gioco secondo le regole, cerco di padroneggiarle al punto di non doverci più neppure pensare. Poi, un domani, chissà.

Voi cosa ne pensate?

sabato 17 ottobre 2015

Piovono libri – La luna e i falò (con bonus L'esorcista)


Ieri sera si è svolta la riunione del gruppo di lettura Piovono Libri. Ormai siamo sempre di più, sfioriamo la ventina e ci siamo fatti ospitare nella bella sala di un'associazione novarese.

Io ero in pessima, pessima forma. Dopo una nottata insonne mi ero sciroppata 5 ore filate di lezione, terminate alle 13. Alle 13.30 c'era la riunione straordinaria con dei genitori per alcuni fatti non troppo edificanti (anche l'incontro in sé non è stato molto edificante), dalle 14.00 cinque consigli di classe filati e poi riunione con i genitori per l'organizzazione dello scambio culturale con la Francia.
Il risultato?
Appena arrivata mi sono versata un bicchiere di una bibita contenente un colorante a cui sono allergica. Quindi ho rimediato devolvendo la bibita al marito e aprendo l'acqua tonica che, però, aveva stazionato vicino alla mia copia de L'esorcista e qualcosa dev'essere trasmigrato in essa. Ne è risultata un'eruzione degna dei migliori vulcani, con il pavimento della bella sala imbrattato, libri e abiti bagnati e taaaanto imbarazzo. È seguito il grande gioco e io non ho azzeccato manco una risposta, arrivando a dubitare di aver letto il libro giusto. Verso mezzanotte, quando ancora si discuteva del romanzo, poi, il mio organismo non ce l'ha più fatta e ho dovuto mestamente abbandonare la seduta. 
Nonostante le mie condizioni psico-fisiche la serata mi è piaciuta un sacco, anche più di quella precedente (forse perché allora non avevo letto uno dei due libri?). Inoltre sono riuscita a portarmi appresso il marito, che ha scoperto di trovarsi molto bene nel gruppo e di riuscire a permanere tutta una sera in una stanza in cui c'erano anche due cani (tra cui il dolcissimo bassotto cuore). Questo mi dà speranza, un passo dopo l'altro riuscirò a far arrivare un cucciolo sul divano di casa mia...

La luna e i falò
Romanzo particolare, quello di questo mese, che mescola un'ambientazione neorealista, le langhe subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, a un impianto stilistico ricercato e a una vena malinconica ed esistenzialista.
La trama è esile. Un orfano allevato sulle langhe torna, dopo aver fatto fortuna in America, nei luoghi della sua infanzia. Lo accoglie l'amico Nuto, guida in un viaggio di ritorno in cui i luoghi sono identici a quelli del ricordo, ma le persone sono quasi tutte venute a mancare.
Personalmente io ho molto apprezzato l'atmosfera di rarefatta malinconia e questo tentativo di rendere frammenti di un mondo rurale e reale attraverso il filtro di una raffinatezza letteraria. Sulla gestione della trama qualcosa mi sfugge (a parte la sfortuna che porta il protagonista, dato che, Nuto a parte, tutte le persone a cui era legato nell'infanzia sono morte e lui non è propriamente matusalemme, avrà 40 anni malcontati), dato che quasi tutti i colpi di scena sono ampiamente anticipati (sai mai che il lettore si emozioni troppo?) e il finale ha qualcosa di tronco e incompiuto.

Proprio per la natura del romanzo ho apprezzato particolarmente la discussione (anche se ho dovuto abbandonare per crollo dei neuroni) e sono emerse opinioni suggestive.
Concordo con Il Pista sul fatto che sia Nuto che l'io narrante siano in realtà due anime dello stesso Pavese, diviso tra la smania di andare altrove e il desiderio di rimanere e costruire qualcosa sulla propria terra. 
Ho trovato molto suggestiva l'ipotesi che in realtà il romanzo si chiuda con un ultimo, più tragico e sentito falò, quasi un rito precristiano di ritorno alla terra. 
Sempre Il Pista ha fatto notare che in una lettera Pavese aveva asserito di volersi ispirare alla Divina Commedia. Ecco, non metto in dubbio l'intenzione di Pavese, ma io di Dante non ho visto neppure l'ombra di una lonza. Se mai un nostos, un ritorno omerico, se proprio dobbiamo...

È stato fatto notare che a un certo punto si paragona la donna alla capra e questo la dice lunga sul ruolo delle donne nel nostro passato contadino. Per altro le donne del romanzo fanno tutte una pessima fine e nessuna riesce in qualche modo a elevarsi o a riscattarsi. Non c'è un equivalente femminile di Nuto o del protagonista, cosa che mi ha lasciato un retrogusto di tristezza.

Altra osservazione interessante è che il romanzo ci ricorda la miseria delle nostre campagne appena ai tempi dei nostri nonni o dei nostri genitori, quando non si aveva niente e per appena un filo contrario di vento della sorte si poteva finire a mendicare come Padrino, morto di freddo in un cortile. 
A volte, oggi, idealizziamo i bei vecchi tempi andati, vagheggiando un ritorno alla terra e alle tradizioni contadine, ma lo facciamo solo perché diamo per scontato il nostro attuale benessere.

Alla fine il romanzo è piaciuto molto a qualcuno, non è stato odiato profondamente quasi da nessuno, la maggior parte di noi lo lascerebbe a prendere polvere o sulla balaustra della "Torre dei classici". Io mi riconosco in questa posizione. Sono contenta di averlo letto, mi ha regalato delle suggestioni, ma dubito che lo riprenderò in mano o che si radichi con profondità nel mio immaginario.

Il mese prossimo, invece, si parlerà di uno dei miei libri preferiti di sempre Memorie di Adriano che, credo, porterà a reazioni molto più radicali di odio profondo o di grande amore.

Bonus! Consiglio di lettura – L'esorcista

Finito La luna e i falò ho iniziato, quasi per caso (l'ho visto nella libreria di un'amica e l'ho rapito.. ehm... preso in prestito) L'esorcista di William Peter Blatty. Sì, quello del famoso film, e si è trattato di una lettura sorprendente.

Il problema principale del romanzo, letto ora, è che tutti, anche chi come me non ha visto il film, sappiamo che tratta di una possessione demoniaca.
Nei primi due terzi del romanzo la domanda è: cos'ha la piccola Regan?
La bambina sta male, presenta alterazioni nel comportamento. All'inizio non c'è niente di spaventoso, anzi, la bambina viene descritta poco, viviamo per lo più l'ansia della madre, che ha già perso un figlio. Ci sono mille indizi che fanno propendere per un problema psicologico. Il divorzio dei genitori, l'istitutrice new age che parla con leggerezza di religione, dei libri che circolano in casa. Insomma, in un ambiente razionale come quello in cui vive Regan si cerca una spiegazione razionale agli avvenimenti. Solo dopo bisogna fare i conti con la possibilità, per altro proposta dai medici, di qualcosa di sovrannaturale. Addirittura per due dei personaggi principali, la madre e padre Karras l'ipotesi del demone è la migliore. Per la madre significa che c'è una cura, per padre Karras, in crisi con la fede, che c'è un aldilà.
Il tono del romanzo, quindi mi ha stupito. Non un horror, ma, quasi, una puntata del dottor House o, al limite un thriller in cui pian piano, però, la domanda "cos'ha la bambina?" si trasforma in "è possibile che ci sia un demone?" e quindi "cos'è la fede? Cos'è fare del bene?"

Altra sorpresa sono stati i personaggi. Mi aspettavo un horror con una serie di personaggi inquietanti. Ho trovato un non so cosa con una serie di personaggi dolcissimi. C'è una dolcezza infinita in tutti i personaggi, una vulnerabilità che fa venir voglia di entrare ad abbracciarli. In tutti. Anche nel regista alcolizzato o nel tetro domestico (che si rivela uno dei più dolci in assoluto). Si tratta anche, spesso, di personaggi molto colti e ironici. Via via che la storia procede l'ironia per alcuni diventa uno scudo sempre più debole, ma in alcune pagine ci sono dei passaggi quasi da commedia sofisticata.
Tra tutti spicca padre Karras. Ora, si sa, io ho un debole per i protagonisti preti (vedasi La roccia nel cuore). Ma Karras, gesuita psicologo in crisi, con enormi sensi di colpa per la morte della madre, che non vuole più farsi carico dei dolori altrui ma non riesce a fare a meno di aiutare gli altri è di una dolcezza straordinaria. 
Non ho visto il film, ma la parola "esorcista" mi fa pensare a un prete austero e tetro, non certo a questi gesuiti ironici e gentili, non certo a padre Karras, esorcista molto suo malgrado, che si preoccupa che gli altri non prendano freddo o che i giovani preti non abbiamo paura di fare amicizia.
Demoni o no, vorrei tanto avere sotto mano un paio di questi gesuiti!

Infine una notazione tecnica. In questo romanzo ci sono cambi di punto di vista all'incirca ogni mezza pagina, anche meno. Si salta da una mente all'altra come cavallette. Roba da far urlare "al rogo" ogni docente di scrittura creativa. Però funziona. Con buona pace delle regole di scrittura.
Stessa gestione anarchica per i personaggi. Personaggi presentati con cura che poi hanno un ruolo risibile nella trama, altri abbozzati appena che invece... Funziona pure questo.

Voi che ne dite? Avete letto questi libri? Cosa ne pensate?

mercoledì 14 ottobre 2015

Scrivere significa chiedere a qualcuno di rinunciare a un pezzo della sua vita per leggerci


Oggi, un po' a sorpresa, è tornato il sole. Una giornata che si è schiusa inaspettata a tutti i colori dell'autunno, con gli alberi che garriscono i loro gialli e i loro rossi e quei vanitosoni degli aceri e delle ginkgo (i miei preferiti in autunno) che fanno a gara per farsi notare.
Una cornice inusuale per una riflessione forse un po' crepuscolare.

Leggimi! Leggimi! LEGGIMI! PRESTAMI ATTENZIONE! Leggimi! Leggimi! Leggimi! LEGGIMI!
A volte mi sembra che in mondo degli aspiranti autori, degli autori esordienti e, sì, anche di quelli affermati abbia un po' questo rumore di fondo. Una continua, prestante richiesta di attenzione. Gente che invia il proprio romanzo a 30/40/50/100 case editrici nella speranza di una pubblicazione. Invia a 100 concorsi lo stesso racconto. Quasi che la pubblicazione fosse un pesce, per cui una rete più grande moltiplica la possibilità di cattura. 
A fronte di un mercato sempre più asfittico, con, per altro, guadagni sempre più bassi, c'è sempre più la richiesta di avere sul proprio scritto attenzione. Non mi pubblichi? E allora ti invio mail fino alla sfinimento! Non mi pubblichi di nuovo? Mi autopubblico e appesto fb, mail, ogni sorta di contatto di avvisi, che il mio libro, solo il mio, esclusivamente il mio, ha necessità di attenzione.
Leggimi! Leggimi! LEGGIMI!!!

Una volta in un articolo su La Repubblica un'autrice affermata di fama internazionale (non chiedetemi chi, la mia memoria è strana, ricordo la frase, ricordo il quotidiano, ma non il nome dell'autrice) dava agli aspiranti autori (poeti, nel caso specifico), questa perla di saggezza.
Chiedere di essere letti significa chiedere a qualcuno di rinunciare a un pezzo della propria vita per noi.
Lì per lì mi parve un acido commento, fatto dal solito arrivato con la puzza sotto il naso. Eppure, quella frase mi è rimasta dentro.

Leggere è un'attività che richiede tempo e attenzione.
Il mondo è pieno di libri.
Ognuno di noi ha degli autori preferiti con cui va a colpo sicuro, sa che a livello emotivo ne ricaverà qualcosa, consolazione, intrattenimento, divertimento, commozione, stimolo intellettuale. Sa che aprendo quelle pagine non butterà il proprio tempo.
Aprire un libro di un autore sconosciuto, invece, è un salto nel buio. Significa rinunciare a fare qualcos'altro, non importa cosa, per inoltrarci in un'attività che, per quello che ne sappiamo, potrebbe appagarci, ma anche frustrarci.

Io, me ne rendo conto, sono la prima a buttarmi con difficoltà su libri di cui non so nulla, scritti da autori per me sconosciuti. Sopratutto se si tratta di piccoli, minuscoli editori, sopratutto se si tratta di autopubblicati.
Da autrice non certo affermata questo sa di snobismo, me ne rendo conto. Dovrei essere la prima a cercare e a promuovere nuovi autori. Una volta lo facevo, provavo un piacere del tutto particolare nello scovare un libro meraviglioso che ancora nessun altro, almeno nella mia cerchia di amici, conoscesse. Ora, però, il tempo è la cosa più preziosa che ho e quel piacere, che pure c'è ancora, è macchiato dalla frustrazione per le letture infruttuose. 
Quando apro un libro voglio che sia bello, che ne sia valsa la pena. Mi rendo conto che preferisco rinunciare a qualche perla sconosciuta, piuttosto che passare ore o giorni a setacciare il sottobosco letterario. A maggior ragione se si paga. A volte, in certe sere, ho ancora la pazienza di iniziare du EFP (ad esempio) dieci o venti racconti sgrammaticati e insulsi per arrivare a quell'unico racconto che valga la pena di leggere. Non ho la forza, la voglie e le finanze per farlo se si tratta di opere a pagamento.

Lo so che tutto ciò può sembrare spocchioso e crudele. E non voglio assolutamente dire che tutti coloro che pubblicano per autori minuscoli abbiamo sbagliato (cosa dovrei dire io?) o che chi si autopubblica non debba farlo.
Mi rendo semplicemente conto che è vero.
Chiedere di essere letti equivale a chiedere a qualcuno di rinunciare a una parte della propria vita.
Quando apro un libro di cui non conosco l'autore sto facendo un investimento di tempo ad alto rischio. Potrebbe essere meraviglioso, potrebbe essere pessimo. Se sarà pessimo, io avrò rinunciato per lui a qualcosa di più importante o, almeno, di più appagante.

Non voglio dare lezioni a nessuno. Io per prima, penso che dovremmo esserne tutti più consapevoli. Chi ci legge ci regala la cosa più preziosa che ha, il proprio tempo.

Dobbiamo del rispetto al lettore che rinuncia a un pezzo della propria vita per la nostra storia.
Non importa se i nostri lettori sono 10, 1000 o 10000, dobbiamo rispetto a ciascuno di loro, perché hanno scelto di leggerci e di leggere proprio noi invece che fare altro.

Se poi un'opera proprio no va si può, certo, dare la colpa al marketing, all'editoria e a tutto il resto, ma chiediamoci anche se è davvero la cosa migliore che possiamo offrire ai lettori.
Mi tolgo un sassolino. Non mi piace chi, da autore esordiente, critica i lettori, che vogliono solo Fabio Volo, che non lo capiscono, che non sono pronti per il suo capolavoro. Da lettrice non mi invoglia gran che l'idea di rinunciare a un pezzo della mia via, per quanto piccolo, per qualcuno che già di base mi disprezza. 

Capire che chiedere di essere letti vuol dire chiedere di rinunciare a un pezzo di vita per leggerci vuol dire spingerci a far sì che per il lettore ne valga la pena.
Non basta essere gradevoli, non basta essere corretti. 
Dobbiamo al lettore qualcosa in più, un'emozione speciale, un frammento della nostra anima, qualcosa che cambi, seppur di poco, il suo modo di vedere, se non il mondo, almeno quella sua particolare giornata. Che non possa pensare, neppure per un istante, che il tempo passato sulle nostre pagine sia stato buttato.

Io non so se ci riesco, ma so che questo è lo spirito con cui scrivo. Far sì che per il lettore il tempo speso sulle mie pagine sia stato ben investito.
Voi cosa ne pensate?

lunedì 12 ottobre 2015

La giornata del camminare – la mia scrittura è fatta con i piedi


Ogni giorno è la giornata di qualcosa. A starci dietro si potrebbe fare un blog solo su questo, con un post a tema quotidiano. Ci sono giornate che hanno doppia o tripla dedicazione, come una volta si faceva con i santi e ognuno poteva scegliere quale quel giorno gli era più simpatico.

Ieri era la giornata del camminare.

Era probabilmente anche la giornata di molte altre cose, probabilmente più serie, ma era anche la giornata del camminare e io l'ho passata camminando.

È ormai 10 anni che Ecomuseo Cusius organizza Girolago, con passeggiate guidate alla scoperta del Lago d'Orta e dei suoi dintorni. Escursioni a passo calmo, in cui ci si ferma a visitare e a scoprire luoghi nascosti, a fotografare, senza l'ansia di arrivare prima o dopo, senza classifiche da esporre.

Ieri siamo partiti in cento da un paese che è forse a 5 minuti d'auto da casa mia. Il percorso era nuovo, anche per me che faccio parte dello staff. In quanto tale avevo un'aria saputa. Siamo a 5 minuti da casa mia. In questo paese ci ho anche insegnato. So tutto io.
In macchina si va da A a B e ogni deviazione è una perdita di tempo. A piedi, camminando, è il percorso ciò che conta. Vi sono scorci nascosti, monumenti semi dimenticati che stanno praticamente accanto alla strada asfaltata. Necessiterebbero una deviazione misurabile in una manciata di minuti, che però non ci sono mai.
E così mi sono trovata, immersa nei colori dell'autunno, a poche centinaia di metri dalla scuola dove ho insegnato a guardare a bocca aperta una pieve romanica ormai senza il tetto, uno di quei luoghi magici che sembrano richiamare fate e spade leggendarie.
Eppure io non solo quella deviazione non l'avevo percorsa mai, ma neppure conoscevo l'esistenza della chiesa. Come ignoravo la presenza del "masso delle streghe", dove pare si riunissero a congreghe certe signore. Né ero mai entrata nella chiesetta affrescata di un paese vicino, che pure tutti nella zona frequentiamo anche troppo, perché sede di una prestigiosa clinica riabilitativa e a tutti è capitato di doverci andare a trovare qualcuno. Mia madre c'è stata due mesi, al momento vi è ricoverata un'anziana zia, ma della chiesetta con i suoi affreschi del '400 neppure avevo sentito parlare.
Camminare, da soli o in gruppo, significa riapriopriarsi della terra in cui viviamo, ricreare un legame col territorio che non si limita all'abitare. Si impara a riconoscere l'odore peculiare del terreno e del luoghi, sentirne la storia direttamente sotto i piedi, sentire come una cosa viva il passaggio di chi è venuto prima di noi.

LA MIA SCRITTURA È FATTA CON I PIEDI
Più che di cuore e di cervello.
In un certo senso scrivo con i piedi.

Per anni ho praticato la corsa di resistenza, il mezzofondo a livello agonistico e ancora oggi mi piace correre. Mi rendo sempre di più conto, però, che tra impegni e tempo che passa potrei dover rinunciare alla corsa. Lo penso con rimpianto, sperando che non accada, o che accada il più tardi possibile, ma lo metto in conto. Non è un pensiero che mi provochi disperazione.
Rinunciare a camminare, invece, sarebbe come rinunciare a respirare.
È una mia impressione assolutamente ascientifica, ma il movimento del piede mi sembra che porti direttamente il sangue al cervello, ossigenando i neuroni. Mi bastano tre passi per calmarmi. Non c'è quasi pensiero triste che sopravviva a un quarto d'ora di passeggiata, anche in città, anche in condizioni non ottimali. Dopo mezz'ora, se non sono bagnata (nel rapporto con la pioggia sono molto gatto) sono in pace con il mondo.
E quando cammino penso.
Non alle cose che devo fare, non, ad esempio, alla spesa o alla verifica da preparare. Non c'è verso. Quando cammino penso a delle storie. Non so dove nascano, ma credo da qualche parte all'altezza del tallone. Ci deve essere nel mio corpo un ancora non studiato muscolo della trama che si sollecita con la camminata. Dopo cinque minuti di esercizio si attiva.
Non è sempre comodo avere il muscolo della trama nel tallone.
È una costante che mi si dica che sono stata salutata e non ho risposto. Non è maleducazione. Non è neppure, in senso stretto, disattenzione. È che non ero lì. Ero da qualche parte, in qualche altrove narrativo in cui filtrava appena un poco del paesaggio del reale e contingente.

Quando poi torno a casa, si tratta solo di mettere in ordine quella trama già pensata e chiudere in parole la storia.
Finché potrò camminare continuerò a inventare storie. È quasi involontario.
Io scrivo con i piedi.

venerdì 9 ottobre 2015

Costellazione nella cioccolata – racconto breve

Vi propongo questa settimana un vecchio racconto che, nonostante tutto, a distanza di anni da quando è stato scritto mi piace ancora. 
Si intende ambientato negli anni '70, un periodo che io non ho vissuto, ma rappresenta la mia istintiva avversione per ogni impostazione ideologica.


       Ci arrivavamo quasi correndo, appena finite le lezioni. Quando si apriva la porta, veniva addosso il fumo, più aromatico che fastidioso – sigari e pipe andavano per la maggiore in quel locale – che andava a formare un’ulteriore barriera da attraversare. Era come entrare in una dimensione differente, dove oggetti e persone avevano i contorni sfumati, privi di una consistenza precisa. Un mondo dove l’esistente doveva ancora finire di essere plasmato e le idee avevano la possibilità di assumere la concretezza del reale.
Raggomitolati intorno all’ultimo tavolo in fondo, dove il sole di un presente che non ci piaceva non poteva raggiungerci, con le tazze bollenti di caffè o cioccolata in mano, ci buttavamo in capriole di parole, felici come bimbi in un prato. Raggiungevamo la Francia, la Cina, la Russia, le rivoluzioni.  
Tra un sorso e l’altro di cioccolata o di caffè – nero e non zuccherato, perché il dolce è borghese e l’amaro proletario – costruivamo frase a frase il nostro mondo nuovo, progettando il momento in cui avremmo sovvertito quello fuori dalla porta. Esploravamo una personale Russia, infinita landa dei pensieri, fatta di suggestioni di scrittori e scorci di filmati. Nessuno di noi l’aveva mai vista, ma ci sembrava di averla attorno, con i boschetti di betulle, i soviet e il rumore delle pallottole che crivellavano i corpi dei Romanov.
Discutevamo quella sera di Ejzenstejn e di come il cinema non dovesse avere come protagonista un singolo individuo, ma il popolo intero. Come ne La corazzata Potemkin o ne Il vecchio e il nuovo. Che bel momento quello della scrematrice! I volti che si affollano intorno allo strano, metallico strumento. Ingranaggi, occhi, sorrisi che si mescolano, in un tutto che si esalta. E quando la panna sgorga come da una fonte miracolosa non ci sono eroi, ma un popolo compatto alla vittoria. E chissà che buoni quel latte e quella panna proletari! Non come questa nostra borghese cioccolata.
La cioccolata è borghese? La cioccolata è borghese! Bisognerebbe bere solo liquidi poveri, estratti con fatica dalla terra. La vodka, che viene dalla patata è proletaria, il brandy è borghese. Il vino rosso è proletario, lo spumante è borghese.  

       E io guardai la tazza con il suo liquido nero come il fondo dell’universo, con appena due sbuffi di panna, costellazioni nascenti. Mi invitava a buttarmici dentro, a esplorare dimensioni incognite. 
Intorno a me si stava già decidendo di abbandonare quel sapore abituale, sarebbe stato solo un altro passo per raggiungere quella nostra Russia pura dei pensieri e portare la realtà della sua rivoluzione. Era una sciocchezza, una piccola prova di forza prima di affrontarne altre, assai più ardue. Tutti si sarebbero controllati l’un l’altro per essere sicuri di non cedere a quella decadente debolezza. Qualcuno dei compagni aveva occhi feroci, pregustando il momento in cui avrebbe colto un altro in fallo e lo avrebbe denunciato davanti a tutti. 

     Abbassai lo sguardo alla tazza, con le sue costellazioni, mondi sconosciuti e senza dogmi. 

     Uno scarto di una frazione di millimetro, sufficiente a mutare prospettiva.

     Fu nel sorso veloce, quasi vergognoso, bevuto in fretta nel timore di essere vista dai compagni, che io abbandonai la landa immacolata dei nostri pensieri.
Quando ci alzammo, poco dopo, sapevo che non camminavo più con loro. Non vedevo più le betulle e il suono delle pallottole che accompagnava la rivoluzione non era musica. Vi sentivo dentro anche le urla dei morenti. 

mercoledì 7 ottobre 2015

L'amante di lady Chatterly – Letture


I libri parlano sempre di altri libri e le letture portano sempre ad altre letture.
Così, rotto il ghiaccio grazie al gruppo di lettura e constatato che i classici non mordono, ho pensato che potevo anche colmare alcune lacune della mia formazione letteraria. Non avevo mai letto Lawrence, che, tuttavia, ultimamente trovavo spesso come riferimento in varie altre opere.
Quindi perché non rompere gli indugi e buttarmi su un libro infinitamente chiacchierato (ma temo poco letto) e a lungo censurato come L'amante di Lady Chatterley.

L'ULTIMO CANTO D'AMORE DI UN AUTORE RESPINTO DALLA PROPRIA PATRIA
La prima cosa che mi ha colpito, già alle prime pagine del romanzo è lo stile del romanzo. Ma è possibile che si tratti di un libro di fine anni '20? Di quando il flusso di coscienza era stato sperimentato, già quasi acquisito, dopo il futurismo, a decadentismo concluso? Sembra di leggere Jane Auster!
Lo stile scelto da Lawrence per il suo ultimo romanzo, scritto in un esilio semi volontario, con la malattia e la morte già addosso è in tutto e per tutto primo ottocento inglese. C'è quel periodare elegante, quello sguardo onnisciente e ironico che fa tanto Orgoglio e Pregiudizio. Uno stile che personalmente apprezzo moltissimo e che certo non mi aspettavo in un'opera di pieno novecento, che racconta un dramma di pieno novecento. Ma in questo, io credo, c'è già tutto il romanzo.
Lawrence ama l'Inghilterra, la sua cultura letteraria, i suoi paesaggi e le sue tradizioni, ma ne odia la rigide divisioni formali, ha un rapporto conflittuale con la modernità e dall'Inghilterra è stato respinto. Lui, figlio di un minatore, era riuscito a raggiungere i vertici letterari della nazione, ma poi, da amante di una nobildonna tedesca, era stato costretto a lasciare l'Inghilterra. La sua colpa (o, almeno, quello che lui sente venirgli rimproverato) era stata quella di sentirsi uguale ai nobili e amare una nobildonna, per di più straniera.
L'amante di Lady Chatterly mi ha fatto l'impressione di un libro scritto da un autore che sente di non aver più nulla da perdere, che ha più di un sasso nella scarpa da scagliare e che tuttavia non può far a meno di amare disperatamente la sua terra e il suo passato.

LADY CHATTERLY, DONNA DI ROTTURA SUO MALGRADO
Protagonista del romanzo è Costance, Connie, ragazza della buona borghesia scozzese, ben istruita, ma tutt'altro che rivoluzionaria.
Connie è una bellezza quasi dimessa, poco interessata alla moda e certamente non una donna fatale. Fosse stato per lei, si sarebbe accontentata di una vita assai ordinaria. Fidanzata di un giovane nobile, lo sposa durante la prima guerra mondiale e la storia sarebbe potuta finire lì.
Il marito, tuttavia, torna dalla guerra invalido e, un po' per indole, un po' per nascondersi, si rifugia nel proprio distretto minerario, in una magione tetra, isolata da tutto. Lì Connie non ha altro da fare che accudire il marito. Non ha amiche, né una vita sociale autonoma. Il sospetto del lettore è che, invalidità a parte, lord Chatterly non sarebbe stato comunque un buon marito per lei. Sposato quando lo conosceva appena, l'uomo si rivela essere un egocentrico, certo non cattivo, ma tutto concentrato su se stesso e le proprie ambizioni, prima letterarie, poi imprenditoriali. Connie prova ad aiutarlo quando il marito vuole diventare scrittore, ma quando lui decide di dedicarsi in tutto e per tutto al miglioramento delle miniere, a lei non resta che una noiosissima, desolate solitudine.
Tutti ne sono consapevoli, ma l'importante è salvare le apparenze. Il padre le consiglia senza giri di parole di trovarsi un amante e il marito si dichiara pronto ad allevare un figlio non suo, purché concepito senza clamori o scandali.
Connie, dal canto suo, non è certo una mangiatrice d'uomini. Cerca senza convinzione un po' d'affetto tra le braccia di un autore di teatro, ma non è sua intenzione lasciare il marito. 
Uno degli elementi che ho maggiormente apprezzato nella storia è questo. Connie non è che una donna come tante. Si è sposata in modo avventato durante la guerra e che ha avuto la sua dose si sfortuna. Fosse rimasta in città, si sarebbe probabilmente adeguata alla vita ipocrita che le veniva indicata: un amante discreto dietro la facciata di moglie perfetta. 
Ma lì, dove il suo unico svago è il passeggiare nei boschi, incontra il guardacaccia della tenuta. Un uomo del posto, ma che ha studiato, ha fatto carriera nell'esercito, fino a che problemi di salute non lo hanno ricondotto nel borgo natale. Un uomo con i suoi errori sulle spalle, un matrimonio finito male, caratterizzato da uno stano miscuglio di scarsa voglia di mettersi in gioco e di consapevolezza del proprio valore, a prescindere dalle proprie origini.
Ciò che a Connie viene rimproverato non è tanto l'avere un amante, ma che l'amante sia il guardiacaccia e, a un certo punto, il voler scegliere lui.
Ciò che invece a Lawerence non viene rimproverato, ben più del linguaggio, è la sua palese non condanna per i protagonisti. 
Tutto sommato Flaubert lo si può anche pubblicare, dopo tutto è evidente che Madame Bovary è una che si caccia nei guai. Si può empatizzare con lei, ma non negarne gli errori. E alla fine muore male.
L'unico "errore" di Connie è quello di innamorarsi del guardacaccia Mellors, che a ben vedere si rivela un uomo con la testa sulle spalle, e di non cedere all'ipocrisia. Lawrence non condanna i due, non li fa punire dal destino e fa sì che il lettore simpatizzi con loro. Alla fine questo è il vero scandalo del romanzo.

CINQUANDA SFUMATURE DI FORESTA INGLESE
L'amante di lady Chatterly è passato alla storia, tuttavia, per le pagine che descrivono l'amore tra Connie e Mellors in modo troppo esplicito per l'epoca.
Sono le pagine che peggio hanno retto al passare del tempo.
Lawerence si sforza di contestualizzare gli incontri clandestini nel romantico bosco inglese, infarcendo le descrizioni di riferimenti alla natura incontaminata e di ardite metafore. 
Inutile dire che io ho riso tantissimo. Tra i due che si intrecciano fiori l'un l'altro, lei che si "schiude come un anemone" (ponendomi inquietanti domande botaniche, ma com'è davvero un anemone?) e il richiamo degli uccelli del desiderio nella foresta della sua anima (la mia frase preferita in assoluto) ammetto di aver perso parecchio dell'atmosfera.
C'è poco da fare, temo. È passato del tempo da allora e forse lo stesso Lawerence ha sbagliato qualcosa nel mescolare il realismo con un tentativo di ricercata eleganza.
Si tratta, però, solo di poche pagine che hanno, se non altro, il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Connie rivendica il proprio diritto a una vita piena, rifiuta un ruolo che le impone di sembrare una moglie perfetta per vivere fino in fondo un amore maturo. Proprio per non essere un'eroina, è una donna in cui molte lettrici possono riconoscersi. 
Nonostante l'effetto più comico che lirico che possono fare oggi, non mi stupisco che siano state considerate pericolose. Non tanto per le parole usate o per ciò che descrivono, ma per il loro proporre un amore non ingabbiato dalle convenzioni, vissuto da personaggi assolutamente credibili.

PERCHÈ VALE LA PENA DI LEGGERLO ANCORA OGGI
Ho amato moltissimo la protagonista.
Constance è una donna assolutamente credibile nel suo confrontarsi con la realtà quotidiana che si rivela in tutto il suo squallore a seguito di quello che era stato comunque un matrimonio d'amore. Si era sposata troppo giovane, troppo in fretta, sull'onda emotiva della guerra, per poi trovarsi prigioniera della propria, ambita, condizione di Lady. Poco propensa alla rivolta aperta, finisce quasi suo malgrado tra le braccia di un uomo che, come lei, ha alle spalle la sua dose di errori. Solo dopo capisce che è quello l'uomo con cui vuole vivere. Sa che sceglierlo vorrà dire avere tutti contro, persino la sorella che l'ha sempre difesa, ma porta avanti la sua decisione. Questa è la storia di una relazione adulta, tra due persone che hanno sbagliato nella vita e che non vogliono più nascondersi.
Il nemico non è certo lord Chatterly, che tutto sommato alleverebbe anche il figlio del guardiacaccia, se si potesse evitare uno scandalo, ma l'ipocrisia di una società ingessata in cui l'importante è che tutto si compia di nascosto.
In un 2015 in cui i libri per adolescenti propongono ragazzette che convolano a irreversibili nozze vampiriche giovanissime, amori folgoranti e idealizzati nel mito del principe azzurro, bisognerebbe proporre di più storie che spiegano che anche sposando (per amore!) un nobile si può essere infelici.
Se l'eroina di oggi è la scialba Anastasia delle cinquanta sfumature, pronta a sottomettersi alle voglie dell'uomo ricco e potente in cambio dell'agognato matrimonio e del riconoscimento sociale (perché, diciamocelo, ve la immaginate Ana a farsi portare nel "sottoscala proibito" da un ruspante metalmeccanico in cassaintegrazione?), ben venga la riscoperta di lady Chatterly!
Ho apprezzato molto il fatto che Lawerence non condanni i suoi protagonisti, ma neppure idealizzi le loro scelte. C'è un prezzo alto da pagare per entrambi e lo stesso romanzo non assicura che ne valga la pena. Il finale è aperto, alla speranza, ma anche alle difficoltà del futuro. 

C'è dell'ingenuità  e dell'ambiguità di fondo nello sguardo di Lawerence sull'Inghilterra. C'è una certa superficialità nel descrivere i conflitti sociali e una nostalgia struggente per un passato aureo che, in realtà, non è mai esistito. Tuttavia la storia personale di Costance, pur con tutte le sue irritanti foreste interiori, ha ancora tanto da raccontare ai lettori.

lunedì 5 ottobre 2015

Sei descrizioni da evitare – Scrittevolezze


Visto il successo del post Sei dialoghi che è meglio non scrivere ho deciso di replicare la formula con le descrizioni, dopo tutto non c'è nulla di meglio per migliorarsi che guardare le brutture altrui!

Le descrizioni sono un'altra croce e delizia della narrazione. Troppo lunghe e dettagliate annoiano (non siamo più nell'ottocento! Tuonano i manuali di scrittura), troppo vaghe non restano impresse, troppo creative possono risultare eccessive. La ricetta è brevi ma efficaci, tanto facile da dire, quando difficile da realizzare. 
Vediamo almeno come NON fare.

Descrizioni con sovrabbondanza di aggettivi, scritte per lettori tonti
Il castello era tetro, lugubre e oppressivo, costruito con pietre brutte, rozze e scure. Le finestre erano sporche, opache e trasandate
Ah, il trio magico di aggettivi! L'autore insicuro ne mette sempre tre, uno per dire quello che ha in mente, due per sicurezza, nel caso il lettore sia idiota e non abbia capito bene. Inoltre, sempre per il presupposto che il lettore sia un po' tardo, gli diciamo anche cosa deve provare. Invece di spiegare com'è il castello già gli imponiamo cosa deve provare a riguardo.

Descrizioni con metafore ardite
Le finestre del castello erano come grida di bambini mai nati in un grigio cielo autunnale. La struttura era una matrigna avida intenta a divorare se stessa.

Descrizioni ipertecniche non giustificate
Il castello era un chiaro esempio di neogotico francese. La copertura delle torri, proprio identica a quelle della Carcassone post restauro rendevano evidente l'influsso che Viollet-Le-Duc aveva avuto sul progettista, tuttavia la presenza di altri edifici poco discosti da quello principale mostravano anche l'influenza del pensiero inglese e in particolare di Wyatt.
Quanti di voi riescono a figurarsi con precisione il castello? Ovviamente se si tratta di un saggio di architettura corredato da immagini ci può anche stare. In un romanzo...

Descrizioni con problemi nel punto di vista
Ogni volta che il contadino analfabeta alzava lo sguardo all'oppressivo castello si soffermava a osservare la torre dal tetto conico, chiaro esempio di come il progettista si fosse ispirato ai restauri di Viollet-Le-Duc eseguiti a Carcassonne. Il vecchio non si era mai allontanato più di un giorno da casa, non sapeva neppure dove stesse Carcassonne, ma, dal canto suo, avrebbe preferito un maggior tocco inglese. Gli piacevano le romantiche rovine che andavano di moda in Inghilterra. O, meglio, gli sarebbero piaciute, se avesse avuto l'occasione di vederle.

Descrizioni con altri problemi nel punto di vista.
Il contadino, proprio di fronte all'entrata, stava guardano la facciata del castello, il portone aperto, le finestre che avrebbero avuto bisogno di una ripulita. Notò che Jean stava uscendo dalla porta sul retro.

Descrizioni in cui si dimenticano elementi essenziali per la trama
Il tetro castello grigio si trovava in cima alla collina. Aveva due torri coniche, finestre che avrebbero avuto bisogno di una ripulita e un portone sempre aperto da cui la gente andava e veniva. Poco discoste dall'edificio principale stavano le rovine di una cappelletta, nonostante le apparenze un'aggiunta recente del padrone, fatta per seguire la moda inglese dei falsi ruderi inseriti nei parchi.
Immaginiamo che questa sia l'unica descrizione del posto. Poi, capitoli dopo:
Certo che è morto annegato! È stato buttato dalla torre direttamente nel fossato!

Vi vengono in mente altre descrizioni da evitare? Rischiate mai di incorrere in qualcuno di questi errori?
Io a volte rischio di omettere particolari importanti, questione piuttosto spiacevole nei gialli, dove il lettore deve potersi ben figurare il luogo del delitto...


Mi arriva la gradita segnalazione che il mio racconto Caccia all'orso è tra i selezionati nel concorso SFIDA di Rill, competizione letteraria in cui gli autori già entrati in finale nelle precedenti edizioni del Trofeo Rill si sfidano (appunto) su un tema dato, che in questo caso era una perfetta esecuzione. Il racconto sarà pertanto edito nell'annuale antologia e lo presenterò degnamente al momento opportuno. Per intanto trovate sul sito di Rill la notizia ufficiale.

Infine una cosa curiosa. Negli ultimi giorni il blog è stato letto da moltissimi utenti statunitensi. Non si tratta di un picco isolato, ma di un afflusso costante che ha anche ribaltato la classifica dei post più letti, dato che i post più apprezzati sono stati la recensione di Inside Out e quello sulla preparazione del manoscritto per l'invio. Mi piacerebbe conoscere meglio qualcuno di questi lettori, magari attraverso i commenti. Il blog ha già lettori fissi dal Canada e dalla Germania, mi piace l'idea che possa essere apprezzato anche all'estero!

venerdì 2 ottobre 2015

La pietra di fratello Anselmo – racconto

Non posso promettere di pubblicare ogni venerdì un racconto. Non ne scrivo abbastanza. Ogni tanto, di venerdì, quando potrò, però, posterò un racconto inedito.

Questo La pietra di fratello Anselmo è stato scritto molti anni fa, per una manifestazione legata alle olimpiadi di Torino. È ispirato a una chiesa Torinese e, in particolare, a un campanile, unica sopravvivenza di un edificio preesistente, un monastero fondato da monaci fuggiti dalla Val di Susa quando, nell'Alto Medioevo, gli arabi passarono di lì.
Fu letto a Torino davanti a una platea di parenti di noi poveri autori (stile saggio scolastico) e di qualche signora volenterosa. 
Per diverso tempo si è parlato di una pubblicazione, senza che mai si concretizzasse nulla. Ormai sono passati quasi dieci anni e ritengo di poterlo postare senza problemi.
Si tratta del mio primo racconto scritto pensando a una fruizione orale e, pertanto, ci sono particolarmente affezionata.

LA PIETRA DI FRATELLO ANSELMO

    Saraceni in Val di Susa! Era una un’idea semplicemente assurda, da lasciare con la bocca spalancata e gli occhi strabuzzati, che era stata poi l’espressione dell’abate, quando arrivò la notizia. Arrivavano i Mori. La sua prima reazione fu una risata. I saraceni, nei racconti, giungono per nave, a spazzare le coste. Sono gente d’onde, loro, di sabbia e di deserto. Cosa mai potevano venire a fare in questa stretta frattura tra le alpi frustata dal vento? Qui, dove gli alberi se ne stanno avvinghiati alle rocce come se avessero paura di essere spazzati via dall’aria o dalla neve che, quando le va di cadere, scende a valanga, da perdersi o annegarsi dentro. Altro che deserto!
    Eppure la notizia sembrava fondata. Arrivavano i mori. Salgono su dalla Spagna, da Cordoba e Grenada a cercare una via per la Francia. Forse lassù Carlo Martello saprà fermarli, qui si salvi chi può. Arrivano i saraceni con i turbanti e le spade ricurve, per distruggere e saccheggiare. Saccheggiare cosa, poi, se c’erano solo pastori vestiti di pelle e monaci infreddoliti nei loro sai? L’abate si sentiva improvvisamente piccolo e solo di fronte a queste immagini di invasione. O meglio, non era solo, e qui stava il problema. Tutto il monastero di Sant’Andrea doveva in qualche modo fuggire. Bisognava abbandonare quelle montagne, che pure sembravano così sicure e protettive, affilate come denti, e scappare in pianura, rifugiarsi a Torino.

    Rifugiarsi a Torino? Ma non se ne parla nemmeno. I mori qui non si sono mai visti e non arriveranno certo adesso. Questo fu il commento succinto degli anziani, mentre i novizi, invece, erano già pronti ad abbandonare la vita contemplativa e ad impugnar la spada. Che se la vedessero con loro, i saraceni. E le coppiette del paese che volevano essere sposate al più presto dall’abate, che, si sa, è un sant’uomo e se poi vengono i Mori chissà cosa può succedere, meglio non aspettare. E quelli che volevano farsi confessare, giusto per avere la coscienza a posto, nel caso di un incontro ravvicinato con le famose spade ricurve. E convincere il fratello erborista che no, non si poteva proprio stare lì a cavare le piantine dell’erbario una per una, attenti a non spezzare le radici, per poi trasportarle senza che fosse loro torta una foglia e ripiantarle nel nuovo convento. E non importava quanto tempo ci avessero messo ad acclimatarsi.

    Tuttavia, l’abate lo sapeva, con l’erborista e i vecchietti e gli innamorati in un modo o nell’altro si poteva ragionare, ma fratello Anselmo, quello sì che era davvero un osso duro.
     L’aveva praticamente ricostruita lui, la chiesa di Sant’Andrea, dopo che la nevicata di tre anni prima si era portata via il tetto e anche parte dei muri. Dire a fratello Anselmo che si doveva abbandonare la chiesa era peggio che sussurrare ad una madre di lasciare il figlioletto nel bosco. Fratello Anselmo non se ne sarebbe andato, venissero i mori, i berberi, i diavoli o che altro. Persino di fronte ad un ordine diretto del Padre Eterno avrebbe trovato da ridire. 
    
      Intanto le notizie si rincorrevano. I mori erano già a Chieri. Le vie di comunicazione stavano per essere bloccate. Due famiglie erano già scomparse, certamente erano stati presi dagli infedeli.    
    Allora l’abate ebbe l’idea. Se bastava una reliquia, una piccola, come il loro dito di Sant’Andrea, a far sentire la presenza di un santo, disse, non sarebbe bastata una pietra della vecchia chiesa per sentire presso di loro tutto l’edificio che stavano abbandonando? Sul momento fratello Anselmo rispose di no, non se ne parlava nemmeno.

      Intanto le notizie si inseguivano. I mori venivano in armata, su cavalli bianchi, con i leoni al guinzaglio. I monaci li appendevano a testa in giù, bucavano loro lo stomaco e li lasciavano così, a morire lentamente. No, non era vero, li arrostivano a fuoco lento; toglievano loro le unghie e la lingua; li obbligavano a baciare il corano e poi li legavano nelle loro stesse budella. 
     
     Fratello Anselmo non si sarebbe mosso neppure per un ordine preciso del Padre Eterno, però alle sue budella ci teneva. Girò intorno alla chiesa, una, due, tre volte, finché la vide. Era proprio sopra l’ingresso, tra l’arco del portone e il rosone, La Pietra. Era un lungo, stretto pezzo marmoreo con scolpita una decorazione vegetale. L’aveva scelto proprio Anselmo, durante la ristrutturazione. Proveniva dai ruderi di un vicino tempio romano diroccato. Il monaco ricordò che aveva passato tutto un pomeriggio a sceglierla. Era indeciso tra la pietra con le foglie e quella con la ninfa, ma, dopo un commento dell’abate, aveva dovuto ammettere che la ninfa non splendeva esattamente di virtù cristiane. Così aveva scelto la pietra con le foglie. Era importante avere nella propria chiesa un pezzo di un tempio. Significava la vittoria di Cristo sul paganesimo. Certamente avrebbero dovuto mettere un pezzo di tempio antico anche nella nuova chiesa, a Torino. E se non c’erano, a Torino, templi in cui approvvigionarsi? Certo in una città le altre chiese si erano già accaparrate i pezzi migliori e loro erano solo dei monaci profughi, con pochi mezzi. Sarebbe stato meglio, e teologicamente rilevante, far venire un pezzo di tempio pagano dalla stessa Roma, magari portato da un pio pellegrino. Ma per intanto era più facile portarsene uno dalla val di Susa.
     L’abate sospirò e diede la sua approvazione. Dieci novizi, tutta la notte, a lavorare per staccare la pietra. Un novizio a far da spola dal paese al monastero per portare notizie. Non era certo che si riuscisse a passare, l’esercito dei mori avanzava e, più pericolose ancora, c’erano le bande di predoni sguinzagliate per la campagna. Ogni minuto perso era un rischio in più. E fratello Anselmo abbarbicato alla facciata, lo scalpellino in mano, a staccare la pietra. 
       Non si poteva più aspettare. L’abate era pronto a salire lui stesso là in cima e sferrare al fratello un buon colpo in testa. Non aveva dubbi che persino Sant’Andrea lo avrebbe perdonato. 
         Ma ecco, proprio col primo raggio di sole… Caaade!! 
      E avanti di corde a tenerla, non che si rompa, per l’amor del cielo! E poi sacchi e paglia a proteggerla, sul carro, che gli scossoni, si sa, possono farne di danni. 

     E via veloci, per la strada secondaria, che la principale certo è già stata presa. 
     Via, via veloci, giù per la valle, verso la pianura. 
     Silenzio, che i mori possono essere ovunque! 
   Fratello Anselmo per tutto il viaggio appollaiato sopra la pietra, sopra al carro, che quella pietra era tutta la sua chiesa, che la chiesa era tutta la sua vita e guai a chi si avvicinava! Il fratello erborista procedeva a capo chino, offeso, aveva recuperato solo poche piante, lui, e le avevano pure tolte dal carro, per farci stare la pietra! E l’abate a chiedersi per tutto il tempo se ce l’avrebbero fatto o non convenisse, in fin dei conti, buttare nel primo torrente la pietra con al seguito fratello Anselmo.

     … La nuova chiesa di Sant’Andrea di Torino, che a conti fatti ormai avrebbe mille anni e tanto nuova proprio non sarebbe, non esiste più. Ma se da Piazza Solferino si prende via Cernaia e poi su per corso Siccardi, oltre piazza Savoia, fino a piazza della Consolata, si incontra un campanile medioevale. La chiesa e il monastero che vi stavano dietro non esistono più, sotituite dalla Chiesa della Consolata. Il campanile, però, nessuno l’ha mai osato toccare, è sopravvissuto ad infiniti piani urbanistici, quasi un’aura di inviolabilità lo proteggesse. 
     E se si guarda bene, proprio sulla facciata che da sulla piazza, non troppo in alto, una pietra bianca lunga e stretta spicca tra i mattoni. La decora un fregio di foglie.